A quasi metà dell'anno l'elenco di ottime uscite da segnalare si allunga ancora di più.
Dall'estero Libertines, Prisoners, Bella Brown and the Jealous Lovers, Judith Hill, Les Amazones d'Afrique, Mdou Moctar, Paul Weller, Liam Gallagher & John Squire, Mooon, Black Crowes,, Dandy Warhols, Michelle David & True Tones, Big Boss Man, The Wreckery, Yard Act, Kula Shaker, Kim Gordon, Kamasi Washington, Real Estate, Lemon Twigs, Bad Nerves, Tibbs, Idles, New Mastersounds, Mo Troper, Galileo 7 e Popincourt.
Tra gli italiani A Toys orchestra, Tre Allegri Ragazzi Morti, Rudy Bolo, Cesare Basile, La Crus, The Devils, Enri Zavalloni, Any Other, Smalltown Tigers, Paolo Zangara, Pier Adduce e Paolo Benvegnù, Zolle.
PAUL WELLER - 66
Paul Weller festeggia il 66° compleanno con il titolo omonimo per il 17° album solista.
La consueta, doverosa, premessa è che non ha nulla da dimostrare, la sua carriera quasi cinquantennale, solista inclusa, parla chiaramente.
Può dare sfogo alle sue esigenze creative senza dover compiacere critici, fan o chiunque altro.
L'album parte fortissimo con l'intensa ballata quasi jazzata "Ship of fools" in coppia con Suggs, molto "british" e Kinks e prosegue con il brano forse più complesso (e tra i migliori), "Flying fish", che mischia ritmiche quasi disco con una progressione che ci tuffa in un groove più rock, il tutto corredato da ampio uso di effetti elettronici.
"Jumble Queen", già proposto dal vivo, è composto con Noel Gallagher (presente anche nel brano), un poderoso soul rock con tanto di fiati e potente riff chitarristico.
Ballata nel consueto stile Welleriano, "Nothing" è abbastanza anonima.
Più definito il bluesaggiante e malinconico "My best friend's coat".
"Rise up singing" è puro Style Council, con un'orchestrazione sontuosa e toni gospel, non male.
Archi a profusione e impostazione acustica anche nelle successive "I woke up" e "Gimpse of you", sontuosa e quasi da colonna sonora cinematografica di un film anni Cinquanta.
Un po' jazzy e sbarazzina "Sleepy Hollow" con solo di vibrafono ad addolcire il tutto. Carina.
"In full flight" è un'altra ballata, molto lenta, che ci lascia in un clima molto rilassato e un tantino sonnolento.
"Soul wandering" torna, per fortuna, ad alzare i ritmi con l'apporto di Bobbie Gillespie, un buon soul funk dalla chitarra energica e atmosfere gospel con sezione fiati.
Uno degli episodi più interessanti.
La conclusione dall'incedere epico e solenne di "Burn out" ci consegna quasi ai Pink Floyd anni 70.
In definitiva Weller confeziona un altro buon album ma, a parere personale, senza lode né infamia, a tratti particolarmente anonimo e poco ispirato, soprattutto al confronto con i momenti più riusciti.
La qualità compositiva del Nostro è conosciuta e non è certo in discussione ma, a malincuore, "66" non rientrerà nelle sue migliori opere soliste.
THE PRISONERS - Morning star
A trent'anni dall'ultimo album torna una band seminale, per quanto oscura e immeritatamente trascurata, autrice di quattro fenomenali album e di una carriera fulminea quanto lucente ed esplosiva. Furono precursori del Britpop con un sound che mischiava Small Faces, garage, beat, psichedelia, con l'energia del pub rock e del punk. La carriera successiva allo scioglimento ci ha dato grandi soddisfazioni con James Taylor Quartet, Solarflares, Prime Movers, Gaolers, Galileo 7. L'inaspettata reunion ci riconferma, con gli stessi favolosi ingredienti, una band ancora fresca, pulsante, creativa, con quattordici brani nuovi, semplicemente eccezionali.
JUDITH HILL - Letters From A Black Widow
Una storia tremenda quella a cui fa riferimento il titolo. Judith Hill è stata a lungo definita "Black widow" a causa delle sue collaborazioni con Michael Jackson e Prince poco prima che morissero, facendo partire una campagna diffamatoria e infamante, rinfocolate dagli hater da social. Il suo curriculum è ricchissimo di backing vocals per varie star della musica, da Rod Stewart a Robbie Williams, John Legend, Dave Stewart. Il nuovo, quinto, album è un capolavoro in cui troviamo soul, funk, blues, gospel, jazz, sperimentazione, rock, elettronica, hip hop, con la sua voce spettacolare a tenere le fila. A tratti ricorda Macy Gray o Erikah Badu, a volte Prince e altre Sly and the Family Stone o perfino Aretha Franklin ma la personalità e l'ecletticità che sprigionano l'album sono uniche e originalissime.
THE LEMON TWIGS - A dream is all we know
Nei precedenti quattro album i fratelli new yorkesi D'Addario ci hanno abituati (più che bene) alla loro personale rilettura degli anni Sessanta e Settanta (questi ultimi intesi come glam, power pop, bubblegum music ma anche XTC, Elvis Costello e Squeeze) meno scontati e prevedibili, attraverso canzoni semplicemente deliziose. Nel nuovo lavoro in In the eyes of the girl (romantica ballata tra Beach Boys e Paul McCartney, entrambi riferimenti spesso ricorrenti nell'album) hanno anche un briciolo di Beatles con Sean Ono Lennon al basso e alla produzione. A questo proposito ci sono momenti in cui, vedi la title track, è difficile non pensare a un'outtake di un album degli Wings mentre nella conclusiva Rock on (over and over) ci ritroviamo in mezzo a un'impossibile jam session tra Marc Bolan, Brian Wilson e i primi Beatles. Ancora una volta un lavoro di pregevole fattura, divertente, per un progetto sempre più personale e convincente.
BAD NERVES - Still Nervous
Chitarre distorte, ritmi infuocati, Ramones, punk rock, powerpop, beat, rock 'n' roll. La band inglese, al secondo album, ha un approccio urgente, spontaneo, teen. Ricordano spesso i Supergrass e gli Strokes, brani sui due minuti, anche meno. Freschi, giovani, travolgenti. Un gran bel disco.
THE WRECKERY - Fake is forever
Eccellente band della scena australiana degli anni 80, dal talento purtroppo inespresso, sciolti troppo presto. Guidati da Hugo Race (ex Bad Seeds e tanto altro) tornano dopo 35 anni con un bellissimo album di blues dalle tinte oscure, con una buona miscela di soul, rock 'n' roll e funk, tanto groove e canzoni di grande spessore. Album con i fiocchi, moderno e godibilissimo.
MDOU MOCTAR - Funeral for justice
La musica di Mdou Moctar, contaminata da tradizione Nigerina e da un rock psichedelico di gusto Hendrixiano, ha da tempo fatto il giro del mondo. Il nuovo album è un inno alla giustizia per il suo martoriato paese, vittima di un recente colpo di stato, e per il suo popolo, i Tuareg. Anche per questo l'approccio è più aggressivo, urgente (il disco è stato registrato in soli cinque giorni a New York) duro, quasi violento. Il sound, sempre potentissimo, è a tratti quasi isterico e abrasivo. Come sempre a livelli di eccellenza.
KAMASI WASHINGTON - Fearless Movement
Dopo alcune prove incerte e alternanti torna con un album all'altezza della sua fama.
"Fearless Movement" è magniloquente e prolisso (un'ora e mezza di musica) ma godibilissimo nell'esplorazione di mille anime della musica, sapientemente mischiate al jazz più tradizionale.
Ci sono blues, funk, spiritual jazz, hip hop, latin, gospel e tanto altro.
Al suo fianco George Clinton, Thundercat (che fa faville al basso nel funk fusion jazz "Asha the first"), André 3000 e altri collaboratori di livello eccelso.
L'ascolto richiede predisposizione, attenzione e pazienza ma il risultato lascerà sicuramente soddisfatti.
SHELLAC - To the trains
E' un ascolto amaro, dopo la recente scomparsa di Steve Albini. Gli Shellac confermano, in questo triste commiato, la loro caratura, come sempre all'insegna di uno scarno, aggressivo, scheletrico, minimale, postrock punk dalle trame ancora sorprendenti, rabbiose, sfacciate. L'ultimo capitolo di una storia importante.
THE SHENANYGANS - On Monte Verita
Arrivano da Soletta nel nord della Svizzera e suonano un delizioso ed elegante folk beat di chiara derivazione 60's, con un po' di Lovin Spoonful, primi Jefferson Airplane, Buffalo Springfield, un tocco garage qua e là, melodie Beatles/Beach Boys, un osguardo a cose più receneti come Real Estate e GospelBeach. Bravisismi.
THE BASEMENTS - Sounds of yesterday
L'album è uscito a dicembre scorso ma me ne sono accorto ora del loro splendido nuovo album.
Arrivano da Salonicco, firmano il terzo disco e ci riportano dritti nel 1966, tra jingle jangle sound e folk rock, con un piglio garage punk e tanta energia.
Suoni e riferimenti oscuri, scovati (e scavati) con estrema competenza.
Ammalianti.
SAIGON SOUL REVIVAL - Moi Lu'ong Duyen
Affascinante band arriva dal Vietnam. Melodie autoctone in lingua locale avvolte da un groove soul funk, suonato con la giusta attitudine e occasionali, gustosissime escursioni in ritmi in levare di estrazione ska. Non è solo una curiosità esotica ma una band con i fiocchi e una grande voce femminile.
TY SEGALL - Three bells
Quindicesimo album e la consueta inafferrabile creatività e l'indefinito spostarsi da un mood all'altro, tra Captain Beefheart, ruvida psichedelia, folk "storto", Jack White, tentazioni prog, rock beat, blues e tanto altro. Non sempre il tutto è a fuoco, con tanti alti e bassi ma la qualità è più dignitosa.
SLASH - Orgy of the damned
Difficilmente avrei pensato di accostarmi a un album di Slash. La sorpresa è stata invece molto piacevole. Il nostro si diverte con blues, funk (molto bella la versione di "Papa was a rolling stone" con Demi Lovato), soul, rhythm and blues, tirandone fuori momenti di assoluta eccellenza e godibilità. Anche i temuti soli non indulgono mai troppo nei cliché hard rock e il disco si ascolta con molto piacere. In particolare anche con "The pusher" (con Chris Robinson dei Black Crowes magistrale alla voce), "Living in the city" di Stevie Wonder, una super funk "Killing floor" con Brian Johnston a voce e Steve Tyler all'armonica. Provare per credere.
CESARE BASILE – Saracena
Non scopriamo ora che Cesare Basile è senza alcun dubbio tra i migliori interpreti di una canzone d’autore personale e originale, in cui è ricorrente la miscela tra tradizione e sperimentazione. Il nuovo album, come da tempo cantato in siciliano, attinge dalle sue radici e da umori “africani” ma mischia il tutto con elettronica e avanguardia, osando, senza porsi limiti, spesso immerso in raga ipnotici, dai suoni ancestrali, in cui subentrano “disturbi” elettronici, parole, suoni, rumori. I testi nascono dall’urgenza di una contingenza, non più emergenza, ormai acclarata, come l’esodo in corso in buona parte del mondo, verso la speranza di una vita migliore (o se non altro non peggiore). Come sempre uno dei rari casi in cui ci troviamo di fronte a un disco punk senza che di quel suono ci sia nulla. Un pregio unico.
DINING ROOMS – Songs To Make Love To
Decimo album per il duo composto da Stefano Ghittoni e Cesare Malfatti che prosegue la sua esplorazione sonora e nell’animo umano. Qui si parla dell’amore, dalla sua costruzione, alle dinamiche delle relazioni, senza vincoli e fuori dal concetto di possesso. Lo stile è ormai acclarato e da lungo tempo riconoscibile, con groove ritmici mid tempo, ondeggianti, insinuanti, un uso sapiente di elettronica e suoni ambientali (in questo caso con registrazioni dai Carruggi genovesi, della Darsena milanese, dei quartieri spagnoli di Napoli e di città come Istanbul e San Paolo). Ospiti vocali valorizzano una serie di brani (in particolare Chiara Castello in “Stone (My heart)” rende la canzone una sorta di versione modernizzata dei Velvet Underground feat. Nico), mentre la perfetta padronanza della materia e una creatività sempre di alto livello, portano anche questo album ai consueti livelli di eccellenza.
BLACK SNAKE MOAN - Lost in time
Marco Contestabile torna con il suo affascinante progetto dal nome intrigante e misterioso, Black Snake Moan. Nove brani in cui abbraccia folk psichedelico di sapore anni Sessanta, trame care alla California musicale più oscura di quel periodo (con rimandi espliciti ai Doors ma con un approccio "malato" non distante dai primi Velvet Underground), blues, umori "desertici", raga-rock. Un viaggio personale, raro da ascoltare ai giorni nostri, arrangiato, prodotto e composto con totale competenza della materia trattata. Un vero e proprio gioiello.
THREE SECOND KISS - From fire I save the flame
Torna dopo dodici anni di silenzio discografico una delle band più interessanti e influenti dell'alternative rock italiano. Il trio (dapprima) bolognese, ora di stanza a Catania, firma il settimo album della carriera, affidando la produzione a Don Zientara (già alle spalle di Fugazi, Minor Threat, Shudder To Think e altre ruvide delizie targate Dischord Records). Gli undici brani guardano a Fugazi e Shellac del compianto Steve Albini che di loro curò due album, con trame complesse, scarne, acide e ostiche che incrociano costantemente un'attitudine punk e uno sguardo compositivo progressivo, aperto, senza confini o reticolati artistici. Come sempre materiale di alta qualità.
CLAUDIO CORONA - Imagination Unlimited
Si viaggia di Hammond a tutt ospiano nel debutto del tastierista di casa a Londra. Funk, jazz, soul, rock, atmosfere cinematografiche di isprazione 70's. Il tutto suonato in maniera eccellente, con grande classe e stile. Ottimo!!
ZOLLE - Rosa
Stefano (batteria) e Marcello (chitarra e voce) provengono da MoRkObOt, Viscera/// e Klown e suonano insieme da ormai trent'anni. La nuova esperienza è semplicemente geniale nel mettere insieme un sound granitico, rigorosamente strumentale (a parte occasionali cori con melodie paradossalmente spesso "celestiali" che infondono ironia e sarcasmo al tutto) che guarda ai riff e ai suoni di Metallica, Van Halen e Ac/Dc, flirta con i Motorspycho, travolge per potenza ed efficacia. Originali e irresistibili.
SHARP CLASS - Ordinary people / Catch my breath
Torna la mod band inglese con un singolo che ne conferma le grandi qualità stilistiche e compositive. Beat rock chitarristico che riporta ai The Moment e ai Jam 1978/79. Giovanissimi, talento, urgenza, attitudine. Da seguire!!!
ASCOLTATO ANCHE
LENNY KRAVITZ (ormai navigata superstar sfodera un ottimo album con soul, funk, pop, lasciando da parte i lrock tamarro), BETH GIBBONS (un lkavoro molto oscuro, riflessivo, introverso. Troppo), ALEX HARRIS (soul e R&B ballads di buona qualità cover di Otis e Solomon, buono), RICK ESTRIN & the NIGHTCATS (buon rhythma and blues, rock 'n' roll e blues), SUN ATLAS (funk psichedelico, jazz, ethiojazz strumentale. Ascolto interessante), JAZZ DEFENDERS (funk e jazz, un'incursione nell'hip hop, buono), OLUMA (la band tedesca ci delizia con un ottimo mix di atmosfere brasiliane e afrobeat), CRUMB (dream pop di gusto psichedelico, accattivante), JESSICA PRATT (atmosfere semi acustiche ammalianti, soffici, di sapore 60's, bossa nova. Relax).
LETTO
Stefano Scrima - Filosofia del walkman
Un breve (quanto colto, approfondito e illuminante) saggio su come l'introduzione (rivoluzionaria) del walkman negli anni Ottanta sia stato il simbolo del passaggio da un concetto di fruizione musicale (culturale e sociale) condivisa e collettiva a una modalità individualistica e consumistica.
"La "non disponibilità verso l'altro testimonia una mancanza di interesse per la collettività, per le sorti della società, per la politica, per la musica come qualcosa che no nsia solo moda-piacere-divertimento-consumo a favore di quella che abbiamo chiamato "fuga nel privato" in cui a contare di più è la nostra libertà, tuttavia non libera di scegliere, di competere e consumare nel mercato globale in cui la responsabilità delle nostre esiste è interamente demandata a noi, nonostante tutto."
Scrima fa un'analisi socio politica più che efficace di un momento epocale di cui viviamo le nefaste conseguenze e di cui il walkman diventa inconsapevole e incolpevole simbolo e simulacro.
"La società neoliberista che Regno Unito e Usa stavano preparando era la società degli individui e della libertà come ideologia, quella in cui è necessario primeggiare, distinguersi, vincere e farlo attraverso la propria unicità."
Il walkman arriva nel momento in cui il Rock viene musealizzato, depotenziato, normalizzato e perde tutta la sua capacità "eversiva" (ultimi scampoli arrivati, in tal senso, dal punk).
"Il rock istituzionalizzato degli anni Ottanta, consapevole di non avere più nessuna possibilità di cambiare il mondo e avendo dalla sua parte il solo potere dell'intrattenimento, si unì per vendere la sua performance in cambio di atti di beneficenza, cosa che funzionò molto bene.
Il controllo che mettiamo in atto estraniandoci dal mondo uditivo "naturale" non permette solo di reinterprtare a nostro piacere l'ambiente, ma anche e soprattutto di avere più potere su di noi, sui nostri pensieri e sul nostro umore."
Testo più che consigliato, incisivo, minimale, tanto quanto preciso, informato e informativo.
Donato Zoppo - CSI. E' stato un tempo il mondo
Donato Zoppo racconta una delle vicende più intriganti della musica rock italiana, in una modalità , come sottolinea Federico Guglielmi nella prefazione, di "romanzo quasi epico".
L'esordio del Consorzio Suonatori Indipendenti - CSI, l'album "Ko de Mondo" del 1994, sviscerato in tutte le sue particolarità, dalla formazione del gruppo alla realizzazione durate un mese e mezzo in Bretagna.
Il tutto corroborato da interviste esclusive e inedite ai protagonisti Giovanni Lindo Ferretti, Massimo Zamboni, Gianni Maroccolo, Francesco Magnelli, Giorgio Canali, Ginevra Di Marco, Alessandro Gerbi, Pino Gulli ma anche il discografico Stefano Senardi, Finaz della Bandabardò, Enrico De Angelis, Guido Harari e tanti altri.
Sono gli anni Novanta in cui il "nuovo rock italiano" da carbonaro diventa adulto e maturo, si prende le classifiche (Litfiba e CSI conquisteranno i primi posti), nel momento in cui menti illuminate, Stefano Senardi su tutti, tra i principali protagonisti della vicenda raccontata, ne intuiscono la potenzialità, lasciando libertà artistica, senza intrusioni, a nomi come CSI, Ritmo Tribale, Casino Royale, Mau Mau, Subsonica, Statuto, Negrita, tra i tanti.
Sarà una stagione breve, densa di perle e piccoli capolavori.
In questo libro si respira tutta l'atmosfera di quei momenti e di quegli anni, con abbondanza di dettagli, aneddoti, particolari inediti.
Jason Quinn / Lalit Kumar Sharma - The Beatles: All Our Yesterdays
Uscita nel 2017, in India, è una gradevolissima graphic novel dalla nascita dei BEATLES fino all'esordio discografico di "Love me do".
Date precise, particolari curati e circostanziati, storia ben sviluppata, un libro molto carino che non dovrebbe mancare nella biblioteca dei Beatles fan più accaniti.
COSE VARIE
° Ogni giorno mie recensioni italiane su www.radiocoop.it (per cui curo ogni settimana un TG video musicale - vedi pagina FB https://www.facebook.com/RadiocoopTV/).
° Ogni domenica "La musica ribelle", una pagina sul quotidiano "Libertà"
° Ogni mese varie su CLASSIC ROCK.
° Ogni sabato un video con aggiornamenti musicali sul portale https://www.facebook.com/goodmorninggenova
° Sulle riviste/zines "GIMME DANGER" e "GARAGELAND"
° Periodicamente su "Il Manifesto" e "Vinile".
IN CANTIERE
Venerdì 28 giugno.
"Quadrophenia" al Festival Beat, Salsomaggiore (Parma). Ore 18.30.
Domenica 30 giugno.
"Quadrophenia" a PASSAGGI FESTIVAL alle ore 18.30, nella rassegna Fuori Passaggi a Bagni Elsa, lungomare di Fano (Pesaro e Urbino) , a Fosso Sejore.
venerdì, maggio 31, 2024
Maggio 2024. Il meglio del mese
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Il meglio del mese
giovedì, maggio 30, 2024
Jimmy James and the Vagabonds
Ogni mese la rubrica GET BACK ripropone alcuni dischi persi nel tempo e meritevoli di una riscoperta.
Le altre riscoperte sono qui: http://tonyface.blogspot.it/search/label/Get%20Back
Speciale JIMMY JAMES & THE VAGABONDS
La recente scomparsa del grande JIMMY JAMES necessita di un ricordo approfondito.
"Ho prodotto un album di JIMMY JAMES AND THE VAGABONDS che era la vera MOD BAND purista, che suonava rhythm and blues con sezione fiati, batteria e organo.
Ho fatto da loro manager per tre anni e mezzo e Jimmy James aveva la migliore voce che c'era in giro e che io abbia mai sentito.
Era la musica più pura per quanto riguardava il giro Mod.
Prima degli Who non c'era nessuno che suonasse musica mod."
(Peter Meaden, primo manger degli Who / High Numbers)
Michael "Jimmy" James è nato il 13 settembre 1940 in Giamaica, leader di Jimmy James and the Vagabonds dalla metà degli anni '60
Dopo aver registrato a Kingston con Coxsone Dodd, Clancy Eccles e Lyndon Pottinger forma i Vagabonds nel 1960 e nell'aprile 1964 si trasferisce nel Regno Unito dove registra "Ska-Time" (versione ska di "Watermelon Man") come Jamaica's Own Vagabonds uno dei primi esempi di musica ska giamaicana ad essere registrato nel Regno Unito.
Incontra il manager Peter Meaden nel 1965 e come Jimmy James and the Vagabonds supporta gli Who e Rod Stewart con gli Steampacket, al Marquee Club di Londra, diventando una delle band più seguite dai mod londinesi (con George Fame and the Blue Flames).
Suona anche insieme alla Jimi Hendrix Experience e si crea un forte seguito in Inghilterra.
Pubblicano il loro album in studio più noto, "The New Religion" nel 1966.
Successivamente ha proseguito con altri ottimi lavori di rhythm and blues (molto bello il live al Marquee condiviso con l'Alan Bown Set del 1966) e negli anni 70 con una formazione completamente diversa si è rivolto ad atmosfere più funk.
"The Other Side of the Street" è entrato nel repertorio Northern Soul.
Ha continuato a suonare in Inghilterra con l'ex frontman dei Foundations, Clem Curtis a cui successivamente si unì il cantante dei Flirtations Earnestine Pearce.
The New Religion (1966)
Il perfetto album rhythm and blues, pieno di ritmo, groove, sudore, blackness, sapori Motown.
Open up your soul (1968)
Poderoso album di soul e rhythm and blues, con arrangiamnenti accurati e raffinati. bella la versione souleggiante di "Red wine" di Neil Diamond (poi ripresa dagli UB40 in chiave reggae) e la versione soul blues di "Good day sunshine" dei Beatles.
You Don't Stand a Chance If You Can't Dance (1975)
Now (1976)
Life (1977)
Un eccellente album funk in pieno stile James Brown, il primo mentre con "Now" si devia decisamente verso un' apprezzabile soul disco ben suonata e mai troppo spudoratamente commerciale. "Life" è invece più marcatamente disco oriented.
Le altre riscoperte sono qui: http://tonyface.blogspot.it/search/label/Get%20Back
Speciale JIMMY JAMES & THE VAGABONDS
La recente scomparsa del grande JIMMY JAMES necessita di un ricordo approfondito.
"Ho prodotto un album di JIMMY JAMES AND THE VAGABONDS che era la vera MOD BAND purista, che suonava rhythm and blues con sezione fiati, batteria e organo.
Ho fatto da loro manager per tre anni e mezzo e Jimmy James aveva la migliore voce che c'era in giro e che io abbia mai sentito.
Era la musica più pura per quanto riguardava il giro Mod.
Prima degli Who non c'era nessuno che suonasse musica mod."
(Peter Meaden, primo manger degli Who / High Numbers)
Michael "Jimmy" James è nato il 13 settembre 1940 in Giamaica, leader di Jimmy James and the Vagabonds dalla metà degli anni '60
Dopo aver registrato a Kingston con Coxsone Dodd, Clancy Eccles e Lyndon Pottinger forma i Vagabonds nel 1960 e nell'aprile 1964 si trasferisce nel Regno Unito dove registra "Ska-Time" (versione ska di "Watermelon Man") come Jamaica's Own Vagabonds uno dei primi esempi di musica ska giamaicana ad essere registrato nel Regno Unito.
Incontra il manager Peter Meaden nel 1965 e come Jimmy James and the Vagabonds supporta gli Who e Rod Stewart con gli Steampacket, al Marquee Club di Londra, diventando una delle band più seguite dai mod londinesi (con George Fame and the Blue Flames).
Suona anche insieme alla Jimi Hendrix Experience e si crea un forte seguito in Inghilterra.
Pubblicano il loro album in studio più noto, "The New Religion" nel 1966.
Successivamente ha proseguito con altri ottimi lavori di rhythm and blues (molto bello il live al Marquee condiviso con l'Alan Bown Set del 1966) e negli anni 70 con una formazione completamente diversa si è rivolto ad atmosfere più funk.
"The Other Side of the Street" è entrato nel repertorio Northern Soul.
Ha continuato a suonare in Inghilterra con l'ex frontman dei Foundations, Clem Curtis a cui successivamente si unì il cantante dei Flirtations Earnestine Pearce.
The New Religion (1966)
Il perfetto album rhythm and blues, pieno di ritmo, groove, sudore, blackness, sapori Motown.
Open up your soul (1968)
Poderoso album di soul e rhythm and blues, con arrangiamnenti accurati e raffinati. bella la versione souleggiante di "Red wine" di Neil Diamond (poi ripresa dagli UB40 in chiave reggae) e la versione soul blues di "Good day sunshine" dei Beatles.
You Don't Stand a Chance If You Can't Dance (1975)
Now (1976)
Life (1977)
Un eccellente album funk in pieno stile James Brown, il primo mentre con "Now" si devia decisamente verso un' apprezzabile soul disco ben suonata e mai troppo spudoratamente commerciale. "Life" è invece più marcatamente disco oriented.
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mercoledì, maggio 29, 2024
Campionati di calcio 2023 / 2024
Uno sguardo a cosa è successo nei vari campionati di calcio in giro per l'Europa e non solo.
In Italia ha stravinto l'Inter, facendo il vuoto, contro squadre di livello davvero mediocre.
Il Napoli campione sparisce nelle retrovie, bellissima la prestazione del Bologna (che approfitta del livello del campionato), sempre solida l'Atalanta (che si porta a casa un trofeo di quelli che contano), contro ogni aspettativa si salva il "mio" Cagliari (grazie soprattutto a Mister Ranieri).
Come ogni anno è sempre più evidente che 20 squadre sono troppe.
In Spagna domina il Real Madrid, staccando per bene il Barcellona e la sorpresa Girona poi l'Atletico Madrid.
Solito PSG in Francia (e sempre al solito a bocca asciutta in Europa) con l'inaspettato Brest al terzo posto.
L'imbattibile Leverkusen stacca tutti in Germania, Bayern dietro anche allo Stoccarda.
Risale in Bundesliga il St.Pauli, olè!
In Premier il City di un soffio sull'Arsenal. Torna grande l'Aston Villa. Risalgono in massima serie il Leicester e un nome "classico" come l'Ispwich Town.
Il Celtic porta a casa il 54° titolo scozzese davanti ai Rangers. Quinto titolo consecutivo per gli Shamrock Rovers in Irlanda, in Irlanda del Nord il Larne bissa il successo dello scorso anno e mette in bacheca il secondo titolo della sua storia.
Al Vikingur lo scudetto delle Far Oer.
La Cimru League gallese ancora una volta ai New Saints.
Lo Sporting Lisbona si prende il campionato portoghese lasciando lontani Benfica e Porto.
Young Boys campioni di Svizzera davanti al Lugano, Sturm Graz in Austria, al Vaduz la Coppa del Lichtenstein.
Secondo titolo consecutivo per l' Ħamrun Spartans a Malta, allenato dall'ex Lazio, Atalanta, Samp, Fiorentina e 5 presenze in Nazionale, Luciano Zauri. A Malta allena anche Mauro Camoranesi, nel Floriana. L'Apoel vince a Cipro.
Il Tre Penne batte 3-2 ai supplementari il Murata e vince il Campionato di San Marino mentre l'UE Santa Colonna è per la prima volta Campione d'Andorra.
Al Differdange03 il titolo in Lussemburgo. La squadra è nata dalla fusione dei Red Boys (storica squadra locale) con il Differdange.
I Red Boys nella Coppa UEFA 1984-1985 fermarono all'andata sullo 0-0 l'Ajax (ma furono poi sconfitti per 14-0 in trasferta).
Al Bruges lo scudetto belga, al PSV quello olandese davanti a Feyenoord e Twente, solo quinto l'Ajax.
Salendo in Scandinavia, torna a vincere il Midtjylland davanti al Brondby in Danimarca, quarto titolo in cinque anni per il Bodo/Glimt in Norvegia, ventiquattresimo per il Malmoe in Svezia (record assoluto), trentaquattresimo, quarto consecutivo per l'HJK in Finlandia.
All'Olimpia Lubiana il campionato sloveno, alla Dinamo Zagabria davanti al Rjieka quello croato, al Borac Banja Luka quello bosniaco, 18 punti della Stella Rossa al Partizan in quello serbo.
Per la prima volta campione il Decic in Montenegro, secondo titolo (consecutivo) in assoluto per lo Struga in Macedonia.
L'Egnatia vince in Albania, il Ballkani in Kosovo.
Il PAOK vince di un punto sull'AEK in Grecia, 24° titolo per il Galatasaray sul Fenerbache in Turchia.
Il Ludogorec stacca di parecchio il CSKA Sofia in Bulgaria, vola lo Steaua Bucarest in Romania mentre in Moldavia il Petrocub Hîncești ha vinto il suo primo titolo, interrompendo la striscia di otto consecutivi dello Sheriff Tiraspol.
Dominano il Fecrencvaros in Ungheria e lo Slovan Bratislava in Slovacchia, lo Sparta Praga precede di poco lo Slavia Praga in Repubblica Ceca.
Lo Jagiellonia di Białystok vince per la prima volta lo scudetto polacco, alla sua 98° edizione.
In Lituania titolo al Panevėžys, RFS Riga in Lettonia, Levadia Tallin in Estonia, Vikingur in Islanda.
Nonostante tutto si gioca anche il campionato Ucraino e lo scudetto è andato allo Shaktar.
Anche in Bielorussia (Dinamo Minsk) e Russia dove ha vinto lo Zenit San Pietroburgo davanti al Krasnodar.
Al P'yownik Fowtbolayin Akowmb il campionato armeno, dominio assoluto del Qarabag in Azerbaigian.
L'Al Halil di Neymar ha vinto il ridicolo campionato dell'Arabia Saudita ma per fortuna non interessa a nessuno.
L'Estudiantes La plata vince in Argentina, il Palmeiras in Brasile, ai Mariners quello australiano, ai Sundowns il sudafricano, al Machida Zelvia il giapponese.
In Italia ha stravinto l'Inter, facendo il vuoto, contro squadre di livello davvero mediocre.
Il Napoli campione sparisce nelle retrovie, bellissima la prestazione del Bologna (che approfitta del livello del campionato), sempre solida l'Atalanta (che si porta a casa un trofeo di quelli che contano), contro ogni aspettativa si salva il "mio" Cagliari (grazie soprattutto a Mister Ranieri).
Come ogni anno è sempre più evidente che 20 squadre sono troppe.
In Spagna domina il Real Madrid, staccando per bene il Barcellona e la sorpresa Girona poi l'Atletico Madrid.
Solito PSG in Francia (e sempre al solito a bocca asciutta in Europa) con l'inaspettato Brest al terzo posto.
L'imbattibile Leverkusen stacca tutti in Germania, Bayern dietro anche allo Stoccarda.
Risale in Bundesliga il St.Pauli, olè!
In Premier il City di un soffio sull'Arsenal. Torna grande l'Aston Villa. Risalgono in massima serie il Leicester e un nome "classico" come l'Ispwich Town.
Il Celtic porta a casa il 54° titolo scozzese davanti ai Rangers. Quinto titolo consecutivo per gli Shamrock Rovers in Irlanda, in Irlanda del Nord il Larne bissa il successo dello scorso anno e mette in bacheca il secondo titolo della sua storia.
Al Vikingur lo scudetto delle Far Oer.
La Cimru League gallese ancora una volta ai New Saints.
Lo Sporting Lisbona si prende il campionato portoghese lasciando lontani Benfica e Porto.
Young Boys campioni di Svizzera davanti al Lugano, Sturm Graz in Austria, al Vaduz la Coppa del Lichtenstein.
Secondo titolo consecutivo per l' Ħamrun Spartans a Malta, allenato dall'ex Lazio, Atalanta, Samp, Fiorentina e 5 presenze in Nazionale, Luciano Zauri. A Malta allena anche Mauro Camoranesi, nel Floriana. L'Apoel vince a Cipro.
Il Tre Penne batte 3-2 ai supplementari il Murata e vince il Campionato di San Marino mentre l'UE Santa Colonna è per la prima volta Campione d'Andorra.
Al Differdange03 il titolo in Lussemburgo. La squadra è nata dalla fusione dei Red Boys (storica squadra locale) con il Differdange.
I Red Boys nella Coppa UEFA 1984-1985 fermarono all'andata sullo 0-0 l'Ajax (ma furono poi sconfitti per 14-0 in trasferta).
Al Bruges lo scudetto belga, al PSV quello olandese davanti a Feyenoord e Twente, solo quinto l'Ajax.
Salendo in Scandinavia, torna a vincere il Midtjylland davanti al Brondby in Danimarca, quarto titolo in cinque anni per il Bodo/Glimt in Norvegia, ventiquattresimo per il Malmoe in Svezia (record assoluto), trentaquattresimo, quarto consecutivo per l'HJK in Finlandia.
All'Olimpia Lubiana il campionato sloveno, alla Dinamo Zagabria davanti al Rjieka quello croato, al Borac Banja Luka quello bosniaco, 18 punti della Stella Rossa al Partizan in quello serbo.
Per la prima volta campione il Decic in Montenegro, secondo titolo (consecutivo) in assoluto per lo Struga in Macedonia.
L'Egnatia vince in Albania, il Ballkani in Kosovo.
Il PAOK vince di un punto sull'AEK in Grecia, 24° titolo per il Galatasaray sul Fenerbache in Turchia.
Il Ludogorec stacca di parecchio il CSKA Sofia in Bulgaria, vola lo Steaua Bucarest in Romania mentre in Moldavia il Petrocub Hîncești ha vinto il suo primo titolo, interrompendo la striscia di otto consecutivi dello Sheriff Tiraspol.
Dominano il Fecrencvaros in Ungheria e lo Slovan Bratislava in Slovacchia, lo Sparta Praga precede di poco lo Slavia Praga in Repubblica Ceca.
Lo Jagiellonia di Białystok vince per la prima volta lo scudetto polacco, alla sua 98° edizione.
In Lituania titolo al Panevėžys, RFS Riga in Lettonia, Levadia Tallin in Estonia, Vikingur in Islanda.
Nonostante tutto si gioca anche il campionato Ucraino e lo scudetto è andato allo Shaktar.
Anche in Bielorussia (Dinamo Minsk) e Russia dove ha vinto lo Zenit San Pietroburgo davanti al Krasnodar.
Al P'yownik Fowtbolayin Akowmb il campionato armeno, dominio assoluto del Qarabag in Azerbaigian.
L'Al Halil di Neymar ha vinto il ridicolo campionato dell'Arabia Saudita ma per fortuna non interessa a nessuno.
L'Estudiantes La plata vince in Argentina, il Palmeiras in Brasile, ai Mariners quello australiano, ai Sundowns il sudafricano, al Machida Zelvia il giapponese.
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martedì, maggio 28, 2024
The Unclaimed
Riprendo l'articolo che ho scritto sabato scorso per "Il manifesto", dedicato agli UNCLAIMED.
Purtroppo piangiamo la prematura scomparsa di un grande quanto oscuro protagonista della scena garage punk degli anni Ottanta, un “absolute beginner” e pioniere di quel sound.
Proprio alla vigilia di un insperato ritorno in scena, dopo anni di silenzio, con un nuovo album della sua storica band, gli Unclaimed, intitolato “Creature of the Maui Loon”, prodotto dalla nostra Misty Lane Records.
Shelley Ganz, nato verso la fine degli anni Cinquanta in California, è stato un purista all'ennesima potenza, che considerava la musica finita più o meno tra il 1965 e il 1966, immerso nei dischi di Music Machine, Sonics, Seeds, Count Five, protagonisti minori del rock più ruvido degli States, che dopo aver scoperto i Beatles all'Ed Sullivan Show nel 1964, imbracciarono chitarre e batterie, si fecero crescere i capelli e dopo aver imparato i brani dei Fab Four inasprirono la loro lezione, distorcendo i suoni, accelerando i brani, urlando i testi delle canzoni, invece di armonizzarli in accettabili melodie.
“Per lui la musica si era cristallizzata attorno alla metà degli anni Sessanta. Da allora, poco era successo di particolarmente rilevante: dalla cultura pop fatta di B Movie e fumetti, al look, insomma a tutto l’immaginario underground con il quale era cresciuto.” (Massimo Del Pozzo – Misty Lane Records).
Alla fine degli anni Settanta Shelley è in collegio, periodo che ricorda con molto sconforto:
“Il collegio era un posto in cui di certo non volevo essere, e tutto ciò che avevo era una stazione radio di New York. E' così che ho imparato a conoscere gli anni Sessanta e la musica garage, in particolare. Quella radiolina l'avevo incollata incessantemente all'orecchio, altrimenti mi sarei buttato dalla finestra! Quando ti trovi in questo ambiente terribile e non c’è niente da fare, a parte evitare il bullismo del personale o dei compagni di classe più grandi, tutto quello che avevo era questa radio. E suonavano incessantemente il rock and roll più primitivo! Sono diventato come Linus e questa era la mia coperta di sicurezza! Era un conforto perfetto”
Shelley impara a suonare la chitarra, forma qualche band agli inizi degli anni Settanta ma senza riuscire a combinare granché.
Fino a quando agli inizi degli anni Ottanta, affiancato da Sid Griffin, futuro leader dei Long Ryders, non dà vita agli Unclaimed, una delle primissime band dedite al 100% al recupero delle sonorità garage di metà anni Sessanta.
E' del 1980 l'esordio discografico in un momento in cui nessuno suona quelle cose, con un EP omonimo di quattro brani.
Puro e semplice garage rock, proposto in maniera diretta, con qualche approssimazione ma così genuino e sincero da essere irresistibile.
Dopo una serie di cambiamenti della formazione torna nel 1983 con un altro ep di sei brani “The Primordial Ooze Flavored Unclaimed”, molto più a fuoco, suonato in modo impeccabile, con canzoni di eccellente livello, come sempre rigorosi omaggi al sound prediletto.
L'estetica ricalca alla perfezione quella di gruppi come i Music Machine, con capelli lunghi a caschetto e look totalmente in nero e stivaletti a punta.
Purtroppo Shelley Ganz si perde tra suoi fantasmi e si ritira sostanzialmente dal mondo della musica, dopo litigi, l'abbandono della band in mezzo a un tour europeo, un album inciso alla fine degli anni Ottanta e uscito solo nel 1991 con il nome di Attila & the Huns (poi ristampato come Unclaimed dalla romana Misty Lane nel 2022 con l'approvazione dello stesso Ganz).
“Era anche un'anima sensibile e schiva rintanatasi nella propria caverna per parecchio tempo.” (Massimo Del Pozzo).
Ci vorranno anni per farlo tornare in scena, con una reunion nel 2013, una serie di concerti nella sua Los Angeles e la decisione di ripartire con una nuova formazione dello storico marchio con il chitarrista Patrick Cleary a dare un'importante mano artistica e umana.
“Creature of the Maui Loon” è il nuovo disco a cui ancora una volta provvede la Misty Lane ma che arriva purtroppo postumo.
Un disco che rimane fedele al più classico dei suoni Sixties, pur svoltando verso una dimensione folk psichedelica, con echi Byrds e accenni surf, più rilassato e meno selvaggio ma altrettanto valido e di altissima qualità. Un personaggio che rimarrà per sempre nei cuori degli appassionati di un ambito così ristretto, fatto unicamente di passione e amore per la musica e un immaginario tanto lontano quanto così sincero e urgente.
Shelley Ganz è stato il precursore, nei primi anni Ottanta, di quella imprevista ondata di band inglesi e americane, nate sull'onda energetica del punk, che abbracciarono, con ardore e totale devozione, quei suoni tipicamente anni Sessanta che nell'ottica di quei giorni sembravano desueti e retaggio di un passato lontano.
I concetti di vintage e revival erano ancora lungi dall'arrivare, anche perché la scena “rock” era ancora parecchio giovane e guardare al passato significava voltarsi indietro di pochi anni.
In realtà la narrazione che il punk avesse cancellato con un colpo di spugna i “vecchi” gruppi (spesso i componenti avevano superato di poco i 30 anni) era una sorta di formula giornalistica che non aveva del tutto corrispondenza con la realtà.
Le band di rock classico, fusion e prog passarono mediaticamente in secondo piano (per un certo periodo) ma non smisero di fare dischi, venderli, continuare a portare migliaia di persone ai loro concerti.
La stessa scena punk aveva attinto in abbondanza alla tradizione Sixties, recando con sé suoni, estetica, attitudine dell'epoca, con qualche trasformazione e rinfrescata ma poco più.
Nei repertori di band come Sex Pistols, Clash, Jam, Patti Smith, Ramones, per citarne alcuni, non mancavano cover di classici o oscuri brani degli anni Sessanta e soprattutto riferimenti espliciti a livello compositivo e melodico, evidenziando un filo conduttore molto stretto con quanto accaduto poco più di dieci anni prima.
E fu così che la lezione di band come Jam, Buzzcocks, Squeeze, XTC e quelle uscite dal mod revival aprirono le strade a una nuova generazione di innamorati e fanatici degli anni Sessanta che si abbeverò nelle acque cristalline (o paludose che dir si voglia) della compilation “Nuggets”, curata da Lenny Kaye del Patti Smith Group, che nel 1972 raccolse una serie di testimonianze della scena garage punk americana tra il 1965 e il 1968.
In Inghilterra una band come i Prisoners suonava il più possibile uguale agli Small Faces mentre i Barracudas mischiavano power pop e garage.
Ma fu negli States che lo sguardo maniacale al garage punk delle origini prese piede nei primi anni Ottanta. A New York esplodono band come i Fuzztones di Rudi Protrudi, costantemente sulle tracce dei Sonics, i Vipers, i super revivalisti Chesterfield Kings, impegnati ad assomigliare nella maniera più minuziosa possibile ai Rolling Stones del 1965, i ruvidi Outta Place.
Anche se ad iniziare le danze erano stati i Fleshtones già nel 1977, irresistibile party band con un esplosivo mix di beat, rhythm and blues, power pop che convince sia su disco che soprattutto dal vivo, con concerti travolgenti e infiniti.
Da altre parti dell'America arrivano i duri e veloci Miracle Workers, i Graveddiger Five e i Tell Tall Hearts, fedeli al rhythm and blues bianco inglese di band come Yardbirds e Pretty Things, le Pandoras più pop oriented e una serie di altri nomi che guardano con più convinzione a sonorità psichedeliche e folk rock.
Saranno più o meno inconsapevoli ispiratori del Paisley Underground di Dream Syndicate, Rain Parade, True West, Green on Red che sceglieranno strade più complesse e contaminate, meno revivaliste ma altrettanto vicine allo spirito dei Sessanta.
Un mondo ancora oggi fresco e pulsante, di cui Shelley Ganz stava tornando ad essere protagonista.
Purtroppo piangiamo la prematura scomparsa di un grande quanto oscuro protagonista della scena garage punk degli anni Ottanta, un “absolute beginner” e pioniere di quel sound.
Proprio alla vigilia di un insperato ritorno in scena, dopo anni di silenzio, con un nuovo album della sua storica band, gli Unclaimed, intitolato “Creature of the Maui Loon”, prodotto dalla nostra Misty Lane Records.
Shelley Ganz, nato verso la fine degli anni Cinquanta in California, è stato un purista all'ennesima potenza, che considerava la musica finita più o meno tra il 1965 e il 1966, immerso nei dischi di Music Machine, Sonics, Seeds, Count Five, protagonisti minori del rock più ruvido degli States, che dopo aver scoperto i Beatles all'Ed Sullivan Show nel 1964, imbracciarono chitarre e batterie, si fecero crescere i capelli e dopo aver imparato i brani dei Fab Four inasprirono la loro lezione, distorcendo i suoni, accelerando i brani, urlando i testi delle canzoni, invece di armonizzarli in accettabili melodie.
“Per lui la musica si era cristallizzata attorno alla metà degli anni Sessanta. Da allora, poco era successo di particolarmente rilevante: dalla cultura pop fatta di B Movie e fumetti, al look, insomma a tutto l’immaginario underground con il quale era cresciuto.” (Massimo Del Pozzo – Misty Lane Records).
Alla fine degli anni Settanta Shelley è in collegio, periodo che ricorda con molto sconforto:
“Il collegio era un posto in cui di certo non volevo essere, e tutto ciò che avevo era una stazione radio di New York. E' così che ho imparato a conoscere gli anni Sessanta e la musica garage, in particolare. Quella radiolina l'avevo incollata incessantemente all'orecchio, altrimenti mi sarei buttato dalla finestra! Quando ti trovi in questo ambiente terribile e non c’è niente da fare, a parte evitare il bullismo del personale o dei compagni di classe più grandi, tutto quello che avevo era questa radio. E suonavano incessantemente il rock and roll più primitivo! Sono diventato come Linus e questa era la mia coperta di sicurezza! Era un conforto perfetto”
Shelley impara a suonare la chitarra, forma qualche band agli inizi degli anni Settanta ma senza riuscire a combinare granché.
Fino a quando agli inizi degli anni Ottanta, affiancato da Sid Griffin, futuro leader dei Long Ryders, non dà vita agli Unclaimed, una delle primissime band dedite al 100% al recupero delle sonorità garage di metà anni Sessanta.
E' del 1980 l'esordio discografico in un momento in cui nessuno suona quelle cose, con un EP omonimo di quattro brani.
Puro e semplice garage rock, proposto in maniera diretta, con qualche approssimazione ma così genuino e sincero da essere irresistibile.
Dopo una serie di cambiamenti della formazione torna nel 1983 con un altro ep di sei brani “The Primordial Ooze Flavored Unclaimed”, molto più a fuoco, suonato in modo impeccabile, con canzoni di eccellente livello, come sempre rigorosi omaggi al sound prediletto.
L'estetica ricalca alla perfezione quella di gruppi come i Music Machine, con capelli lunghi a caschetto e look totalmente in nero e stivaletti a punta.
Purtroppo Shelley Ganz si perde tra suoi fantasmi e si ritira sostanzialmente dal mondo della musica, dopo litigi, l'abbandono della band in mezzo a un tour europeo, un album inciso alla fine degli anni Ottanta e uscito solo nel 1991 con il nome di Attila & the Huns (poi ristampato come Unclaimed dalla romana Misty Lane nel 2022 con l'approvazione dello stesso Ganz).
“Era anche un'anima sensibile e schiva rintanatasi nella propria caverna per parecchio tempo.” (Massimo Del Pozzo).
Ci vorranno anni per farlo tornare in scena, con una reunion nel 2013, una serie di concerti nella sua Los Angeles e la decisione di ripartire con una nuova formazione dello storico marchio con il chitarrista Patrick Cleary a dare un'importante mano artistica e umana.
“Creature of the Maui Loon” è il nuovo disco a cui ancora una volta provvede la Misty Lane ma che arriva purtroppo postumo.
Un disco che rimane fedele al più classico dei suoni Sixties, pur svoltando verso una dimensione folk psichedelica, con echi Byrds e accenni surf, più rilassato e meno selvaggio ma altrettanto valido e di altissima qualità. Un personaggio che rimarrà per sempre nei cuori degli appassionati di un ambito così ristretto, fatto unicamente di passione e amore per la musica e un immaginario tanto lontano quanto così sincero e urgente.
Shelley Ganz è stato il precursore, nei primi anni Ottanta, di quella imprevista ondata di band inglesi e americane, nate sull'onda energetica del punk, che abbracciarono, con ardore e totale devozione, quei suoni tipicamente anni Sessanta che nell'ottica di quei giorni sembravano desueti e retaggio di un passato lontano.
I concetti di vintage e revival erano ancora lungi dall'arrivare, anche perché la scena “rock” era ancora parecchio giovane e guardare al passato significava voltarsi indietro di pochi anni.
In realtà la narrazione che il punk avesse cancellato con un colpo di spugna i “vecchi” gruppi (spesso i componenti avevano superato di poco i 30 anni) era una sorta di formula giornalistica che non aveva del tutto corrispondenza con la realtà.
Le band di rock classico, fusion e prog passarono mediaticamente in secondo piano (per un certo periodo) ma non smisero di fare dischi, venderli, continuare a portare migliaia di persone ai loro concerti.
La stessa scena punk aveva attinto in abbondanza alla tradizione Sixties, recando con sé suoni, estetica, attitudine dell'epoca, con qualche trasformazione e rinfrescata ma poco più.
Nei repertori di band come Sex Pistols, Clash, Jam, Patti Smith, Ramones, per citarne alcuni, non mancavano cover di classici o oscuri brani degli anni Sessanta e soprattutto riferimenti espliciti a livello compositivo e melodico, evidenziando un filo conduttore molto stretto con quanto accaduto poco più di dieci anni prima.
E fu così che la lezione di band come Jam, Buzzcocks, Squeeze, XTC e quelle uscite dal mod revival aprirono le strade a una nuova generazione di innamorati e fanatici degli anni Sessanta che si abbeverò nelle acque cristalline (o paludose che dir si voglia) della compilation “Nuggets”, curata da Lenny Kaye del Patti Smith Group, che nel 1972 raccolse una serie di testimonianze della scena garage punk americana tra il 1965 e il 1968.
In Inghilterra una band come i Prisoners suonava il più possibile uguale agli Small Faces mentre i Barracudas mischiavano power pop e garage.
Ma fu negli States che lo sguardo maniacale al garage punk delle origini prese piede nei primi anni Ottanta. A New York esplodono band come i Fuzztones di Rudi Protrudi, costantemente sulle tracce dei Sonics, i Vipers, i super revivalisti Chesterfield Kings, impegnati ad assomigliare nella maniera più minuziosa possibile ai Rolling Stones del 1965, i ruvidi Outta Place.
Anche se ad iniziare le danze erano stati i Fleshtones già nel 1977, irresistibile party band con un esplosivo mix di beat, rhythm and blues, power pop che convince sia su disco che soprattutto dal vivo, con concerti travolgenti e infiniti.
Da altre parti dell'America arrivano i duri e veloci Miracle Workers, i Graveddiger Five e i Tell Tall Hearts, fedeli al rhythm and blues bianco inglese di band come Yardbirds e Pretty Things, le Pandoras più pop oriented e una serie di altri nomi che guardano con più convinzione a sonorità psichedeliche e folk rock.
Saranno più o meno inconsapevoli ispiratori del Paisley Underground di Dream Syndicate, Rain Parade, True West, Green on Red che sceglieranno strade più complesse e contaminate, meno revivaliste ma altrettanto vicine allo spirito dei Sessanta.
Un mondo ancora oggi fresco e pulsante, di cui Shelley Ganz stava tornando ad essere protagonista.
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lunedì, maggio 27, 2024
The Prisoners
Ho dedicato l'articolo domenicale per il quotidiano "Libertà" di Piacenza ai PRISONERS.
Nei primi anni Novanta il Britpop di Oasis, Blur, Supergrass, Stone Roses, Verve conquistò le classifiche inglesi prima e mondiali subito dopo. Una serie di giovani band riprese i suoni della tradizione britannica di trent’anni prima (Beatles, Rolling Stones, Who, Kinks, Small Faces), li mischiò alle distorsioni e alla sfacciata provocazione di punk e glam rock (e in certi casi a pulsioni dance funk), creando una miscela irresistibile di energia, melodie, ritmo. A cui aggiunse una nostalgica costante citazione dell’indimenticata Swinging London di sapore Mod. La cultura musicale inglese non aveva mai scordato quegli esplosivi anni e nel corso del tempo le citazioni e le influenze si erano sprecate (dai Jam di Paul Weller a molte band uscite nel contesto punk e soprattutto in quello mod a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, i riferimenti erano stati costanti).
Tra costoro quattro giovanissimi ragazzi di Rochester, cittadina di 60.000 abitanti del Kent a sud est di Londra.
Si chiamarono The Prisoners, in esplicito omaggio alla serie televisiva del 1967, “Il prigioniero” / “The Prisoner”, dai contorni fantapolitici distopici con chiari riferimenti ai romanzi di George Orwell.
Graham Day, voce e chitarra, Allan Crockford basso e voce, James Taylor all’organo Hammond, Johnny Symons alla batteria sembravano esteticamente usciti dalla Carnaby Street del 1965, suonavano una musica chiaramente debitrice a quel periodo (Who e Small Faces in particolare) ma con un’energia punk e un tocco jazz e surf negli episodi strumentali.
Personalmente li scoprii casualmente nel 1982 a Londra con un concerto fulminante, dall’energia prorompente, nell’insopportabile umidità estiva di un piccolo club, il Clarendon Hotel, proprio sotto l’imponente struttura dell’Hammersmith Odeon.
Una band che riassumeva tutto ciò che ho sempre amato.
Corsi il giorno dopo in Carnaby Street, da “Merc”, negozietto di una via laterale (che diventerà poi un marchio famoso e con ben altre strutture) dove “il cinese” (un signore dai tratti orientali) vendeva tutto ciò che era relativo all’ambito Mod e affini, dai dischi alle fanzine ai vestiti.
E trovai lì il primo album della band, “A taste of pink”, appena pubblicato.
Entrò immediatamente nei miei dischi “da isola deserta” e ancora oggi lì rimane.
Incominciai a seguire la band con tutta la passione di un ventenne e li rividi più volte nelle frequenti puntate londinesi, oltre che in un tour in Italia.
Ogni volta una gioia, anche nei successivi tre album “Thewisermiserdemelza” (più psichedelico e vicino a sonorità alla Doors), “The last fourfathers” (suoni crudi e duri, quasi abrasivi) e nel commiato “In from the cold” (più soul) del 1986, all’indomani del quale la band si sciolse.
In mezzo vari 45 giri ed ep, sempre di altissimo livello.
Dice il bassista Allan Crockford alla domanda se non si sono sentiti sottovalutati e “dimenticati” quando esplose il Britpop che avevano anticipato di ben dieci anni: “Forse ci sentivamo un po' così negli anni Novanta. Penso che ora accettiamo semplicemente che le cose siano andate così. Quando eravamo giovani non ce la cavavamo abbastanza bene al mondo del music business, semplicemente suonavamo la nostra musica e ci divertivamo. È fantastico avere avuto qualche riconoscimento per ciò che stavamo facendo e che i musicisti che hanno avuto più successo di noi ci diano un po’ di credito per la nostra influenza. L'unico motivo per cui suoni musica è trarne qualcosa, non raggiungere la celebrità o il successo. Il momento in cui ci siamo sforzati troppo per ottenere il “successo” è stato il momento in cui tutto è andato storto. Sono felice di sentire la gente dire che eravamo "importanti" in qualche modo, ma molto più felice semplicemente di poter continuare a suonare, sia con i Prisoners o con la mia band The Galileo 7, o con qualsiasi altra band che occasionalmente riemerge!”
Dopo lo scioglimento il chitarrista Graham Day e il bassista Allan Crockford hanno collaborato in numerosi progetti che in qualche modo, con varie differenze, proseguivano il percorso sonoro dei Prisoners, dai Prime Movers, ai Solarflares (che volli come ospiti a un Festival Tendenze che organizzavo a Piacenza, pur di vederli dal vivo!).
Ma Crockford è stato anche a fianco del tastierista James Taylor che fondò il James Taylor Quartet, precursore della scena Acid jazz con un suono che guardava al jazz tinto di soul degli anni Cinquanta e Sessanta (da Booker T & the Mg’s a Jimmy Smith), proseguendo anche con una lunga serie di altre band, dagli Stabilisers agli attuali Galileo 7.
I Prisoners si riunirono saltuariamente per qualche concerto e anche un 45 giri ma è solo ora che la band, a quasi quarantanni dallo scioglimento, ha ripreso inaspettatamente vita, con una serie di concerti e soprattutto un nuovo, favoloso, album, “Morning star”, appena pubblicato, in cui riprendono i suoni cari, con una maggiore maturità e nuove influenze. Ancora Crockford: “Abbiamo riscoperto qualcosa di noi quattro che suonavamo insieme su un piccolo palco, essendo amici oltre che musicisti nella stessa band. Volevamo andare avanti in qualche modo, ma suonare solo le vecchie canzoni non sarebbe stato sufficiente a mantenere vivo il nostro interesse. Ci annoieremmo presto se fosse solo nostalgia. Abbiamo deciso di provare a scrivere del nuovo materiale insieme. Il materiale è stato messo insieme molto velocemente quindi abbiamo deciso di registrarlo e fare un nuovo album. Con le nuove canzoni da suonare dal vivo, manterremo vivo il nostro interesse per la band. Non ci importa suonare vecchie canzoni se possiamo anche suonarne alcune nuove per mantenerlo interessante e stimolante per noi!”.
Come detto, il nuovo lavoro non tradisce le aspettative, tra beat, rock, soul, tanta creatività e voglia di suonare, comporre, condividere di nuovo il brivido di un palco insieme, essere di nuovo parte di qualcosa di entusiasmante.
Anche perché i loro fan, sparsi per il mondo, non hanno mai smesso di amarli, seguendo le vicende soliste e sperando sempre in una reunion e nuovo materiale.
Crockford:
“Siamo sempre sorpresi dalla passione dei fan. Naturalmente lo abbiamo sentito in qualche modo fin dagli anni Ottanta con le persone che sono rimaste interessate ai nostri gruppi successivi. Molti di loro sono pronti ad ascoltare la nostra nuova musica, che sia sulla stessa linea dei Prisoners o magari qualcosa di un po’ diverso. Apprezziamo tutti la possibilità di suonare. Ma ci rendiamo anche conto che i Prisoners sono la band con cui molti di loro sono cresciuti ascoltandola in un momento importante della loro vita. La musica che ascolti nel momento formativo della tua vita è ciò che rimarrà con te e avrà un effetto emotivo. Lo capiamo e siamo molto grati.
La musica popolare è cambiata e non è più solo proprietà dei giovani. Il pubblico è più vecchio, così come le band. Non credo che fare musica rock, o come vogliamo chiamarla, sia ormai appannaggio solo dei giovani.
Il nuovo esiste accanto al vecchio in un modo molto più grande di quando eravamo giovani. La musica realizzata da artisti più anziani può esistere ed è per lo più giudicata di pari valore.
Ma ogni generazione ha i suoi eroi e non possiamo fingere di attrarre così tanti giovani. Ovviamente è fantastico che alcuni dei nostri fan siano padri o madri e portino i loro figli ai nostri concerti, e forse si appassioneranno alla nostra musica. La cosa comune è l’amore per la musica ad alto volume elettrizzata, e l’età del pubblico non ha più molta importanza. Ne sono felice.”
La storia dei Prisoners è una storia come tante, oscura, mai baciata dal successo e dalla grande popolarità ma fatta di affetto, dedizione e amore per la musica, senza indulgere in idee compromissorie ma restando fedeli ai propri gusti e riferimenti artistici
. Ripagata dall’amore dei fan.
Quello che basta per sentirsi felici, dopo tanti sacrifici, illusioni, delusioni. Come dice Warren Zanes nella recente biografia che ha dedicato a Bruce Springsteen:
“Entrare a fare parte di una band significa esistere, fare parte di qualcosa. La gente fa dei sacrifici per riuscirci. Mi sono reso conto che le persone non parlano molto spesso della pazienza e della forza d'animo che occorrono per fare parte di un gruppo. Le band ti possono spezzare il cuore.”
Nei primi anni Novanta il Britpop di Oasis, Blur, Supergrass, Stone Roses, Verve conquistò le classifiche inglesi prima e mondiali subito dopo. Una serie di giovani band riprese i suoni della tradizione britannica di trent’anni prima (Beatles, Rolling Stones, Who, Kinks, Small Faces), li mischiò alle distorsioni e alla sfacciata provocazione di punk e glam rock (e in certi casi a pulsioni dance funk), creando una miscela irresistibile di energia, melodie, ritmo. A cui aggiunse una nostalgica costante citazione dell’indimenticata Swinging London di sapore Mod. La cultura musicale inglese non aveva mai scordato quegli esplosivi anni e nel corso del tempo le citazioni e le influenze si erano sprecate (dai Jam di Paul Weller a molte band uscite nel contesto punk e soprattutto in quello mod a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, i riferimenti erano stati costanti).
Tra costoro quattro giovanissimi ragazzi di Rochester, cittadina di 60.000 abitanti del Kent a sud est di Londra.
Si chiamarono The Prisoners, in esplicito omaggio alla serie televisiva del 1967, “Il prigioniero” / “The Prisoner”, dai contorni fantapolitici distopici con chiari riferimenti ai romanzi di George Orwell.
Graham Day, voce e chitarra, Allan Crockford basso e voce, James Taylor all’organo Hammond, Johnny Symons alla batteria sembravano esteticamente usciti dalla Carnaby Street del 1965, suonavano una musica chiaramente debitrice a quel periodo (Who e Small Faces in particolare) ma con un’energia punk e un tocco jazz e surf negli episodi strumentali.
Personalmente li scoprii casualmente nel 1982 a Londra con un concerto fulminante, dall’energia prorompente, nell’insopportabile umidità estiva di un piccolo club, il Clarendon Hotel, proprio sotto l’imponente struttura dell’Hammersmith Odeon.
Una band che riassumeva tutto ciò che ho sempre amato.
Corsi il giorno dopo in Carnaby Street, da “Merc”, negozietto di una via laterale (che diventerà poi un marchio famoso e con ben altre strutture) dove “il cinese” (un signore dai tratti orientali) vendeva tutto ciò che era relativo all’ambito Mod e affini, dai dischi alle fanzine ai vestiti.
E trovai lì il primo album della band, “A taste of pink”, appena pubblicato.
Entrò immediatamente nei miei dischi “da isola deserta” e ancora oggi lì rimane.
Incominciai a seguire la band con tutta la passione di un ventenne e li rividi più volte nelle frequenti puntate londinesi, oltre che in un tour in Italia.
Ogni volta una gioia, anche nei successivi tre album “Thewisermiserdemelza” (più psichedelico e vicino a sonorità alla Doors), “The last fourfathers” (suoni crudi e duri, quasi abrasivi) e nel commiato “In from the cold” (più soul) del 1986, all’indomani del quale la band si sciolse.
In mezzo vari 45 giri ed ep, sempre di altissimo livello.
Dice il bassista Allan Crockford alla domanda se non si sono sentiti sottovalutati e “dimenticati” quando esplose il Britpop che avevano anticipato di ben dieci anni: “Forse ci sentivamo un po' così negli anni Novanta. Penso che ora accettiamo semplicemente che le cose siano andate così. Quando eravamo giovani non ce la cavavamo abbastanza bene al mondo del music business, semplicemente suonavamo la nostra musica e ci divertivamo. È fantastico avere avuto qualche riconoscimento per ciò che stavamo facendo e che i musicisti che hanno avuto più successo di noi ci diano un po’ di credito per la nostra influenza. L'unico motivo per cui suoni musica è trarne qualcosa, non raggiungere la celebrità o il successo. Il momento in cui ci siamo sforzati troppo per ottenere il “successo” è stato il momento in cui tutto è andato storto. Sono felice di sentire la gente dire che eravamo "importanti" in qualche modo, ma molto più felice semplicemente di poter continuare a suonare, sia con i Prisoners o con la mia band The Galileo 7, o con qualsiasi altra band che occasionalmente riemerge!”
Dopo lo scioglimento il chitarrista Graham Day e il bassista Allan Crockford hanno collaborato in numerosi progetti che in qualche modo, con varie differenze, proseguivano il percorso sonoro dei Prisoners, dai Prime Movers, ai Solarflares (che volli come ospiti a un Festival Tendenze che organizzavo a Piacenza, pur di vederli dal vivo!).
Ma Crockford è stato anche a fianco del tastierista James Taylor che fondò il James Taylor Quartet, precursore della scena Acid jazz con un suono che guardava al jazz tinto di soul degli anni Cinquanta e Sessanta (da Booker T & the Mg’s a Jimmy Smith), proseguendo anche con una lunga serie di altre band, dagli Stabilisers agli attuali Galileo 7.
I Prisoners si riunirono saltuariamente per qualche concerto e anche un 45 giri ma è solo ora che la band, a quasi quarantanni dallo scioglimento, ha ripreso inaspettatamente vita, con una serie di concerti e soprattutto un nuovo, favoloso, album, “Morning star”, appena pubblicato, in cui riprendono i suoni cari, con una maggiore maturità e nuove influenze. Ancora Crockford: “Abbiamo riscoperto qualcosa di noi quattro che suonavamo insieme su un piccolo palco, essendo amici oltre che musicisti nella stessa band. Volevamo andare avanti in qualche modo, ma suonare solo le vecchie canzoni non sarebbe stato sufficiente a mantenere vivo il nostro interesse. Ci annoieremmo presto se fosse solo nostalgia. Abbiamo deciso di provare a scrivere del nuovo materiale insieme. Il materiale è stato messo insieme molto velocemente quindi abbiamo deciso di registrarlo e fare un nuovo album. Con le nuove canzoni da suonare dal vivo, manterremo vivo il nostro interesse per la band. Non ci importa suonare vecchie canzoni se possiamo anche suonarne alcune nuove per mantenerlo interessante e stimolante per noi!”.
Come detto, il nuovo lavoro non tradisce le aspettative, tra beat, rock, soul, tanta creatività e voglia di suonare, comporre, condividere di nuovo il brivido di un palco insieme, essere di nuovo parte di qualcosa di entusiasmante.
Anche perché i loro fan, sparsi per il mondo, non hanno mai smesso di amarli, seguendo le vicende soliste e sperando sempre in una reunion e nuovo materiale.
Crockford:
“Siamo sempre sorpresi dalla passione dei fan. Naturalmente lo abbiamo sentito in qualche modo fin dagli anni Ottanta con le persone che sono rimaste interessate ai nostri gruppi successivi. Molti di loro sono pronti ad ascoltare la nostra nuova musica, che sia sulla stessa linea dei Prisoners o magari qualcosa di un po’ diverso. Apprezziamo tutti la possibilità di suonare. Ma ci rendiamo anche conto che i Prisoners sono la band con cui molti di loro sono cresciuti ascoltandola in un momento importante della loro vita. La musica che ascolti nel momento formativo della tua vita è ciò che rimarrà con te e avrà un effetto emotivo. Lo capiamo e siamo molto grati.
La musica popolare è cambiata e non è più solo proprietà dei giovani. Il pubblico è più vecchio, così come le band. Non credo che fare musica rock, o come vogliamo chiamarla, sia ormai appannaggio solo dei giovani.
Il nuovo esiste accanto al vecchio in un modo molto più grande di quando eravamo giovani. La musica realizzata da artisti più anziani può esistere ed è per lo più giudicata di pari valore.
Ma ogni generazione ha i suoi eroi e non possiamo fingere di attrarre così tanti giovani. Ovviamente è fantastico che alcuni dei nostri fan siano padri o madri e portino i loro figli ai nostri concerti, e forse si appassioneranno alla nostra musica. La cosa comune è l’amore per la musica ad alto volume elettrizzata, e l’età del pubblico non ha più molta importanza. Ne sono felice.”
La storia dei Prisoners è una storia come tante, oscura, mai baciata dal successo e dalla grande popolarità ma fatta di affetto, dedizione e amore per la musica, senza indulgere in idee compromissorie ma restando fedeli ai propri gusti e riferimenti artistici
. Ripagata dall’amore dei fan.
Quello che basta per sentirsi felici, dopo tanti sacrifici, illusioni, delusioni. Come dice Warren Zanes nella recente biografia che ha dedicato a Bruce Springsteen:
“Entrare a fare parte di una band significa esistere, fare parte di qualcosa. La gente fa dei sacrifici per riuscirci. Mi sono reso conto che le persone non parlano molto spesso della pazienza e della forza d'animo che occorrono per fare parte di un gruppo. Le band ti possono spezzare il cuore.”
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venerdì, maggio 24, 2024
Paul Weller - 66
Paul Weller festeggia il 66° compleanno con il titolo omonimo per il 17° album solista.
La consueta, doverosa, premessa è che non ha nulla da dimostrare, la sua carriera quasi cinquantennale, solista inclusa, parla chiaramente.
Può dare sfogo alle sue esigenze creative senza dover compiacere critici, fan o chiunque altro.
L'album parte fortissimo con l'intensa ballata quasi jazzata "Ship of fools" in coppia con Suggs, molto "british" e Kinks e prosegue con il brano forse più complesso (e tra i migliori), "Flying fish", che mischia ritmiche quasi disco con una progressione che ci tuffa in un groove più rock, il tutto corredato da ampio uso di effetti elettronici.
"Jumble Queen", già proposto dal vivo, è composto con Noel Gallagher (presente anche nel brano), un poderoso soul rock con tanto di fiati e potente riff chitarristico.
Ballata nel consueto stile Welleriano, "Nothing" è abbastanza anonima.
Più definito il bluesaggiante e malinconico "My best friend's coat".
"Rise up singing" è puro Style Council, con un'orchestrazione sontuosa e toni gospel, non male.
Archi a profusione e impostazione acustica anche nelle successive "I woke up" e "Gimpse of you", sontuosa e quasi da colonna sonora cinematografica di un film anni Cinquanta.
Un po' jazzy e sbarazzina "Sleepy Hollow" con solo di vibrafono ad addolcire il tutto. Carina.
"In full flight" è un'altra ballata, molto lenta, che ci lascia in un clima molto rilassato e un tantino sonnolento.
"Soul wandering" torna, per fortuna, ad alzare i ritmi con l'apporto di Bobbie Gillespie, un buon soul funk dalla chitarra energica e atmosfere gospel con sezione fiati.
Uno degli episodi più interessanti.
La conclusione dall'incedere epico e solenne di "Burn out" ci consegna quasi ai Pink Floyd anni 70.
In definitiva Weller confeziona un altro buon album ma, a parere personale, senza lode né infamia, a tratti particolarmente anonimo e poco ispirato, soprattutto al confronto con i momenti più riusciti.
La qualità compositiva del Nostro è conosciuta e non è certo in discussione ma, a malincuore, "66" non rientrerà nelle sue migliori opere soliste.
La consueta, doverosa, premessa è che non ha nulla da dimostrare, la sua carriera quasi cinquantennale, solista inclusa, parla chiaramente.
Può dare sfogo alle sue esigenze creative senza dover compiacere critici, fan o chiunque altro.
L'album parte fortissimo con l'intensa ballata quasi jazzata "Ship of fools" in coppia con Suggs, molto "british" e Kinks e prosegue con il brano forse più complesso (e tra i migliori), "Flying fish", che mischia ritmiche quasi disco con una progressione che ci tuffa in un groove più rock, il tutto corredato da ampio uso di effetti elettronici.
"Jumble Queen", già proposto dal vivo, è composto con Noel Gallagher (presente anche nel brano), un poderoso soul rock con tanto di fiati e potente riff chitarristico.
Ballata nel consueto stile Welleriano, "Nothing" è abbastanza anonima.
Più definito il bluesaggiante e malinconico "My best friend's coat".
"Rise up singing" è puro Style Council, con un'orchestrazione sontuosa e toni gospel, non male.
Archi a profusione e impostazione acustica anche nelle successive "I woke up" e "Gimpse of you", sontuosa e quasi da colonna sonora cinematografica di un film anni Cinquanta.
Un po' jazzy e sbarazzina "Sleepy Hollow" con solo di vibrafono ad addolcire il tutto. Carina.
"In full flight" è un'altra ballata, molto lenta, che ci lascia in un clima molto rilassato e un tantino sonnolento.
"Soul wandering" torna, per fortuna, ad alzare i ritmi con l'apporto di Bobbie Gillespie, un buon soul funk dalla chitarra energica e atmosfere gospel con sezione fiati.
Uno degli episodi più interessanti.
La conclusione dall'incedere epico e solenne di "Burn out" ci consegna quasi ai Pink Floyd anni 70.
In definitiva Weller confeziona un altro buon album ma, a parere personale, senza lode né infamia, a tratti particolarmente anonimo e poco ispirato, soprattutto al confronto con i momenti più riusciti.
La qualità compositiva del Nostro è conosciuta e non è certo in discussione ma, a malincuore, "66" non rientrerà nelle sue migliori opere soliste.
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Dischi
giovedì, maggio 23, 2024
Pooh - Contrasto
Una vicenda controversa e tipicamente esplicativa di come funzionava la discografia italiana (ma non solo) negli anni Sessanta, senza regole e con diversi "pescecani" che ne gestivano le sorti.
Come testimonia lo stesso sito ufficiale dei POOH (ai tempi con la formazione: Valerio Negrini - voce, batteria, Mario Goretti - voce, chitarra, Roby Facchinetti - voce, organo, Riccardo Fogli - voce, basso) a proposito dell'album "Contrasto" pubblicato nel 1968:
"Pubblicato all’insaputa del gruppo che si trovava in tour, fu assemblato dal discografico Armando Sciascia per sfruttare l’attenzione crescente attorno al successo di "Piccola Katy", usando vari demo ancora suscettibili di arrangiamenti.
Venne ritirato dal mercato su richiesta dei Pooh che, a ragione, non videro di buon occhio l’iniziativa, lesiva della loro immagine per la qualità del materiale ancora "grezzo" incluso nel 33 giri.
"Contrasto" è divenuto così uno dei vinili più quotati tra i collezionisti."
Armando Sciascia e la sua etichetta Vedette (con cui la band era sotto contratto) assemblarono undici canzoni di cui due erano quelle del 45 "Piccola Katy / "In silenzio", due erano riempitivi che sarebbero stati successivamente utilizzati come lato B dei 45 giri “Buonanotte Penny” e “Mary Ann” e le altre sette erano demo, scarti e provini ancora da completare.
L'album fu stampato in mille copie il 5 luglio 1968 (con buona parte dei brani firmati dallo stesso Sciascia in quanto Facchinetti e Negrini non erano ancora isciritti alla Siae).
La band, una volta accortasi della truffa, imposero l'immediato ritiro e buona parte delle copie andarono al macero.
Alcuni brani vennero ripresi successivamente con altri titoli o utilizzati per altre composizioni (parte di "Contrasto", sarà ripreso nella suite strumentale di "Parsifal").
Come specificato si tratta in buona parte di provini non definiti ma di alta qualità compositiva e con una visione artistica al passo con i tempi (1968) tra post beat, proto prog, Procol Harum, Turtles, scampoli Beatlesiani e psichedelici.
Con una cura effettiva del materiale e un progetto artistico ben definito ne poteva scaturire un lavoro di grande livello.
Come testimonia lo stesso sito ufficiale dei POOH (ai tempi con la formazione: Valerio Negrini - voce, batteria, Mario Goretti - voce, chitarra, Roby Facchinetti - voce, organo, Riccardo Fogli - voce, basso) a proposito dell'album "Contrasto" pubblicato nel 1968:
"Pubblicato all’insaputa del gruppo che si trovava in tour, fu assemblato dal discografico Armando Sciascia per sfruttare l’attenzione crescente attorno al successo di "Piccola Katy", usando vari demo ancora suscettibili di arrangiamenti.
Venne ritirato dal mercato su richiesta dei Pooh che, a ragione, non videro di buon occhio l’iniziativa, lesiva della loro immagine per la qualità del materiale ancora "grezzo" incluso nel 33 giri.
"Contrasto" è divenuto così uno dei vinili più quotati tra i collezionisti."
Armando Sciascia e la sua etichetta Vedette (con cui la band era sotto contratto) assemblarono undici canzoni di cui due erano quelle del 45 "Piccola Katy / "In silenzio", due erano riempitivi che sarebbero stati successivamente utilizzati come lato B dei 45 giri “Buonanotte Penny” e “Mary Ann” e le altre sette erano demo, scarti e provini ancora da completare.
L'album fu stampato in mille copie il 5 luglio 1968 (con buona parte dei brani firmati dallo stesso Sciascia in quanto Facchinetti e Negrini non erano ancora isciritti alla Siae).
La band, una volta accortasi della truffa, imposero l'immediato ritiro e buona parte delle copie andarono al macero.
Alcuni brani vennero ripresi successivamente con altri titoli o utilizzati per altre composizioni (parte di "Contrasto", sarà ripreso nella suite strumentale di "Parsifal").
Come specificato si tratta in buona parte di provini non definiti ma di alta qualità compositiva e con una visione artistica al passo con i tempi (1968) tra post beat, proto prog, Procol Harum, Turtles, scampoli Beatlesiani e psichedelici.
Con una cura effettiva del materiale e un progetto artistico ben definito ne poteva scaturire un lavoro di grande livello.
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mercoledì, maggio 22, 2024
Marsha Gee - Peanut Duck
Nell'agosto del 2015 scrissi un post a proposito di "Peanut Duck" di Marsha Ghee, uno dei brani più "misteriosi" della storia del soul ma non solo.
Nove anni dopo poco si è aggiunto alla storia ma un aggiornamento è doveroso.
Peanut Duck
https://www.youtube.com/watch?v=L8-V0Rd5GGo
Nonostante internet e le ormai illimitate possibilità di ricerca, PEANUT DUCK di (?) MARSHA GEE ha conservato tutto il suo segreto.
Nel 1980 un DJ inglese scoprì un acetato di questo travolgente rhythm and blues, basato su un ripetitivo groove di piano e chitarra con una voce femminile roca, sensuale, sfacciata e un testo che invita ad un nuovo ballo, il Peanut Duck (come era in voga nei 60's, con il Jerk, il Twist, il Boogaloo etc), "There's a brand new dance, yeah/ That's sweeping the nation, yeah", spiegandone vagamente le mosse.
Ma concludendo con un delirante finale "Quack, quack, quackgiggy, quackgiggy, brrrrrrrrr, quack, quack, giggy, giggy, gi-gi-gi-giggy-gooma, gi-gi-gi-gi-gi quackgiggy, quackgiggy, gi-gig-goom, gi-gig-goom, gi-gig-goom-goom".
Il DJ lo attribuì ad una fantomatica Marsha Gee (che esisteva, avendo registrato un 45 giri, ma con tutt'altra voce) sapendo, come unica informazione, che era stato inciso nel 1965 a Filadelfia al Virtue Sound Studios e mai utilizzato.
Un nome fittizio per stamparlo su bootleg (per la inesistente Joker Records) e utilizzarlo (e venderlo) nelle serate.
Solo nel 2005 il singolo è uscito ufficialmente per la Penniman Records (con un'ammiccante copertina) e incluso successivamente nella compilation della Rhino Records, "Girl Group Sounds: One Kiss Can Lead to Another".
Il mistero rimane inviolato (un'artista famosa che non ha voluto accostare il proprio nome a un brano così bizzarro? una turnista ? una cantante occasionale ? chi ha suonato ? chi l'ha composto ?).
PEANUT DUCK
There's a brand new dance
That's sweeping the nation
The peanut duck is the new sensation
You can do the monkey
And the cool jerk too
But the peanut duck is a danger too
The shing-a-ling ain't the thing
Quack quack...peanut duck
Now listen close
I'm gonna tell you all
How to do the peanut duck
Flap your arms like a duck
High and low
Move your neck like a duck
Fast or slow
You can really do it
So let's get to it
Keeping the groove
Can really move
The shing-a-ling ain't the thing
Quack quack...peanut duck
Everybody's doing the peanut duck
The shing-a-ling ain't the thing
Quack quack...peanut duck
Ne ha rifatta una discreta cover King Khan & His Sensational Shrines : https://www.youtube.com/watch?v=07iq_4h998w
Dal vivo lo hanno riproposto anche le 2010 DollSquad e i Nairobi Trio.
Nove anni dopo poco si è aggiunto alla storia ma un aggiornamento è doveroso.
Peanut Duck
https://www.youtube.com/watch?v=L8-V0Rd5GGo
Nonostante internet e le ormai illimitate possibilità di ricerca, PEANUT DUCK di (?) MARSHA GEE ha conservato tutto il suo segreto.
Nel 1980 un DJ inglese scoprì un acetato di questo travolgente rhythm and blues, basato su un ripetitivo groove di piano e chitarra con una voce femminile roca, sensuale, sfacciata e un testo che invita ad un nuovo ballo, il Peanut Duck (come era in voga nei 60's, con il Jerk, il Twist, il Boogaloo etc), "There's a brand new dance, yeah/ That's sweeping the nation, yeah", spiegandone vagamente le mosse.
Ma concludendo con un delirante finale "Quack, quack, quackgiggy, quackgiggy, brrrrrrrrr, quack, quack, giggy, giggy, gi-gi-gi-giggy-gooma, gi-gi-gi-gi-gi quackgiggy, quackgiggy, gi-gig-goom, gi-gig-goom, gi-gig-goom-goom".
Il DJ lo attribuì ad una fantomatica Marsha Gee (che esisteva, avendo registrato un 45 giri, ma con tutt'altra voce) sapendo, come unica informazione, che era stato inciso nel 1965 a Filadelfia al Virtue Sound Studios e mai utilizzato.
Un nome fittizio per stamparlo su bootleg (per la inesistente Joker Records) e utilizzarlo (e venderlo) nelle serate.
Solo nel 2005 il singolo è uscito ufficialmente per la Penniman Records (con un'ammiccante copertina) e incluso successivamente nella compilation della Rhino Records, "Girl Group Sounds: One Kiss Can Lead to Another".
Il mistero rimane inviolato (un'artista famosa che non ha voluto accostare il proprio nome a un brano così bizzarro? una turnista ? una cantante occasionale ? chi ha suonato ? chi l'ha composto ?).
PEANUT DUCK
There's a brand new dance
That's sweeping the nation
The peanut duck is the new sensation
You can do the monkey
And the cool jerk too
But the peanut duck is a danger too
The shing-a-ling ain't the thing
Quack quack...peanut duck
Now listen close
I'm gonna tell you all
How to do the peanut duck
Flap your arms like a duck
High and low
Move your neck like a duck
Fast or slow
You can really do it
So let's get to it
Keeping the groove
Can really move
The shing-a-ling ain't the thing
Quack quack...peanut duck
Everybody's doing the peanut duck
The shing-a-ling ain't the thing
Quack quack...peanut duck
Ne ha rifatta una discreta cover King Khan & His Sensational Shrines : https://www.youtube.com/watch?v=07iq_4h998w
Dal vivo lo hanno riproposto anche le 2010 DollSquad e i Nairobi Trio.
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martedì, maggio 21, 2024
Keith Moon - Two sides of the moon
Seguendo l'esempio dei compagni di band che si erano dedicati alle rispettive opere soliste anche KEITH MOON decise, nella seconda metà del 1974, di incidere un suo album.
Radunò ai Record Plant Studios una serie di prestigiosi e famosi amici e si mise al lavoro su una serie di cover.
La lista dei musicisti coinvolti è lunga e interessante: Ringo Starr, Harry Nilsson, David Bowie (ai cori nell'outtake "The real emotion"), Joe Walsh, Jim Keltner, Bobby Keys, Klaus Voorman, John Sebastian, Flo & Eddie, Spencer Davis, Dick Dale, Patti Quatro, Miguel Ferrer.
John Lennon gli diede il rock'n'roll "Move Over Ms. L" (che riprese successivamente come B side del suo singolo "Stand by me").
Ma pare che alla fine siano stati coinvolti una sessantina di musicisti.
Il problema è che abitualmente la compagnia si trovava in studio, incideva poer un'oretta o due, per poi tuffarsi in interminabili party alcolici (e non solo).
"Keith Moon entrava in studio, si metteva le mani nelle tasche e cadevano pillole e cocaina".
In più Keith decise di dedicarsi solo al canto (compare alla batteria - che considerava il suo lavoro e pertanto non pertinente al clima di puro divertimento dell'album - solo in tre brani in cui sovraincide alcune parti sulle ritmiche già suonate da Ringo e Jim Keltner).
La MCA anticipò 200.000 dollari che vennero spesi solo per lo studio di registrazione (e altro).
Quando Moon chiese ulteriori finanziamenti per la lussuosa copertina e l'etichetta si rifiutò, si presentò negli uffici dal direttore con un'ascia puntata sulla scrivania in mogano e disse: "Che cosa sarà, caro ragazzo? La copertina del mio album o una nuova scrivania?"
Il contenuto riflette l'approssimazione e la sciatteria con cui il disco venne inciso.
Si salva davvero poco, come l'iniziale "Crazy like a fox", mentre le cover di "In my life" dei Beatles e il brano di Lennon sono drammaticamente sconclusionati e pure la "sua" "The kids are alright" (in cui suona, come sempre travolgente, la batteria) non regge minimamente il confronto con l'originale.
Il resto è altrettanto trascurabile.
Un giudizio impietoso è scontato e crudele ma purtroppo l'album emana tristezza e malinconia per un talento unico ormai in un declino inarrestabile.
Radunò ai Record Plant Studios una serie di prestigiosi e famosi amici e si mise al lavoro su una serie di cover.
La lista dei musicisti coinvolti è lunga e interessante: Ringo Starr, Harry Nilsson, David Bowie (ai cori nell'outtake "The real emotion"), Joe Walsh, Jim Keltner, Bobby Keys, Klaus Voorman, John Sebastian, Flo & Eddie, Spencer Davis, Dick Dale, Patti Quatro, Miguel Ferrer.
John Lennon gli diede il rock'n'roll "Move Over Ms. L" (che riprese successivamente come B side del suo singolo "Stand by me").
Ma pare che alla fine siano stati coinvolti una sessantina di musicisti.
Il problema è che abitualmente la compagnia si trovava in studio, incideva poer un'oretta o due, per poi tuffarsi in interminabili party alcolici (e non solo).
"Keith Moon entrava in studio, si metteva le mani nelle tasche e cadevano pillole e cocaina".
In più Keith decise di dedicarsi solo al canto (compare alla batteria - che considerava il suo lavoro e pertanto non pertinente al clima di puro divertimento dell'album - solo in tre brani in cui sovraincide alcune parti sulle ritmiche già suonate da Ringo e Jim Keltner).
La MCA anticipò 200.000 dollari che vennero spesi solo per lo studio di registrazione (e altro).
Quando Moon chiese ulteriori finanziamenti per la lussuosa copertina e l'etichetta si rifiutò, si presentò negli uffici dal direttore con un'ascia puntata sulla scrivania in mogano e disse: "Che cosa sarà, caro ragazzo? La copertina del mio album o una nuova scrivania?"
Il contenuto riflette l'approssimazione e la sciatteria con cui il disco venne inciso.
Si salva davvero poco, come l'iniziale "Crazy like a fox", mentre le cover di "In my life" dei Beatles e il brano di Lennon sono drammaticamente sconclusionati e pure la "sua" "The kids are alright" (in cui suona, come sempre travolgente, la batteria) non regge minimamente il confronto con l'originale.
Il resto è altrettanto trascurabile.
Un giudizio impietoso è scontato e crudele ma purtroppo l'album emana tristezza e malinconia per un talento unico ormai in un declino inarrestabile.
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lunedì, maggio 20, 2024
Steve Albini
Riprendo l'articolo pubblicato ieri per "Libertà" nell'inserto "Portfolio" diretto da Maurizio Pilotti.
Ci ha improvvisamente lasciati per un malaugurato infarto, a soli sessantun anni, Steve Albini, personaggio pressoché unico nella storia della musica cosiddetta “alternativa”.
Musicista con band a loro modo seminali, pur nella loro totale iconoclastia, provocatoria fino all'eccesso, come Big Black, Rapeman e Shellac, è stato soprattutto un fonico geniale in studio di registrazione, talvolta accreditato come produttore, etichetta che ha sempre sdegnosamente rifiutato.
"Quando una band mi chiama per registrare dico subito ai miei clienti che non voglio assolutamente essere citato nei loro bei dischettini.
Farò semplicemente un buon lavoro per loro e questo non implica sobbarcarsi alcuna responsabilità per i loro fottuti gusti o errori. E' la band a essere responsabile di un ottimo disco o di un disco orribile.”
Famosa la lettera che scrisse ai Nirvana all'indomani del successo planetario di “Nevermind” quando lo chiamarono a collaborare al nuovo disco “In Utero” in cambio di un compenso prestabilito e a una percentuale sulle vendite:
"Non voglio prendere e non prenderò royalty su nessun disco che registro. Punto. Penso che pagare una royalty a un produttore o a un fonico sia eticamente indifendibile. La band scrive le canzoni. La band suona la musica. Sono i fan della band che comprano i dischi. La band è responsabile se si tratta di un disco fantastico o di un disco orribile. I diritti d'autore appartengono alla band. Vorrei essere pagato come un idraulico: io faccio il lavoro e tu mi paghi quanto vale. La casa discografica si aspetterà che io chieda un punto o un punto e mezzo di percentuale sulle vendite. Se consideriamo tre milioni di copie vendute, il totale ammonta a circa 400.000 dollari. Non c'è alcuna possibilità che io prenda così tanti soldi. Non riuscirei a dormire. Devo sentirmi a mio agio con la somma di denaro che mi pagate, ma sono soldi vostri, e insisto affinché anche tu ti senta a tuo agio.
Kurt Cobain ha suggerito di pagarmi una quota che considererei il pagamento completo. Se poi pensate davvero che meriti di più, di pagarmi un'altra quota andrebbe bene, ma probabilmente ci sarebbero più problemi organizzativi che altro. Vi lascerò la decisione finale su quanto verrò pagato e quello che sceglierete non influenzerà il mio entusiasmo per il disco.”
Aggiungeva a questa lettera, illuminante su come ha sempre pensato il suo ruolo nella musica, una postilla finale:
"Alcune persone nella mia posizione si aspetterebbero un aumento degli affari dopo essere stati associati alla tua band. Io però ho già un lavoro, più di quello che riesco a gestire e, francamente, il tipo di persone che tali superficialità attireranno non sono le persone con cui voglio lavorare."
Una posizione inimmaginabile in tempi in cui il guadagno si antepone costantemente alla qualità del lavoro stesso, all'arte, alla cultura.
“Molti fonici o produttori aspirano a lavorare a progetti che soddisfino i loro gusti personali. Francamente a me non importa che tipo di musica facciano i miei clienti. Mi sforzo persino di non formarmi un’opinione sulla musica su cui lavoro. Se sento che sto diventando un fan, devo fare un passo indietro, altrimenti non lavoro come si deve.”
Umanamente controverso, difficilmente inquadrabile, sempre lucido e spiazzante, pervicacemente ancorato a una sua personale coerenza, soprattutto con i principi dell'auto produzione e gestione, lontano da mainstream e logiche capitaliste di profitto.
“Il mio modo di lavorare e la mia etica nascono dall’appartenenza a una band punk autosufficiente, indipendente e underground, cosa che ha plasmato tutta la mia visione del mondo. Comportandoti in modo onesto e rispettabile puoi scuotere le coscienze. È un approccio che influenza ogni aspetto della mia vita.”
Spesso ha giocato con frasi forti che lo hanno portato ad essere tacciato di eccessiva irriverenza, perfino razzismo, quando in realtà ha semplicemente sempre rivendicato la libertà di esprimersi senza troppe metafore o tanto meno con il politically correct, conservando le radici ostiche (nonostante il nonno italiano) di abitante del Montana, uno degli stati americani più isolati, rudi e oltranzisti. Il suo rapporto con la musica ha sempre (almeno se diamo credito alle sue parole, spesso usate volutamente in chiave provocatoria) avuto un distacco quasi fastidioso e infastidito:
“Niente mi stimola. Faccio questo ogni giorno da oltre trent’anni, è solo lavoro. Certo, è un lavoro molto gratificante, amo quello che faccio, interagisco con le persone più interessanti del mondo, permetto loro di realizzare le loro più sfrenate ambizioni artistiche, cosa che è estremamente soddisfacente per me, però ecco, non sono in estasi quando faccio il mio lavoro. Perché, appunto, è un lavoro”.
La sua carriera inizia a Chicago nei primi anni Ottanta, dopo alcune esperienze in ambito hardcore punk, con una band iconoclasta e senza compromessi come i Big Black che in due album, nel 1986 e 1987, piantò i semi per il noise rock più estremo di cui il secondo “Songs about fucking”, fin dal titolo, è esemplare dell'approccio lirico di Steve, estremo all'eccesso.
“E' difficile immaginare che oggi potrebbero nascere e avere successo band che si battezzano Rapeman o cantano quello che cantavano i Big Black. Se ciò sia un bene o un male lascio all'interpretazione personale di chi legge e ascolta".
La band successiva, Rapeman (stupratore, nome di cui in seguito si vergognò e per il quale fece ammenda), proseguì il discorso sonoro di quella precedente per poi approdare a suoni meno ostici con gli Shellac, con cui ha inciso mezza dozzina di dischi, dando il via all'ambito cosiddetto post rock. In tutti i casi la gestione dei gruppi è sempre stata assolutamente slegata da ogni logica commerciale.
In tempi di ormai totale conquista del mercato da parte dei CD, le sue band continuarono a pubblicare i loro lavori in vinile, distribuiti in canali indipendenti, a prezzi controllati e con la promozione affidata a loro stessi.
Anche i concerti erano prerogativa della band, senza intermediari. Se fosse stato necessario contattare Steve, email o telefono erano a disposizione di chi ne avesse avuto bisogno, senza manager o esterni.
La parte più importante della sua attività artistica è stata comunque legata alla registrazione di dischi, ben oltre 1.500.
Tra i più famosi ci sono pietre miliari come il già citato "In Utero" dei Nirvana, "Surfer Rosa" dei Pixies, "Rid of me" di PJ Harvey, "Tweez" degli Slint, "Pod" dei Breeders, “Goat” dei Jesus Lizard, il secondo omonimo della Jon Spencer Blues Explosion, “Walling into the Carlsdale” di Robert Plant & Jimmy Page. Sempre animato dal (discutibile) motto:
“Se ci vuole più di una settimana a fare un disco, qualcuno sta sbagliando qualcosa. Adoro lasciare spazio alla casualità e al caos. Produrre un disco senza che si vedano le cuciture, dove ogni nota e sillaba è al proprio posto e ogni colpo di grancassa della batteria è identico, è veramente facile. Qualsiasi idiota con sufficiente pazienza e denaro può permettere che si compia un tale scempio. Preferisco lavorare a dischi in cui contano cose più importanti come l’originalità, la personalità e l’entusiasmo.”
Sferzante nei confronti della musica e musicisti, perfino gli stessi con cui aveva collaborato. Ad esempio i Pixies e il loro “Surfer rosa”, considerato un piccolo capolavoro degli anni Ottanta, vennero asfaltati da una dichiarazione acidissima:
"Un raffazzonato polpettone da una band che al suo meglio suona un blando college rock da intrattenimento.Non avevo mai incontrato quattro vacche tanto ansiose di essere portate in giro per l'anello al naso".
Negli ultimi tempi la musica, l'arte, la cultura sono state omogeneizzate e sigillate sotto vuoto spinto, con limiti ben precisi al di fuori dei quali non sono ammesse eccezioni, intrusioni, novità.
I suoni sono omologati ovunque (fatevi un giro sulle radio di ogni parte del mondo: i ritmi, i suoni, le frequenze, le melodie, sono pressoché tutte uguali).
Steve Albini era una variabile impazzita, incontrollabile, incatalogabile. Era un elemento di costante disturbo, mai supino alle regole prestabilite.
Ci mancherà.
Ci ha improvvisamente lasciati per un malaugurato infarto, a soli sessantun anni, Steve Albini, personaggio pressoché unico nella storia della musica cosiddetta “alternativa”.
Musicista con band a loro modo seminali, pur nella loro totale iconoclastia, provocatoria fino all'eccesso, come Big Black, Rapeman e Shellac, è stato soprattutto un fonico geniale in studio di registrazione, talvolta accreditato come produttore, etichetta che ha sempre sdegnosamente rifiutato.
"Quando una band mi chiama per registrare dico subito ai miei clienti che non voglio assolutamente essere citato nei loro bei dischettini.
Farò semplicemente un buon lavoro per loro e questo non implica sobbarcarsi alcuna responsabilità per i loro fottuti gusti o errori. E' la band a essere responsabile di un ottimo disco o di un disco orribile.”
Famosa la lettera che scrisse ai Nirvana all'indomani del successo planetario di “Nevermind” quando lo chiamarono a collaborare al nuovo disco “In Utero” in cambio di un compenso prestabilito e a una percentuale sulle vendite:
"Non voglio prendere e non prenderò royalty su nessun disco che registro. Punto. Penso che pagare una royalty a un produttore o a un fonico sia eticamente indifendibile. La band scrive le canzoni. La band suona la musica. Sono i fan della band che comprano i dischi. La band è responsabile se si tratta di un disco fantastico o di un disco orribile. I diritti d'autore appartengono alla band. Vorrei essere pagato come un idraulico: io faccio il lavoro e tu mi paghi quanto vale. La casa discografica si aspetterà che io chieda un punto o un punto e mezzo di percentuale sulle vendite. Se consideriamo tre milioni di copie vendute, il totale ammonta a circa 400.000 dollari. Non c'è alcuna possibilità che io prenda così tanti soldi. Non riuscirei a dormire. Devo sentirmi a mio agio con la somma di denaro che mi pagate, ma sono soldi vostri, e insisto affinché anche tu ti senta a tuo agio.
Kurt Cobain ha suggerito di pagarmi una quota che considererei il pagamento completo. Se poi pensate davvero che meriti di più, di pagarmi un'altra quota andrebbe bene, ma probabilmente ci sarebbero più problemi organizzativi che altro. Vi lascerò la decisione finale su quanto verrò pagato e quello che sceglierete non influenzerà il mio entusiasmo per il disco.”
Aggiungeva a questa lettera, illuminante su come ha sempre pensato il suo ruolo nella musica, una postilla finale:
"Alcune persone nella mia posizione si aspetterebbero un aumento degli affari dopo essere stati associati alla tua band. Io però ho già un lavoro, più di quello che riesco a gestire e, francamente, il tipo di persone che tali superficialità attireranno non sono le persone con cui voglio lavorare."
Una posizione inimmaginabile in tempi in cui il guadagno si antepone costantemente alla qualità del lavoro stesso, all'arte, alla cultura.
“Molti fonici o produttori aspirano a lavorare a progetti che soddisfino i loro gusti personali. Francamente a me non importa che tipo di musica facciano i miei clienti. Mi sforzo persino di non formarmi un’opinione sulla musica su cui lavoro. Se sento che sto diventando un fan, devo fare un passo indietro, altrimenti non lavoro come si deve.”
Umanamente controverso, difficilmente inquadrabile, sempre lucido e spiazzante, pervicacemente ancorato a una sua personale coerenza, soprattutto con i principi dell'auto produzione e gestione, lontano da mainstream e logiche capitaliste di profitto.
“Il mio modo di lavorare e la mia etica nascono dall’appartenenza a una band punk autosufficiente, indipendente e underground, cosa che ha plasmato tutta la mia visione del mondo. Comportandoti in modo onesto e rispettabile puoi scuotere le coscienze. È un approccio che influenza ogni aspetto della mia vita.”
Spesso ha giocato con frasi forti che lo hanno portato ad essere tacciato di eccessiva irriverenza, perfino razzismo, quando in realtà ha semplicemente sempre rivendicato la libertà di esprimersi senza troppe metafore o tanto meno con il politically correct, conservando le radici ostiche (nonostante il nonno italiano) di abitante del Montana, uno degli stati americani più isolati, rudi e oltranzisti. Il suo rapporto con la musica ha sempre (almeno se diamo credito alle sue parole, spesso usate volutamente in chiave provocatoria) avuto un distacco quasi fastidioso e infastidito:
“Niente mi stimola. Faccio questo ogni giorno da oltre trent’anni, è solo lavoro. Certo, è un lavoro molto gratificante, amo quello che faccio, interagisco con le persone più interessanti del mondo, permetto loro di realizzare le loro più sfrenate ambizioni artistiche, cosa che è estremamente soddisfacente per me, però ecco, non sono in estasi quando faccio il mio lavoro. Perché, appunto, è un lavoro”.
La sua carriera inizia a Chicago nei primi anni Ottanta, dopo alcune esperienze in ambito hardcore punk, con una band iconoclasta e senza compromessi come i Big Black che in due album, nel 1986 e 1987, piantò i semi per il noise rock più estremo di cui il secondo “Songs about fucking”, fin dal titolo, è esemplare dell'approccio lirico di Steve, estremo all'eccesso.
“E' difficile immaginare che oggi potrebbero nascere e avere successo band che si battezzano Rapeman o cantano quello che cantavano i Big Black. Se ciò sia un bene o un male lascio all'interpretazione personale di chi legge e ascolta".
La band successiva, Rapeman (stupratore, nome di cui in seguito si vergognò e per il quale fece ammenda), proseguì il discorso sonoro di quella precedente per poi approdare a suoni meno ostici con gli Shellac, con cui ha inciso mezza dozzina di dischi, dando il via all'ambito cosiddetto post rock. In tutti i casi la gestione dei gruppi è sempre stata assolutamente slegata da ogni logica commerciale.
In tempi di ormai totale conquista del mercato da parte dei CD, le sue band continuarono a pubblicare i loro lavori in vinile, distribuiti in canali indipendenti, a prezzi controllati e con la promozione affidata a loro stessi.
Anche i concerti erano prerogativa della band, senza intermediari. Se fosse stato necessario contattare Steve, email o telefono erano a disposizione di chi ne avesse avuto bisogno, senza manager o esterni.
La parte più importante della sua attività artistica è stata comunque legata alla registrazione di dischi, ben oltre 1.500.
Tra i più famosi ci sono pietre miliari come il già citato "In Utero" dei Nirvana, "Surfer Rosa" dei Pixies, "Rid of me" di PJ Harvey, "Tweez" degli Slint, "Pod" dei Breeders, “Goat” dei Jesus Lizard, il secondo omonimo della Jon Spencer Blues Explosion, “Walling into the Carlsdale” di Robert Plant & Jimmy Page. Sempre animato dal (discutibile) motto:
“Se ci vuole più di una settimana a fare un disco, qualcuno sta sbagliando qualcosa. Adoro lasciare spazio alla casualità e al caos. Produrre un disco senza che si vedano le cuciture, dove ogni nota e sillaba è al proprio posto e ogni colpo di grancassa della batteria è identico, è veramente facile. Qualsiasi idiota con sufficiente pazienza e denaro può permettere che si compia un tale scempio. Preferisco lavorare a dischi in cui contano cose più importanti come l’originalità, la personalità e l’entusiasmo.”
Sferzante nei confronti della musica e musicisti, perfino gli stessi con cui aveva collaborato. Ad esempio i Pixies e il loro “Surfer rosa”, considerato un piccolo capolavoro degli anni Ottanta, vennero asfaltati da una dichiarazione acidissima:
"Un raffazzonato polpettone da una band che al suo meglio suona un blando college rock da intrattenimento.Non avevo mai incontrato quattro vacche tanto ansiose di essere portate in giro per l'anello al naso".
Negli ultimi tempi la musica, l'arte, la cultura sono state omogeneizzate e sigillate sotto vuoto spinto, con limiti ben precisi al di fuori dei quali non sono ammesse eccezioni, intrusioni, novità.
I suoni sono omologati ovunque (fatevi un giro sulle radio di ogni parte del mondo: i ritmi, i suoni, le frequenze, le melodie, sono pressoché tutte uguali).
Steve Albini era una variabile impazzita, incontrollabile, incatalogabile. Era un elemento di costante disturbo, mai supino alle regole prestabilite.
Ci mancherà.
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Heroes
sabato, maggio 18, 2024
Temponauts live al Kelly's - Castelnuovo (Piacenza) 17 maggio 2024
Foto Henry Lazzeri.
I Temponauts sono stati tra i migliori gruppi della scena garage 60's beat italiana da sempre.
Un po' schivi, sempre discretamente ai margini (nonostante le numerose tappe inglesi) ma con due album splenidi come "A Million Year Picnic" del 2007 e "The Canticle Of The Temponauts" del 2013.
Poi una lunga pausa e un ormai inaspettato ritorno con il singolo "Of everything", che li coglie di nuovo in formissima, un album in uscita e il concerto al "Kelly's" di Castelnuovo di Borgonovo (Piacenza), patria della band della Val Tidone, da cui partirono tanto tempo fa, gremito e festante.
Il loro jingle jangle sound tra Byrds e Three O' Clock, Paisley Underground e i R.E.M. più 60's oriented ci avvolge finalmente di nuovo.
La band gioca in casa e rende felice i fan, scorrono i piccoli classici ("Men Of Dangerous Maybe" su tutte, degna di entrare in un futuro "Nuggets" dei 2000) ed è una gran festa.
Pibio saluta con la promessa "ci vediamo presto".
Ci saremo.
I Temponauts sono stati tra i migliori gruppi della scena garage 60's beat italiana da sempre.
Un po' schivi, sempre discretamente ai margini (nonostante le numerose tappe inglesi) ma con due album splenidi come "A Million Year Picnic" del 2007 e "The Canticle Of The Temponauts" del 2013.
Poi una lunga pausa e un ormai inaspettato ritorno con il singolo "Of everything", che li coglie di nuovo in formissima, un album in uscita e il concerto al "Kelly's" di Castelnuovo di Borgonovo (Piacenza), patria della band della Val Tidone, da cui partirono tanto tempo fa, gremito e festante.
Il loro jingle jangle sound tra Byrds e Three O' Clock, Paisley Underground e i R.E.M. più 60's oriented ci avvolge finalmente di nuovo.
La band gioca in casa e rende felice i fan, scorrono i piccoli classici ("Men Of Dangerous Maybe" su tutte, degna di entrare in un futuro "Nuggets" dei 2000) ed è una gran festa.
Pibio saluta con la promessa "ci vediamo presto".
Ci saremo.
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Concerti
venerdì, maggio 17, 2024
Beatles - Images of a Woman
Confinati nella suite presidenziale dell'Hilton Hotel di Tokyo per 100 ore tra il 29 giugno e il 3 luglio 1966 (dopo minacce di morte e isterismi vari ricorrenti in quel periodo), in occasione dei cinque concerti al Budokan Hall, i Beatles si dedicarono alla pittura, dipingendo un quadro contemporaneamente, a quattro mani, intitolato "Images of a Woman", sfruttando alcuni regali dei fan, tra cui pennelli e colori.
Tutti e quattro avevano precedenti esperienze artistiche.
John, in particolare ha frequentato la scuola d'arte per tre anni e ha realizzato successivamente una serie di disegni piuttosto noti.
Robert Whitaker, il fotografo incaricato a documentare il tour ha dichiarato: "Assolutamente il miglior periodo a cui abbia mai assistito tra i Beatles. Non li ho mai visti più calmi, più contenti che in questo momento.
Si fermavano, andavano a fare un concerto, e poi era 'Torniamo al quadro!'. Non hanno mai discusso di ciò che stavano dipingendo e l’immagine si è evoluta in modo naturale”.
L'opera fu donata al presidente del Fan Club ufficiale dei Beatles in Giappone, Tetsusaburo Shimoyama, per una vendita di beneficenza.
Il proprietario di un negozio di dischi, Takao Nishino, lo acquistò nel 1989.
Nishino lo consegnò per la vendita a Philip Weiss Auctions nel 2012, e l'Atlantic riferì di aver conservato il pezzo, per alcuni anni, sotto un letto.
L'opera è stata venduta per 1,7 milioni di dollari, commissioni incluse, poco tempo fa, dalla casa d'aste Christie's, triplicando la sua stima di 600.000 dollari.
Ciascuno dei Beatles ha dipinto un angolo della tela che, in realtà, non presenta alcuna rappresentazione figurativa di una donna ma è costituita solo da disegni astratti ad olio e acquerello su uno sfondo dai colori vivaci.
Una lampada lasciata al centro della tela ha lasciato un cerchio vuoto che il gruppo ha utilizzato per le proprie firme.
Tutti e quattro avevano precedenti esperienze artistiche.
John, in particolare ha frequentato la scuola d'arte per tre anni e ha realizzato successivamente una serie di disegni piuttosto noti.
Robert Whitaker, il fotografo incaricato a documentare il tour ha dichiarato: "Assolutamente il miglior periodo a cui abbia mai assistito tra i Beatles. Non li ho mai visti più calmi, più contenti che in questo momento.
Si fermavano, andavano a fare un concerto, e poi era 'Torniamo al quadro!'. Non hanno mai discusso di ciò che stavano dipingendo e l’immagine si è evoluta in modo naturale”.
L'opera fu donata al presidente del Fan Club ufficiale dei Beatles in Giappone, Tetsusaburo Shimoyama, per una vendita di beneficenza.
Il proprietario di un negozio di dischi, Takao Nishino, lo acquistò nel 1989.
Nishino lo consegnò per la vendita a Philip Weiss Auctions nel 2012, e l'Atlantic riferì di aver conservato il pezzo, per alcuni anni, sotto un letto.
L'opera è stata venduta per 1,7 milioni di dollari, commissioni incluse, poco tempo fa, dalla casa d'aste Christie's, triplicando la sua stima di 600.000 dollari.
Ciascuno dei Beatles ha dipinto un angolo della tela che, in realtà, non presenta alcuna rappresentazione figurativa di una donna ma è costituita solo da disegni astratti ad olio e acquerello su uno sfondo dai colori vivaci.
Una lampada lasciata al centro della tela ha lasciato un cerchio vuoto che il gruppo ha utilizzato per le proprie firme.
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Beatles
mercoledì, maggio 15, 2024
Mods Mayday 2024
Oscar Giammarinaro, voce degli Statuto scrive un'appassionata recensione (con foto sue) del MODS MAYDAY 2024.
Nelle foto, dall'alto in basso: il poster, i Chords Uk, Purple Hearts, Secret Affair, Sharp Class, Squire, Oscar.
Ero stato alla celebrazione dei 20 anni dal primo Mods Mayday nel 1999 a Kentish Town.
Tanti Mods, ottime band, massimo divertimento.
La celebrazione del 45nnale però ha avuto dimensioni, numeri e qualità addirittura superiori.
Le band che si erano esibite già 25 anni fa' hanno reso ancora meglio, con un approccio da musicisti maturi, capaci e professionisti che, in alcuni casi, allora non avevano avuto.
Più di 1000 Mods hanno invaso le tre sale 229 e in ogni momento e situazione delle "room" c'era pienone di gente e qualcosa di bello e interessante da sentire.
Ho dovuto scegliere quali gruppi ascoltare e ho optato in gran parte per la sala uno, dove c'erano i gruppi storici che accompagnano la mia vita fin all'adolescenza.
C'era una "sfasatura" di circa un quarto d'ora tra gli inizi dei gruppi tra una sala e l'altra, così sono riuscito ad avere un assaggio di tutte le band.
Andando per ordine, l'inizio solenne nella room 1 dei Chords UK con "British way of life" con voce e chitarra ha subito coinvolto i tantissimi presenti, per un set pulsante e preciso, saggia idea di far cantare il chitarrista storico, affidando a Chris Pope il ruolo di primo chitarrista e non più cantante (già nel '99 aveva delle difficoltà).
Così come avrebbero poi fatto un po' tutte le band, i Chords hanno eseguito tutte le loro hit più famose, con la conclusiva "Maybe Tomorrow" abbassata di un paio di toni.
Ottimi.
Intanto in sala due potevo sentire qualche nota dei validi Mark Three e The Specials Guest, questi ultimi dal sound '60 molto curato e col cantante italiano (Esposito...).
Di là iniziavano i Circles, con un cantante dalla voce pazzesca, bravissimo!
Oltre ai loro primissimi singoli, eseguiti egregiamente, hanno suonato canzoni composte dopo la reunion (dopo il 99,credo) , dal carattere molto pop e avvincente.
Era la volta dei Rage, band che ascoltai in Italia due volte negli anni '80 grazie a Tony Face e ancora una volta, mi hanno convinto, specie nelle composizioni, molto soul nonostante l'adrenalina del powerpop che li caratterizza.
Alla voce sempre Derwent Jaconelli, batterista storico di vari gruppi ma eccellente cantante.
Riuscivo ad ascoltare qualche brano degli ottimi Chelsea Curve, band americana di forte impatto power pop/soul e rinunciavo all’esibizione dei Nine Below Zero, che ho sentito tante volte, per seguire gli Sharp Class, trio di Mods appena ventenni, con totale attitudine sia estetica che sonora, fedeli al suono ‘79, con i Jam come primo riferimento ma con canzoni dai riff molto originali e capacità tecniche di altissimo livello.
E’ il momento in cui la sala 2 risulta più affollata, ci sono i Mods più giovani ma è entusiasmante vedere come tutti i presenti dal capello bianco, cantino in coro tutte le loro canzoni, che noto con stupore e piacere, sono già veri anthem per la scena. Bravi, coinvolgenti e di sicuro motivo di speranza per il futuro del mod sound più puro.
Tornavo in sala 1 dove i Jam’ d avevano già iniziato.
Cover band dei Jam, molto preparati e vincono facile facendo cantare in coro il folto pubblico da inizio a fine concerto…
tutti i presenti conoscono a memoria i testi dei Jam, una band che all’Inghilterra sta un po’ come Lucio Battisti sta all’Italia, non mi viene in mente nessun gruppo italiano così popolare nel nostro paese quanto lo sono loro in UK, neanche i Pooh.
Proprio in contemporanea,nella sala 3, il batterista dei Jam Rick Buckler raccontava la loro storia e tra i tanti aneddoti, ribadiva che Paul Weller non rivelò mai chiaramente agli altri due componenti il motivo del loro scioglimento.
Un veloce passaggio per capire il genere dei Len Price 3, molto pop ma graffiante e poi mi precipitavo sotto il palco principale perché suonava il gruppo della mia vita:i Secret Affair.
E’ evidente, tante band sono importanti e musicalmente valide, ma sono pochissime le band “di culto” e quella di Ian Page e Dave Cairns lo è come poche altre al mondo.
Perché vive realmente mod ogni attimo della propria esistenza, fin da ragazzino, l’incontro con il live dei Secret Affair e’ come la celebrazione di una messa di Pasqua per un cattolico, un atto di fede,riconoscenza e dedizione a chi, attraverso la musica, ha saputo trasmettere le caratteristiche del Modernismo, non solo con i testi,ma con una magia sonora che produce linfa mod allo stato puro.
La scaletta comprende tutti i loro brani più conosciuti, due cover di Soul ( “Do I love you” e “I don’t need no doctor”), suonati e cantati con maestria ed enfasi, uno spasso per tutti i presenti che hanno stipato la sala 1 oltre alla capienza…
Non riuscivo ad ascoltare i Block 33 ma mi fermavo in sala 1 per ascoltare i Purple Hearts, trascinanti, precisi e divertenti come non li avevo mai sentiti.
La loro Line-up è quella storica, ma alla batteria c’è Andy Orr degli Small World e il loro suono ci guadagna.
Anche loro suonano tutte le canzoni più conosciute, con un finale trionfale…”Millions like us”.
Riesco ancora a sentire la chiusura degli Squire in sala 2, belli carichi e coinvolgenti e poi mi ri-incontro con i miei compagni di avventura Andrea Napoli e Paolo Barbiere Barrasso…
Uscivamo dal 229 felici e consapevoli di aver vissuto uno dei momenti più importanti della storia musicale mod, che dopo 45 anni risulta più che mai dirompente, originale e vincente.
oSKAr piazza Statuto Mod
Nelle foto, dall'alto in basso: il poster, i Chords Uk, Purple Hearts, Secret Affair, Sharp Class, Squire, Oscar.
Ero stato alla celebrazione dei 20 anni dal primo Mods Mayday nel 1999 a Kentish Town.
Tanti Mods, ottime band, massimo divertimento.
La celebrazione del 45nnale però ha avuto dimensioni, numeri e qualità addirittura superiori.
Le band che si erano esibite già 25 anni fa' hanno reso ancora meglio, con un approccio da musicisti maturi, capaci e professionisti che, in alcuni casi, allora non avevano avuto.
Più di 1000 Mods hanno invaso le tre sale 229 e in ogni momento e situazione delle "room" c'era pienone di gente e qualcosa di bello e interessante da sentire.
Ho dovuto scegliere quali gruppi ascoltare e ho optato in gran parte per la sala uno, dove c'erano i gruppi storici che accompagnano la mia vita fin all'adolescenza.
C'era una "sfasatura" di circa un quarto d'ora tra gli inizi dei gruppi tra una sala e l'altra, così sono riuscito ad avere un assaggio di tutte le band.
Andando per ordine, l'inizio solenne nella room 1 dei Chords UK con "British way of life" con voce e chitarra ha subito coinvolto i tantissimi presenti, per un set pulsante e preciso, saggia idea di far cantare il chitarrista storico, affidando a Chris Pope il ruolo di primo chitarrista e non più cantante (già nel '99 aveva delle difficoltà).
Così come avrebbero poi fatto un po' tutte le band, i Chords hanno eseguito tutte le loro hit più famose, con la conclusiva "Maybe Tomorrow" abbassata di un paio di toni.
Ottimi.
Intanto in sala due potevo sentire qualche nota dei validi Mark Three e The Specials Guest, questi ultimi dal sound '60 molto curato e col cantante italiano (Esposito...).
Di là iniziavano i Circles, con un cantante dalla voce pazzesca, bravissimo!
Oltre ai loro primissimi singoli, eseguiti egregiamente, hanno suonato canzoni composte dopo la reunion (dopo il 99,credo) , dal carattere molto pop e avvincente.
Era la volta dei Rage, band che ascoltai in Italia due volte negli anni '80 grazie a Tony Face e ancora una volta, mi hanno convinto, specie nelle composizioni, molto soul nonostante l'adrenalina del powerpop che li caratterizza.
Alla voce sempre Derwent Jaconelli, batterista storico di vari gruppi ma eccellente cantante.
Riuscivo ad ascoltare qualche brano degli ottimi Chelsea Curve, band americana di forte impatto power pop/soul e rinunciavo all’esibizione dei Nine Below Zero, che ho sentito tante volte, per seguire gli Sharp Class, trio di Mods appena ventenni, con totale attitudine sia estetica che sonora, fedeli al suono ‘79, con i Jam come primo riferimento ma con canzoni dai riff molto originali e capacità tecniche di altissimo livello.
E’ il momento in cui la sala 2 risulta più affollata, ci sono i Mods più giovani ma è entusiasmante vedere come tutti i presenti dal capello bianco, cantino in coro tutte le loro canzoni, che noto con stupore e piacere, sono già veri anthem per la scena. Bravi, coinvolgenti e di sicuro motivo di speranza per il futuro del mod sound più puro.
Tornavo in sala 1 dove i Jam’ d avevano già iniziato.
Cover band dei Jam, molto preparati e vincono facile facendo cantare in coro il folto pubblico da inizio a fine concerto…
tutti i presenti conoscono a memoria i testi dei Jam, una band che all’Inghilterra sta un po’ come Lucio Battisti sta all’Italia, non mi viene in mente nessun gruppo italiano così popolare nel nostro paese quanto lo sono loro in UK, neanche i Pooh.
Proprio in contemporanea,nella sala 3, il batterista dei Jam Rick Buckler raccontava la loro storia e tra i tanti aneddoti, ribadiva che Paul Weller non rivelò mai chiaramente agli altri due componenti il motivo del loro scioglimento.
Un veloce passaggio per capire il genere dei Len Price 3, molto pop ma graffiante e poi mi precipitavo sotto il palco principale perché suonava il gruppo della mia vita:i Secret Affair.
E’ evidente, tante band sono importanti e musicalmente valide, ma sono pochissime le band “di culto” e quella di Ian Page e Dave Cairns lo è come poche altre al mondo.
Perché vive realmente mod ogni attimo della propria esistenza, fin da ragazzino, l’incontro con il live dei Secret Affair e’ come la celebrazione di una messa di Pasqua per un cattolico, un atto di fede,riconoscenza e dedizione a chi, attraverso la musica, ha saputo trasmettere le caratteristiche del Modernismo, non solo con i testi,ma con una magia sonora che produce linfa mod allo stato puro.
La scaletta comprende tutti i loro brani più conosciuti, due cover di Soul ( “Do I love you” e “I don’t need no doctor”), suonati e cantati con maestria ed enfasi, uno spasso per tutti i presenti che hanno stipato la sala 1 oltre alla capienza…
Non riuscivo ad ascoltare i Block 33 ma mi fermavo in sala 1 per ascoltare i Purple Hearts, trascinanti, precisi e divertenti come non li avevo mai sentiti.
La loro Line-up è quella storica, ma alla batteria c’è Andy Orr degli Small World e il loro suono ci guadagna.
Anche loro suonano tutte le canzoni più conosciute, con un finale trionfale…”Millions like us”.
Riesco ancora a sentire la chiusura degli Squire in sala 2, belli carichi e coinvolgenti e poi mi ri-incontro con i miei compagni di avventura Andrea Napoli e Paolo Barbiere Barrasso…
Uscivamo dal 229 felici e consapevoli di aver vissuto uno dei momenti più importanti della storia musicale mod, che dopo 45 anni risulta più che mai dirompente, originale e vincente.
oSKAr piazza Statuto Mod
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