mercoledì, luglio 13, 2022

Mosca maggio 2022


L'amico SOULFUL JULES, abituale frequentatore, per motivi di lavoro, dell'ex Urss, ci introduce nel clima di alcune zone, tristemente famose in questi giorni.
Ci aiuta a capire e ad approfondire, al di fuori di divisioni ideologiche, polarizzazioni, supposizioni.


Le precedenti puntate qui:
https://tonyface.blogspot.com/2022/03/racconti-dallex-urss-ucraina-febbraio.html

e qui:
https://tonyface.blogspot.com/2022/03/racconti-dallex-urss-parte-1.html

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https://tonyface.blogspot.com/2022/03/racconti-dallex-urss-ucraina-maggio-2014.html

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https://tonyface.blogspot.com/2022/03/racconti-dallex-urss-febbraio-2022.html

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https://tonyface.blogspot.com/2022/04/ucrainarussia-ieri-e-oggi.html
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https://tonyface.blogspot.com/2022/04/racconti-dallex-urss-ucraina-marzo-2022.html

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https://tonyface.blogspot.com/2022/05/odessa.html

e infine qui:
Continua....

Rientro in albergo e guardo un po’ di tv.
Nei tg occupa molto spazio il dibattito sull’ingresso nella Nato da parte di Svezia e Finlandia.
Intervengono commentatori occidentali che sono contrari all’allargamento dell’alleanza atlantica, parla anche un professore italiano, mai sentito.
Un servizio sull’operazione militare speciale in Ucraina mostra le rovine di una chiesa ortodossa nel Donbass bombardata dall’esercito di Kiev.

Le riprese si spostano fuori dai centri abitati, i soldati russi illustrano il loro operato di protezione e soccorso della popolazione locale, donne con i capelli sporchi e stopposi, le mani ossute a nascondere le lacrime dalle guance scavate, riportano le atrocità commesse dalle truppe ucraine nei loro confronti.
Stacco di immagine su una via piena di macerie, la facciata di un condominio sventrata, i contorni del muro anneriti dal fumo.
Un uomo con i capelli grigi e i denti d’oro stringe la mano a un soldato con la tuta verde e lo ringrazia per averli liberati.

Militari e commentatori ripetono regolarmente che le truppe nemiche, indicate come “i nazionalisti ucraini” o “i radicali” sono demotivate e in difficoltà con i rifornimenti.
Zelenskij non viene mai nominato, si parla sempre del “regime di Kiev”, le altre regioni dell’Ucraina non vengono mai citate, le immagini fanno sempre riferimento alle regioni di Lugansk e di Donetsk.

Parte un altro servizio, primo piano sul volto di Adriano Celentano, i capelli radi e spettinati, Ray-Ban da sole a goccia e la mascella squadrata e serrata che forma due fossette sugli zigomi.
Nelle sale cinematografiche russe è appena uscita la versione restaurata di Segni Particolari: Bellissimo.

Incredibile come siano così legati a un film che ha quasi trent’anni, pieno di stereotipi ormai censurati come la giornalaia che sguaina una zinna da sotto il maglione durante i titoli di testa e Celentano con la faccia colorata di marrone che parla come le macchiette africane del Drive In.
Ancora più improbabile è che si siano innamorati del molleggiato doppiato in russo.
Negli ultimi anni la scuola di doppiaggio locale è decisamente migliorata ma fino ai primi 2000 alle voci degli attori veniva sovrapposto un parlato asettico e inespressivo, come quello degli annunci dei treni in stazione, l’audio originale in sottofondo.

Faccio un po’ di zapping e mi sorprendo quando sullo schermo compaiono i canali di Skynews, Bloomberg, Rainews e Disney.
Su Rai 1 va in onda un servizio sulla vittoria della band ucraina Kalush all’Eurovision Song Contest. Lo schermo tappezzato di bandiere giallo blu mi crea un certo disagio, cambio canale prima che i servizi di sicurezza irrompano in camera. Facebook e Instagram non sono accessibili sul mio Iphone ma molti portali di informazione occidentali come The Guardian, Repubblica, Corriere, CNN e BBC, anche nella versione russa, si aprono velocemente.
Il giorno dopo visito un grossista di accessori per mobili. Gli uffici sono situati all’ultimo piano di un palazzone grigio.
Per salire devo essere registrato da un ometto coi capelli unti e il volto pallido seduto dietro al banco di una reception. Sono anni che mi vede entrare da quella porta a vetri e ogni volta mi accoglie con le sopracciglia inarcate e la fronte corrucciata, come se rappresentassi una minaccia alla sicurezza o forse perché lo distraggo dallo schermo del suo cellulare.
Risponde con un grugno ai miei saluti, prende il passaporto che gli porgo, si segna qualche dato su un quadernone a quadretti e mi passa un badge magnetico, con cui oltrepassare i tornelli che mi portano all’ascensore.

La registrazione delle visite e la concessione di un pass, elettronico o cartaceo, quest’ultimo con timbro e firma, sono procedure comuni in molte aziende dell’ex Urss e dell’est Europa. Spesso accanto all’ingresso c’è un gabbiotto occupato da un figuro robusto con una divisa grigia che nel corso di tutta la giornata ferma i passanti per verificare la natura della loro visita, controlla documenti, contenuto delle borse e rilascia un bigliettino attraverso una finestrella coi vetri unti.

Incontro Svetlana, una signora sulla cinquantina con i capelli corti e gli occhiali tondi con la montatura di metallo, mi guarda emozionata, poi mi appoggia le mani sulle spalle e mi dà due baci sulle guance come se fossi tornato dal fronte. Parliamo delle difficoltà che riscontrano adesso nei trasporti.
Per portare la merce a Mosca si servono di camion europei, visto che il transito a quelli russi è proibito all’interno della UE. Alcuni passano attraverso il confine polacco, altri viaggiano tramite la Bielorussia e in determinati casi organizzano un trasporto via mare dalla Finlandia.

C’è grande incertezza e preoccupazione per un eventuale inasprimento delle sanzioni, temono la chiusura totale delle frontiere. A un certo punto Svetlana non si trattiene:
“Cosa succede da voi?”
“Cosa succede da noi? Mi dica che succede qua che facciamo prima.”
“Noi russi siamo abituati ai cambiamenti, negli ultimi anni abbiamo avuto non so quante crisi e le abbiamo sempre superate, non come voi europei.”
Pensa gli ucraini...

A parte le questioni logistiche e dei pagamenti, nessuno parla mai di guerra, né di operazione speciale.
Si cercano soluzioni alle difficoltà di questa fase ma nessuno accenna al motivo per cui ci troviamo in questa condizione. Anche Svetla
na, quando deve spiegare il momento attuale si blocca, strabuzza gli occhi, allarga le dita delle mani davanti a sé mentre guarda nel vuoto, cerca le parole ma alla fine ritorna sempre a “questo”, “la situazione”, “questo periodo”.

L’unico che si sbottona un po’ è Slava, un ragazzo di origine bielorussa con cui lavoro da una quindicina d’anni. Al termine della giornata mi porta a cena in un ristorante fighetto in centro a Mosca.
Percorriamo il Leningradskoe Shosse, una delle principali arterie che attraversano il centro, uno stradone a quattro corsie per ogni senso di marcia.
A destra e a sinistra ci sono diversi cantieri, progetti commerciali e residenziali che sostituiscono edifici di era sovietica. Lo skyline è cambiato negli ultimi dieci anni.
Le costruzioni più recenti sono sobrie ed eleganti, con facciate in pietra liscia, chiara e infissi e vetri scuri.
Lo stile ricorda quello delle grandi città del nord Europa o degli Usa, niente a che vedere con le pacchianate in acciaio e vetro a specchio dei primi anni duemila.
I condomini a dieci piani degli anni settanta sono stati rimpiazzati da grattacieli alti il doppio o il triplo, piccoli agglomerati urbani, milioni di metri cubi di cemento, migliaia di abitazioni e uffici che testimoniano la velocità istantanea del cambiamento. Mattoni, acciaio, calcestruzzo, vetro, piastrelle, azerbaijani, tadjiki e uzbeki che vivono e dormono nei container di metallo all’interno dei cantieri, il recinto decorato dal filo spinato.
E una volta terminati, gli appartamenti, gli attici, gli uffici, i negozi e le penthouse saranno riempiti di mobili e chi produce bagni, soggiorni e cucine userà ferramenta per assemblarli e se sarò abbastanza bravo e fortunato sarò io a fornire una parte di quei reggiripiani, di quei piedini regolatori, di quelle attaccaglie e di quelle giunzioni, come faccio da quasi venti anni a questa parte.
E dopo un quinquennio o giù di lì qualcuno si stuferà di quei mobili, li butterà e ne comprerà di nuovi, che il rovere moro ha stufato e adesso va il frassino bruno, a poro aperto. È una dinamica ciclica e consolidata in tutto il mondo, solo che qua c’è un’altra scala di parametro rispetto agli standard delle città europee, qua è sempre tutto più grande, smisurato.

Osservo gli interni in pelle del Suv Audi di Slava.
“Guarda qua che bella macchina da oligarca che ti sei fatto!”
“E’ un Q7 del 2010, prego ogni giorno che non si rompa niente sennò mi tocca buttarla via.”
“Perché?”
“Perché i fornitori dei ricambi non lavorano più con la Russia. Se devi sostituire qualcosa adesso ti chiedono almeno tre volte tanto, sempre che trovi i pezzi.”
“Non ci sono alternative cinesi?”
“Non è la stessa cosa e comunque adesso non si trovano neanche quelli.”
“Ti ricordi quando siamo andati a pranzo a febbraio?”
“Sì, ero sicuro che non sarebbe successo niente, nessuno immaginava che ci sarebbe stata una guerra” ha un tono mesto, quasi si vergognasse per la previsione sbagliata “nessuno vuole la guerra, nessuno sano di mente vuole questa situazione ma prova tu ad andare in piazza.
Ho anche litigato con un mio amico russo che abita in Germania.
Faceva discorsi da rivoluzionario e mi parlava con disprezzo. Gli ho detto ‘Senti, torna in Russia e vai tu a protestare’”
“Eh sì…”
“Del resto adesso non è il momento per un cambio di governo, io sono contrario”
“Perché?”
“Perché sarebbe il caos, come negli anni ’90. Sarebbe ancora peggio. Adesso la situazione è difficile ma a livello economico e finanziario è sotto controllo. Se ci fosse un cambio di potere non sappiamo cosa potrebbe succedere.”

Nel parcheggio del ristorante ci sono auto costose: Porsche, Bentley, Mercedes e BMW. Slava lascia la macchina lontano dall’ingresso.
Veniamo accolti da una ragazza coi capelli lunghi legati in una coda di cavallo, trucco sobrio e una camicia nera un po’ scollata che ci accompagna al nostro tavolo.
Il soffitto è alto, l’ambiente è curato ma non troppo formale, le luci basse e il colore predominante è l’antracite, anche nella boiserie alle pareti.
Si avvicina un ragazzo coi capelli corti e senza un filo di barba, vestito di nero, si interessa alle nostre preferenze per la Kaljanka, una specie di Narghilè. Tiene le braccia lungo il corpo e fa roteare le dita sottili per descrivere le varietà di tabacco.
Io non me ne intendo per cui sceglie Slava. Veniamo poi approcciati da un altro ragazzo, vestito di nero, con i lineamenti dolci, le sopracciglia curate e inarcuate, la voce incerta della pubertà anche se avrà venticinque anni.

Ordiniamo gli antipasti a base di polpa di granchio e per secondo tonno scottato alla piastra.
“Uhh sono proprio contento di essere qua. Il ristorante è figo e tutto quanto, ma il fatto di parlarci di persona dopo tre mesi di telefonate e video conferenze è un’altra cosa.”
Slava sorride “Eh sì, finora sei l’unico dei fornitori europei che è venuto.”
“Come va col master?”
“Bene, adesso riesco a concentrarmi ma a marzo facevo fatica, pensavo alla guerra tutto il tempo, non riuscivo a fare altro. Poi mi sono abituato.
Anche i miei compagni di corso erano in difficoltà. Eravamo tutti sotto shock…”
Si blocca quando arriva il ragazzo con i nostri piatti.

Guardo gli altri clienti seduti ai tavoli: le donne, anche quelle giovani, hanno zigomi alti e labbra pronunciate che danno un’espressione comune a tutte quante, quasi fossero parenti strette. Sono curate nel vestire senza essere troppo appariscenti.
Diverso è il discorso per gli uomini, salvo qualche eccezione, l’età media è sulla cinquantina, l’espressione corrucciata e il ventre pronunciato.
Hanno tutti un borsello di pelle che contiene documenti e sigarette elettroniche o di tabacco.
Passiamo una bella serata, sono rilassato perché non ho più l’obbligo di fare un tampone per il rientro.

Rientrato in albergo accendo la tv, sul primo canale mostrano le immagini della resa definitiva dell’Azov Stal’, la fabbrica siderurgica occupata dalle milizie ucraine, in buona parte dai soldati del battaglione Azov. Militari russi, in tuta mimetica e a volto coperto perquisiscono i prigionieri, piuttosto mal ridotti al termine dell’assedio durato oltre due mesi.
Occhiaie, barbe incolte, capelli sporchi e sguardi persi nel vuoto.
Gli ucraini vengono fatti spogliare alla ricerca di tatuaggi di matrice nazista che ne rivelino l’appartenenza al battaglione Azov.

I toni sono trionfali, come se Mosca avesse vinto la guerra, qualsiasi cosa significhi.

Il commentatore del primo canale, un signore un po’ gobbo, indossa una giacca colore beige e sotto ha una maglietta nera con la Z deformata dall’addome. Parla con enfasi ed esalta il comportamento delle truppe russe:
“Dimostreremo ai radicali ucraini che hanno compiuto massacri nel Donbass che noi siamo diversi. Dimostreremo che siamo uomini, che trattiamo la vita con rispetto. Perché noi siamo umani.”

Nei giorni seguenti visito altri clienti.
Non guido mai a Mosca, è inconcepibile col traffico e la viabilità. Mi sposto in auto con Rafael, un signore di origine azerbaijana e di etnia armena che avrà una settantina d’anni. Passa le sue giornate al volante perché dopo più di quarant’anni di lavoro prende 10.200 rubli di pensione, circa 200 euro al cambio attuale.

Ha lavorato a Baku per molti anni come direttore di una gastronomia, poi si è trasferito a Mosca perché la figlia aveva problemi di respirazione che, incomprensibilmente, ha risolto col clima della capitale. Nei periodi morti, mentre mi aspetta, dorme o legge dei libri, principalmente autori francesi: Zola, Balzac e Flaubert i suoi preferiti. Rafael non parla mai della guerra, al massimo qualche parola sul distacco tra politici e gente comune, considerazioni che puoi sentire anche in Italia al mercato del sabato o al bar.

Osservo i cartelloni ai lati delle strade, mi aspettavo di trovare Z e slogan patriottici un po’ ovunque ma a una settimana dalle celebrazioni del giorno della vittoria, questi segni sono poco evidenti.
Capita di passare sotto ad un billboard con la scritta “Oni pobedili, my pobedim. 9 maja”, “Loro hanno vinto, noi vinceremo. 9 maggio”.
Sulla parte sinistra, un soldato con la tuta di panno, grafica ricorda una foto in bianco e nero, stringe la mano ad un militare con la mimetica verde, la parte destra a colori e nettamente definita. Squilla il telefono, Oleksandr, cliente di Kiev.
È una chiamata di lavoro ma mi sento a disagio, forse in colpa, non so neanch’io perché.

“Oleksandr, ciao. Senti sono a Mosca, posso chiamarti quando rientro?”
“A Mosca? Cosa va lì?”
“Dai che ti racconto tutto quando rientro.”
“Ma cosa dicono?”
“Dai che ci sentiamo con calma venerdì che sono in Italia.”
“Ok, ho capito. Chiamami quando puoi.”


Come un po’ in tutto il mondo, le fabbriche di grandi dimensioni sono generalmente fuori dalle città; uscendo dalla periferia di Mosca, a una cinquantina di chilometri dal centro, attraversiamo boschi e prati incolti che ogni tanto sono interrotti da qualche gruppetto di case in legno, un po’ malandate.
Passiamo accanto ad una pensilina di cemento della fermata di un autobus. Seduta tranquillamente sulla panca c’è una signora anziana col fazzoletto in testa e un sacchetto di plastica da cui esce il collo piegato di un grosso pennuto, troppo lungo per essere quello di una gallina, forse un tacchino. Non c’è una casa nel giro di chilometri, sembra una scena di Twilight Zone e invece questo è il paese, quello in cui vive la stragrande maggioranza della gente e che ha poco o niente a che fare con il centro elegante della capitale o di San Pietroburgo.
Durante il nostro tragitto incrociamo vecchie fabbriche dismesse o prossime alla chiusura, relitti mastodontici, brutali dell’industria sovietica, realtà da migliaia di posti di lavoro attorno a cui venivano costruiti villaggi che adesso si stanno sgretolando con l’emorragia di abitanti che se ne vanno altrove in cerca di occupazione.

Ascolto alla radio notiziari ed approfondimenti economici che ondeggiano tra minacce di apocalisse finanziaria e toni più ironici, velatamente orgogliosi, circa il rischio di un default della Russia.
E’ sottointeso che supereranno questa fase anche se si aspettano almeno due anni di recessione. Poi parte Susanna di Celentano, i baffetti di Rafael si increspano in un sorriso
“Khoroshaja pesnja” “Bella canzone”

Fa freddo, nelle aziende il riscaldamento è acceso e la gente gira in maniche corte.
Alcuni sono felici di vedermi, altri mi salutano come ci fossimo incontrati un paio di giorni prima.
Sono tutti molto impegnati, in questo periodo l’occupazione principale è cercare fornitori alternativi rispetto a quelli che hanno sospeso le consegne alla Russia.
Nel mio settore le aziende italiane continuano a lavorare, quelle che hanno interrotto i rapporti sono sostanzialmente multinazionali con sede in Germania che rispondono alle pressioni di azionisti e filiali straniere.

Molti hanno l’aria sollevata, come se lo scenario peggiore, il blocco totale delle consegne paventato a marzo, fosse ormai scongiurato.

Per il resto, nessuno dice una parola.
Dalle conversazioni emerge sempre il solito quadro: la situazione è imprevedibile e non possiamo gestirla noi.
Siamo impotenti, non possiamo farci niente.

Nessuno specifica di che situazione si parla, di cosa si vorrebbe fare, per me è tutto indefinito nei contorni del non detto ma è evidente che la forma di espressione collettiva è normalizzata, sanno esattamente che cosa non stanno dicendo. È un aspetto che noi italiani facciamo fatica a comprendere perché la nostra cultura e il nostro modo di comunicare sono inquadrati in un contesto basso, in cui la gente tendenzialmente dice quello che pensa e come si sente, esprime emozioni e sentimenti in maniera diretta ed esplicita e l’ambiente in cui sono veicolati non ha particolare importanza.
I russi invece, nella stragrande maggioranza delle persone che incontro, non parlano, la loro cultura li porta a comunicare in un contesto alto, in cui il messaggio è implicito, il contenuto non è trasmesso dalle parole ma dal contesto.
Il silenzio assume quindi un valore espressivo elevato, trasmette tutto, in maniera eterogenea.
All’interno del non detto c’è paura, senso di colpa, vergogna, approvazione per l’operazione militare in corso e indifferenza.
Sono contento di essere a Mosca, di girare per le aziende e di incontrare persone.
Il fatto di avere legami e relazioni appiana le tensioni e allontana le preoccupazioni per il futuro.
Permette di spiegarsi e di capire le posizioni degli altri, anche se non dicono mai la parola “guerra”.

Se io penso che tu sei un mostro e tu sei convinto che il mostro sono io, il fatto di sedersi a un tavolo, guardarsi negli occhi, ascoltare la voce dell’altro, permette di vedere l’interlocutore come un nostro simile, di sanare, almeno in parte, la contraddizione di lavorare con un paese in guerra.
Non siamo in guerra.
Non io, non queste persone dall’altra parte del tavolo, uomini e donne con idee e ambizioni, che hanno un mutuo da pagare, un figlio da accompagnare a scuola e poi a basket, un parente ammalato da seguire.
Ogni tanto è anche possibile sfatare cliché fastidiosi proprio perché universali.

Lidja è la responsabile degli acquisti di una dei più grossi produttori di cucine in Russia, piccolina e col piglio energico e assolutista di chi è abituato a comandare e ad essere temuto dai sottoposti.
“Mi diceva il broker Estone che sono pieni di profughi ucraini. Girano tutti con dei macchinoni da soldi.” “Sono quelli che si possono permettere di lasciare il paese, una parte molto ristretta della popolazione.” avvicino il pollice all’indice per rendere l’idea.
“Cioè?”
“Gli uomini dai 18 ai 60 anni non possono uscire dall’Ucraina. All’inizio riuscivano a passare il confine pagando 1500 dollari alle guardie di frontiera ma adesso gliene chiedono anche 80.000… Non sono molti quelli che possono pagare quelle cifre, chiaro che non vanno in giro con la Zhigulì.”


Allarga la bocca e gli occhi, evidentemente colpita da questa rivelazione.
Alla fine dell’incontro mi stringe la mano con vigore, atto poco comune fuori dagli ambienti di lavoro, le donne non stringono mai la mano, al massimo porgono la punta delle dita.
Ha i lineamenti rilassati in un’espressione serena.
“Grazie per essere venuto qui da noi, in questo momento. Per noi significa molto che non ci abbiate abbandonato. Lei è stato molto coraggioso.”

Penso alla telefonata di Oleksandr, il cliente di Kiev, sfollato per un paio di mesi a Leopoli e ritornato nella capitale da qualche settimana.
Piego le spalle in avanti, arriccio le labbra in un sorriso imbarazzato.
“No guardi, il coraggio è un’altra cosa.”

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