giovedì, giugno 01, 2023

Tashkent novembre 2022 #2



L'amico SOULFUL JULES, abituale frequentatore, per motivi di lavoro, dell'ex Urss, ci introduce nel clima di alcune zone, tristemente famose in questi giorni.
Ci aiuta a capire e ad approfondire, al di fuori di divisioni ideologiche, polarizzazioni, supposizioni.


La prima puntata qui: https://tonyface.blogspot.com/2023/05/tashkent-novembre-2022.html

Le precedenti puntate di "Tales from ex Urss" sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/Tales%20from%20Ex%20Urss

Tashkent novembre 2022
PARTE DUE


La prima puntata qui:
https://tonyface.blogspot.com/2023/05/tashkent-novembre-2022.html

Attraversiamo in taxi una delle strade principali, ai lati edifici imponenti, di costruzione recente. Molti sono ancora incompiuti, la facciata decorata da arabeschi o insegne luminose e i lati al grezzo, senza finestre.
Ricordano un po’ le scenografie dei film western degli anni sessanta, l’ingresso del saloon sorretto da travi di legno. I negozi sono organizzati come bazar, anche i più grandi hanno la merce esposta sul marciapiede, per lo più materiali edili, scale, porte, letti, secchi di vernice.
Nella via della moda ci sono tutti i marchi esclusivi tipo Molto Caldo, Eleganto, Bibiona e Massimo Rabbiacci. E che voglia di un ristretto da Bellissimo Caffè o di una nafta alla Gelateria Giotto.

Usciamo dal centro per andare a visitare un’azienda.

In periferia è tutto sgarrupato, erbacce ai lati delle strade sabbiose, case scrostate o senza intonaco, i portoni invece sono nuovi di zecca, verniciati di bianco o nero e ricchi di intarsi elaborati, spesso dorati.

“Come mai porte e cancelli sono così curati?”
“Perché l’ingresso e il soggiorno sono le zone più importanti della casa, quelle che di solito vedono gli ospiti.” spiega Marija, una ragazza coi capelli chiari, efelidi su naso e guance.
Per raggiungere un capannone dove producono cucine, ci infiliamo in una stradina in discesa, asfaltata da poco, che muore su uno spiazzo fangoso.
Colpa del navigatore, lamenta il conducente in un russo sgangherato mentre sale in retromarcia, la mano rivolta al telefonino come gesto di accusa.
Per la seconda volta, gli operai che lavorano ai lati della carreggiata ci guardano passare con la pala in mano e il volto inespressivo, nemmeno un cenno o una parola.

Arrivati al mobilificio, ci fanno accomodare in una stanzetta dove lavorano una decina di persone.
Indossano tutti un giaccone o un gilet imbottito, la sciarpa annodata attorno al collo. In Russia sarebbero in maniche corte, qua invece il gas costa caro.
Facciamo un giro per la produzione, impianti europei, spazi larghi, neanche male.
Parliamo con un tipo che armeggia accanto a un macchinario nero, a forma di sarcofago, per la stampa su vetro.
Il cliente che compra un armadio con le ante scorrevoli può scegliere l’immagine che vuole, ci mostra alcuni esempi: paesaggi urbani e naturali, una tigre in agguato e Marilyn Monroe che si tira giù la gonna.
Poi chiaro, se ci vuoi Padre Pio col rosario in mano, non c’è problema, basta che porti il file con la foto in alta risoluzione.
Dice che le apparecchiature lavorano bene, il problema è che nella loro zona la corrente arriva a singhiozzo, perché la rete elettrica non è molto sviluppata e ogni tanto ci sono interruzioni.
“E quando torna la corrente la macchina riprende da dove si era bloccata?”
“No, il software non lo permette.” risponde scuotendo la testa “Mi tocca grattare via tutto a mano e ricominciare.”
dice mostrando una spugnetta verde, tipo quelle per i piatti. Dopo neanche due minuti salta la luce e non si sente più il brusio della stampante.
Passa qualche istante e si riaccende tutto ma tanto basta perché il tipo, rassegnato, sfili la lastra di vetro dalla macchina e la appoggi su un tavolo per rimuovere i motivi colorati che coprono metà della superficie.
Si piega in avanti e inizia a sfregare con la destra, il maglione sollevato scopre le tasche posteriori rivela la scritta ricamata Stef Anomartino.

Prima di pranzo facciamo un salto allo show-room del distributore, un negozio grande, soffitti alti, mobili con le ante lucide.
Si vede che l’hanno finito da poco e che c’hanno investito però fa freschetto, due cannoncini sparano aria calda verso il centro della stanza a intervalli regolari ma se sei lontano dal getto non ti scaldi.
Il ragazzo che gestisce l’attività ha gli occhi a mandorla, capelli neri e lisci e un sorriso permanente che gli lascia scoperte le gengive.
Mi tratta con grande riguardo, ai limiti della devozione.
Ieri era presente al seminario, è rimasto sbalordito.
“Ma per gli articoli o per la presentazione?”
“Per gli articoli.” poi forse traspare un po’ di delusione dal mio viso perché aggiunge “Anche le immagini e i video erano molto belli, son piaciuti a tutti.”

C’è una signora seduta a un tavolino, accanto a una vetrata che dà sulla strada. È corpulenta e ha le spalle coperte da uno scialle, gli occhiali tondi e l’aria seria. Potrebbe essere una cliente che aspetta di essere servita ma mi saluta come se mi conoscesse, mi chiama per nome e si presenta come Gulnara, la nostra guida. Ravšan ha organizzato un tour, perché non si può andare a Samarcanda solo per lavoro.
La prima tappa è al ristorante, una specie di tavola calda, alla buona, dove pranza gente comune.
Servono solo plov, il piatto a base a di riso, verdure e montone. Poco male perché, per quanto sia cotto nel grasso della carne, è buonissimo.
Gulnara ha ordinato due porzioni ma arriva una terrina colma fino all’orlo, c’è abbastanza roba da sfamare cinque o sei persone. Mi siedo vicino ad Askar, che si occupa di formazione e training di vendita, di fronte a me c’è Marija, Ravšan è rimasto in negozio. Assieme al riso portano anche degli antipasti e una lepeška, una focaccia grande come una pizza. Qua è così, a tavola bisogna mangiare, senza tanti complimenti, me lo ripetono di continuo “Serviti, non hai preso niente! Non ti piace?” più un rimprovero che una domanda, come quei nonni che hanno fatto la guerra e non riescono a concepire porzioni ridotte o la mancanza di appetito.

La nostra guida parla un russo pulito, dice che qua è molto diffuso, la gente lo conosce meglio dell’uzbeko anche se la lingua principale è il tajiko, visto che siamo a cinquanta chilometri dal confine con il Tajikistan.

Un’altra etnia molto diffusa è quella degli zingari, presente in città da diversi secoli.
“Gli uomini non fanno niente, al massimo qualcuno piega il ferro battuto. Lavorano solo le donne, chiedono l’elemosina. Si sposano tra di loro perché sono schifati dal resto della gente, sono considerati la classe più bassa in assoluto.”
Mi sembra di cogliere un’ombra di disgusto sul suo viso.

Gulnara è nata a Samarcanda e parla della sua città con un orgoglio che a tratti sfiora il fanatismo; a suo dire, qualsiasi aspetto vagamente importante della cultura uzbeka, dai piatti tipici all’algebra, è originario di qui.
Insiste sul fatto che la cucina del posto è salutare.
“Guardatevi in giro, non ci sono uzbeki grassi.” muove le dita disegnando due semicerchi ai lati, non riesce ad avvicinare al busto le braccia grosse, da pesista. Lo scialle scuro sembra il mantello di un lottatore mascherato. Parla con autorevolezza di cose interessanti: “L’ospitalità qua è sacra, se fai del bene ti torna indietro.”, poi racconta la storia della sua famiglia.
Il padre era di origine tatara, etnia turca presente in Crimea sin dal XV secolo. Verso la fine della seconda guerra mondiale i tatari vennero accusati da Stalin di collaborazionismo con i nazisti e circa duecentomila persone furono deportate in Uzbekistan. Tra questi, il papà di Gulnara che trascorse i primi anni della sua infanzia nella baracca di un lager.
“Ha visto per la prima volta la luce del giorno, all’aperto, che aveva sei anni.”
Parla senza animosità, il volto sereno, come fosse una storia a lieto fine.
Terminato il pranzo saliamo in taxi e raggiungiamo le Madrase di piazza Registan, uno dei luoghi simbolo di Samarcanda e di tutta l’Asia centrale.
Il cielo è coperto, fa freschetto e c’è pochissima gente.

La guida spiega che la Madrasa è una scuola coranica dove studiavano ragazzi benestanti. Gli edifici sono tre in tutto, uno al centro e gli altri ai lati, disposti in maniera speculare. Il più antico è quello sulla sinistra, costruito nel XV secolo, leggermente infossato rispetto ai più recenti, il terreno ha ceduto nel corso degli anni.
È una delle cose più belle che io abbia mai visto, i portali sono alti una trentina di metri e provocano un senso di ordine e maestosità, ci vorrebbe Gadda per rendere giustizia alla miriade di elementi architettonici, ai dettagli, ai colori. Gulnara indica la facciata della Madrasa di destra, negli angoli superiori sono raffigurati due animali col corpo di tigre e la testa da leone, cacciano delle gazzelle e portano il sole sul dorso.
Simboleggiano il risveglio culturale e la fame di conoscenza, e infatti la bestia appare un po’ appesantita, il sole tratteggiato con i raggi appuntiti che facevamo all’asilo e con un volto umano, l’espressione perplessa, i capelli separati al centro da una scriminatura che ricorda un maggiordomo pedante o un attore di cinema muto.
Questa rappresentazione esplicita è in contrasto con i principi del Corano, costituisce una delle poche eccezioni al divieto di idolatria e fa parte del retaggio dello zoroastrismo, la religione più diffusa in Asia centrale fino all’avvento dell’Islam e dei suoi precetti. La facciata del portale ha un arco appuntito, la parte rientrante è decorata con mosaici e piastrelle disposte secondo motivi geometrici intrecciati.
Al centro una svastica, simbolo di vita.
Colpisce vederla così, tasselli blu su sfondo arancio all’interno di una cornice azzurra, niente di più lontano dalle camicie brune, il passo dell’oca e il braccio teso, chissà che cazzo aveva capito l’imbianchino.
Anche se non uso più il profilo di Instagram, una bella foto con l’effetto ritratto non me la toglie nessuno, mi metto in posa davanti all’edificio che ospitava le stanze degli studenti e mi passano accanto due donne con la pelle olivastra e gli occhi a mandorla, mi guardano e ridono, le capsule d’oro in bella vista.
“Cos’hanno quelle due?” domando contrariato.
“Niente, han detto che sei turco.” mi risponde Gulnara per tranquillizzarmi.
“Fa ridere?” insisto poco convinto.
“Qua non ridono per prenderti in giro, è più un segno di approvazione.” si inserisce Askar.
“Sì infatti” continua la guida “erano contente perché han visto un bel ragazzo turco.”
Un bel ragazzo turco.

Visitiamo l’altra madrasa, quella più antica che ha una cupola enorme, per favorire l’acustica durante la preghiera, l’emisfero suddiviso in migliaia di scanalature decorate in azzurro e oro, un capolavoro di precisione maniacale che produce un effetto caleidoscopico di stelle, fiori, foglie e gigli che si ripetono e si alternano in armonia.
Pare impossibile che la brillantezza dei colori e la pulizia dei contorni siano rimaste inalterate per oltre cinque secoli e infatti è opera dei restauratori sovietici.

“Questa è una zona sismica, all’inizio degli anni venti del novecento l’intero complesso era pericolante, è grazie ai comunisti se è tutto conservato.” Gulnara ci mostra delle foto di cento anni fa, esposte all’interno della sala, ritraggono il portale crepato, le decorazioni sbiadite.
“Lo hanno fatto anche per motivi politici, per garantirsi il consenso da parte dei locali.
Resta il fatto che Mosca qua ha investito cifre colossali e il grosso di quello che conosciamo oggi, dei ritrovamenti archeologici, lo dobbiamo ai ricercatori sovietici.”

Il materialismo che preserva l’islamismo.

Saliamo in auto per raggiungere il mausoleo di Tamerlano, do un’occhiata veloce alle notizie sul telefono.
In Polonia è caduto un missile che ha causato dei morti. Al momento non è chiaro se sia russo ma la tensione è altissima, parlano di terza guerra mondiale. E io sono qua, lontano da tutto, a seimila chilometri dalla mia famiglia.
Ne parlo con Askar.
“Hai visto in Polonia?”
“Sì, pazzesco. Speriamo bene. Chissà che cosa gli è passato in testa a zio Volodja.” È un modo di chiamare Putin che hanno certi russi, quelli che non sostengono il governo.
Askar mi racconta che sua moglie è ucraina e che lui è russo.
“Ero convinto fossi di qua. Con la barba scura e le sopracciglia folte, ti facevo di origine persiana.”
“No, no. Mio padre è di etnia turca ma siamo russi. Io sono di Nižnij Novgorod.”

È un centro importante sul Volga con oltre un milione di abitanti.
Nel periodo sovietico si chiamava Gor’kij, come lo scrittore, e fino al 1991 non esisteva nelle mappe perché era una città chiusa, c’erano delle fabbriche militari, producevano sottomarini.
L’accesso era compartimentato, anche il transito era regolamentato in maniera asfissiante, i treni passavano solo di notte, dopo una giornata di attesa e di controlli. Askar dice che a settembre era in vacanza con la famiglia in Crimea quando hanno dichiarato la mobilitazione. Ha lasciato la moglie e il figlio di due anni dai parenti, ha preso il primo aereo per tornare a casa, dove ha raccolto lo stretto necessario e poi ha imbarcato un volo per Orenburg, a sud, vicino al confine con il Kazakistan. Una volta atterrati, lui e suo cugino, sono andati verso la frontiera, si sono fatti nove ore di coda a piedi e alla fine sono riusciti a passare.
“Certo, eravamo preoccupati ma non ci sono stati problemi. Abbiamo conosciuto un sacco di gente disponibile, due ragazzi che andavano a Istanbul ci hanno ospitato in auto, a turno, perché di notte faceva freddo.” Parla con una certa tranquillità, le pause a effetto, l’ha già raccontata diverse volte questa cosa.
“Chi c’era in fila con voi?”
“Gente normale, come me e te. Chi lasciava la famiglia, chi l’azienda.”
“E come sei finito qua a Taškent?
“All’inizio volevo andare a Istanbul, trovare casa e lavoro per poi far venire mia moglie e il bambino. Prima di partire sono venuto qua per visitare dei parenti e dopo poche ore mi sono sentito a casa, ho strappato il biglietto per la Turchia e ho telefonato a mia moglie.”
“Potresti essere richiamato nell’esercito?”
“Sì, sono riservista, ufficiale di artiglieria. Per questo sono scappato subito. Ieri ho chiamato mio padre, la cartolina ancora non è arrivata ma i miei cugini sono già stati arruolati e spediti al fronte.”
“Cosa facevi in Russia?”
“Facevo il business trainer, insegnavo ai commerciali a vendere.”
“E la casa, la tua roba?”
“Adesso nel mio appartamento c’è un amico, tiene d’occhio le mie cose.”
“C’è qualcosa che ti pesa aver lasciato?”
Ci pensa un po’ “La collezione di francobolli di mio nonno, ce ne sono di tutte le repubbliche sovietiche.”
È la prima volta che parla con amarezza, la preoccupazione che gli increspa la fronte, come se nelle pagine di quell’album avesse visualizzato soltanto adesso la frattura di un prima e un dopo.

Il mausoleo di Tamerlano ricorda le Madrase per lo stile architettonico, anche qua tre edifici, due posizionati in maniera speculare, uno di fronte all’altro coi portali che sovrastano la struttura. Di nuovo la fascinazione per le porte e gli ingressi, nelle volte sono incastonate migliaia di nicchie che danno all’arco quell’effetto in stile grotta, tipico di certi localini degli anni sessanta.
Dentro e fuori ghirigori ipnotici ovunque, anche sulle colonne, sembrano disegnini fatti per gioco, per alleviare la tensione ma in ogni tratto c’è un simbolo o un significato specifico, le superfici colorate e ricoperte di geometrie complesse. L’effetto è strabiliante, più luminoso rispetto alle nostre chiese, dove sono raffigurati corpi o busti, teste, ali.
Immagini che sono sempre immerse nella penombra, in un’atmosfera cupa, da paranoie e sensi di colpa. Pochi paesaggi, al massimo qualche fiore, un serpente calpestato dalla Madonna, San Francesco con il lupo.
La guida racconta la storia di Tamerlano, qua lo chiamano Amir Timur, il condottiero mongolo che governò su un regno vastissimo in Asia centrale alla fine del 1300. Quando l’hanno spiegato al liceo ero impegnato a incidere i nomi di qualche band sulla formica del banco, oppure guardavo la lavagna e pensavo a Elena Fabbro. Gulnara non si stupisce della mia ignoranza.
“Nel corso dei secoli sono stati requisiti molti libri di scienza e matematica e adesso sono custoditi in Vaticano.” commenta con un tono risentito “Il governo ne ha chiesto la restituzione in diverse occasioni ma non sono mai tornati indietro.”
È dall’inizio della visita che la mena con ‘sta faccenda che l’Occidente nasconde informazioni scomode, se fossero rivelate racconterebbero una storia alternativa.
“Mi spiace ma non ho clienti in Vaticano.”

Usciti dal Mausoleo ci viene incontro una bambina che avrà al massimo dieci anni con un cencio in testa, a guardarla bene sembra sia avvolta di stracci, il volto sporco, tende verso di noi il braccio destro, in mano una lattina, tipo di quelle della conserva, che agita per far tintinnare le monetine.
i guarda con un’espressione furba, di chi non ha timore degli adulti, ha un’aria sgamata, si vede che ha già passato da un pezzo la pubertà, almeno a livello di vissuto.
Gulnara la scaccia via, un ragazzino ciccione con l’anda da paraculo le dice qualcosa in una lingua incomprensibile, fa un gesto con la mano e resta lì a guardare, per vedere se reagiamo. Ce ne andiamo senza badarlo.
Durante il viaggio di ritorno chiacchiero un po’ con Ravšan, fuori è buio pesto, parliamo della guerra, mi sembra che sia più critico rispetto a quest’estate.
“I russi stanno riscrivendo la storia. Qualche settimana fa ho visto un film su Stalingrado.”
“Com’era?”
“Niente di che, solita roba che fanno adesso. Ma la cosa che mi ha scioccato è che alla fine hanno scritto che l’esercito russo ha perso quasi mezzo milione di uomini.” le labbra piegate dallo sdegno “Capisci? L’armata russa, non l’armata sovietica! Milioni di ucraini, georgiani, uzbeki, bielorussi, azeri hanno combattuto contro il nazismo, non solo i russi!
“Tu hai parenti che hanno fatto la guerra?”
“Certo! Tutti hanno almeno un nonno o uno zio che è stato al fronte. Non ti ho mai detto di mio nonno?”
“Turgenev?” dico per scherzo.
Ravšan non ci fa neanche caso e inizia a raccontarmi la storia della sua famiglia.
Descrive il clima di divisione che c’era nell’Unione Sovietica allo scoppio della guerra civile tra bianchi e rossi, una rottura che si era manifestata in ogni casa. Suo bisnonno da parte di padre era leale allo zar, di una fedeltà al limite della devozione, al punto che quando il figlio tornò a casa con la budenovka, il berretto a punta con la stella dei bolscevichi, il vecchio gli sparò un colpo di fucile al petto uccidendolo all’istante.
“Beh ma non ha combattuto nella seconda guerra mondiale.”
“Lui no, ma mio nonno da parte di madre sì e anche quella è una storia da film.”

Il nonno, Grigorij, era un fervente comunista che aveva rotto con la famiglia borghese.
Nel 1933, nel pieno delle purghe staliniane, venne diffidato in quanto sospettato di trockismo, gli amici gli consigliarono di cambiare aria e farsi un giro nel Turkistan, come ancora veniva comunemente chiamata la zona occupata dalle neonate repubbliche sovietiche dell’Asia centrale.
Arrivò così a Taškent, poco dopo si laureò in ingegneria e iniziò a lavorare al ministero dei trasporti, dove si adoperò per la costruzione delle prime autostrade nel paese. Fece carriera in ambito politico, divenne deputato e viceministro del dicastero. Nel frattempo gli amici che lo avevano spinto a partire erano morti fucilati.
Quando nel 1941 la Germania invase l’Urss, Grigorij aveva quasi quarant’anni, si era fatto una famiglia e aveva una posizione di privilegio che gli consentiva di evitare l’arruolamento
. Decise tuttavia di servire il proprio Paese come ufficiale di complemento in prima linea ma dopo qualche mese finì prigioniero dei nazisti alle porte di Mosca.
All’inizio del 1942 giunse a casa la notizia della sua morte.
Confinato in un campo di prigionia, era stato condannato alla pena capitale con l’accusa di propaganda comunista.
A seguito di un pestaggio brutale, si era ritrovato assieme a un altro ufficiale sovietico nella stessa cella delle torture.
Il suo compagno non era sopravvissuto alle percosse e Grigorij era riuscito a scambiarsi la divisa facendo così credere ai nazisti di essere morto.
Venne poi trasferito in un’altra caserma dove fece la fame per diversi mesi finché all’inizio del ’43 venne liberato dai militari sovietici.
Continuò a prestare servizio nell’Armata Rossa fino al 1945, anno in cui venne inviato in Estremo Oriente per combattere contro il Giappone.
Finita la guerra tornò a Taškent dove venne arrestato con l’accusa di diserzione dal momento che due anni prima era stato prigioniero dei tedeschi.
Si fece così otto anni in un campo di riabilitazione finché nel 1953, in seguito alla morte di Stalin, venne amnistiato e riabilitato.
Nel 1954 scrisse una lettera a Chruščev, capo del PCUS.
Visto che lo stato a cui aveva dedicato i migliori anni della sua vita lo aveva privato della libertà e della salute, chiedeva che almeno gli venisse restituita la tessera del partito.
“E Chruščev gli ha risposto?” domando un po’ scettico.
Va bene il bisavolo scrittore ma questa mi pare la trama di una mezza dozzina di film di Hollywood.

Ravšan tira fuori il suo smartphone, scrolla un po’ tra le foto della galleria e alla fine me lo passa, sullo schermo c’è l’immagine di un foglio scritto a macchina con un’intestazione sobria, in rosso, dell’URSS. Il documento è stato piegato in quattro, le increspature in evidenza sulla carta. Chruščev invita Grigorij a fare domanda di reintegro al Comitato Centrale, dopodiché potrà ricevere la sua tessera. Ravšan dice che suo nonno ha risposto di non potere avanzare nessuna richiesta di reintegro dal momento che non se n’era mai andato, era stato buttato fuori.

Nell’immagine successiva c’è un cartoncino piegato in due, sulla destra l’intestazione del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, in fondo a sinistra una foto tessera del nonno di Ravšan, il volto sereno, meno rugoso di come te l’aspetteresti, i capelli lucidi pettinati all’indietro. A penna è indicato l’anno di emissione, il 1955.
Sorrido al mio vicino, effettivamente è una bella storia ma Ravšan non ha finito.
“E sai qual è la cosa più incredibile di questa faccenda? Che quando chiedevano a mio nonno quale fosse stato il periodo più felice della sua vita rispondeva: “La guerra, dopo la prigionia. Sentivo che lo Stato aveva bisogno di me.” Due anni prigioniero di Hitler, otto di gulag con Stalin e ancora era innamorato della Patria.”

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