venerdì, marzo 24, 2023

Mosca e San Pietroburgo. Settembre 2022 - Parte #6



L'amico SOULFUL JULES, abituale frequentatore, per motivi di lavoro, dell'ex Urss, ci introduce nel clima di alcune zone, tristemente famose in questi giorni.
Ci aiuta a capire e ad approfondire, al di fuori di divisioni ideologiche, polarizzazioni, supposizioni.


Mosca e San Pietroburgo. Settembre 2022 - Quinta parte.

La prima parte qui:
https://tonyface.blogspot.com/2023/02/mosca-e-san-pietroburgo-settembre-2022.html

La seconda parte qui:
https://tonyface.blogspot.com/2023/02/mosca-e-san-pietroburgo-settembre-2022-2.html

La terza parte qui:
https://tonyface.blogspot.com/2023/03/mosca-e-san-pietroburgo-settembre-2022.html

La quarta parte è qui: https://tonyface.blogspot.com/2023/03/mosca-e-san-pietroburgo-settembre-2022_0953283786.html

La quinta parte è qui: https://tonyface.blogspot.com/2023/03/mosca-e-san-pietroburgo-settembre-2022_0935237908.htm

Le precedenti puntate di "Tales from ex Urss" sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/Tales%20from%20Ex%20Urss

Prendo un taxi per tornare in albergo, la radio trasmette una canzone di Celentano, mai sentita. Per attaccare bottone, dico all’autista che sono italiano.
“Ah Italia! Uno dei miei paesi preferiti.”
Mi confida che in realtà non è mai uscito dalla Russia e se potesse si farebbe subito un viaggio a Roma.
“Ma adesso è più difficile” commenta con una punta di tristezza.
“Oggi hanno dichiarato la mobilitazione, potresti essere coinvolto?”
“Lo sa il Signore… Può darsi di sì.” risponde con un certo distacco, come se stesse parlando delle previsioni del tempo e mi colpisce questa indifferenza, il fatto che sia così tranquillo.
“Ma scusa, tu rientri tra quelli che potrebbero essere chiamati?” insisto.
“No ma chi lo sa come andrà. Qua dicono una cosa e poi…”

Parliamo del mio lavoro, il traffico è più intenso del solito, soprattutto a quest’ora, Jurij ha più o meno la mia età, rimpiange l’Unione Sovietica, “avevamo tutto” si lamenta, “ora qua non producono più niente e devo pregare Dio che non mi si rompa qualcosa perché non ci sono pezzi di ricambio.”

Dice che non si sta male, il periodo peggiore è stato negli anni novanta.
“C’era da avere paura, sul serio. Mia mamma per poco non c’è rimasta secca, l’hanno strattonata sotto casa ed è caduta di peso. Tutto per rubarle il colbacco. Un cappello!” ribadisce alzando le mani dal volante, tanto siamo fermi in coda.
“Ci sarà stato qualche incidente.” commenta Jurij tra sé e sé.

Arrivo in albergo che sono quasi le cinque del pomeriggio, volevo fare un salto al Russkij Muzej per visitare una mostra sul design sovietico ma non mi sento un granché, ho i brividi, prendo due aspirine russe, comprate nella farmacia qui sotto, e mi metto a letto.
Accendo la tv, quattro vecchi panzoni celebrano l’annuncio di Putin.
“Con le nuove riserve il nostro esercito avrà finalmente gli uomini per portare a termine l’operazione militare speciale. Gliela faremo vedere all’occidente!”

Spengo e appoggio il telecomando sul comodino.
Ho paura di ammalarmi e di restare qua.
Cerco di ragionare razionalmente, domani ho il volo per Mosca e dopodomani rientro a casa.
Controllo sul telefono il tragitto dall’albergo all’aeroporto Pulkovo, che è dalla parte opposta rispetto alla frontiera con la Finlandia.
Sui siti dei quotidiani italiani dicono che ci sono almeno trenta chilometri di coda al confine, sono i ragazzi che cercano di scappare prima che li chiamino o che decidano di chiudere tutto.

Leggo qualche pagina del Mago del Cremlino per distrarmi, il protagonista parla delle purghe Staliniane, di come tutti quelli che erano vicini al capo, che vivevano con lui, le mogli e i bambini sempre assieme come nelle famiglie allargate, siano poi finiti giustiziati e spesso si autoaccusavano di crimini e tradimenti mai commessi pur di risparmiare ai parenti pene spaventose, comunque erano condannati a portare il marchio dell’infamia.

Il libro mi mette ancora più ansia e nel frattempo arrivano i messaggi di chi non si fa mai sentire ma oggi ha deciso di condividere gli screen-shot delle testate online, come se non le guardassi ogni cinque minuti.
“Fuga dalla Russia.”, “Presi d’assalto gli aeroporti”, “Decine di chilometri di fila alle frontiere.”

Ne avevo bisogno.
Poi arrivano le domande cretine “Ma tu ce l’hai già il biglietto di ritorno?”, i costi dei voli sono schizzati, fino a diecimila euro per la tratta Mosca-Istanbul. No, sono arrivato con un biglietto di sola andata, sai mai che poi mi trovo bene e rimango qua.

Attraverso la finestra filtra il suono dei claxon dalla strada, gli ululati delle sirene, è la prima volta che ci faccio caso da quando sono qua.
I media occidentali riportano di manifestazioni di protesta e arresti, mi piacerebbe scendere in strada e guardare cosa succede ma sono sotto le coperte, voglio tornare a casa e non posso ammalarmi, niente mal di gola, febbre, tosse o raffreddore, perché devo prendere due voli, anzi tre, e quei cazzo di termoscanner sono dappertutto.
Se riesco a tornare in Italia, tra una settimana vado in Germania a ballare.
La minaccia nucleare ogni giorno più concreta, l’ultima volta che ho avuto paura della bomba atomica ero bambino, quando ho visto il film The Day After, e adesso l’unica cosa di cui mi importa è perdermi nel parquet di una pista da ballo, tra le luci intermittenti e i suoni dei fiati e dei violini, assieme ai miei amici.

Quarantaquattro anni e fino a stamattina me ne sentivo venticinque al massimo, poi ho preso l’ascensore e nella cabina con gli specchi sui due lati, ad angolo, assorto nei miei pensieri, ho alzato la testa e ho visto la mia immagine riflessa di schiena.
Ero un po’ ingobbito, le spalle piegate in avanti, i capelli grigi e l’aria mesta da pensionato, altro che il guizzo vitale del ventenne.

Alla fine mi distraggo un po’ con Pistol, la serie diretta da Danny Boyle incentrata sulla biografia di Steve Jones, il chitarrista dei Sex Pistols, un’infanzia di abusi e violenze riscattata, in parte, dalla musica.
Non è un granché, i personaggi un po’ stereotipati, i dialoghi inverosimili, ma la colonna sonora è bella, le ricostruzioni degli ambienti sono fedeli e lo spirito dell’epoca è tratteggiato in maniera credibile.

La mattina mi alzo, faccio un po’ di squat davanti allo specchio, la tv accesa sul primo canale.
In sottofondo un esperto politico condanna la cattiveria dell’occidente, nel servizio successivo commentano con toni trionfalistici che, nonostante le sanzioni, quest’anno l’export di pesce è cresciuto in maniera sensibile.
Il presentatore saluta e invita gli spettatori a non cambiare canale e a seguire il programma contro le fake news che andrà in onda dopo la pubblicità.

Giù a colazione sono tutti sereni, tra quelli che hanno meno di quarantacinque anni non ce n’è uno che sia magro, o appena appena in forma.
Prima di partire ho un seminario nell’ufficio del distributore, per i suoi clienti, “raduniamo dieci aziende in una sala così evitiamo di andare in giro per mezza città”, me l’hanno venduta bene.
Il tassista è uzbeko, un bel ragazzo ma non tanto intelligente. Parla male il russo e dopo che gli ho detto che sono stato nel suo paese decide di sfogarsi con me.

L’Uzbekistan fa schifo, si lamenta di cose incomprensibili, dice kak skazat’, come dire, ogni due parole.
Cosa mi è venuto in mente di attaccare bottone con questo, meglio se mi facevo i fatti miei.
Continua a protestare e a parlare da solo, una nenia fastidiosa che stride con la bella giornata che si apre fuori dal finestrino, a un certo punto attacca a ridere delle altre macchine, scandisce i marchi come i nomi di vecchi amici.
“Hahaha Kia Rio.”
“Heyyy Matiz!”
“Ooohhh Tesla.”
“BMVuuuu.”

Dal distributore mi sistemo in una saletta con uno schermo tv a cui collego il pc.
Ci sono giusto 4 sedie, una brochure e una penna con il nostro logo appoggiata sopra di ognuna. Prima di iniziare scambio due parole con Ekaterina, la direttrice.
Si informa sull’orario della mia partenza, le spiego che mi sono preso per tempo ma lei insiste, mi mette agitazione, c’è la ressa in aeroporto, un casino di gente sta cercando di lasciare il paese, code per strada, rischio di perdere il volo.
Il modo migliore per farmi sentire a mio agio. Dopo qualche minuto arrivano un tipo in tuta, con i capelli rossi e gli occhi cisposi, e una ragazza con gli stivali neri fin sotto il ginocchio, i capelli biondi e lunghi e le unghie lunghe laccate di rosa confetto. Eccole qua le dieci aziende. Parlo per poco più di un’ora con lo sguardo fisso sul quadrante dell’orologio.
I trend di Milano, le basi sospese, il dettaglio, il valore aggiunto, la nicchia e la fascia di prezzo e intanto penso al mio volo, sullo schermo scorrono le immagini dei soggiorni e delle vetrine con il telaio in alluminio e il vetro fumé mentre dietro ai miei occhi si alternano i fotogrammi dell’aeroporto con la gente ammassata all’esterno per entrare, i poliziotti che cercano di tenere a bada la folla disperata.
Arredamenti che testimoniano uno stile di vita elegante ed esclusivo e lo stomaco bloccato dall’angoscia di ritrovarmi come quei poveri disgraziati che cercavano di scappare da Kabul prima dell’arrivo dei Talebani.

Termino con le formalità del caso, Ekaterina mi accompagna al cancello e aspettiamo assieme che arrivi il mio taxi.
Parla con gli occhi lucidi.
“Adesso ci saranno i referendum e passeremo dalla Operazione Militare Speciale alla guerra.”
“Potrebbero richiamare qualcuno dei tuoi dipendenti?”
“I ragazzi che lavorano in magazzino sono tutti riservisti.”
“Li hanno già convocati?”
“No ma penso sia una questione di tempo.”

Quando è iniziata la guerra Emmanuel Carrère si trovava a Mosca dove ha raccolto impressioni ed esperienze dirette per poi scrivere un reportage dai toni apocalittici in cui raccontava dei suoi amici che si preparavano a lasciare la Russia pochi giorni dopo il 24 febbraio.
Erano tutti registi, sceneggiatori e persone di cultura, più che benestanti.
Delle decine di persone che ho incrociato negli ultimi mesi non conosco nessuno che sia in grado di andarsene.
Prima di salire in auto osservo il volto di Ekaterina, è diviso in due, come l’orizzonte di San Pietroburgo.
Le labbra pitturate di rosso, piegate in un sorriso che scava due fossette sulle guance, l’azzurro delle iridi ingrigito e bagnato di tristezza. Ci salutiamo e ci abbracciamo per davvero, quasi fosse un addio.

Anche questo tassista è uzbeko ma non ha voglia di parlare.
Il cielo nel frattempo si è fatto scuro e pesante, il parabrezza si riempie di goccioline, cadono con un ticchettio delicato.
Guardo fuori dal finestrino, per anni e per migliaia di chilometri la prospettiva laterale è stata il mio punto di vista sul paese, rigorosamente dal sedile posteriore destro.
Chissà quando mi ricapiterà di tornare, di rivedere questi palazzoni.
Sullo sfondo una distesa di nuvole basse e deprimenti, ogni tanto si aprono, lasciano filtrare un raggio di sole che proietta le sagome delle auto sull’asfalto. Sarebbe bello che finisse come nei film, lo spiraglio di luce che accende la speranza.

La nostra Kia fila spedita lungo i vialoni a tre corsie, l’app del traffico non segnala rallentamenti ma nei paraggi dell’aeroporto c’è coda.
Auto, trattori, camion e furgoni, tutti in fila.
Non c’è neanche il tempo di far lavorare l’ansia che torniamo a muoverci, era un breve intasamento per lavori in corso.

Nella zona delle partenze è tutto tranquillo, c’è poca gente, nessuno davanti a me al banco del check-in, passo rapidamente attraverso gli scanner.
Già mi ero preso in anticipo, mettici le paranoie di Ekaterina, adesso mi tocca aspettare tre ore nel terminal.
Faccio due passi, subito dopo un chiosco di souvenir tradizionali c’è un negozio di abbigliamento casual e sportivo con il marchio Putin Team.
Compreresti una felpa con la stampa Squadra Mattarella sul petto?

Mi accomodo nella lounge, su un divanetto bianco in finta pelle, all’inizio non c’è quasi nessuno, poi inizia ad arrivare gente.
Sono tutti bistecconi, in prevalenza, sotto i cinquant’anni, Iphone, sneakers Balenciaga, zainetti bicolore Piquadro.
Viaggiano da soli.
Mentre aspetto mi guardo qualche altro episodio di Pistol, Sid Vicious ha ormai sostituito Glen Matlock al basso.
La prima volta che ho ascoltato Anarchy In The Uk avevo dodici anni, era l’estate del ’90, in Inghilterra, vicino a Norwich per una vacanza studio.
Sabato sera c’era il barbeque in giardino, mi stavo servendo dal bidone dove grigliavano la carne, forse parlavo con qualcuno, da un mangiacassette nero usciva della musica.
Quando è partito il riff iniziale, con la voce abrasiva di Johnny Rotten, mi è caduta la salsiccia sul piatto e sono restato accanto alla griglia fino alla fine del pezzo, stordito da quel suono potente e oltraggioso.
I Sex Pistols li conoscevo di nome, mio padre aveva l’enciclopedia del rock a volumi e c’era un capitolo dove Lydon & co venivano massacrati dalla critica e io mi immaginavo chissà cosa e invece Never Mind era proprio un bel disco.
Appena tornato dall’Inghilterra me lo sono comprato e l’ho consumato, un po’ per gli ascolti e un po’ perché non avevo grande dimestichezza con la puntina.
Qualche anno fa ho scambiati due chiacchiere con Glen Matlock dopo un concerto, e quando mi ha detto che avevo l’accento irlandese l’ho preso come un complimento.
Qualche tempo dopo ho letto la sua autobiografia dove parla male degli irlandesi e mi sono un po’ risentito di questa cosa.
Chissà se ha visto la serie Pistol, non ci fa una bella figura.




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