venerdì, dicembre 03, 2004

EZLN: omaggio a Montalbán

Se qualcuno mi chiedesse una definizione di Don Manuel Vázquez Montalbán, direi che egli fu, ed è, un ponte.

Sarebbe magnifico che quelli che stanno al Potere fossero obbligati a leggere almeno sette libri.
So che tutto questo può sembrare sovversivo, utopico, o entrambi.

In realtà ve lo racconto perché se qualcosa può definire il lavoro di Montalbán è il pestello con cui lui ha abbattuto muri, l'abilità da ventriloquo con cui ha fatto parlare i potenti e gli intellettuali.
Esercito zapatista di liberazione nazionaleMessicoNovembre 2004


Non sapevo come cominciare. Dopo tutto, questa lettera vuole solo essere un abbraccio in ritardo, con l’anacronia che contraddistingue noi zapatisti con le persone che sentiamo vicine. Io vorrei parlarvi di Don Manuel Vázquez Montalbán. So che può sembrare strano che sia proprio io a parlarvene.
Tuttavia, parlando di lui, non voglio portarlo dalla nostra parte ma tornare a considerarlo per quello che era: un ponte.
E, anche se non c’è più, Don Manuel Vázquez Montalbán torna a essere un ponte affinché la nostra parola, quella degli zapatisti, che oggi non è più di moda, abbia un luogo tra i tanti geni della parola che ora si trovano in terra messicana.Ora, scrivendo queste righe, capisco che forse questa è sempre stata sua intenzione e che forse dobbiamo approfittarne e parlare di noi, di nostri trionfi e ostacoli, di sogni e incubi, di continuità e rotture. Ma no, la tentazione è durata solo un istante. Non parlerò di noi. Parlerò, o meglio tenterò di parlare, di lui.
All’inizio, non abbiamo creduto alla sua morte. Il fatto di scomparire in un luogo lontano dalla nostra geografia, precisamente in un aeroporto di Bangkok, ci sembrò allora come una sorta di risorsa poliziesca e non come un’assenza definitiva.
Non abbiamo creduto alla sua morte, e l’abbiamo aspettato.
Sarebbe apparso con una nuova storia di Pepe Carvalho con un’intervista a un gruppo di ‘altri’ anti-neoliberisti, sconosciuti per tutti gli ‘altri’ che popolano la complicata geografia della resistenza mondiale.
Allora gli avremmo detto qualche volgarità (facendo attenzione che non ci sentisse) e avremmo continuato a camminare sapendo che da quelle parti c’era lui. Lui, pensavo, non sarebbe mai morto senza avvisarci.
Ma no, Don Vázquez Montalbán se ne era andato davvero, lasciandoci un po’ più vuoti. E questo, il fatto che se ne era andato davvero, ci riempiva, (ci riempie) il cuore di rabbia.Succede così con le morti: prima rabbia, poi tristezza, poi entrambe le cose.
Don Vázquez Montalbán non era nostro amico, era nostro compagno.
“Compagno di viaggio”, disse in uno dei suoi scritti.
“Compagno e basta”, dicevamo, e diciamo, noi.
Non so se questo sia più o meno per lui o per noi.
Per noi è tutto.
Gli parlai di persona solo una volta, e non cercherò di dire come era o come non era.
Sicuramente ci sono persone, soprattutto voi due, che potranno tracciarne un profilo più veritiero.
Ricordo che, quella volta, ci scambiammo i saluti di rigore e alcune battute su alcuni artisti spagnoli, credo che cantammo perfino un duetto ”la vita è un tombola, tom, tom, tombola”. Chiaro che non ha mai riconosciuto il fatto che la intonammo in coro e mi assegnò il ruolo di solista. Poi ci facemmo seri. Beh, almeno ci provammo.
In realtà, l’incontro mi sembrò come quando due pugili si scontrano e passano i primi minuti del combattimento a studiarsi a vicenda, per poi scoprire che quello che bisogna picchiare è l’arbitro. Credo che cercasse di capire.
Credo che cercasse di uscire dal falso dilemma di essere ‘fan’ di Marcos o ‘anti-fan’ di Marcos. Credo che, seguendo di marxismo di Groucho, non simpatizzasse con una causa che lo accettava come tale.
O meglio, credo che non fosse ‘fan’ nemmeno di se stesso.
Non era uno di quegli intellettuali che cambiano diocesi e liturgia come cambiano i pantaloni (quando li cambiano). Dopo avere letto i suoi scritti, mi sembrava di essere un ateo persino nei confronti di Manuel Vázquez Montalbán, ma un fermo credente nell’esistenza del male e della necessità di affrontarlo.
Il bisturi della parola non solo lo costrinse a sezionare i differenti poteri che si sono succeduti nella geografia mondiale.
Usò questo bisturi di fronte a reali o presunte opposizioni che lo specchio del potere inevitabilmente riproduce.
Compreso, intuisco, lo usò contro se stesso (di questo, certamente, sarete più informati voi).
Quando parlammo in quella unica occasione, mi diede l’impressione che fosse in cerca di qualcosa, ma non di una nuova causa che lo redimesse a distanza o di un disillusione che rafforzasse il suo scetticismo di fronte a tutto.
Credo sinceramente che egli cercasse solo di vedere dietro il passamontagna per scoprire e incontrare un movimento: quello zapatista.
E penso che l’abbia trovato, voglio dire, che CI abbia trovato.
Solo così posso spiegarmi l’ostinata felicità nel farci domande, nello stare con noi nella luce e nell’ombra, in Catalogna, in un aeroporto di Bangkok o a Guadalajara.Perché la Guadalajara messicana si illumina con la parola, ma è carica anche dell’ombra dei giovani ‘altromondisti’ stroncati, catturati da questi assassini della luce che ora sono i governi della nostra dolorosa geografia.Non lo so, ma forse Don Vázquez Montalbán avrebbe sviato sebbene egli stesso rappresentasse un poco di luce per le carceri che, a Guadalajara, rinchiudono la gioventù e la ribellione creatrice.
E, a proposito della repressione subita da questi giovani, si adattano bene le parole che scrisse una volta: “la nuova destra assomiglia come una goccia d’acqua alla destra di sempre quando esce dalla loro anima che il disordine è peggiore dell’ingiustizia” (La teologia nazionale, El Pais, 5 aprile 1994).
O forse sarebbe stato d’accordo sul fatto che noi, gli zapatisti, lo avessimo usato come ponte per salutare e abbracciare tutti gli ‘altri’ che sono prigionieri per il reato di ‘leso neoliberismo’: quello di destabilizzare, con la sola esistenza, un ordine costituito sulla morte dell’intelligenza.
Questi giovani sono prigionieri perché brutti.
Nel rinchiuderli, il governo applica loro una trattamento di bellezza.
L’ingiustizia della loro incarcerazione è stata sbiancata con il detergente “Ordine”.
Perché quando il potere rimane senza argomenti (cosa che accade quasi sempre), la repressione si veste da colui che riordina il caos (dove ‘caos’ è sinonimo di esistenza dell’altro).
Nell’asepsi neoliberista, le persone imbruttiscono e sporcano le strade, e i poliziotti non sono i moderni netturbini visto che, al posto della scopa, usano armi da fuoco e equipaggiamenti antisommossa.
L’affanno repressivo contro il diverso.
Ho detto che Don Vázquez Montalbánè stato con noi nella luce e nell’ombra. L’ultima lettera che ci ha mandato era nel bel mezzo della polemica riguardo il nostro appoggio esplicito alla lotta politica e culturale del popolo basco.
Ho detto ‘polemica’?
Bene, in realtà fu una campagna di linciaggio mediatico, ma ci siamo abituati.A differenza di quelli che approfittarono per defilarsi dalla nostra scomoda compagnia e, dal “pulcro” pulpito dei mezzi di comunicazione che ci hanno accusato (ingiustamente, come si dimostrerebbe quasi immediatamente) di essere affiliati al terrorismo ETA, Don Vázquez Montalbán ci inviò una missiva privata.
In quella (credo che ora posso rivelarlo) ci anticipava ciò che sarebbe accaduto: lo zapatismo sarebbe stato connesso non a una causa giusta, ma al crimine messianico.
Chiaro che egli non pensava che lo zapatismo avrebbe ricevuto l’abbraccio mortale del fondamentalismo, ci conosceva troppo bene.
Ma era anche un grande conoscitore dei mezzi di comunicazione di massa e ci istruiva a riguardo. Immediatamente ricevetti la sua risposta.
Ci fece arrivare uno dei suoi ultimi libri con una dedica che altro non era che “ sono qui, con voi” e, rimarcando la sua simpatia per Euzkal Herria, appoggiò, insieme ad altre personalità della cultura europea, la nostra iniziativa “un’opportunità alla parola”.
Ma, tornando al nostro unico incontro, ricordo che parlammo un po’ di Antonio Macaco. Entrambi ammiravamo il “Juan de Maizena”, le sue questioni, i suoi dubbi. Durante la conversazione (si suppone fosse un’intervista, ma in realtà fu una chiacchierata) ci siamo trovati d’accordo sul fatto che, molte volte, i migliori testi di analisi politica sono nella letteratura universale, e senza palesarlo, siamo arrivati alla conclusione che il mondo andrebbe molto meglio se i politici sapessero più di letteratura che di mercatotecnica, e se leggessero più libri di poesia e novelle, e meno report statistici e bollettini giornalistici.
Detto questo, permettetemi una divagazione:La stanza in cui il Potere prende le decisioni è chiusa.

La democrazia, ci dicono, è che noi, quelli che stanno fuori, possiamo scegliere chi entra e chi esce. Ma si dimenticano di chiarirci che possiamo solo scegliere tra i pochi che ci vengono presentati.

E non solo.
Noi, quelli che stanno fuori, quelli che patiscono le conseguenze delle decisioni che si prendono in quella stanza, non sappiamo nulla a riguardo.
La politica, ci ripetono, è argomento per specialisti che solo specialisti possono comprendere.
Così, ci troviamo davanti all’apparizione di guerre avvolte nel cellofan di argomenti insostenibili, programmi economici che sono solo guerre “blande”, crimini culturali perpetrati in nome della modernizzazione, annichilimento di identità differenti attraverso l’eliminazione di chi ne ha una. Riassumendo: l’arbitrarietà assassina della forza, travestita da “ragione di stato”, da “ragione economica”, da “ragione divina”, da “ragione neoliberilista”.In qualche parte del libro di Machado, Maizena e i suoi alunni discutono sul teatro, sul come le scene in una stanza trascorrono con l’assenza di un muro e che è l’assenza di questo muro ciò che permette di sapere ciò che accade all’interno.
Nello stesso modo, gli attori ‘parlano’ i loro pensieri ed è così che noi sappiamo ciò che accade all’interno di un personaggio.
Quelli che fanno dell’esercizio della ragione e dell’arte il loro lavoro (come quelli che ora confluiscono a Guadalajara, Messico) possono contribuire ad abbattere questo muro della stanza del Potere e possono far parlare i personaggi che la abitano.
Aiuterebbero a sconfiggere il mito della “politica specializzata” e a far sparire l’aureola sopranaturale del Potere.
La democrazia sarebbe liberata dalla prigione degli spot pubblicitari, la frivolezza smetterebbe di essere un programma di governo, e la stupidità non sarebbe la bandiera con cui si avvolgono, orgogliosi, i governanti neoliberisti.

Sarebbe magnifico che quelli che stanno al Potere fossero obbligati a leggere almeno sette libri: uno di poesia, uno di racconti, un romanzo, uno di teatro, un saggio, uno di filosofia, uno di grammatica.
So che tutto questo può sembrare sovversivo, utopico, o entrambi, non fateci troppo caso.
In realtà ve lo racconto perché se qualcosa può definire il lavoro di Don Vázquez Montalbán è il pestello con cui lui ha abbattuto muri, l'abilità da ventriloquo con cui ha fatto parlare i potenti e gli intellettuali.
Credo che lui avesse un profondo rispetto per il lettore.
Credo che si chiedesse cosa scrivere, perché e contro cosa, e che traslasse queste domande alla lettura: cosa si legge, e perché e contro cosa.
E credo che, come scrittore, non abbia tolto nessuna risposta ai suoi lettori.
Contraddicendo il titolo di uno dei suoi libri, non ha mai scritto pamphlet. Al contrario, ha fatto della parola una finestra; con i suoi scritti, si è sforzato di mantenerla limpida e trasparente.La parola solitamente ha il rispetto di chi la affronta, cioè, quelli che la parlano e la scrivono, e quelli che la leggono e la ascoltano.Se qualcuno mi chiedesse un esempio per sintetizzare la resistenza dell’umanità di fronte alla guerra neoliberista, direi ‘la parola’.
E aggiungerei che una delle sue trincee più ostinata è il libro.
Sebbene, chiaro, è una trincea strana perché assomiglia straordinariamente a un ponte.
Perché chi scrive un libro e chi lo legge non fa nient’altro che attraversare un ponte.
E attraversare ponti, si trova in qualunque manuale di antropologia che si rispetti, è una delle caratteristiche dell’essere umano.
E vi saluto, ma non vorrei farlo senza dichiarare che, se qualcuno mi chiedesse una definizione di Don Manuel Vázquez Montalbán direi che egli fu, ed è, un ponte.
Bene.
Salute e che la vita, un giorno, trascorra senza muri.

Dalle montagne del sudest messicanoSubcomandante Insorgente MarcosMessico, novembre 2004


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