Riprendo l'articolo scritto per "Libertà", quotidiano di Piacenza, ieri e dedicato, partendo dalle recenti censure RAI a Ghali e D'Amico, a una breve storia dei tagli più clamorosi fatti dall'emittente nazionale.
Il Festival di Sanremo vive notoriamente di (finte) polemiche, fabbricate ad hoc per attirare l'attenzione sulla sempre più evidente mancanza di contenuti artistici. Quest'anno però c'è stato un inciampo imprevisto.
Una brevissima frase di Ghali dopo la sua esibizione nella serata finale, “Stop al genocidio”, chiaro riferimento a quanto sta accadendo a Gaza, ha scatenato il putiferio, con immediata reazione del capo dell'ambasciata israeliana a Roma.
Ghali ha argomentato la frase, in modo educato e incisivo, il giorno successivo nella trasmissione “Domenica In”:
“Mi dispiace che (il capo ambasciata israeliano) abbia risposto in questo modo, c’erano tante cose da dire. Ma per cos’altro avrei dovuto usare questo palco? Sono un musicista ancor prima di essere su questo palco, ho sempre parlato di questo da quando sono bambino. Sono nato grazie a internet, è da quando ho fatto le mie prime canzoni a 13-14 anni che parlo di quello che sta succedendo, non è dal 7 ottobre, questa cosa va avanti già da un po’. Il fatto che l’ambasciatore parli così non va bene.
Continua la politica del terrore, la gente ha sempre più paura di dire stop alla guerra e stop al genocidio. Stiamo vivendo un momento in cui le persone sentono che vanno a perdere qualcosa se dicono “viva la pace”, ed è assurdo.
Non deve succedere questo. Ci sono dei bambini di mezzo. Io da bambino sognavo e ieri sono arrivato quarto a Sanremo. Quei bambini stanno morendo, chissà quante star, quanti dottori, quanti geni ci sono. Perché?”.
La conduttrice Mara Venier ha cercato di sviare l'argomento, leggendo poi una presa di distanza dalle parole di Ghali dell'amministratore delegato Rai, condiviso dalla stessa conduttrice, a sostegno di Israele ma senza cenni alla tragedia di Gaza. Anche quando Dargen D'Amico nella stessa trasmissione ha approfondito la tematica del testo della sua canzone “Onda alta”, sul tema dei migranti, è stato zittito e rimproverato da Venier: “Qui è una festa, siamo qui per parlare di musica e per divertirci, ci vorrebbe troppo tempo per approfondire questi argomenti”. Il saluto di Dargen è prevedibilmente profetico (per lui e Ghali): “Arrivederci, se non dovessimo più rivederci”.
Qualcosa ci fa sospettare che sarà difficile ritrovare i due artisti nelle reti Rai, almeno per parecchio tempo.
Peraltro le suddette polemiche hanno, paradossalmente, creato una sorta di “distrazione di massa” anche mediatica, prendendosi i primi posti nelle pagine dei giornali e dei siti web, a scapito della vera e propria “distruzione di massa” che avviene, con la complicità del mondo occidentale a due passi da casa nostra. La storia di censure e bavagli in Rai è lunga e ricca di episodi, talvolta oltre il limite del ridicolo.
Ad esempio nel 1963 la pur già famosa e apprezzata Mina venne cacciata dalla televisione di stato (sostituita nel programma “Studio Uno” da Rita Pavone)a causa della relazione con Corrado Pani, da cui aveva avuto un figlio, Massimiliano.
Il problema era che lui era sposato (nonostante fosse separato da tempo ma in Italia non esisteva ancora il divorzio), lei nubile ma impossibilitata dalla legge a convolare a nozze.
Tornò poco tempo a furor di popolo.
Qualche anno prima, nel 1959, era toccato a Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi, seguitissimi nella trasmissione satirica “Un due tre”. La causa fu una scenetta in cui prendevano bonariamente in giro l'incidente occorso all'allora Presidente della Repubblica Italiana, Giovanni Gronchi, che, nel sedersi in un palco della Scala a Milano, cadde in terra. La parodia dei due comici suscitò uno scandalo, con trasmissione e collaborazione con la Rai interrotte.
Ancora prima era toccato a Domenico Modugno, reo di cantare in “Resta cumm'è”, il verso "Nun me 'mporta d'o passato, nun me 'mporta 'e chi t'avuto”, in cui evidentemente non si dava importanza al tabù della verginità.
Nel 1962 fu la volta di Dario Fo e Franca Rame. Il loro sketch sulla sicurezza nei cantieri edili e relativo ai morti sul lavoro, previsto in “Canzonissima”, non passò, soprattutto per l'amaro finale: “Ehi, fai avvertire gli operai che il primo che casca gli spacco il muso”. I due decisero di lasciare la trasmissione tra polemiche infinite. Torneranno in Rai solo nel 1977.
Perfino i Pooh incorsero nelle strette maglie dei censori.
Erano agli esordi e ancora lontani dagli zuccherosi brani successivi e con “Brennero 66”, del 1966 rischiarono di non partecipare al Festival delle Rose.
Il testo affrontava lo spinoso tema del terrorismo altoatesino, all'apice ai tempi con attentati frequenti e qualche morto tra le forze dell'ordine. Per non inasprire gli animi fu cambiato il titolo in “Le campane del silenzio” e tolta la controversa frase “ti hanno ammazzato quasi per gioco”.
Il caso più clamoroso e controverso è stato probabilmente quello di “Dio è morto” dei Nomadi, del 1967, scritto dall'allora venticinquenne Francesco Guccini. Il brano uscì contemporaneamente anche alla versione (più scanzonata e leggera, nonostante lo stesso titolo) di Caterina Caselli nel suo album “Diamoci del tu”, passando però inosservato. Il testo di Guccini non contiene elementi contro la religione.
Ma nonostante questo la Rai lo classificò come blasfemo, per il contenuto e per il titolo e decise di non mandarla in onda proprio mentre Radio Vaticana la trasmetteva, pare apprezzata anche dallo stesso Papa Paolo VI.
Il 28 agosto del 1969 la Magistratura, in seguito a un articolo apparso sull'Osservatore Romano, mette sotto sequestro in tutto il territorio nazionale il singolo “Je t'aime moi non plus” di Serge Gainsbourg e Jane Birkin. La Rai impone al conduttore Lelio Luttazzi di non nominare nemmeno il titolo del disco nell'abituale classifica di dischi più venduti, “Hit parade”. La censura non è mai stata revocata.
Uno degli autori più brillanti ma meno conosciuto della musica italiana è stato Virgilio Savona, del Quartetto Cetra. Nel 1970 scrisse le parole per un album di Giorgio Gaber, ispirandosi a testi di letteratura latina (citati a fianco di ogni brano). Ma il titolo, ”Sexus et politica”, indusse la commissione Rai ad escluderlo da ogni programmazione. Gaber subì lo stesso trattamento nel 1980 con la canzone “Io se fossi Dio”.
Anche Lucio Dalla si trovò ad affrontare non pochi problemi per essere ammesso al Festival di Sanremo 1971, pur con la canzone destinata a diventare la più celebre del suo repertorio “4 marzo 1943”.
Il brano si intitolava originariamente “Gesù bambino” e Lucio cantava “Ancora adesso che bestemmio e bevo vino / per ladri e puttane mi chiamo Gesù bambino” e “Giocava alla Madonna con il bimbo da fasciare”. Per potere accedere al festival dovette cambiare i versi in “Ancora adesso che gioco a carte e bevo vino / Per la gente del porto mi chiamo Gesù bambino” e “Giocava a far la mamma con il bimbo da fasciare”.
Sanremo e Rai non guardano in faccia a nessuno, nemmeno all'innocuo Nicola Di Bari che nel 1972 è costretto a mettere mano alla sua “I giorni dell'arcobaleno” per cambiare il verso “Vivi la vita di donna importante perché a tredici anni hai già avuto un amante.” L'età della donna fu aumentata a sedici anni e la frase "hai già avuto un amante" mutata in "ti senti già grande".
Uno dei casi più clamorosi dell'operato censorio della Rai risale al 1991 quando i giovani Elio e Le Storie Tese suonano in diretta sul palco del concerto del Primo Maggio e inaspettatamente partono con il brano “Sabbiature” in cui Elio riporta una serie di controversie politiche in corso (peraltro denunciati dal settimanale “L'espresso”), citando Andreotti, dirigenti Rai, P2 e l'allora presidente della Roma calcio e noto faccendiere Giuseppe Ciarrapico, pluripregiudicato e con una lunga serie di condanne per bancarotta fraudolenta e truffa.
Improvvisamente la trasmissione passò sul presentatore Vincenzo Mollica che iniziò a intervistare Ricky Gianco mentre alla band vennero staccati gli strumenti e venne trascinata fuori dal palco.
Lo stesso anno anche i Gang fecero lo stesso scherzetto agli organizzatori, aprendo con un discorso di Marino Severini che invitava i sindacati allo sciopero generale, suonando poi , non previsto, il loro inno “Socialdemocrazia” il cui testo non è di certo tenero con il potere politico.
Il risultato è che per lunghissimo tempo vennero bannati dalla rete nazionale e dalle radio istituzionali e commerciali.
Nulla di nuovo sotto il sole.
Non a caso il potere prende abitualmente subito il controllo sulla comunicazione e i suoi mezzi. Cambiano le epoche, cadono i governi, ci sarà sempre qualcuno che proverà a dirci cosa si può dire e cosa non si può.
E come cantavano nel 1965 gli Staple Singers in “Freedom highway”: “C'è una sola cosa che non riesco a capire amico mio. Perché alcune persone pensano che la libertà non sia stata creata per tutti gli uomini?”
lunedì, febbraio 19, 2024
La Rai e le censure
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