Torna l'interessantissimo reportage dalla Russia di SOULFUL JULES.
Una visuale molto particolare e dal campo.
Per certi versi raggellante.
A un certo punto mi sono stufato di scrivere, annotare pensieri, conversazioni, abbozzare descrizioni di strade, uffici o palazzi.
A due anni dallo scoppio della guerra, per me e quelli che mi stanno intorno è cambiato poco.
È una cosa agghiacciante da dire ma è la verità.
Tra i miei clienti, amici e conoscenti nessuno è andato a combattere, nessuno ha perso la vita o si è ritrovato con la casa bombardata.
Sì, qualche ucraino ha fatto carte false per uscire dal paese, qualcun altro ha abbandonato la propria città per poi tornarci una volta che le cose sembravano essersi stabilizzate ma nel complesso la vita va avanti e la nuova realtà, inizialmente incerta, priva di fondamenta, di prospettive e di orizzonti, ha preso a compattarsi nella dimensione attuale, che adesso pare così solida e piegata verso Oriente, Mosca mai così vicina a Pechino.
Ho smesso di scrivere perché non succedeva niente.
Per quelli che non combattono la vita è sospesa tra le faccende di tutti i giorni, la spesa, il tragitto per andare al lavoro, le cene con gli amici, cose così da un lato, e dall’altro le immagini dal fronte che la tv trasmette a tutte le ore. E poco importa se non guardi i telegiornali, poco importa se provi a pensare ad altro mentre percorri in taxi le arterie trafficate di Mosca.
Alzi appena lo sguardo e lungo le strade è tutto un susseguirsi di billboard che invitano la gente ad arruolarsi per difendere la patria in cambio di quattrini, tanti quattrini.
Quasi seimila euro alla firma del contratto e una mensilità da duemila euro per tutta la durata del servizio.
Nelle regioni, nella periferia dove vive la maggioranza dei russi, un insegnante, un infermiere o un vigile del fuoco porta a casa l’equivalente di centocinquanta euro, quando va bene.
E così ogni giorno c’è qualcuno che tenta la fortuna e si arruola, con i primi bonifici mette da parte un gruzzoletto per comprare casa o cambiare macchina.
Se poi va male si troverà a popolare quei piccoli cimiteri di provincia pieni di stendardi colorati e composizioni floreali che vegliano su cumuli di terra scura, appena smossa.
Intanto le vendite di mobili crescono, così come le vendite di case e appartamenti nei grossi centri regionali, le città da cui provengono le nuove reclute. E non serve andare in cerca del verde delle divise sui cartelloni, nelle sale d’attesa delle stazioni o negli aeroporti per rendersi conto che il paese è in guerra, basta fare attenzione al quotidiano per capire che qualcosa è cambiato e non tornerà più come prima.
La nuova realtà è fatta di auto cinesi e marche di abbigliamento mai sentite, Gloria Jeans, Gate 31 e 2Mood le più gettonate. Poi chiaro, se vuoi una borsa Louis Vuitton, l’ultimo modello di IPhone o di BMW si trova tutto. Basta pagare.
E’ impressionante la quantità di supercar che circolano nelle grosse città.
Si tratta di una fetta ridotta della popolazione ma più in generale, le persone con cui ho a che fare stanno abbastanza bene, cresce l’inflazione ma salgono anche gli stipendi e la vita prosegue, magari non si viaggia più in Europa, le vacanze adesso si fanno in Russia, in Turchia, in Egitto o in Asia.
Negli alberghi gli europei non li vedi più, a colazione sempre e solo cinesi con lo sguardo catatonico perso nello schermo del cellulare e in sottofondo una sinfonia di risucchi, schiocchi e rutti.
I russi sono cambiati, se non altro nel modo di parlare.
Se a pochi mesi dall’invasione dell’Ucraina la gente faceva fatica ad esprimersi, per paura, vergogna o indifferenza, adesso il sentimento generale è positivo, fiducioso, la percezione è che la guerra la stanno vincendo loro. Lo capisci dalle battute, “Il prossimo anno saremo a Kiev”, “Se vogliamo ci prendiamo tutto”, “Non abbiamo neanche iniziato a fare sul serio.”
In Ucraina sembra che la gente si sia abituata alle esplosioni e agli allarmi aerei, i miei clienti continuano a lavorare ma adesso la preoccupazione più grande per i maschi è quella di essere fermati per strada, caricati su un furgone ed essere mandati al fronte.
Me ne parlava Evgenij, il cliente di Odessa, quando ci siamo visti alla fiera del mobile, a Milano. “In giro ci sono solo donne.
Se devo mandare qualcuno a prendere le misure per una cameretta, a consegnare una cucina, meglio se ci mando una donna. Da noi è così e ti dirò di più. La guerra, quella vera, deve ancora iniziare.”
Lui era uscito dal paese perché ha sessant’anni ma ogni giorno qualche dipendente o qualche conoscente viene portato al distretto militare, per essere arruolato. E allora telefonano a Evgenij che ha conoscenze nei gradi alti dell’esercito e gli chiedono una mano, una mezza raccomandazione o una parte della somma necessaria a corrompere l’ufficiale di turno. Ad aprile si parlava di tremila euro a persona. E se il giorno dopo ti beccano di nuovo sono altri tremila euro, sempre che ci sia qualcuno da corrompere.
Oleksandr, il cliente di Kiev, è ormai disincantato.
Due anni fa profetizzava la sconfitta della Russia, questione di settimane, i missili erano finiti. Adesso si accontenta di poter lasciare il paese ogni tanto per motivi di lavoro.
E quando ai primi di maggio abbiamo fatto una video-call per parlare dei nuovi prodotti, a un certo punto mi ha interrotto “Aspetta un attimo”, si è alzato dalla sua postazione per poi tornarci dopo qualche secondo. “Scusa ma stanno bombardando, ho chiuso le finestre”. Così, con un mezzo sorriso, quasi fosse stato un temporale primaverile.
Non è vero che non succedeva niente.
Non succedeva niente a me.
Continuavo a prendere voli, treni, taxi e metropolitane. Le disgrazie degli altri mi passavano accanto, senza sfiorarmi.
Quando c’è stato l’attentato al Crocus era un venerdì sera, ero a Mosca e non mi sono accorto di nulla.
Avevo il volo di rientro quella notte, verso ora di cena mi ero buttato un attimo, per riposarmi un po’ prima del viaggio. Poi avevo chiamato un taxi, l’auto era arrivata in pochi istanti, la ragazza alla reception mi aveva dato la fattura sorridendo. Per strada tutto regolare, un po’ di traffico, qualche auto della polizia, niente di strano per un venerdì sera.
Il tassista guardava una chat su Telegram, a un certo punto aveva ricevuto una videochiamata, sullo schermo era comparso il volto di una donna sulla trentina.
A quel punto ero sbottato “Per favore, guardi la strada!”
“E’ mia moglie, si preoccupa.” Aveva provato a giustificarsi quell’altro.
“Non mi interessa, guardi la strada per piacere!” gli avevo ordinato con un certo fastidio, che non è che uno ci gode a fare il prepotente ma che cazzo ti metti a fare la video-call mentre sei al volante.
L’autista aveva abbozzato e si era scusato debolmente.
All’ingresso dell’aeroporto di Vnukovo c’erano un paio di sbirri in assetto antisommossa.
Giubbino antiproiettile, protezioni sulle gambe e fucile-mitragliatore con la canna puntata verso il basso. Avranno alzato il livello di allerta, avevo pensato.
In fin dei conti una partenza come tante altre, passaporto, metal detector, tutto regolare. Soltanto verso le due di notte, mentre ero già a bordo dell’aereo e dall’altra parte della città i vigili del fuoco cercavano di spegnere l’incendio al Crocus City Hall, mi era vibrato il cellulare in tasca. Era un mio amico, mi chiedeva se fosse tutto a posto.
“Sì, tutto ok. Perché?”
“Non hai sentito dell’attentato?”
No. Avevo trascurato i siti di notizie, tanto di notte non li aggiornano, e mi ero messo a guardare le foto che avevo fatto il giorno prima a una mostra sul punk, in un capannone industriale dei primi del ‘900, uno di quei complessi in mattoni rossi, ripuliti e sistemati, che vanno di moda adesso.
Deludente la prima sala, quella introduttiva, le pareti rivestite da pannelli in forex con sopra le immagini sgranate di Sex Pistols, Clash e Ramones. Peggio ancora le didascalie piene di cliché e banalità sul pogo, lo stage-diving, l’anarchia simboleggiata dalla distruzione degli strumenti musicali, la copertina di London Calling presa come testimonianza, con buona pace di Pete Townshend e delle decine di Rickenbaker polverizzate quando Paul Simonon andava ancora alle elementari.
Più interessante la parte sul punk sovietico, tante foto e memorabilia, soprattutto della seconda metà degli anni ottanta. Storicamente in Urss i posti più fertili per l’underground musicale e culturale erano Leningrado e i Paesi Baltici.
La capitale in questo senso offriva poco. In Russia le mode e le influenze straniere vengono adattate e interpretate secondo la sensibilità locale per cui i primi punk erano di fatto situazionisti, artisti e avanguardisti incazzati che spesso rifiutavano l’etichetta stessa di punk. Ben pochi i moicani o i giubbotti in pelle tipo chiodo, lo stile, anche musicale, è più vicino alla New Wave. Veri e propri esponenti del genere sono gli Avtomaticheskie Udovletvoriteli, di Leningrado e i siberiani Grazhdanskaja Oborona che ondeggiano vagamente tra Clash e Boys, pur con un sound decisamente più grezzo e primitivo. Nella sezione dove sono raccolte le foto del primo punk festival moscovita del 1988, c’è un po’ di tutto: creste coi baffi, impermeabili da Ispettore Derrick, calze a rete e cappelli da baseball.
Quello che traspare dalle immagini in bianco e nero è lo spirito dei tempi, il senso di oppressione, una realtà povera di prospettive e ricca di fermenti come quella della perestrojka.
Il festival finì male, risse sul palco e in città, con conseguente messa al bando del punk rock da parte delle autorità moscovite e la nascita di un movimento tutto russo, il “pank-dandizm” che declinava in maniera più spendibile, per gli standard locali, le correnti New Wave del momento.
A metà degli anni novanta, quando i soldi e le persone iniziano un po’ a girare, lo stile diventa più curato e definito, i punk sembrano punk e quelli con la banana sono veri e propri rockabilly.
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Ero assorto in quelle immagini, attorno a me migliaia di passeggeri con lo sguardo assonnato, famiglie e coppiette proiettate verso una settimana di ferie, nessuno sembrava preoccupato dal fatto che a pochi chilometri di distanza erano morte o erano rimaste ferite centinaia di persone come noi.
Quando ero tornato a Mosca, dieci giorni dopo, niente di nuovo. Qualche pattuglia lungo le strade, gli sbirri che controllavano i documenti di tizi coi capelli neri e gli occhi a mandorla.
Nessuna novità da parte dei clienti, molti erano appena tornati dalla Cina, dalla fiera di Guangzhou, dove il nostro stand era stato preso d’assalto dai mobilieri russi, mai registrata così tanta affluenza dai paesi dell’ex Urss.
“Non sappiamo cosa succederà.” mi spiegava Mikhail, il responsabile tecnico di una grossa fabbrica di mobili per bagno. “Per me sarebbe più facile gestire le consegne dall’Italia ma qua non si capisce niente. Capace che bloccano tutto.”
Invece le merci continuano a passare, le persone anche ma con dei distinguo.
A metà giugno sono atterrato a San Pietroburgo e mi hanno trattenuto per un paio d’ore.
Me l’aspettavo, prima o poi sarebbe successo, ma quando capita fa un altro effetto. Anche per le modalità, che non lasciano nulla al caso.
Al controllo passaporti ti fanno le domande di rito, togliti gli occhiali, fai un passo indietro, ecco metti qua la firma e appena stai per appoggiare la punta della biro sul fogliettino di carta che dovrai tenere con te per la durata del soggiorno arriva una poliziotta con l’aria arcigna che ti invita a seguirla, per ulteriori controlli, vaghi, indefiniti. Inutile chiedere quanto tempo ci vuole.
Ti accompagnano in un’area delimitata da un nastro rosso, all’interno ci sono una trentina di persone con lo sguardo preoccupato o assente o incurante. Hanno quasi tutti la carnagione olivastra, i capelli scuri e i tratti asiatici. Qualcuno parla in russo, altri chiacchierano nella loro lingua smozzicata, piena di consonanti aspirate, il tono ondeggiante, simile a una cantilena o a un lamento. Passa un’ora, forse meno e arriva uno sbirro con in mano un foglietto di carta. Legge i nomi di alcuni dei presenti e li invita a seguirlo.
Per fortuna sono tra i convocati.
Nel frattempo ho cancellato dal cellulare quello che poteva risultare sospetto o controverso. Sostanzialmente foto e messaggi da clienti ucraini.
Ci fanno entrare in una stanza, su una delle pareti è appeso un pannello graduato coi metri e centimetri, per la foto segnaletica. Appoggia la schiena, guarda verso di me, gira la testa a destra, ora a sinistra. Poi è il momento della scansione delle impronte digitali, chissà quando è che hanno smesso di usare l’inchiostro.
In compenso l’interrogatorio, tutto sommato blando e neanche troppo approfondito, viene interamente annotato a mano su un foglietto di carta da una ragazza cordiale, quasi timida. Il verbale finisce sopra ad una pila di altri fogli, che forse verranno registrati su un computer oppure verranno raccolti in un faldone e conservati all’interno di qualche archivio.
La ragazza mi fa i complimenti per il russo, sorride senza motivo al punto che approfitto di questa gentilezza per fargliela io una domanda.
“Sono ventiquattro anni che vengo qua e questa è la prima volta che succede una cosa del genere… Come mai?” la interrogo con fare risentito.
“A San Pietroburgo controlliamo tutti i passeggeri stranieri, soprattutto gli europei.” mi risponde sorridente, come a dire, ve la siete cercata.
Assieme a me nella stanza ci sono prevalentemente tagiki, qualche russo di origine asiatica e una signora di Mariupol che si professa disperatamente patriota. Durante l’interrogatorio a momenti scoppia in lacrime, non so se per lo stress o per l’onta di essere considerata filo-ucraina.
Rispondo a tutte le domande senza esitazioni né particolari emozioni ma ancora è finita.
Vengo riaccompagnato nella zona delimitata dal nastro rosso, dall’altra parte della zona arrivi, il funzionario ci dice di aspettare.
Dopo un po’ arriva un collega in divisa e legge i nomi di alcuni dei presenti dai rispettivi passaporti, che tiene in mano.
Ci invita nuovamente a seguirlo, questa volta verso un gabbiotto dove un altro poliziotto esamina con particolare cura il passaporto e il visto, ripete alcune delle domande che mi hanno fatto i suoi colleghi e alla fine mette il timbro a caso, in mezzo alla pagina, proprio quello che gli avevo chiesto di evitare.
Le persone muoiono o perdono tutto o diventano mezze sceme dalla paura e tu ti preoccupi del fatto che i timbri siano ben allineati sulle pagine, per ottimizzare lo spazio. E il tempo. Due ore che segnano un prima e un dopo, non sei più un intoccabile, adesso ti trattano come un tagiko qualunque.
Va tutto bene finché va tutto bene.
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https://www.youtube.com/watch?v=rWCLmd4FlmE
Foto dalla mostra punk di Mosca di Soulful Jules
venerdì, agosto 09, 2024
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Il primo link non me lo fa vedere (blocked...)
RispondiEliminaIl gruppo del secondo link sembrano i Flipper...