venerdì, maggio 17, 2019

2Tone e ska



Articolo che ho scritto per IL MANIFESTO nell'inserto "Alias" del 4 maggio 2019.
Per gentile concessione.
Grazie a Francesco Adinolfi.


Quanta strada ha fatto lo ska, dalle oscure origini caraibiche alla testa delle classifiche “bianche” in Europa, Usa e non solo, fino a diventare uno stile, un'attitudine, condivisa da migliaia di giovani (e soprattutto “meno” giovani).

E dire che nel documentario “One Man's Madness” (http://tonyface.blogspot.com/2019/04/one-mans-madness-di-jeff-baynes.html) del regista Jeff Baynes, sulla vita del saxofonista dei Madness, Lee Thompson, membri della band di “One step beyond” ricordano come alla fine degli anni 70 fosse aperto il dibattito tra i musicisti inglesi se i bianchi potessero suonare o meno reggae e ska. Band come Clash, Police, Ruts, Slits e vari esponenti del punk e new wave lo avevano già dimostrato ma rimaneva una sorta di dubbio etico/artistico.

Ci pensarono gli Specials a dissiparlo, portando sui palchi, fin dal 1977, una miscela di ska e soul con l'energia e l'attitudine del punk, vestiti come perfetti mod, soprattutto affiancando musicisti bianchi e neri. Particolarità ormai scontata ai nostri giorni, molto meno ai tempi.
Se in Usa, dove le differenze razziali erano ben più marcate, gruppi come Booker T and the Mg's, Sly and the Family Stone, la band di Santana o l'orchestra di Ray Charles avevano membri di diverse razze, paradossalmente in Gran Bretagna era molto più raro.
Solo gli Equals e gli Hot Chocolate avevano sfidato certe regole non scritte mentre lo stesso punk era un fenomeno in larga prevalenza “bianco”.

L'immigrazione dalle West Indies dopo la seconda guerra mondiale, aveva portato parecchi ragazzi di colore in Inghilterra, affiancandosi alla comunità indiana e pakistana.
Ma dove questi ultimi erano rimasti impermeabili all'integrazione, spesso auto ghettizzandosi, sia culturalmente che socialmente, i centro americani, giamaicani in particolare (nazione indipendente dal Regno unito solo nel 1962), erano progressivamente entrati nel cuore della società britannica, grazie soprattutto alle nuove sottoculture giovanili.

I mod in particolare non avevano preclusioni razziali e anzi ammiravano (assimilandone spesso alcuni aspetti) l'estetica dei rude boy giamaicani, impeccabile e allo stesso tempo stradaiola.
E nemmeno disdegnavano, anzi, la loro musica, lo ska, che incominciò ad entrare nelle serate dei club frequentati dai giovani in parka, Vespa e Lambretta.
Basti ricordare che Georgie Fame and the Bue Flames, l'artista più seguito dai primi mod, in quanto interprete eccelso di rhythm and blues, inseriva brani ska nel suo repertorio (vedi “Humpty Dumpty” di Eric Monty Morris, cantante degli Skatalites, che appare nel suo mitico esordio del 1964 “Rhythm and blues at the Flamingo” insieme a “Madness” di Prince Buster), assumendo nella band anche musicisti giamaicani come Rico Rodriguez e Ernie Ranglin. Lo stesso Prince Buster ricordava che durante il suo primo tour in Inghilterra venne letteralmente scortato, città dopo città, da gruppi di mod in scooter, onde evitargli problemi di carattere razziale.

Il progressivo interesse per i ritmi in levare portò vari musicisti giamaicani in tour e indusse, nel 1968, la fondazione della mitica Trojan Records, etichetta fondamentale per la diffusione e produzione di musica reggae e ska in Inghilterra, colonna sonora alla fine dei 60 per il neo nato movimento skinhead.

La presenza di giovani di colore nelle sottoculture manteneva tra l'altro un certo equilibrio sociale nella working class inglese che non sempre vedeva di buon occhio la diversità della pelle e la presenza in loco di chi fino a qualche anno prima era stato membro di una colonia.
E che rivaleggiava con gli autoctoni in ambito lavorativo.
Una storia vecchia che ha continuato a ripetersi.

L’origine della musica ska viene fatta risalire agli anni successivi alla seconda guerra mondiale, quando in Giamaica i giovani incominciarono a sintonizzarsi sulle radio che trasmettevano da New Orleans, da dove le truppe americane di stanza nell’isola ascoltavano blues, il jive di Louis Jordan e Louis Prima, jazz e swing.
Personaggi come Prince Buster o Duke Reid formarono i primi sound system per fare ascoltare e ballare i rari dischi che arrivavano comunque in Giamaica. Successivamente i primi musicisti incominciarono a proporre delle cover di brani rhythm and blues filtrati attraverso ritmiche caraibiche, sostituendo così il Mento, la musica tradizionale più popolare allora nell’isola, molto simile al calypso.
I DJ’s (tra i più noti vengono ricordati nomi come Tom the Great Sebastian, V Rocket o Sir Coxsone Downbeat) viaggiavano da una città all’altra con le loro “Jamaican Mobile Disco”, suonando dischi di Ray Charles, Fats Domino, Duke Ellington, in feste che duravano spesso tutto il weekend.

Un suono e un genere che precedono l’evoluzione nei ritmi più lenti del rocksteady, che tra il 67 e il 68, a sua volta, diventa quello che conosciamo oggi come reggae.
Musicisti come Don Drummond, Ronald Alphonso, Bunny and Skitter, Rico Rodriguez, Skatalites, Derrick Morgan, Laurel Aitken, Desmond Dekker sono i primi protagonisti della musica ska all’inizio dei 60 (nel 1959 il singolo “Little Sheila” di Laurel Aitken aveva dato ufficialmente il via al nuovo sound), registrando nel mitico Studio One di Kingston, mentre nel 1964 “My boy lollipop” di Millie Small è il primo hit ska che arriva nelle classifiche di mezzo mondo.
Prince Buster piazzò nel 1964 il brano “Al Capone” nelle classifiche inglesi.
Il tutto grazie soprattutto alla BlueBeat Records (lo ska in Inghilterra era meglio conosciuto come BlueBeat), fondata nel 1960 per l’importazione di calypso e mento, che contribuì in maniera determinante alla diffusione del nuovo sound.
Prince Buster, Desmond Dekker, Laurel Aitken divennero icone mod e furono tra i pochi che suonarono nei club ai tempi.

Dopo i fasti degli anni 60 lo ska tornò a vivere in un ambito sotterraneo e fruito in un circuito di nicchia fino al 1979 quando lo ritroviamo in auge grazie alla sopracitata etichetta Two Tone, fondata dal tastierista degli Specials, Jerry Dammers, dedita di nuovo alla produzione di dischi ska e reggae. Il tutto in contemporanea alla rinascita della scena mod, sull'onda dell'uscita del film “Quadrophenia”.
Lo stesso logo dell'etichetta è programmatico, con un personaggio, Walt Jabsco, vestito in bianco e nero, ispirato da una vecchia foto di Peter Tosh ai tempi dei Wailers. Nella Two Tone transitarono i principali nomi dello ska, dagli Specials ai Madness, ai Selecter, ai Beat, le Bodysnatchers (band tutta al femminile), fino a Elvis Costello (anche se il singolo previsto non venne mai pubblicato).
Ricorda Suggs, voce dei Madness, che, dopo poco tempo che avevano scoperto e conosciuto gli Specials, un giorno Jerry Dammers gli chiese semplicemente: “Volete fare un disco? Uscirà per la mia etichetta, la Two Tone”.

La TwoTone rappresentò una visione identitaria, un senso di appartenenza ad una dimensione non del tutto definita e “regolata” (come potevano essere punk, mod o skinhead) ma, al contrario, il più possibile aperta, dove le tre sottoculture di cui sopra si fondevano, si arricchivano l'una con l'altra, acquisivano una connotazione politica ben precisa (dall'anti razzismo, al femminismo, ad una coscienza socialista e socializzante dove i testi, che raccontavano a cruda realtà inglese dei tempi, venivano cantati su brani da ballare nei club).

Da quell'esperienza partì un nuovo filone che guardava alla TwoTone, per svilupparsi poi in direzioni attigue, dagli scanzonati Bad Manners, agli Akrylikz (del futuro leader dei Fine Young Cannibals, Roland Gift), non dimenticando i Graduate di Roland Orzabal e Curt Smith con la loro “Elvis should play ska”, che diventarono poco tempo dopo l'anima creativa dei Tears for Fears o gli Equators che si accasarono nella Stiff Records con un classico Jamaica sound.
Ma anche nel giro mod non mancavano gli omaggi espliciti allo ska, dai Merton Parkas del futuro Style Council Mick Talbot, ai Lambrettas che trovarono il successo con una versione in levare del classico rhythm and blues dei Coasters “Poison Ivy”.
Perfino i Jam cedettero alle suggestioni ska nel demo del singolo “Strange town”, perse poi nella versione definitiva.

Da allora lo ska è rimasto costantemente nel substrato della cultura musicale, rispuntando regolarmente, il più delle volte fuso con mille altre influenze (vedi la scena ska-core o ska-punk in cui alle tipiche ritmiche in levare si sono mischiate sonorità dure, veloci e aggressive), ma producendo anche nuove generazioni di devoti a questo sound e gruppi che continuano a riproporne fedelmente lo spirito originario.

La scena generata dalla Two Tone Records rivive in questi giorni con una nuova visibilità.
Purtroppo con una nota tragica.
E’ recente la triste dipartita di Ranking Roger, leader di una delle due filiazioni dei Beat in attività (l’altra fa a capo al chitarrista Dave Wakeling, che opera con un repertorio simile negli Stati Uniti).
Incisero un solo singolo per l'etichetta di Jerry Dammers, una cover in levare di “Tears of a clown” di Smokey Robinson, prima di fondare a loro volta un'etichetta, la Go Feet e sfondare con il primo album e il celebre singolo “Mirror in the bathroom”.
Il suo testamento sonoro lo troviamo nel bellissimo nuovo album “Public confidential”, aiutato anche dal figlio e da Oscar Harrison degli Ocean Colour Scene, tra gli altri, in cui ritroviamo il classico groove originale degli 80, tra dub, ska, reggae, skank e varie contaminazioni.
Brani riuscitissimi, produzione eccellente, grande album.

Gli Specials hanno fatto ancora meglio con il nuovo “Encore” che sancisce il ritorno in formazione dello storico cantante Terry Hall (e l'inserimento di Steve Cradock, direttamente dalla band di Paul Weller).
Non manca qualche esplicito omaggio alle origini ma “Encore” è un viaggio più dettagliato e ampio nella black music, con vari brani in chiave reggae, dub, funk e soul.
Valga ad esempio la riuscita cover di un funk pulsante come l'introduttiva "Black skin blue eyed boys" degli Equals.
Testi profondi, a sfondo sociale e politico, combattivi e riflessivi, un eccellente album.
Nella versione deluxe anche un bellissimo live con una decina di classici del periodo ska.

Non possiamo dimenticare “Rude Boy. The story of Trojan Records” (http://tonyface.blogspot.com/2019/02/rude-boy-story-of-trojan-records.html ) di Nicolas Jack Davis che ripercorre la storia della madre della Two Tone, la mitica Trojan Records, con decine di testimonianze dei protagonisti e rare immagini d’epoca in una forma cinematografica con ricostruzioni azzeccatissime.

E infine, come accennato in apertura, i Madness invece li possiamo vedere in video, nel film “One man’s madness” (recentemente presentato da Luigi Bertaccini anche in Italia, a Roma e Cesena, con ampia affluenza di pubblico), dedicato alla vita del loro folle saxofonista Lee Thompson.
Che ci accompagna, con la solita ironia e il suo tipico sarcasmo, negli esordi della band e nel proseguio di carriera, tra aneddoti vari che ne testimoniano la spontaneità e l'amore per la musica.

Un film divertente e coinvolgente, con immagini d'epoca e ricostruzioni dettagliate del periodo TwoTone.

La fiamma in bianco e nero brucia ancora.

A questo proposito Lee Thompson ci ha gentilmente rilasciato una veloce intervista.

1) Come è nata l'idea del film?

Jeff Baynes mi ha contattato all'inizio del 2016. Appena ha spiegato il concetto di intervistare amici, parenti, industria musicale, membri della band, e poi mi ha chiesto di travestirmi, di imitarli, ho subito pensato ... 'Perché io?'.
Capiva che avevo delle capacità recitative, che avevo avuto un po più di una vita colorata! Sono stato d'accordo quasi subito.
Eravamo solo io e Jeff alla regia e, cosa più importante, nessuno ci spingeva con delle scadenze, nessun contratto, il che rendeva la cosa ancora più attraente.

2) Come sei entrato in contatto con la musica ska?

Il mio primo incontro con la musica giamaicana è stato con la mia minuscola radio a transistor. La portavo religiosamente sempre con me.
Potevi sintonizzarti su alcune stazioni radio lontane come "Luxemburg 208". che ti ha dava le classifiche la domenica invece che, come Radio 1, il martedì dopo.
Ah la tecnologia allora era così semplice.
Ascoltai il meglio del reggae come “Israelites” di Desmond Decker, “Return of Django” degli Upstetters di Lee Perry o “Young, Gifted & Black” di Bob & Marcia.
Ho iniziato subito a collezionare singoli (gli album sono arrivati??qualche anno dopo, troppo cari a 2 euro !!).
Il mio interesse per la musica ska è venuto ancora un po' dopo, insieme al rocksteady, mentre approfondivo la storia del reggae.
In particolare, c'era Prince Buster e il suo approccio umoristico (a volte sciovinistico), tipo “10 Commandments”.
Coxtone Dodd .... la musica ska era molto difficile da trovare.
Avevo l'abitudine di viaggiare nelle zone di Londra con grandi comunità nere come Acton Willesden e Brixton per soddisfare la mia dipendenza da questa musica. Mi sono imbattuto in un negozio a Upper Street a Islington, a nord di Londra, che aveva una cantina piena di 45 che erano stati buttati via.
Quando avevo un po' di denaro era un paradiso.
Si dice che ci sia un cimitero di molti dischi della Trojan, migliaia, che sono stati seppelliti, ma non prima di essere sfasciati a colpi di martello, vicino a St Alban's nell'Hertfordshire.
Era per evitare di pagarci le tasse.
Vergognoso.

3) Come era la reazione del pubblico ai primi concerti ska di gruppi come Madness e della TwoTone?

Ska e reggae venivano suonati spesso nei club di Londra dai Dj, prima che le punk band salissero sul palco.
Oltre ad alcuni brani glam non c'era molto altro compatibile con il movimento punk per riscaldare il pubblico.
Dopo il punk molti gruppi svanirono o saltarono nella nuova tendenza New Romantic, i Madness optarono per le influenze rock punk / pub di Kilburn & the High Road di Ian Dury, Elvis Costello, Dr. Feelgood e The Sensational Alex Harvey Band. Ma aggiunsero reggae e pop e fu un successo.
Gli Specials stavano suonando e vestendosi un po' come noi, facendo quello che io e Chrissy Boy stavamo cercando di fare, perché in realtà non sapevamo ancora suonare molto bene.
Sono venuti a Londra e Jerry Damners si stabilì a casa di Suggs, parlandogli del desiderio di creare un'etichetta discografica con la quale i ragazzi “Black&White” potessero godersi una musica per tutti.
Il resto è storia.

4) Secondo me " "(The liberty of) Norton Folgate"" è il miglior album dei Madness e uno dei miei preferiti del nuovo millennio.

E' stata un'esperienza gioiosa e indimenticabile dall'inizio alla fine.
Tutti nella band avevano una direzione precisa su come doveva essere.
E abbiamo raggiunto l' obiettivo. In particolare con la title track.
L'album è stato prodotto brillantemente da Clive Langer.
Grande periodo.

5) In "One man's madness" mi hai ricordato tanto Keith Moon.

Sono un grande fan di 'Moon the Loon'. Se non fossi stato un sassofonista, sarei stato uno spericolato batterista ispirato da personaggi del suo calibro anche se non credo che sarei qui ora per raccontarne la storia.
Condividiamo le caratteristiche l'uno dell'altro.
Ho letto la sua autobiografia: “My Dear Boy” e ho incontrato l'autore Anthony Fletcher in un night club newyorkese.
Ha detto che è rimasto sorpreso dal fatto che Keith Moon sia durato così tanto!

1 commento:

  1. Che bell'articolo Boss!
    Mi piacerebbe avere 13 anni, non saperne niente, leggerlo e buttarmi a capofitto alla ricerca della musica,delle band, dei vestiti!
    Un po' come mi è capitato davvero 40 anni fa leggendo quei meravigliosi articoli su POPSTER!
    KTF
    C

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