mercoledì, giugno 26, 2024

Stefano Scrima - Sto solo dormendo

Stefano Scrima ci ha abituati a ottimi e interessanti saggi sulla musica, vista da varie angolazioni, con approfondimenti sempre centrati e stimolanti.

In questo caso l'analisi va all'opera di JOHN LENNON, attraverso le sue varie fasi compositive.
Il proletario ribelle che, per primo nei Beatles, esce dalla narrazione easy/cuore/amore del primo periodo con brani drammatici ed esistenziali come "I'm a loser", "Help!", "Nowhere man".
Verranno l'impegno politico già accennato in "Revolution", il pacifismo e l'inasprimento delle posizioni con "Power to the people" e il militante "Sometime in New York City", costantemente in una situazione contraddittoria (la star ricca sfondata che inneggia alla "rivoluzione").

"Negli anni Sessanta e Setanta mi ero un po' improvvisato nella cosiddeta politica, più che altro per un senso di colpa.
Il senso di colpa di essere ricco e anche pensando che pace e amore non fossero abbastanza, che bisognasse farsi sparare o qualcosa del genere epr essere uno del popolo".

"L'errore più grave che io e Yoko commettemmo in quel periodo fu di lasciarci influenzare da quei macho "veri rivoluzionari" con le loro folli idee sulla necessità di ammazzare la gente per liberarla dal capitalismo e/o comunismo (dipende da come la pensate)."


Alla fine il ritiro per dedicarsi alla famiglia e a sé stesso, coltivando la sua innata pigrizia ("I'm only sleeping", appunto).

"Yoko mi ha fatto capire che un'alternativa era possibile. Non sei obbligato a farlo...se non produrrò nient'altro da offrire al consumo del pubblico se non il silenzio, così sia. Amen".

L'epilogo lo conosciamo, purtroppo.

Il libro è un ulteriore tassello, frutto di una visione personale e originale dell'autore, che non mancherà di essere apprezzatissima dai Beatlesiani e dai cultori di "certa musica".

Stefano Scrima
Sto solo dormendo
Arcana
92 pagine
12 euro

martedì, giugno 25, 2024

Kneecapp

Ho chiesto all'amico MICHELE SAVINI di approfondire, direttamente da Dublino e quindi con più dimestichezza con la "materia", il fenomeno KNEECAPP, band nord irlandese che sta travolgendo con il nuovo album "Fine art" e che meritano spazio e attenzione.

Arrivano da Belfast, non si capisce una parola di quello che dicono e il loro nome richiama a una tecnica di tortura usata durante i Troubles in Irlanda del Nord (Kneecapping / Gambizzazione).

Sono i Kneecap, gruppo hip hop composto da tre ragazzi poco più che ventenni e la loro è una voce che arriva urlante dalle zone troppo spesso disagiate dell'Irlanda del Nord. Lo fanno abilmente unendo l'irlandese con l'inglese, la satira con testi socialmente consapevoli, la realtà con l'assurdità, parlando in una lingua troppo spesso ignorata che rende il tutto ancora più elettrizzante.

Inizia tutto circa due anni fa, quando tra mille polemiche inaugurarono a Belfast, nella zona di Fall Road, uno dei quartieri Repubblicani della Città dove si parla tutt‘ora gaelico, un murales rappresentante un furgoncino della polizia RUC in fiamme accompagnata dalla scritta “níl fáilte roimh an RUC” (the RUC are not welcome).
La RUC era un corpo di polizia federale dell'Irlanda del Nord attiva dal 1922 al 2001, in cui la maggior parte dei membri era protestante e che fungeva da “braccio” dello Stato Britannico, prendendo di mira soprattutto repubblicani e cattolici con duri mezzi di repressione durante i Troubles.
“E’ semplicemente un Opera D’arte (Fine Art, ndr). Se non lo capisci, non lo capisci … ma rimane pur sempre arte …” fu’ la dichiarazione rilasciata dalla band.
FINE ART è appunto il titolo del loro album di debutto, in cui si avvalgono di collaborazioni di lusso, vedi quella con Grian Chatten dei Fontaines D.C. Radie Peat della folk band Lankum o il rapper britannico Jelani Blackman e il risultato finale è affascinate, fresco, avvincente ma soprattutto mai scontato.
Uniscono samples, rumori, dialoghi che trasudano dissenso, testi tanto feroci quanto taglienti, mescolando il tutto con un po’ di punk, elettronica, tanto hip hop e un’attitudine da “Qui non si fanno prigionieri ...”

Le vittime sono sempre le stesse: Il governo britannico, la sua presenza in territorio irlandese e tutto quello che è “Royal”, a favore del Repubblicanesimo e della loro amata lingua Gaelica, idioma che sta lentamente scomparendo (o se preferiamo deliberatamente fatto scomparire e messo a tacere) con la progressiva integrazione dell’Irlanda all’interno del sistema britannico, e patrimonio da salvaguardare per onorare la propria identità culturale.

A ribadire questo, anche un film che descrive l'ascesa della band diretto dal regista Rich Peppiatt, che li vede protagonisti nei panni di sé stessi, insieme al famoso attore irlandese Michael Fassbender, in cui la lingua Gaelica è il fulcro principale intorno a cui gira la trama.
“KNEECAP” è stato recentemente presentato al Sundance Film Festival e al Tribecca Film Festival, ottenendo riscontri positivi sia in Europa che in USA.
Qui di seguito il trailer:
https://www.youtube.com/watch?v=QB2LsoZOQpU&t=47s

Suscitano polemica non sono tra gli unionisti Nordirlandesi, ma anche da parta della società benpensante che non vede di buon occhio i vari riferimenti alle droghe presenti nei testi, vedi ad esempio la canzone 3CAG , abbreviazione di “3 chonsan agus guta”, che in gaelico significa “tre consonanti e una vocale” e chiaro riferimento all’ MDMA.
O il loro giocare con simboli che richiamano i Troubles (uno di loro indossa un passamontagna tricolore) o che vanno a toccare temi difficili, come appunto il costante sostegno al popolo Palestinese nel conflitto mediorientale, con bandiere o spille sempre in bella mostra durante le loro apparizioni pubbliche.
O addirittura la serie di adesivi comparsi la scorsa settimana al British Museum, parte dell’operazione di marketing per promuovere il nuovo album, che ricordavano simpaticamente come la maggior parte delle opere esposte provengono in realtà da paesi diversi dal Regno Unito (con una parte significativa di essa “acquisita” attraverso canali impropri, o persino trafugata in alcuni casi …).
Provocatori e irriverenti, abili oratori di un linguaggio della strada, condannati dai politici e amati dai fan:
i Kneecap sono innanzitutto un fenomeno culturale imprescindibile per capire che cosa succede nel nord dell’Irlanda e uno specchio reale sulla generazione nata dopo l'accordo del Venerdì Santo del 1998.8.

lunedì, giugno 24, 2024

Judith Hill

Riprendo l'articolo che ho pubblicato sabato per "Il manifesto" nella sezione "Alias".

“Letters from a black widow”.
Strana e tremenda storia quella a cui fa riferimento il titolo del nuovo album di Judith Hill, talentuosissima musicista, compositrice e cantante, da lungo tempo sulla scena musicale con un curriculum da brividi, nonostante un'età ancora piuttosto giovane (40 anni). Figlia di una pianista giapponese e del bassista afroamericano Robert Lee “Pee Wee” Hill, già a fianco di Billy Preston e Thelma Houston, tra i tanti. I due si conoscono quando entrano nella band di Chester Thompson (batterista di Frank Zappa, Santana, Genesis).

“Ero giovane quindi non mi rendevo conto di quanto fosse importante avere quei musicisti in giro per casa. Voglio dire, ora penso: "Quello era Billy Preston".

Judith cresce in un brodo primordiale di musica e già a quattro anni è accreditata di un brano composto da lei. Frequenta una scuola dove è l'unica bambina di colore, subendo le classiche angherie:
“Mi sono trovata davvero in difficoltà da bambina. Volevo solo degli amici. Volevo stare con le ragazze ma non potevo, venivo derisa per i miei capelli e il mio aspetto (una nippo-afroamericana non suscitava sicuramente tante simpatie in una scuola solo “bianca” Nda).
"È quella sensazione terribile quando suona la campana del pranzo e sai che andrai nel parco giochi da sola o presa in giro e sarà traumatico ogni giorno."

E' solo nel 2007 all'età di 23 anni che incomincia a dedicarsi professionalmente al canto, dopo un diploma in composizione musicale, andando in tour in Francia con Michel Polnareff.
Tornata negli States incomincia una strepitosa carriera da corista, a fianco di alcuni dei migliori nomi della scena pop rock soul internazionale, da Stevie Wonder a Rod Stewart, Dave Stewart, Gregg Allman, Mike Oldfield, Carole King, Robbie Williams, George Benson, tra gli altri.

Nel 2009 il salto di qualità con Michael Jackson che la chiama a duettare con lui nel tour di “This is it” (Judith compare nell'omonimo documentario). Prova per mesi ma il 25 giugno dello stesso anno Jacko muore e il tour è ovviamente cancellato.
“La mia prima grande occasione è stata la triste cerimonia commemorativa per Michael. E' stata anche una bellissima esperienza spirituale. Ma la prima volta che sono stata vista dal pubblico è stato quando ho cantato “Man in the Mirror” alla cerimonia. Michael è stato davvero di grande ispirazione, guardando come lavorava. E' stato fantastico collaborare con lui".
Nel 2013 si cimenta nella versione americana del contest “The Voice”. Le sue interpretazioni sembrano sbaragliare tutti ma viene clamorosamente eliminata, suscitando proteste e sconcerto.
La carriera incomincia a prendere comunque una strada positiva, collabora con John Groban e apre il tour inglese di John Legend oltre ad altre situazioni minori.
Partecipa al docufilm “20 Feet from Stardom” del 2013 (dedicato proprio ai coristi, coloro che accompagnano le stelle della musica ma non hanno mai l'opportunità di essere in primo piano).
Vince però un Grammy Award per la migliore musica da film.

Se la prima grande occasione con Michael Jackson era finita prima di incominciare, la sorte gliene presenta un'altra.
Durante una trasmissione in onda su una Tv europea, alla domanda con chi le sarebbe piaciuto collaborare risponde: Prince!
Il grande musicista la vede casualmente, ne rimane impressionato e decide di contattarla e invitarla ai suoi studi Paisley Park e alla presentazione del suo nuovo album “An official age”. E' lì che tra i due incomincia un'intensa storia artistica ma, pare, non solo:
"Ci tenevo profondamente a lui. Mi ha detto che mi amava e che per me ci sarebbe sempre stato".

Prince le propone di fargli sentire qualche suo brano, che apprezza e decide di produrre, intervenendo negli arrangiamenti e mettendo a disposizione il suo genio e la sua band. In tre settimane registrano il travolgente esordio di Judith Hill, “Back in time”, ricco di elementi funk e con la mano di Prince che si sente spesso evidente ma che ha già in sé una grande dose di personalità.

Nell'aprile anche Prince muore, per overdose. Aveva già avuto una settimana prima un collasso mentre era in aereo proprio con Judith a fianco ed era stato “riportato in vita” a stento. Incomincia qui un incubo per la musicista (cantante, pianista, chitarrista, compositrice di tutte le sue canzoni). Gli hater si scatenano, le imputano la morte delle due grandi star, di portare sfortuna, le arrivano minacce di ogni tipo, anche di morte.
Novella Mia Martini nippoafroamericana.

Lo stesso ambiente musicale la guarda spesso con sospetto e un briciolo di disprezzo. Quella “protetta” da due dei più grandi nomi nella storia della musica pop, ora se la deve cavare da sola. Ce la farà?
"Ho lottato per riuscire davvero a sentire che ero in grado di essere sufficiente a me stessa o che la mia storia contava.
Ho sempre pensato che il mio nome contasse solo perché era in relazione a qualcun altro."
La sua vita sprofonda in un baratro psicologico, continua a suonare e a pubblicare ottimi album, sempre all'insegna di un mix di black music, jazz, pop, suonati e cantati benissimo e dall'alto potenziale commerciale ma quell' “ombra nera” che la avvolge non se ne va (tutt'ora riceve messaggi anonimi di disprezzo e di accuse per la scomparsa dei due geni della musica).
“Per molti anni non sapevo come sarebbe andata a finire.
Magari ero seduta in un ristorante e
improvvisamente passava in sottofondo una canzone di Prince e a quel punto la mia giornata finiva. Capitava in qualsiasi posto del mondo mi trovassi. E' stato un periodo davvero molto duro”.

Arriva ora il suo nuovo, quinto, album, un vero e proprio capolavoro in cui troviamo soul, funk, blues, gospel, jazz, sperimentazione, rock, elettronica, hip hop, con la sua voce spettacolare a tenere le fila.
A tratti ricorda Macy Gray o Erikah Badu, a volte Prince e altre Sly and the Family Stone o perfino Aretha Franklin ma la personalità e l'ecletticità che sprigionano l'album sono uniche e originalissime. Come sottolineato il titolo è un esplicito e doloroso richiamo alla sua tormentata vicenda: “Lettera da una Vedova nera” / Letters from a Black Widow”.

Black Widow è il soprannome che le è stato dato a seguito delle morti di Michael Jackson e Prince.

L'album esprime tutta la frustrazione e il dramma di questa condizione, soprattutto nell'esplicita “Black Widow”, una ballata con voce e pianoforte protagonisti, come se uscisse da un lontano repertorio di Bessie Smith, Billie Holiday o Nina Simone, stessa forza dirompente, per poi trasformarsi un brano di rock pesante, duro e lacerante. Il coro la chiama “Vedova nera, vedova nera” e lei disperata risponde:
“Ho costruito queste quattro mura per proteggermi dal mondo / O forse è il contrario / quello non è il mio nome/ ehi signore, non è il mio nome / ehi sorella, non chiamarmi così / Io non sono una vedova nera, un cattivo presagio/ Non ti ho fatto niente di male / Vedova nera non è il mio nome...Il mio crimine è l'esistenza, quindi ho mantenuto le distanze/ Lontana, così lontana da tutti / come osi dirlo? Vedova Nera non è il mio nome / Vedova Nera, non hai cuore? Forse è vero, forse è vero / Non avvicinarti troppo, sono un cattivo juju / Sono maledetta perché sono stata morsa /Sono nera e mi è proibito.”

Un album tanto potente quanto amaro e drammatico che potrebbe chiudere un oscuro cerchio e avere il potere taumaturgico di una nuova (ennesima) rinascita.
La donna Judith Hill e il suo smisurato talento la meriterebbero con tutto il cuore.

domenica, giugno 23, 2024

Quadrophenia al Festival Beat e Passaggi Festival

Doppio appuntamento per il libro "Quadrophenia" pubblicato da Interno 4.

Venerdì 28 giugno a Salsomaggiore (Parma) all'interno del 30° Festival Beat alle 18.30 al Winebar Vincanto in Largo Roma 2.
Modera Luca Frazzi.

https://www.facebook.com/FestivalBeatSalsomaggioreTerme

Domenica 30 giugno a Fano (Pesaro e Urbino) - Fosso Sejore (Bagni Elsa n°3) alle 18.30 al Passaggi Festival.
Modera Luca Valentini.

https://www.facebook.com/passaggifestivalfano
https://www.passaggifestival.it/
Gli Who e la storia del disco e del film che hanno definito un genere.

Antonio Bacciocchi, prime mover del movimento Mod italiano, e tra i maggiori esperti italiano del movimento, si misura per la prima volta con il disco, e il film, di culto che nel 2023 compie 50 anni.
Esce il 26 ottobre del 1973 “Quadrophenia”, sesto album in studio degli Who, a cui si aggiunge il live “Live at Leeds”. Un’opera rock che amplia le tematiche più volte espresse da Pete Townshend sul disagio adolescenziale e il traumatico passaggio alla vita adulta, espressa in questo lavoro attraverso la vicenda, ambientata nel 1965, del giovane mod Jimmy.
La musica è magniloquente, pomposa, in perfetto equilibrio tra il possente rock della band e arrangiamenti di sapore neo classico.
Il libro ripercorre passo per passo le fonti di ispirazione, la tormentata gestazione dell’opera, le difficili modalità di registrazione, l’altrettanto complessa riproduzione dal vivo, entrando nei dettagli dell’elaborata copertina, dei testi, dei significati più reconditi di ogni singola canzone, inediti inclusi.
Spazio anche al film di Frank Roddam, uscito nel 1979, trasposizione cinematografica dell’opera e alla sua colonna sonora, al musical, ai tour celebrativi, alle curiosità (la similitudine non casuale al film “Saturday Night Fever”, ad esempio).
Un capitolo approfondisce l’impatto del disco e del film sulla scena Mod italiana di cui l’autore è stato prime mover.

Tribal Cabaret #10

Prosegue spedita la pubblicazione della rivista/zine TRIBAL CABARET che giunge al decimo numero.

Come sempre ricchissima di materiale particolarissimo, da un'intervista a JOEY RAMONE del 1993 a Roma, al tour italiano dei Celibate Rifles del 1987, intervista a Wolfgang Flur dei KRAFTWERK e a Helena Velena, Johnny Thunders, recensioni di dischi, concerti, libri e cinema di culto e tantissimo altro.
In allegato una compilation su cassetta con 13 band.

Per averlo qua: https://www.facebook.com/TribalCabaret

venerdì, giugno 21, 2024

Nando Mainardi - La ragazza occitana

Presumo saranno in pochi/e a ricordare il nome e la figura di DOMINIQUE BOSCHERO, attrice e personaggio particolare e anomalo nella cultura popolare tra gli anni Sessanta e Settanta.

Bellezza prorompente che le permise di imporsi all'attenzione di manager, giornalisti e registi, trova progressivamente popolarità, prima nella Parigi, in cui era immigrata con i genitori dal profondo Piemonte, degli anni 50, lavorando a fianco dei giovanissimi Alain Delon e Brigitte Bardot, per poi approdare a Cinecittà e alla ribalta dei paparazzi nei Sessanta.

Incontra personaggi come Frank Sinatra, Luigi Tenco, ha una relazione con Gianni Agnelli, diventa la compagna di Carlo Volonté, fratello di Gian Maria, con cui instaura un rapporto di collaborazione politico.

La sua carriera sarà ricca di film ma povera di soddisfazioni artistiche (la sua filmografia è relegata a prodotti di qualità piuttosto bassa), sfiorerà la parte di Gradisca in "Amarcord" di Fellini e quella di Maria Schneider in "Ultimo tango a Parigi" ma il suo ruolo rimarrà relegato a quello della "bellona" in lavori scadenti e poco visti.

La sua vita privata la vede impegnata politicamente nell'estremismo di sinistra dei Settanta in "Servire il popolo" prima, e nella rivendicazione autonomista dell'Occitania, poi.

Una vita spericolata e ai limiti che si risolve con l'auto esilio nelle amate montagne cuneensi dove era cresciuta e dove tutt'ora vive.

Il libro è scorrevole, la vicenda fresca e stimolante.
Mainardi la racconta grazie alla testimonianza diretta della protagonista e nel libro si intrecciano curiosità e aspetti inediti di una grande epoca dell'Italia di 40/50 anni fa.

Nando Mainardi
La ragazza occitana
Manni Editore
192 pagine
19 euro.

giovedì, giugno 20, 2024

Jackie Lomax - Is This What You Want?

Vecchio amico dei Beatles, Jackie Lomax li incrociò parecchie volte dagli esordi in poi con i suoi Undertakers.
Brian Epstein lo prese sotto le sue ali con i Lomax Alliance ma la sua morte, nel 1967, fece naufragare l'esperienza prima di decollare.

Quando Jackie si ritrovò a bazzicare i Fab Four, durante le registrazioni del White Album, facendo i cori anche in "Dear prudence" e in "Hey Jude", George Harrison decise di metterlo sotto contratto con la neo nata Apple Records e produrgli l'album d'esordio solista.
Reclutò con facilità fior di star come Eric Clapton, Nicky Hopkins, Paul e Ringo, la Wrecking Crew americana, Klaus Voorman e altri e gli diede il suo inedito "Sour Milk Sea" (scartato dal White Album) per il singolo (suonato da Harrison con Paul e Ringo).

Paradossalmente fu proprio la presenza di questi nomi a far passare in secondo piano Jackie Lomax che ammise "si parla solo dei famosi che ci hanno suonato e non dell'album".

Il disco è un buon prodotto dell'epoca (pubblicato nel marzo 1969), tra rock, soul, blues e la voce potentissima e "black" di Lomax (tra Chris Farlowe e Tom Jones) a fare da traino.
"Sour milk sea" è stupendo e potente, "Little yellow pills" un grandissimo e veloce soul rock, la title track un imbarazzante plagio melodico di "I am the walrus", "Fall inside your eyes" ruba un po' da "Child of nature" di John (quella che, scartata dall'Album Bianco, diventerà "Jealous guy" in "Imagine"), forse ascoltata nelle session.
"The Eagle Laughs at You" guarda al rock blues del primo Hendrix.

Accompagnato dai singoli "Sour milk sea" e "New day", l'album fu un fallimento totale, toccando solo il 145° posto in America e non comparendo nelle classifiche inglesi.
Probabilmente anche a causa dell'inesperienza come discografici dei Beatles.

La carriera di Jackie Lomax non decollerà mai, restando sempre in ombra fino alla sua scomparsa nel 2013.

Sour milk sea
https://www.youtube.com/watch?v=38lGfyq9PcA

Little yellow pills
https://www.youtube.com/watch?v=TwKetldJ1H8

mercoledì, giugno 19, 2024

Musica per ricchi

Riprendo qui l'ultimo articolo scritto per "Libertà", domenica scorsa, nell'inserto "Portfolio", diretto da maurizio Pilotti.

La musica è sempre stata protagonista di cambi epocali.

Lo scomodo ed elitario 78 giri, prerogativa delle case nobili e più facoltose, fu soppiantato nel primo Dopoguerra dal formato che dominerà per più di mezzo secolo, il disco in vinile, che permise progressivamente l'ascolto del genere preferito in casa, per tutto il tempo e per quante volte fosse desiderio dell'utente, senza dover pazientemente attendere la trasmissione della canzone amata in radio.
Il giradischi divenne velocemente un elettrodomestico di uso comune, grazie a un costo che si abbassò, fino a farlo diventare acquistabile anche dalle fasce meno abbienti.
Nei primi anni Sessanta arrivò la musicassetta, che permise l'ascolto in auto ma soprattutto di potere assemblare a proprio piacimento raccolte delle canzoni preferite, ottimizzando, a poco prezzo, la propria collezione o usufruendo di quelle degli amici.
A metà del 1979 la Sony commercializza i primi Walkman, altra rivoluzione nella fruizione della musica, che ora si poteva portare con sé, su cassetta, ovunque si volesse andare, camminando, correndo, spostandosi con qualsivoglia veicolo, dalla bicicletta all'aereo.
Nel 1983 arriva l'invasione del Compact Disc, dopo la pubblicazione del primo album su CD, nel 1982, “Visitors” degli Abba.
Formato più maneggevole e leggero della cassetta, fedele al suono originale (rispetto alla bassa qualità di riproduzione del nastro), soprattutto riproducibile in una copia, senza alterarne l'aspetto sonoro).
Durata di 74 minuti (pare che la decisione fu presa modellandola sulla durata della “Nona” di Beethoven).
Nel 1985 “Brothers in arms” dei Dire Straits supera, per primo, il milione di copie vendute.
Nel Cd sono contenuti dati digitali, trasferibili su computer e pertanto diffondibili, senza costi, a chiunque e ovunque. La digitalizzazione della musica sferza un duro colpo all'industria discografica.

Si apre l'era del cosiddetto file sharing, ovvero la possibilità di scambiarsi via internet i file contenenti tutta la musica possibile e immaginabile.
La piattaforma Napster permette di scaricare gratuitamente (e abusivamente) centinaia di migliaia di album. La rivoluzione è completa: la musica diventa gratis.

Artisti, musicisti, case discografiche subiscono un terribile contraccolpo.

Chi li paga ora per il servizio (il più delle volte lavorativo) che forniscono?
Colpevole è la mancata lungimiranza delle stesse case discografiche che rivendono in sostanza nuovamente il proprio catalogo, originariamente stampato in vinile, in Compact Disc, con guadagni esponenzialmente enormi, considerato che il nuovo formato digitale ha costi nettamente inferiori rispetto a quello precedente e che non c'è, in aggiunta, alcun costo suppletivo per registrazioni e materiale di produzione.
E nel caso di nuove produzioni i costi di realizzazione si abbattono notevolmente, grazie all'economicità del nuovo supporto.
Non considerando che ben presto lo stesso prodotto sarebbe diventato gratuito grazie alla possibilità di scaricarlo grazie all'uso del computer.

Ricordo l'isterica svendita di intere collezioni di preziosi album in vinile per ricomprare il tutto nel futuristico nuovo formato, dilapidando vere e proprie fortune di dischi poi schizzati a prezzi folli tra i collezionisti.
Ovviamente ne approfittai per riempire ancora di più la casa di montagne di vinili a pochi spiccioli.


L'industria ci ha messo un po' a rimettersi in piedi e rimodulare il proprio modus operandi. Da una parte lo sfruttamento dell'effetto nostalgia. I fruitori di musica “classica”, intesa come il “classic rock” o pop d'autore (dai Beatles ai Pink Floyd, fino a Nirvana e Bruce Springsteen) sono ormai attempati signori/e, bene o male con un minimo di disponibilità economica, sempre pronti a sborsare qualche soldino per accaparrarsi il box set di turno con la discografia completa (o lo storico disco) dei propri eroi, rimasterizzata, con qualche (sempre trascurabile e inutile) inedito, tante belle foto, un libretto, qualche gadget aggiunto. Costi di produzione minimi, prezzo al consumatore altissimo e sproporzionato e il gioco è fatto.

A fianco le piattaforme di musica gratuita vendono abbonamenti (progressivamente sempre più cari) per evitare che l'ascolto sia inframezzato da fastidiosi messaggi pubblicitari.
Dal recente rapporto della FIMI (Federazione Industriale Musicale Italiana) sul mercato musicale italiano, emerge che è lo streaming a coprire una quota di mercato complessivo pari al 65% e i cui ricavi sono cresciuti del 16.2%, arrivando a più di € 287 milioni per un totale di oltre 6.5 milioni di abbonati premium ai servizi di streaming.
Vuoi per nostalgia, vuoi perché non è improbabile che la “musica liquida”, quella che in sostanza non si possiede, pur trovandola a proprio piacimento liberamente su internet, abbia stancato e sia (ri)sorta la necessità, anche tra molti giovani, di tenere in mano ciò per cui si è speso (poco o tanto che sia), il vinile, nel 2023, cresce del 24.3%, ma si segnala anche una presenza dell'ormai dimenticato cd, le cui vendite salgono del 3.8%. Dati che non contemplano il vasto mercato dell'usato.
Nel frattempo, come detto, il vinile è tornato in auge (pur limitatamente) ma a prezzi spesso inaccessibili o quasi, con le nuove uscite che variano dai 30 ai 50 euro (non di rado accessoriati da facezie per pseudo fan collezionisti, dagli adesivi al brano inedito, alla confezione particolare).

Contemporaneamente i prezzi dei biglietti per i concerti sono esplosi in modo incontenibile.
Assistere a un concerto dei big (se non si vuole guardare un maxischermo e avere il palco là in fondo, dove distingui a mala pena piccole figure muoversi sotto una cascata di luci colorate e si sente la musica come dallo stereo di casa), significa preventivare come minimo cento se non duecento o più euro per l'ingresso.
Non considerando il contorno di parcheggi (carissimi), eventuale “cena” e/o bibite, viaggio e altro.
In questo senso sono sempre più frequenti le cancellazioni di concerti (ovviamente con comunicati che nascondono la verità) a causa della scarsa prevendita (imputabile ai prezzi alti ma anche all'aumentata frequenza di tour, che, ovviamente, essendo i prezzi sempre più alti, inducono a dolorose scelte).

Paradossalmente più la possibilità di ascolto della musica in maniera gratuita è aumentata, più la musica è diventata faccenda per “ricchi”. Possedere un supporto è estremamente costoso, come abbiamo visto, proprio nel momento in cui la tendenza sembra indirizzarsi verso un (pur tiepido) ritorno all'acquisto del mezzo fisico per ascoltarla. Allo stesso tempo i concerti sono sempre più cari e il costo va a pari passo con l'aumento dei prezzi della vita (benzina, autostrade, cibo bevande).
Assistiamo, ad esempio, allo strano caso dei CCCP – Fedeli alla Linea che in occasione del clamoroso e imprevisto ritorno sulle scene per un tour estivo di una dozzina di date hanno fissato il biglietto a 60 euro.

Esiste ovviamente e per fortuna un'altra faccia della medaglia per la fruizione di ottima musica, attraverso nomi meno titolati e storici (al cospetto di questi ultimi invece spesso si va solo per “esserci” o perché, visto l'invecchiamento inesorabile delle icone del rock, ogni concerto, cinicamente o meno, potrebbe essere quello finale): una scena ormai non più tanto sotterranea, che ci regala sempre eccellenti dischi e performance live, senza costare un occhio della testa.
E' sufficiente rivolgersi a distributori ed etichette che non perseguono necessariamente l'ampio guadagno a tutti i costi ma richiedono solo un ritorno economico equo e giusto.

Dunque, quale può essere la soluzione?
Difficile prevederlo anche se l'impressione è che quello che abbiamo sempre chiamato rock e abbiamo sempre visto come espressione di alternativa e ribellione sia diventato semplicemente l'ennesimo tassello di quel mosaico che possiamo chiamare “musica classica”, riservata a un pubblico eletto di intenditori che non si preoccupa di spendere (perché nella maggior parte dei casi lo può fare) e in cui quell'elemento “sovversivo” che ha sempre caratterizzato l'ambito è ormai una semplice appendice folkloristica.
E che quindi ha un costo incontrollato e assolutamente lontano da ogni operazione di calmieramento.
Finché dura…

martedì, giugno 18, 2024

Punkreas & Kokadame - Live a Piacenza 14 giugno 2024

Grande folla alla Festa Rebeldes alla Cooperativa S.Antonio di Piacenza.
Tantissimi giovani, platea rilassata e colorata, voglia di divertimento.

Scaldano l'atmosfera i locali KOKADAME, come sempre travolgenti con uno street punk rock viscerale, diretto, sguaiato, un po' primi Skiantos, un po' Cockney Rejects, tantissima energia. Grandi.

I PUNKREAS partono molto penalizzati da un impianto che fatica a sistemarsi, giocano con il pubblico, sfoderano il loro consueto repertorio pop punk rock, con i classici spesso cantati in coro da decine di persone, bolgia sotto il palco.

domenica, giugno 16, 2024

Libertà

Si è conclusa la mia collaborazione con il quotidiano di Piacenza, "Libertà".

Iniziata nel febbraio 2017 (vedi foto con il primo articolo, allegata alle cartelle in cui ho raccolto le pagine del giornale) è proseguita per oltre sette anni e più di 300 articoli di una pagina, (quasi) ogni domenica.
Il merito va al direttore dell'inserto "Portfolio", il giornalista Maurizio Pilotti, che mi ha cercato e affidato uno spazio, senza alcun limite di espressione.

Grazie a ciò si è parlato, in un quotidiano di provincia, da sempre conservatore e, appunto, volutamente "provinciale", di Northern Soul e Henry Rollins, Lydia Lunch e Linton Kwesi Johnson, della musica prodotta dall'Isis, dai mod agli skinhead, al punk (rockers, mai!), Steve Albini, Bad Brains, hardcore punk, John Cage e tanto altro.

Scelte di carattere aziendale e "dinamiche interne" hanno chiuso il rapporto.

“Il futuro significa perdere quello che si ha ora e veder nascere qualcosa che non si ha ancora.”
(Haruki Murakami, scrittore)

sabato, giugno 15, 2024

Quadrophenia al Festival Beat e Passaggi Festival

Doppio appuntamento per il libro "Quadrophenia" pubblicato da Interno 4.

Venerdì 28 giugno a Salsomaggiore (Parma) all'interno del 30° Festival Beat alle 18.30 al Winebar Vincanto in Largo Roma 2.
Modera Luca Frazzi.

https://www.facebook.com/FestivalBeatSalsomaggioreTerme

Domenica 30 giugno a Fano (Pesaro e Urbino) - Fosso Sejore (Bagni Elsa n°3) alle 18.30 al Passaggi Festival.
Modera Luca Valentini.

https://www.facebook.com/passaggifestivalfano
https://www.passaggifestival.it/
Gli Who e la storia del disco e del film che hanno definito un genere.

Antonio Bacciocchi, prime mover del movimento Mod italiano, e tra i maggiori esperti italiano del movimento, si misura per la prima volta con il disco, e il film, di culto che nel 2023 compie 50 anni.
Esce il 26 ottobre del 1973 “Quadrophenia”, sesto album in studio degli Who, a cui si aggiunge il live “Live at Leeds”. Un’opera rock che amplia le tematiche più volte espresse da Pete Townshend sul disagio adolescenziale e il traumatico passaggio alla vita adulta, espressa in questo lavoro attraverso la vicenda, ambientata nel 1965, del giovane mod Jimmy.
La musica è magniloquente, pomposa, in perfetto equilibrio tra il possente rock della band e arrangiamenti di sapore neo classico.
Il libro ripercorre passo per passo le fonti di ispirazione, la tormentata gestazione dell’opera, le difficili modalità di registrazione, l’altrettanto complessa riproduzione dal vivo, entrando nei dettagli dell’elaborata copertina, dei testi, dei significati più reconditi di ogni singola canzone, inediti inclusi.
Spazio anche al film di Frank Roddam, uscito nel 1979, trasposizione cinematografica dell’opera e alla sua colonna sonora, al musical, ai tour celebrativi, alle curiosità (la similitudine non casuale al film “Saturday Night Fever”, ad esempio).
Un capitolo approfondisce l’impatto del disco e del film sulla scena Mod italiana di cui l’autore è stato prime mover.

venerdì, giugno 14, 2024

Carlo Babando - Miss Black America

Il lungo e intricato percorso di Carlo Babando (già autore dello splendido "Blackness" qui: https://tonyface.blogspot.com/2020/09/carlo-babando-blackness.html) all'interno della "black music" e della cultura afroamericana ci porta in un nuovo viaggio che passa da Robert Johnson a Sun Ra, ai Public Enemy, Gil Scott Heron, Travis Scott, Beyoncè, Angela Davis.

Una riflessione sui collegamenti, le evoluzioni, i passaggi attraverso i secoli, i dischi, la cultura.

Come specifica alla fine: "I capitoli che avete letto hanno l'unica pretesa di complicare le idee, non di metterle in ordine...incamminarsi lungo i percorsi dell'identità afroamericana contemporanea significa buttarsi alle spalle molti steccati e provare per un attimo a guardare con occhi nuovi quello che talvolta diamo per assodato. Non azzerando la storia, al contrario: riportandola alla luce e imparando a dialogarci".

Molto interessante la considerazione su come l'impegno socio/politico di molti artisti sia in qualche modo imposto dalla necessità di "ottenere attenzione e non venire contemporaneamente accusato di disinteresse da parte della comunità di appartenenza".

E pure quella di come lo sguardo all'Africa sia talvolta solo di facciata, una suggestione verso una realtà immaginata ma non corrispondente alla quotidianità del luogo.
Ovvero: gli afroamericani non sono africani.
Neppure gli immigrati dalle West Indies in Inghilterra sono più giamaicani (come si evince dai capitoli dedicati alla Black Culture britannica).

Come sosteneva Sun Ra in una conferenza, già nel 1971:
"Afroamericani e africani non possono ritenersi parte di una realtà interconnessa.
L'uomo nero a stelle e strisce si sta solo raccontando una bugia, proitettando oltre il Sahara qualcosa che ormai i secoli hanno inevitabilmente mutato".


La cultura afroamericana è in costante movimento, assimilando progressivamente nuove influenze, mantenendo il rapporto con le radici ma rielaborandole, sorpassando gli schemi classici che le vogliamo attribuire, per comodità e pigrizia mentale.

Il libro è colmo di riferimenti a brani, dischi, artisti e richiede un minimo di preparazione e conoscenza della materia ma è anche fonte di infiniti stimoli e indicazioni per il lettore meno competente della materia.

Come sempre, un saggio competente e completo.

Carlo Babando
Miss Black America
Mar Dei Sargassi Edizioni
220 pagine
18 euro

giovedì, giugno 13, 2024

Sly Stone - Thank You (Falettinme Be Mice Elf Agin)

Mi preme segnalare l'opera meritoria di JIMENEZ EDIZIONI che ha pensato di tradurre (grazie a Alessandro Besselva Averame) la recente autobiografia di SLY STONE "Thank You (Falettinme Be Mice Elf Agin)".
Spesso chi non è parente stretto dell'inglese si rammarica dell'impossibilità di leggere ottimi libri pubblicati solo in lingua originale.
L'invito è di approfittarne, il libro è davvero molto bello e importante.

Avevo recensito la versione americana lo scorso dicembre qui: https://tonyface.blogspot.com/2023/12/sly-stone-thank-you-falettinme-be-mice.html

La riporto sotto:

E' stimolante e affascinante scoprire cose nuove attraverso la lettura.
E' invece rassicurante, quanto gradevole, leggere di argomenti abbondantemente conosciuti, a cui si aggiungono particolari inediti ad arricchire la passione per il soggetto.
In questo senso l'autobiografia (al momento solo in inglese) di SLY STONE non aggiunge rivelazioni sorprendenti a quanto già gli appassionati del personaggio conoscono ma l'ironia e il disincanto con cui Sly narra la sua straordinaria storia umana e artistica, rende il libro (pubblicato, primo titolo in assoluto, dalla casa editrice di Questlove) divertente, irresistibile, pulsante.
Sly and the Family Stone sono un pezzo preziosissimo ed essenziale in tutta la storia della musica pop/rock/black, con all'attivo alcuni album di grandissimo pregio e un discreto numero di capolavori.

"Sly and the Family Stone avevano un concept. Bianchi e neri insieme, donne e uomini e le donne non erano solo cantanti ma suonavano gli strumenti".

Il libro è stato “created in collaboration” con Sly dallo scrittore Ben Greeman (e l'ex fidanzata di Sly, Arlene Hirschkowitz) che ha presumibilmente messo insieme una serie di dati già conosciuti e le parole (probabilmente un po' confuse e concise - vedi la pagina finale del libro con mini intervista con risposte a monosillabi -) estrapolate da qualche chiacchierata con il protagonista.

Sly non si tira indietro nel descrivere il lungo periodo nell'abisso di cocaina, crack e altre sostanze anche se, ovviamente, si trattiene parecchio, confutando spesso quanto invece spiattellato da ex collaboratori e amici nel libro di Joel Selvin, "Sly & the Family Stone: An Oral History" (https://tonyface.blogspot.com/2023/01/joel-selvin-sly-family-stone-oral.html).

Anche il declino artistico (con sporadici ritorni, spesso confusi e non di rado poco dignitosi) è affrontato con parole malinconiche e remissive, mentre si accavallano racconti relativi alla dipendenza e alle problematiche "familiari".

"Drugs were still around but they didn't dominate"
v I fan più hardcore di Sly troveranno solo piccole aggiunte a una storia già conosciuta, i neofiti invece un ottimo mezzo per approfondire una vicenda artistica inimitabile.

"La cosa divertente era che alcuni bianchi pensavano che fossimo troppo militanti. Dove ci schieravamo veramente? Da qualche parte nel mezzo, che era il posto migliore dove stare se volevi continuare a trovare soluzioni.
Se eri lontano, da una parte o dall’altra, eri una minaccia e le minacce venivano eliminate.
Quel pensiero mi ha portato a trascorrere più tempo a casa di quanto avrei altrimenti potuto.
E per quanto riguarda cambiare la direzione band, anche se me lo avessero chiesto, non lo avrei fatto. Il punto era proprio questo, elevarsi al di sopra di tutto ciò. Le divisioni erano sottrazioni."<
BR>
"Mi sentivo incompleto senza uno strumento o sarebbe meglio dire che mi sentivo completo solo con uno strumento".

"Quando facevo il DJ alla KSOL alcuni ascoltatori pensavano che in una radio Rhythm and blues non si doveva sentire musica bianca. Ma era una cosa senza senso per me. La musica non ha colore".

Sly Stone
Thank You (Falettinme Be Mice Elf Agin)
Jimenez Edizioni
290 pagine
22 euro

mercoledì, giugno 12, 2024

David Bowie - I'm waiting for my man

Non solo ho fatto una cover della canzone dei Velvet Underground prima di chiunque altro al mondo, ma l'ho fatto ancora prima che l'album uscisse.
Questa è l'essenza del Mod.

(David Bowie).

Nel novembre del 1966 il manager di David Bowie, Kenneth Pitt, fece un viaggio d'affari a New York. Mentre era lì fece visita alla Factory di Andy Warhol, dove incontrò l'artista e venne presentato ai Velvet Underground.
Pitt era intenzionato a portare la band in Inghilterra per alcuni spettacoli dal vivo, e gli fu così data una copia in acetato del loro prossimo album di debutto, The Velvet Underground and Nico (pubblicato nel marzo 1967).

"Tutto quello che sentivo e che non sapevo sulla musica rock mi è stato rivelato in un disco inedito. Erano i Velvet Underground e Nico.
La prima traccia scivolò via in modo abbastanza innocuo e non mi rimase.
Tuttavia, da quel momento in poi, con il basso e la chitarra di apertura, pulsanti di “I’m Waiting For The Man”, il fulcro, la chiave di volta della mia ambizione fu portata a casa.
Questa musica era così selvaggiamente indifferente ai miei sentimenti. Non mi importava se mi piaceva o no. Non gliene importava un cazzo. Era un mondo invisibile ai miei occhi di periferia."

(David Bowie)

"Warhol gli aveva dato questa stampa di prova senza copertina (ce l'ho ancora, senza etichetta, solo un piccolo adesivo con il nome di Warhol sopra) e gli aveva detto: "Ti piacciono le cose strane, guarda cosa ne pensi". Quello che "pensavo" era che qui c'era la migliore band del mondo.
Nel dicembre di quell’anno la mia band, i Buzz, si sciolse, ma non senza che io chiedessi di suonare “I’m Waiting For The Man” come bis del nostro ultimo concerto."


Il brano venne registrato nel 1967 con la nuova band di Bowie, i Riot Squad.

https://www.youtube.com/watch?v=gK3H2JJhxqw

martedì, giugno 11, 2024

Marco De Paolis con Annalisa Strada - L’uomo che dava la caccia ai nazisti

Marco De Paolis è Procuratore Generale Militare presso la Corte d'Appello di Roma.
Ha dedicato la vita a indagare sugli eccidi nazifascisti, istruendo 17 processi e portando alla condanna di decine di criminali di guerra.

Partendo dalla scoperta dell'Armadio della Vergogna, nel 1994 (tenuto in un luogo chiuso con un lucchetto e le ante rivolte verso il muro), contenente 695 dossier e un Registro Generale riportante 2.274 notizie di reato, raccolte dalla Procura generale del Tribunale supremo militare, relative a crimini di guerra commessi sul territorio italiano durante la campagna d'Italia (1943-1945) dalle truppe nazifasciste.

De Paolis si circonda di fidati collaboratori e nel 2002 costituisce il Gruppo Investigativo Speciale per i Crimini di Guerra.

Un lavoro certosino per rintracciare i responsabili delle stragi in Emilia e Toscana (oltre a Cefalonia), in cui morirono migliaia di civili, trucidati dalle truppe naziste (spesso con efferatezza indescrivibile), non di rado aiutati dai fascisti repubblichini italiani (non perseguibili a seguito dell'"Amnistia Togliatti" del 1946, al fine di archiviare il passato e aprire una nuova epoca).

De Paolis si trova così di fronte a vecchi nazisti.
"Non erano vecchi criminali, ma solo criminali invecchiati, fossilizzati nella loro ideologia di morte.
Alcuni erano rimasti convintamente nazisti e non lo nascondevano"
.

Gerhard Sommer che comandò l'eccidio di Sant'Anna di Stazzema "era la personificazione del male e tutta la sua pericolosità era ancora intatta".

I processi e relative condanne resero (parziale e tardiva) giustizia.
Buona parte dei responsabili morirono di morte naturale prima delle condanne.

"Nessuno doveva fare quella fine".

Marco De Paolis con Annalisa Strada
L’uomo che dava la caccia ai nazisti
Il Battello a Vapore
Pagine 160
14 euro

lunedì, giugno 10, 2024

San Tropez - Pink Floyd & Rita Pavone

La storia del rock ci ha abituati a leggende, dicerie, vicende epiche o incredibili che si sono tramandate nel tempo, spesso arricchite da ulteriori (finti) particolari dagli stessi interessati o da chi riportava la notizia.
Il famoso pipistrello addentato sul palco da Ozzy Osbourne, le ceneri del padre aspirate con il naso da Keith Richards, la consueta “morte” di Paul McCartney nel 1966, prontamente sostituito da un sosia mancino, polistrumentista, raffinato ed eccezionale compositore e altre infinite storie di sesso, droga e rock'n'roll. In questa sede parliamo di una delle più grottesche e gustose.
Partendo da un'annotazione importante.

Negli anni Settanta, quando il rock non aveva ancora compiuto vent'anni, l'editoria relativa era ancora un fenomeno pionieristico.
Libri sui gruppi (che speso avevano avuto un'attività ancora limitata) erano molto rari, le stesse riviste specializzate talvolta molto imprecise e poco approfondite.
Soprattutto l'Italia era ancora un luogo molto lontano dal fulcro degli eventi, Inghilterra e Stati Uniti.
Una periferia musicale in cui l'interesse e la conoscenza per il mondo del rock era comunque molto alto e anche la produzione nostrana incominciava ad essere a livelli più che dignitosi.
Per supplire alla mancanza di informazioni ci si arrangiava con quello che si poteva.

I Pink Floyd erano già parecchio seguiti dalle nostre parti, un gruppo di culto per i fan più accaniti ma anche un nome che arrivava agevolmente in alto nelle classifiche (non a caso dopo cinquant'anni “The dark side of the moon” continua a stazionare imperterrito ogni fine anno tra i primi cento o anche cinquanta posti tra i più venduti).
Dopo gli inizi caratterizzati dalla follìa geniale di Syd Barrett, avevano intrapreso strade più cerebrali, mantenendo uno stretto legame con la sperimentazione ma aprendosi anche a sonorità più dilatate e a momenti fruibili e meno ostici.
Avevano suonato nel 1968 al “Piper” di Roma, ancora semi sconosciuti e nel 1971 nell'insolita Brescia.
Sempre lo stesso anno si erano esibiti, senza pubblico, per una registrazione nell'Anfiteatro romano di Pompei, concerto da cui venne tratto il film musicale “Live at Pompei”, uscito nelle sale nel 1974.
Ricordo personalmente che alla proiezione della pellicola, qualche anno dopo, molti spettatori evitavano di guardare le immagini, chiudendo gli occhi, per assaporare meglio il fluire della musica e immergersi nelle atmosfere avvolgenti del suono, ascoltato con l'impianto di un cinema dai volumi ben più alti di quello di uno stereo casalingo.

A metà degli anni Settanta uscirono, su fogli ciclostilati realizzati da appassionati, le traduzioni (come vedremo, abbastanza approssimative) di alcuni testi del gruppo.

Nel settembre del 1978 la prestigiosa casa editrice Arcana pubblica “la prima raccolta italiana ufficiale di tutti i testi dei Pink Floyd, con traduzione a fronte”.
Si va dall'esordio del 1967, “The piper at the gates of dawn” al recente “Animals” del gennaio 1977 (il successivo “The wall” sarà pubblicato nel 1979).

A questo punto incomincia la nostra storia.

Nel 1971 era uscito il sesto album in studio dei Pink Floyd, “Meddle”, accolto bene dalla critica ma che poi nel corso della storia della band, ricca di capolavori e grandi exploit artistici, è retrocesso nell'ipotetica classifica dei loro migliori episodi.
Anche perché contiene ben due tra i brani che anche i fan più fedeli al gruppo ritengono tra i peggiori della loro storia. Il primo è “Seamus”, un breve blues acustico “cantato” da un cane! E' Seamus, il cane di Steve Marriott degli Small Faces (che, ironicamente, lo affidava spesso al loro ex chitarrista Syd Barrett, quando era impegnato in concerto) che ulula sulle note della chitarra.
Lo strazio dura per fortuna solo un paio di minuti.

Subito dopo parte “San Tropez” (pure il titolo è sbagliato), ispirato alla (quasi) omonima località balneare francese.
Il brano è uno swing scanzonato e gradevole senza alcuna pretesa, composto e cantato da Roger Waters, della cui presenza si poteva facilmente fare a meno.

E' proprio da questo brano che si muove la vicenda. La traduzione, evidentemente “a orecchio”, del testo, finita nel suddetto libro, viene estrapolata dai famosi fogli ciclostilati, e riportato il (presunto) verso “I hear your soft voice calling to me / making a date for Rita Pavone” ovvero “Odo la tua voce morbida che mi chiama per fissare un appuntamento con Rita Pavone”.
Effettivamente con questo testo sotto gli occhi, all'ascolto del brano sembra veramente che il brano si chiuda con la parola Rita Pavone, pronunciato “Rita Pavfòn” (peraltro difficilmente un anglosassone lo pronuncerebbe in quel modo, più probabilmente direbbe “Rita Pavoni”).
In mancanza di altre fonti e con l'autorevolezza di un libro (la traduzione è firmata Valter Binaghi, redattore della rivista “Re Nudo”, allora ventenne) la notizia passò per veritiera. In realtà il testo, si scoprì poco tempo dopo, dice “I hear your soft voice calling to me / Making a date later by phone” ovvero “Odo la tua voce morbida che mi chiama per fissare un appuntamento più tardi al telefono”. Niente omaggio alla nostra artista, da parte della grande band inglese.

Ma Rita Pavone non sembra sentirci.
Forse per vanagloria o per attirare l'attenzione su di sé dichiara pubblicamente:
“Sì, sono io quella Rita Pavone che i Pink Floyd cantano nel loro brano 'San Tropez' e ne sono modestamente molto orgogliosa.
Ho conosciuto il gruppo nel 1976 durante un mio spettacolo in Francia. Loro si trovavano in sala e ricordo che applaudirono con molto calore durante la mia esibizione”
.

Particolare un po' improbabile considerando che trascorsero otto mesi in studio di registrazione quell'anno per la realizzazione di “Animals” (uscito nel gennaio 1977) e che, come un po' tutti i gruppi, non è che andassero in vacanza o a vedere i concerti insieme in giro per l'Europa.
Nella sua autobiografia del 1997, “Nel mio 'piccolo” rimarca: “Sulla Costa Azzurra durante la tournée estiva del '73, mi dissero che tra il pubblico in sala c'erano i Pink Floyd, a cui non devo essere affatto dispiaciuta come artista se anni dopo, nel brano 'Saint Tropez' del loro 33 giri 'Meddle', arrivarono a cantarmi in una loro canzone."

Il problema è che Rita fa un po' di confusione.
Probabilmente ricorda male (ma il tempo per una verifica c'era e poteva evitare una magra figura) o forse ha reputato che l'occasione fosse buona per fare parlare del libro, in un periodo in cui il successo era un ricordo lontano.
L'album “Meddle” in cui è inclusa “San Tropez” fu pubblicato il 5 novembre del 1971. Il che fa apparire abbastanza improbabile la ricostruzione della Pavone che parla una prima volta del 1976 e la successiva del 1973. I Pink Floyd fecero un mini tour in Francia ma nel 1974. Probabilmente per fugare ogni dubbio Rita Pavone aggiunse pure, in interviste successive: "Non nego che in seguito la canzone sia stata reincisa e proposta con un’altra versione in cui non compariva più il mio nome".

Nel 2005 il giornalista Claudio Zambini intervista il batterista Nick Mason: "Una curiosità: a chi è venuta l'idea di citare Rita Pavone nel testo di "San Tropez"?". “Oh, suppongo a Roger: la canzone era stata composta mentre eravamo in tour, a Saint Tropez. Devo ammettere che dovrei dare un'occhiata al testo perché non ricordavo proprio questo particolare: non saprei dirti per quale motivo ha inserito il suo nome nel pezzo, dovresti chiederlo a lui."

A suggellare la vicenda ci pensò però proprio una risposta di Roger Waters, a precisa domanda di un temerario giornalista italiano (il bassista non è mai stato particolarmente tenero con la stampa):
Who the hell is Rita Pavone? (chi diavolo è Rita Pavone?).

La verità sembra piuttosto evidente e palese ma le leggende e i misteri non sono fatti per essere risolti o svelati.
Esisterà sempre qualcuno che proverà a portare avanti la storia.

venerdì, giugno 07, 2024

Steve Turner - King Mod: The story of Peter Meaden, The Who and the birth of a British sub-culture

Peter Meaden è stato lo scopritore e manager dei primi WHO (e High Numbers, per i quali scrisse i testi del primo - e unico con quel nome - singlo "I'm the face" / "Zoot Suit") e tra i protagonisti della scena MOD degli anni Sessanta.

Il libro ne narra la storia, ricchissima di dettagli inediti o poco conosciuti (oltre a tante foto rare) e include un'intervista del 1975 sulla sua vita, gli Who, i mods etc.

Durante la quale formulò la famosa e definitiva frase sul MOD:
"Modism, Mod living, is an aphorism for clean living under difficult circumstances."

Purtroppo le sue condizioni psico fisiche erano piuttosto compromesse (l'incontro tra l'autore e Meaden avviene in una clinica psichiatrica) e non tutte le sue considerazioni sono affidabili e condivisibili (soprattutto le contestualizzazioni temporali) ma per chi ama l'ambito subculturale è un documento preziosissimo.

Ci sono appunti importanti, come l'articolo del settembre 1962 sulla filosofia di Mark Feld (futuro Marc Bolan) considerato il primo documento ufficiale sulla scena modernista, in cui non parla mai di mod, né di musica, nè di droghe, scooter o altro ma fa esclusivo riferimento alla sola ossessione per l'estetica.
Anche se già nel 1958 il "Daily Mirror" pubblicava l'articolo dal titolo "Are you a Trad or a Mod?", ripreso poi nel marzo 1963 dal "Mirror": "Trad or Mod?".
Le descrizioni dell'epoca sono accuratissime, a partire dal luogo in cui partì la scena Mod, il club londinese "The Scene" in cui Sandra Blackstone (compagna di un soldato americano di stanza a Londra) suonava 45 giri rarissimi con la regola del club "nessun disco della Top 20".

Quando incontra gli Who, dediti a blues e rythm and blues, per soddisfare il loro pubblico trova un gruppo di ragazzi "malleabili e da plasmare".
"Li portai allo "Scene", videro i mods e incominciarono a identificarsi con loro e a entrare nel mio mondo speciale".

Grazie a Guy Stevens, Dj e prime mover della scena mod londinese (poi produttore di "London calling" dei Clash) porta a Townshend e soci una lunga serie di rari brani "black" da cui prendere ispirazione.

La fine mediatica e numerica della scena mod avviene per un fattore particolare:
"LSD. Le pillole Drynamil incoraggiavano il movimento e la parlata veloce, LSD, mescalina e peyote portavano alla riflessione e introversione. La vita interiore diventò più importante delle altre attività."

Peter Meaden venne lasciato presto dagli Who, si dedicò alla Steve Gibbons Band ma finì malamente la sua vita tra depressione, esaurimenti nervosi, problemi psichiatrici e dipendenze pesanti.
Morì nel 1978, a 37 anni, poco prima di Keith Moon.
Gli Who si premurarono di coprire le spese funerarie.

Il libro è INDISPENSABILE per chi vuole approfondire certe tematiche e periodi (affiancherei l'eccellente "Stoned" dell'amico Andrew Loog Oldham, manager dei primi Stones).

"Al raduno di Hastings nel 1966 c'erano solo mods. 15.000 mods e TRE rockers in un bar!"

"Quanti ambasciatori del rock inglese sono stati direttamente influenzati dal Mod: Who, Rod Stewart, David Bowie, Stones, Small Faces, Animals, Georgie Fame, Julie Driscoll, Brian Auger, Zoot Money, Steve Winwood, Eric Clapton, Kinks, Marc Bolan, Jeff Beck, Robert Plant, Jimmy Page, Elton John, Anddy Summers, Bryan Ferry".

"Essere un mod non era solo essere al massimo della moda ed estetica ma anche conoscere le migliori canzoni, i club, i bar, le boutique, i trend e le feste. Perdere le attività di un weekend significava essere tagliato fuori, il peggiore peccato che potesse commettere un mod. Non c'era nostalgia, i mod vivevano esclusivamente nel presente con uno sguardo attento al futuro."

Steve Turner
King Mod: The story of Peter Meaden, The Who and the birth of a British sub-culture
Red Planet Publishing Ltd
272 pagine
25 sterline

giovedì, giugno 06, 2024

Saudi League

Si è parlato a lungo della Saudi League, come nuova frontiera dello spettacolo calcistico, grazie all'arrivo di titolati campioni (da Cristiano Ronaldo a Neymar, Benzema, Brozovic, mané, Firmino) e nomi magari di secondo piano ma comunque reduci da esperienze nei migliori campionati europei.
Tutti sommersi da valanghe di soldi.

Le aspettative sono state ampiamente deluse.
A partire dalla Nazionale guidata da Mancini che dall'auspiacato innalzamento qualitativo del campionato avrebbe dovuto trarre vantaggio ma che è stata eliminata agli ottavi della Coppa d'Asia 2023.

Il campionato si è rivelato invece privo di alcun interesse sportivo.

Disertato dal pubblico televisivo: uno share sempre sotto il 2%, dato bassissimo mentre la media di presenze negli stadi passata dai 10.197 spettatori del 2022/23 agli 8.399 del 2023/24.

La serie A ha 30.911 spettatori, la serie B 22.247, la Lega Pro 3.200 (con un'impennata di spettatori televisivi del 40%).

I 18 club che prendono parte alla Saudi Pro League hanno speso quasi 939 milioni di euro in cartellini (di cui oltre 800 milioni solo dai quattro principali club sauditi, Al-Hilal, Al-Ahli, Al-Ittihad e Al-Nassr), e circa 1,2 miliardi in ingaggi stagionali, con un incasso di 50 milioni (la Premier ha incassato 1,5 miliardi).
In Italia si è speso circa 850 milioni ma con un attivo di oltre 170 milioni, la Bundesliga +300 milioni, la Liga a +150 milioni.

Non dimentichiamo però che il calcio è solo una componente del progetto, partito nel 2017, SAUDI VISION 2030, più ampio e complesso, di espansione economica, politica e sociale dell'Arabia Saudita nel mondo.

Lo sport (oltre al calcio - con candidatura per i Mondiali 2020 - ci sono anche Formula Uno, golf e boxe, tra gli altri) è la cortina fumogena virtuosa per fare dimenticare i diritti umani costantemente violati, la condizione dei lavoratori stranieri e le discriminazioni pesantissime nei confronti delle donne (non parliamo dei diritti LGBT+), il ricorso frequente alla pena di morte per reati spesso risibili, la vendita di armi e l'espansionismo politico a suon di cannonate (vedi lo Yemen).

I prossimi anni ci diranno se è stato solo il primo passo verso una nuova dimensione del calcio mondiale o un tentativo mal riuscito e al momento molto triste e inutile.

mercoledì, giugno 05, 2024

Emiliano Raffo - Abbiamo sempre avuto una canzone nelle orecchie

Benedetta/maledetta PROVINCIA, matrigna, cella di consuetudini ma anche guscio protettivo a cui tornare da avventure stimolanti e/o devastanti in qualche "altrove" (nello specifico la patria della "nostra" musica, Londra, quella ancora non gentrificata, turisticizzata, psot Brexit).

Un libro che attraversa anni, epoche, eventi tragici e questioni personali (ampiamente autobiografiche), con una colonna sonora da urlo che scandisce le vicende.

Un'evoluzione artistica che parte da Judas Priest, Metallica e Dokken, per passare a Beastie Boys ed Eminem arrivare a Britpop e Aphex Twin, The Streets e Burial.

Raffo scrive molto bene, evocativo, ironico ma anche glaciale e spietato quando serve.
Come ogni storia di provincia si rimane sul filo del rasoio, tra abbandono, tragedia, disperazione e una visione genuina e sincera, disincantata, sempre permeata da una sorta di innocenza adolescenziale che permette di andare avanti con un'attitudine positiva.

Emiliano Raffo
Abbiamo sempre avuto una canzone nelle orecchie
Officine Gutenberg
307 pagine
16 euro

martedì, giugno 04, 2024

The Executive (pre Wham!)

Poco prima del successo mondiale con gli WHAM!, George Michael e Andrew Ridgely furono protagonisti di una breve avventura con i THE EXECUTIVE a base di ska e rocksteady.

La band si formò nel 1979.
Oltre ai due sedicenni George e Andrew ne facevano parte anche il fratello di Andrew, Paul Ridgely e David Austin.
Registrarono un introvabile demo con i brani "Rude Boy", una cover di Andy Williams "Can't Get Used To Losing You" di Andy Williams e una versione ska del brano di Beethoven "Für Elise" !!!
Pare ne sia stata prodotta una decina di copie (lasciate poi alle etichette) e, nonostante lunghe ricerche, non sia stata possibile reperirne nemmeno una copia.
Provarono ripetutamente a proporsi a varie etichette a Londra ricevendo sempre rifiuti o nessuna attenzione.

John Mostyn, manager dei The Beat e della loro etichetta Go-Feet ricorda un episodio curioso:
Pochi anni fa, leggendo la biografia degli "Wham", ho scoperto che George e Andrew erano grandi fan dei The Beat e avevano inviato una demo di brani ska che avevano realizzato mentre erano ancora al college alla nostra etichetta.
La biografia continuava dicendo che era stato dopo aver ricevuto una lettera di rifiuto dalla Go-Feet, cioè da me! che George e Andrew decisero che avrebbero dovuto scrivere in uno stile più "pop" e iniziarono a scrivere "Young Guns" e "Club Tropicana". George ha ammesso che non scrivevano grandi brani ska, quindi non potevo sentirmi troppo male quando l'ho scoperto, ma ho sempre desiderato che avessero mandato anche "Young Guns" e "Club Tropicana".
Potrebbe essere stata una storia diversa."


Fecero qualche concerto (sicuramente il 5 novembre 1979 a Bushey, città natale di George e Andrew) ma la grande occasione parve arrivare quando il loro compare David Austin, che studiava all'Harrow College, quasi a Londra, trovò un concerto di supporto ai Vibrators, all'interno del college.
Ma a una settimana dall'evento George chiamò la segreteria che negò di averne mai sentito parlare.
Fu la fine della band.
E iniziò un'altra storia.

George Michael:
Io e mio padre stavamo litigando. Eravamo in auto e gli stavo facendo sentire questo demo tape. A parte "Rude Boy", avevo fatto qualcosa con David e stavo portando queste cose in tutte le case discografiche. Ricordo che l'ho fatto ascoltare in macchina a mio padre e lui continuava a dire che dovevo rendermi conto che non c'era futuro per me. Mi raccontava tutto questo da anni e io avevo smesso da tempo di discutere con lui.
Ma ora ci volevo provare davvero. Gli ho detto, "mi hai sbattuto questa merda in faccia negli ultimi cinque anni" ma che avrei assolutamente continuato a farlo, quindi "il minimo che potresti fare è darmi un po' di supporto morale."
"Tutti i diciassettenni vogliono essere pop star", ha detto.
«No, papà. Tutti i dodicenni vogliono essere pop star."
Related Posts with Thumbnails