venerdì, febbraio 28, 2025

Febbraio 2025. Il meglio

Parte bene il 2025 con gli album di Sunny War, Ringo Starr, Iggy Pop, Cymande, Lambrini Girls, De Wolff, PP Arnold, Altons, Delines.
Ottime cose dall'Italia con Neoprimitivi, Laura Agnusdei, Roberta Gulisano, Angela Baraldi, Flavia Ferretti.


SUNNY WAR - Armageddon In A Summer Dress
L'artista del Tennessee arriva al quinto album, sfornando un gioiello di altissima qualità. Lei definisce la sua musica folk punk ma di punk si trova poco. In compenso c'è molto di più, dal soul al gospel al desert rock africano, a buona parte della tradizione sonora americana. Si circonda di alcuni ospiti come Valerie June, John Doe degli X, Tré Burt, Jack Lawrence dei Raconteurs e del suo eroe personale, Steve Ignorant dei Crass. Originale, tanta personalità, più che ottimo.

CYMANDE - Renascence
A dieci anni dal precedente album del 2015 "A Simple Act of Faith" tornano alla grande i Cymande, la funk soul band inglese che lasciò un profondo segno negli anni 70, per poi fermarsi per almeno 40 anni.
Il doc del 2021 "Getting It Back: The Story of Cymande", li ha riportati sulla scena.
Il nuovo lavoro è un brillante mix di mellow soul, funk, influenze jazz e un profondo marchio di Curtis Mayfield in molti brani ("Darkest night" e "Coltrane" in particolare).
Un disco pieno di groove, anima, blackness, moderno, attuale.

THE DELINES - Mr. Luck And Ms. Doom
Nel nuovo album la band dell'Oregon conferma la predilezione per struggenti ballate soul, brani più movimentati che guardano al folk soul dei 60's, atmosfere vellutate, avvolgenti, calde, sensuali.
Un album più che apprezzabile.

ALTONS - Heartache In Room 14
Il duo americano ci regala uno zuccherosissimo album di mellow soul, caldo, sauadente, sensuale, con brani di gusto 50/60's, gustoso sottofondo per una serata in relax. Canzoni belle, arrangiamenti in stile, voci perfette.
Produce la Daptone e la garanzia di qualità sale al 100%.

ZEMBLAS - Do the Mondo Jerk
E' il quarto album per il supergruppo francese con membri di Playboys, Bratchmen, Warmbabies, Dum Dum Boys, Tikis, Dino Farfisa & The Fuzz.
Puro rhythm and blues, intriso di garage, beat, soul, primitivo rock 'n' roll. Tanto semplice e immediatoi quanto irresistibile.
Super!

SHAW'S TRAILER PARK - I thought I saw you
La band di Brighton firma il secondo album, guardando al Paisley Underground con i Dream Syndicate in testa ma si lascia andare anche a momenti più garage 60's. I brani funzionano molto bene, la band è completamente padrona della materia che maneggia e l'album si ascolta con grande piacere.

HORSEGIRL - Phonetics On And On
Le tre giovani ragazze di Chicago esplorano un territorio abitualmente poco frequentato, mettendo insieme un approccio semiacustico aspro, minimale e un po' sghembo, tra Jonathan Richaman e la sua prima esperienza con i Modern Lovers, Yo La Tengo, Velvet Underground. Ipnotico, inquietante, narcolettico, piuttosto affascinante.

WAR - Live in Japan 1974
Una preziosa testimonianza del tour giapponese del 1974 dei favolosi WAR, band molto sottovalutata, "lanciata" da Eric Burdon con due eccellenti album in comune nel 1970. La dimensione live ci offre brani dilatati oltre i 10/15 minuti intrisi di funk, soul, sperimentazione, tribalismi, blues, tra cui piccoli classici come "The world is a ghetto" o "Cisco Kid".
Band in formissima, registrazione impeccabile, contenuto ancora fresco e originale, un nome da "recuperare".

LAGER - Outer than yesterday
Preziosa stampa su vinile (in sole 100 copie) di un demo della band calabrese, registrato nel 1986. I Lager sono stati tra i principali gruppi mod dell'epoca ma oltre a un sound debitore al mod rock di stampo 1979, hanno progressivamente assimilato influenze psichedeliche e garage beat come ben rappresentano questi 9 brani (di cui uno registrato invece nel 2012). Successivamente il leader Francesco Ficco ha formato i Kartoons, viaggiando sempre su coordinate simili più garage oriented con quattro album e diversi singoli all'attivo. Il sound è ruvido, urgente e spontaneo e la registrazione su 4 piste, seppur datata, non risente del tempo trascorso.

MITCH RYDER - The roof is on fire
E' stato un grandissimo cantante e brillante autore di un sound che mischiava l'irruenza della Detroit rock 'n' roll/garage dei mid 60's con l'eleganza degli echi della Motown che aveva sede poco distante da casa sua.
Ormai ha 80 anni ma continua a sfornare album dignitosi, veraci, sinceri.
E' rock blues, rhythm and blues, niente di più ma quanta anima in questo live registrato nel 2020!
E che voce.

ANDY FAIRWEATHER LOW - The invisible bluesman
Il chitarrista gallese, dopo l'esperienza con gli Amen Corner, è stato a fianco di enormi star, dagli Who a Roger Waters, Eric Clapton, George Harrison tra i tanti, dedicandosi però sempre a buoni album solisti. Il nuovo lavoro è un omaggio alle radici blues, rivisitando vari classici con classe e grande tecnica. Un ascolto molto gradevole.

CONNIE PRICE & The KEYSTONES - Uptown Rulers
Ottima raccolta di una serie di 45 giri di recente pubblicazione a base di un mix di funk, soul e hip hop. Sound molto ruvido e basico, ottime canzoni, tanto groove. Interessanti.

LAURA AGNUSDEI – Flowers Are Blooming In Antarctica
La compositrice e saxofonista torna con un album importante, profondo, intenso, che va oltre ogni limite stilistico preconcetto, esplorando spiritual jazz, guardando tanto a Kamasi Washington quanto al funk elettronico di Herbie Hancock, perfino al Miles Davis di On the corner. Il tutto in un contesto sonoro dal gusto ambient, spesso molto “liquido”, di altissima qualità compositiva e massima espressività.

SPY EYE - The Way That Things Are
Tornano a sorpresa gli Spy Eye, tra i pionieri della scena ska italiana negli anni Ottanta e che arrivarono a diverse incisioni tra cui l’album Hot Pursuits nel 1992 per l'inglese Unicorn Records. A distanza di tre decenni ecco quattro nuovi brani che riprendono lo stile primigenio ma con un piglio moderno e attuale tra velocissimi brani ska e più moderati episodi in chiave rocksteady (che riportano ai primi Specials). Il tutto con totale padronanza della materia, elegante irruenza e la giusta attitudine.

JOHN DE LEO JAZZABILLY LOVERS - Tomato Peloso
Un progetto bello, stimolante e frizzante, con la mitica voce di John De Leo (Quintorigo) protagonista, attorniata da musicisti di altissima caratura tecnica ed espressiva. Classici rock n roll (da "Blue suede shoes" o "Love me tender") ma non solo, vengono presi, fatti a pezzi, frullati e ricomposti in chiave jazz (e dintorni), sperimentando, reinterpretando, rinnovando. Un lavoro di grande personalità e stile, godibile pur se non mancano asperità sonore. Da ascoltare assolutamente!

SLOKS - Viper
Torna la super lo fi garage band con un nuovo album, come sempre, furioso, abrasivo, urticante. Due chitarre, voce, batteria a martellare su riff minimali e scarni, in piena osservanza del culto dei Cramps e Oblivians e uno sguardo ossessivo ai primi Stooges più deliranti. Il tutto registrato in modo rozzo e immediato, come è giusto che sia.

UGLY SOUNDS - Never say I'm doomed
La band sarda scava nel profondo del garage punk più ruvido, scarno, abrasivo, quello che prende spunto dai Sixties ribelli e controcorrente di Sonics, Music Machine, Seeds, Monks, poi reso ancora più selvaggio negli anni ottanta da Gravedigger V, Morlocks, Gruesomes. Undici brani brevi e deraglianti, chitarra, basso, batteria, tre accordi al massimo. Perfetti!

MOONBREW & PAOLO APOLLO NEGRI – Destination:Mars
Dalla Luna a Marte il passo è breve e così il duo lombardo ha deciso di intraprendere un nuovo viaggio spaziale, verso il pianeta rosso. I sei brani strumentali assemblano elettronica, funk, jazz, fusion, in una miscela pulsante, dalla forte impronta “cinematografica”. Registrato con estrema cura, eseguito con grande sapienza e tecnica, il nuovo ep brilla per eleganza e classe. Consigliato!

A BAD DAY – Flawed
I chitarristi Egle Sommacal e Sara Ardizzoni vantano una lunga storia artistica, ricca di prestigio e riconoscimenti. La recente unione nei Massimo Volume ha prodotto un side project insieme, rigorosamente e volutamente autoprodotto, in cui i due strumenti si intrecciano, interagiscono, creano, in chiave strumentale, atmosfere minimali, sospese, cerebrali, che uniscono un approccio sperimentale a un mood psichedelico. Il tutto senza supporti ritmici, loop, sovraincisioni in una potenziale colonna sonora di un film distopico. Ottimo.

KOKADAME – Bevisitter
La band piacentina prosegue il suo cammino con un bulldozer che rade al suolo tutto ciò che incontra. Come sempre puro e semplice punk rock, di derivazione Oi!, diretto, con testi provocatori, irritanti e semiseri, ai confini con il cosiddetto “demenziale”. Le sei canzoni funzionano perfettamente per chi ama il deragliamento sonoro e psichico. Raro esempio di vera e propria attitudine punk.

SINGOLI

GERARDO FRISINA - Mindoro
Un latin jazz soul super groooovy, dal ritmo irresistibile. Grande Frisina al piano, perfetti gli arrangiamenti di fiati con la tromba di Gendrickson "Pucci" Mena protagonista.

SHANE SATO - I feel alright / Gospel Type
Un singolo molto suadente, dalle note solari e melliflue, a base di soul, smooth jazz, funk.

MONA & HAMMERBROOK SOUND MACHINE - Vogon
Boogaloo funk super arrembante per la jazzista ucraina. Un gioiello da dancefloor.

https://mocamborecords.bandcamp.com/album/vogon-fire

DERYA YILDIRIM & GRUP ŞİMŞEK - Ceylan
La band berlinese propone una fascinosa miscela di folk anatolico con psichedelia, soul e funk in cinque brani sinuosi e ammalianti. Originalissimo.

LETTO

Hannah Rothschild - La baronessa
Fulminante e splendida biografia della prozia dell'autrice (scrittrice e redattrice per The Times, New York Times, Vogue, Bazaar e Vanity Fair), Pannonica Rothschild de Koenigswarter.
La formidabile vita di Nica, "la baronessa del jazz", rampolla della famiglia Rothschild, tra le più ricche e influenti della storia recente.
Ricchissima, madre di cinque figli, combatte durante la seconda guerra mondiale contro i nazisti a cui sfugge dal monumentale castello in cui vive in Francia, va al fronte in Nord Africa, guida aerei, ambulanze, decodifica codici, organizza rifornimenti alle truppe.
Nel 1948 abbandona tutto, famiglia inclusa e si trasferisce a New York dove scopre il mondo del jazz lasciando una vita agiata ma che l'avrebbe portata all'infelicità.
"Non si limitò ad ascoltare il jazz: lo visse. Si alzava nel cuore della notte, trascurando la luce del giorno e trattandola con assoluto disprezzo...vide nei musicisti l'incarnazione della vita e della libertà".
Ne diventa protagonista, aiutando alcuni esponenti di spicco della scena, da John Coltrane a Bud Powell, Art Blakey ma soprattutto Thelonious Monk di cui diventa sodale, amante, protettrice, a fianco del quale resterà fino alla fine, quando sarà distrutto da malattie e dai problemi di varie dipendenze.
Il suo nome, la sua disponibilità economica, il suo rango e prestigio saranno sempre a disposizione di chi aveva bisogno, in un'epoca in cui negli States una donna bianca che frequentava la comunità nera non era particolarmente gradita.
Archie Sheep:
"Era una donna in anticipo sui tempi. Prese posizione quando farlo non era affatto comodo. E' un modello, una delle prime femministe.
Non soltanto affermò il proprio diritto di essere sé stessa ma si considerò una persona che contribuiva al cambiamento sociale e quindi pensava che anche chi apparteneva alla sua classe poteva partecipare a questo cambiamento."

A lei sono dedicati più di venti brani, in particolare "Pannonica" di Thelonious Monk ma anche "Nica" di Sonny Clark, "Poor butterfly" di Sonny Rollinbs, "Theolonica" di Tony Flanagan.
Non ebbe vita facile, nonostante la fortuna economica su cui poetva sempre contare, osteggiata dalla società bianca, guardata con diffidenza dalla comunità nera.
Un libro consigliatissimo, stupendo e appassionante, che racconta anche con dovizia di dettagli la nascita della fortuna della famiglia Rothschild.
I jazz club della Cinquantaduesima Strada erano piccoli e avevano la medesima clientela notte dopo notte.
Nica si sedette ai tavolini con Kerouac, William Burroughs, Allen Ginsberg e i pittori espressionisti astratti Jackson Pollock, Willem de Kooning, Franz Kline e Frank Stella ad ascoltare Charlie Parker, Dizzy Gillespie, John Coltrane e Miles Davis.


Corrado Rizza - Il Piper Club
Il 17 febbraio 1965 apriva a Roma il Piper Club.
Fu l'epicentro della "dolce vita" beat degli anni Sessanta italiani.
A prevalente appannaggio di una alta società abbiente che amava assistere al nuovo fenomeno dei giovani con i capelli lunghi e le giovani con le gonne molto corte. Ma che fu il catalizzatore di una nuova cultura che attingeva a piene mani dalla Swinging London e dall'America "colorata" e psichedelica.
Passarono sul suo palco Who, i giovanissimi Pink Floyd con Syd Barrett, Family, Procol Harum, Duke Ellington, Joe Tex, Sly and the Family Stone, Genesis e il meglio del giro italiano: Rokes, Equipe 84, Corvi, la "ragazza del Piper, Patty Pravo, Renegades, Rita Pavone, tra i tanti.
Mario Schifano suona lì con la sua creatura "warholiana" Le Stelle di Mario Schifano e Tito Schipa Junior mette in scena la "prima opera rock di sempre" Then An Alley".
Il pregio del libro, oltre a interviste e testimonianze di protagonisti/e (da Mita Medici a Marina Marfoglia), sta nelle oltre 200 fotografie quasi tutte inedite, testimonianza spettacolare di un'epoca incredibile.
Gli amanti dei Sixties impazziranno per queste pagine.

Tano D'Amico - I nostri anni
Tano D'Amico è stato uno dei fotografi che hanno meglio rappresentato il Movimento del 1977, a fianco dei rivoltosi e rivoluzionari.
Ne ha pagato conseguenze molto care: emarginazione, ostracismo, denunce, processi, tradimenti.
In questo libro raccoglie (parlando in terza persona di un "ipotetico" fotografo) una serie di riflessioni personali su "quegli anni", per molti "i nostri anni".
Centrale nella repressione il ruolo di buona parte (la quasi totalità) della stampa:
"Aumentava nella stampa il desiderio, forse il bisogno di denigrare e distruggere donne e uomini che scendevano in strada.

Anche nel giornale in cui il fotografo lavorava...denigrare e criminalizzare il movimento era il compito della stampa".
E' rimasta la consapevolezza di un momento probabilmente irripetibile, pur con tutte le sue contraddizioni e devastazioni.
Un'altra epoca, un' altra idea di vita e società.
"Tutti noi, anche senza dircelo, sentiamo di aver vissuto qualcosa che non era mai stato vissuto.
Forse ne era stata percepita la mancanza. Qualcosa da cercare, che poteva nascere se la cercavamo tutti insieme.
Noi tutti eravamo quelli che ne sentivamo la mancanza.
Eravamo contagiosi.
Eravamo sempre di più, sempre di più.
E sempre di più ci riconoscevamo e ci legavamo."

Tribal Cabaret n°11
Esce il numero 11 della fanzine TRIBAL CABARET e della tape compilation "The Nuclear Dance Desire" con booklet informativo allegato.
Come sempre ricchissimo di contenuti originali e particolarissimi.
Intervista ai Nirvana all'epoca del tour italiano, Marco Giallini, Chris Bailey, Jesus and Mary Chain, Colin Newman dei Wire, un pezzo di Lilith su Patti Smith e un sacco di altre cose tra cui decine di recensioni.
Articoli di Giancarlo De Chirico , AldOne Santarelli , Roberto Calabrò, Lilith-rita Oberti, Giuseppe Colucci, Massimo Pirotta, Romano Pasquini , Francesco Donadio , Michele Pingitore , Ramblin Erikk , Ferruccio Quercetti .
I gruppi nella tape: the Scaners(FR), SNUB(AUS) , Weekend Martyr, Ghostwound , Couchgagzz, Travelin' Man (DE) The Brightest Room, Lorenzo Fragiacomo /Sanlorenzo, Distraction4Ever(CAN), The SONIC Preachers(FR) YEZZER (USA) , The Cosmic Gospel, UNDERDOGS , Plastic Palms e Date at Midnight.
Per informazioni scrivete a: tribalcabaretfanzine@gmail.com

Mojo Magazine 376 marzo 2025
Un numero di particolare interesse per chi naviga nel mare Weller/Beatles.
Un buon pezzo su Ringo Starr (nonostante pieno di notizie risapute) con un po' di fresche dichiarazioni del Nostro.
Ma soprattutto una stupenda intervista a PAUL WELLER con una(come sempre discutibile) classifica dei suoi 50 migliori brani.
Vince "That's entertainment" davanti a "My ever changing moods", "Going underground", "Town called malice" e "You do something to me".
NB: per trovare altri brani dalla carriera solista si va all'ottavo posto con "Into tomorrow" e al decimo con "Wild wood" (la top ten si divide tra Jam e Style Council).
Paul è sorpreso della mancanza di cover di suoi brani:
"Posso capire che "Eton Rifles" possa non essere la "cup of tea" di chiunque ma credo che ci siano un sacco di canzoni che qualcuno potrebbe cantare.
Ho sentito qualcuno rifare "You do something to me" ma sono sorpreso di non avere sentito altro...mi hanno detto che Ray Charles avrebbe voluto rifarla, prima di morire.
Sarebbe stato fantastico!"

Sulla scelta di non rifare molte vecchie canzoni risponde così:
"E' perché molte non sarei più in grado di cantarle.
Ad esempio "Going underground", difficile da cantare e da suonare. Canzoni come "Town called malice" e "That' entertainment sono di pubblico dominio come se non fossero più solo mie canzoni.
Non posso comunque fare tutto ciò che la gente vorrebbe sentire. Un po' perché non ci riuscirei ma anche perché non mi interessa."

Allegato un CD, molto bello, con 15 brani di Northern Soul, funk, soul, selezionati dal Deptford Northern Soul Club.

VISTO

Going Underground di Lisa Bosi
L'amico PIER TOSI ci parla del recente doc dedicato ai GAZNEVADA.
Più di tanti altri i bolognesi Gaznevada hanno incarnato lo spirito del post-punk e della new wave nel nostro paese tra gli anni settanta ed ottanta in modo peculiare e senza scimmiottare modelli stranieri, creando capolavori come il loro album del 1980 'Sick Soundtrack'.
A loro è dedicato 'Going Underground', documentario di Lisa Bosi prodotto da Sonne Film e Wanted Cinema che sta iniziando a circolare in questi giorni in proiezioni singole prima della sua distribuzione.
La loro storia rappresenta anche un passaggio fondamentale nella storia dei movimenti giovanili del nostro paese: legati dapprima alle energie del '77 si mettono in luce con il primo brano 'Mamma Dammi La Benza' per poi prendere le distanze dal rock demenziale ed ispirarsi al punk seguendo l'influenza dei Ramones ma anche lo spirito di avanguardia di bands americane come Talking Heads,Tuxedomoon, Devo o i gruppi della No Wave newyorkese.
'Going Underground' racconta come meglio non si potrebbe questa storia evidenziando lo spirito inquieto del gruppo, la sua estetica aggressiva e la tendenza a mescolare arte e vita al limite dell'autodistruzione attraverso l'uso dell'eroina che in quegli anni si diffonde drammaticamente.
Il loro quartier generale a Bologna fino al 1982 è la Traumfabrik, un appartamento occupato in pieno centro condiviso con, tra gli altri, il fumettista Filippo Scozzari e da cui transitano tutti i personaggi di quella stagione creativa bolognese in un grande vortice di energie.
Avanguardia grafica, fumettistica e letteraria sono propellenti della creatività dei Gaznevada ed influenzano necessariamente anche 'Going Underground' nella sua fotografia dalla luce innaturale e dai toni acidi che fa da contrappunto al loro straniante universo sonoro.
Operazioni come questa sono spesso a rischio di eccesso di retorica e celebrazione o di esagerare dell'uso di interviste convenzionali dove le 'teste parlanti' si susseguono uccidendo il ritmo narrativo: in 'Going Underground' tutto ciò è scongiurato dagli stessi Gaznevada odierni che dominano la scena sin dai primi minuti come 'personaggi' raccontando loro stessi la storia attraverso uno stralunato ma efficace narrato-recitato che è una vera e propria narrazione dentro la narrazione, con il contrasto tra i loro visi attuali segnati e il loro aspetto dell'epoca che costituisce una vera e propria cifra stilistica.
I loro volti i cui dettagli 'bucano' lo schermo e le loro gesta sono ovviamente alternati ad una grande ricchezza di materiali d'epoca, spesso inediti, che mostrano la band in azione costituendo un essenziale corpus documentario.
Non è importante in 'Going Underground' una narrazione precisa fatta titoli di singoli o albums quanto invece portare più fedelmente possibile gli spettatori nell'urgenza espressiva e nelle emozioni dell'arte dei Gaznevada.
I membri della band affermano nel film che la loro volontà era di diventare ricchi e famosi: l'ultima parte della loro carriera li vede infatti raggiungere il consistente successo con il singolo 'IC Love Affair' del 1983 in cui i suoni di batterie elettroniche e sequencers prendono il sopravvento sulle chitarre prefigurando l'avvento dell'Italo-Disco, la rivoluzione dell'house music e l'enorme successo mondiale dei Datura, entità creata proprio da Robert Squibb dei Gaznevada dopo lo scioglimento del gruppo.
Sono proprio i suoni elettronici tra cui spiccano tre brani inediti composti appositamente per il progetto, a portare gli spettatori al termine di un'opera riuscitissima anche nel collocare questa avventura all'interno di un quadro più ampio. Rome as you are di Daniela Giombini, Tino Franco, Marco Porsia
Il rischio di questo tipo di documentari è la caduta in una lunga serie di testimonianze della serie "io c'ero", che finiscono nell'"epico", "favoloso, "indimenticabile".
In realtà i due tour dei Nirvana in Italia nel 1989 e nel 1991, furono pieni di problemi, difficoltà, sia logistiche che, purtroppo personali, soprattutto per Kurt Cobain in preda a un esaurimento nervoso.
La storia viene rivissuta da una delle protagoniste principali della vicenda, Daniela Giombini, che con la sua Subway organizzò fior di concerti (dai Mudhoney ai Celibate Rifles, "solo gruppi che mi piacevano veramente, altrimenti non mi interessava"), in condizioni precarie e difficilissime, soprattutto in un'epoca ancora abbastanza pionieristica per la scena italiana.
Non ci sono celebrazione, nostalgia, esaltazione ma resoconti molto schietti e veraci, con il prezioso apporto di Bruce Pavitt, uno dei boss della Sub Pop, tornato in Italia per l'occasione.
Si aggiungono altre testimonianze di giornalisti e operatori del settore, immagini e filmati d'epoca, ricordi, fotografie, aspetti inediti.
Un documento prezioso di un'epoca ormai andata ma ancora molto significativa e presente (vedi la scena finale con una ragazza 14enne, commossa di fornte a Bruce, ringraziato in lacrime per avere prodotto il suo gruppo preferito di sempre).
Il docu/film è in tour in Italia, se capita in zona, non perdetelo.

A Complete Unknown di James Mangold
E' in sala il tanto discusso film sui primi anni di carriera di BOB DYLAN.
Ben fatto, molto bene interpretato da Timothée Chalamet, credibile e a suo agio nei panni del novello cantautore, circondato da recitazioni altrettanto riuscite degli attori comprimari, adattamento scenografico perfetto e particolarmente suggestivo nella ricercatezza dei dettagli.
Non si dannino i filologi: trattandosi di un film e non di un documentario, le licenze sono numerose ma non inficiano certo l'andamento della storia.
Non è certo un capolavoro imperdibile ma, abituati a biopic spesso inattendibili e grotteschi, in questo caso il risultato è più che gradevole.

Blur: To the end
L'amico GINO DELLEDONNE ci regala la recensione in anteprima di "BLUR: TO THE END" il doc che arriva nelle sale italiane in questi giorni.
Pochi giorni fa ho visto in anteprima Blur: To the end, il doc che sarà nelle sale italiane il 24, 25 e 26 febbraio.
Solo tre giorni a disposizione (salvo che sia successivamente accessibile su qualche piattaforma) per i fan della band per seguire Damon Albarn, Graham Coxon, Alex James e Dave Rowntree nelle settimane precedenti le due date di Wembley.
Dopo la precedente reunion, documentata nel 2010 dalle immagini di No distance left to run, i quattro tornano ancora insieme per quello che può tranquillamente essere considetato unanimemente il punto più alto nella storia dei live del gruppo.
Wembley, il luogo che Damon dice di aver mitizzato vedendo da ragazzino il Live-Aid in tv, ora i Blur, la sua band, sbancare con due sold out da 90.000 spettatori per evento.
Però non sono i biglietti venduti, il luogo e nemmeno il concerto a rendere interessante e spesso toccante il film.
A creare la magia e dare valore al lavoro è l’aspetto umano che emerge dal ritrovarsi di quattro ex adolescenti che per un decennio hanno rarefatto i rapporti reciproci “in dieci anni ci siamo scambiati tre mail, forse”, dice Damon parlando di Alex.
In realtà gli anni trascorsi dal 2010 erano 13, all’epoca del film e 8 anni erano trascorsi dall’uscita di Coxon dal gruppo prima della reunion testimoniata da No distance left to run.
Anche nel 2009 la reunion era motivata dalla voglia di tornare a fare qualcosa insieme.
E’ una sorta di bisogno ciclico di allontanarsi per lunghi periodi, fare ognuno le proprie cose, condurre in un modo o nell’altro le proprie vite, per poi sentire il bisogno di ritrovare gli amici dell’adolescenza coi quali si era formata una band che nessuno di loro immaginava che avrebbe avuto un simile successo.
Come spesso accade però lo stress da successo a cui è sottoposta una band di giovinazzi parecchio cazzoni accentua e spesso infiamma gli aspetti caratteriali dei singoli componenti.
Per oltre 10 anni i Blur sono stati i Blur, con tutto quanto ne consegue in fatto di esposizione e iperlavoro, alcol e fattanze varie comprese (quale e se sia un rapporto causa/effetto poco conta).
Conta che a Damon, sentiti gli altri, rimontata la voglia di fare un disco insieme, The ballad of Darren (2023), come otto anni prima c’era stato The magic whip e, ancora più indietro nel tempo Think Tank, nel 2003.
Nelle lunghe pause chi prosegue con una frenetica attività, praticamente drogato di creatività, da solista o con i Gorillaz o con The Good, the Bad & the Queen e via così con tutto quello che gli salta in testa come fa Damon, chi si ritira in campagna con moglie e figliolanza producendo i suoi formaggi come Alex (nota: lo avreste mai immaginato il bassista dei Blur che fa il casaro? Io no), come Graham che fa le sue robe da solista e collabora persino al disco dei Duran Duran o come Dave che, oltre ad avere un suo progetto musicale con gli Ailerons, ad essere una schiappa nel tennis (vedete il film e capirete perché) e pilotare aerei, è stato candidato laburista nella circoscrizione del Mid Sussex al Parlamento britannico nel 2010 e nel 2024, senza successo in entrambe le tornate elettorali.
Penso seriamente che la bellezza del film stia nella naturalezza di quanto scorre sullo schermo, sembra quasi di vedere un filmino di famiglia, senza i limiti dell’arcaico formato e girato da qualcuno che sa impugnare la macchina da presa, dove lo spettatore è lì, in mezzo a loro mentre fanno le loro cose, mentre parlano, cazzeggiano, provano. Insomma, esattamente come se la macchina da presa non ci fosse.
Per questo, all’inizio, il film sembra arrancare scorrendo un po’impacciato ma poi ti accorgi che sono loro, dopo anni di distanza, che arrancano per ritrovare i propri codici comunicativi e sciogliere gli imbarazzi di vecchi scazzi.
Una volta rotto il ghiaccio fila tutto liscio, come se i ragazzi non fossero lì perché incombe un evento da far tremare i polsi come due date a Wembley o per un album chiamato The ballad of Darren ma per dare vita a Parklife, stessa impostazione cazzona da studenti che mettono insieme una band per dare una scossa lalle proprie vite di provincia.
Di sicuro aveva ragione Mick Jagger quando diceva, di sé e dei suoi compagni di band, che “una volta eravamo giovani, belli e stupidi. Ora non siamo più né belli né giovani”.
Credo che questo valga anche per il Blur ed è quello che ci piace da sempre di loro: la capacità di parlare anche di cose serie, serissime, senza mai prendersi sul serio… da cazzoni, insomma.
In sintesi, se si dovesse trovare un aggettivo per descrivere questo film io sceglierei: autentico.
E non è un complimento da poco.

Secret Affair + Purple Hearts 22 Febbraio @Crossing, Birmingham
L'amico RAMBLIN ERIKK vive a Birmingham e ci concede questa appassionata recensione di una serata magica con SECRET AFFAIR e PURPLE HEARTS.
Ricordo che i Secret Affair saranno il concerto con i nostri The Mads a Torino il 1° giugno al Teatro Q77 in Corso Brescia 77 in occasione del 45° anniversario di Piazza Statuto Mod.
La mia passione per i Secret Affair é relativamente recente e scaturisce proprio dalla lettura di questo Blog : mi preme, dunque, ringraziare Tony, innanzitutto per il suo encomiabile (e instancabile) lavoro di divulgatore culturale ma per avermi dato, in un surreale momento di giustizia poetica, l' opportunitá di offrire il mio resoconto del concerto tenuto dai Secret Affair nella sera di un ventoso 22 Febbraio al Crossing di Birmingham.
Cade, proprio quest' anno, il 45esimo anniversario della pubblicazione di "Glory Boys", iconico long-playing di debutto dei nostri che, immediatamente, li ha cementati come band di punta del cosiddetto "Mod Revival" Inglese di fine anni '70 (assieme ai Jam) una breve, quanto fulgida fiammata di interesse verso le sonoritá e l' estetica di certi anni '60 Britannici iniziata proprio dal gesto dei sopracitati Jam di Paul Weller ma, se é possibile, incarnata in maniera ancor piú decisa e militante dal gruppo di Ian Page, Dave Cairns e soci.
Il famoso concerto "Mods Mayday" del 1979 e relativo album live promossi da Terry Murphy alla sua Bridge House Tavern di Canning Town, Londra, immortalato nell' album live omonimo (con gli stessi Secret Affair a fare da headliners e "signature band") fece da stura a un movimento di cui ancor oggi si avverte la forte risonanza musicale, sociopolitica e culturale, in Inghilterra come altrove.
Ma di questo, indubbiamente, avete giá letto sul presente Blog, narrato in maniera ben piú autorevole.
Questa é piuttosto la storia di un lungocrinito Punk/Sleaze Rocker in maglietta di David Johansen che, un pó timidamente, vista la folla interamente composta da Mods e Skinheads, si avvicina alla sua prima esperienza dei Secret Affair dal vivo.
E, tocca dirlo, fossero ancora stati gli anni 70/80, qualcuno sarebbe tornato a casa con qualche livido e dente rotto, come minimo!
Per fortuna, i tempi sono cambiati e, oggigiorno, chiunque puó assistere a qualunque concerto, dagli Sham 69 ai Cock Sparrer, passando per i Secret Affair, senza dover temere per la propria incolumitá.
Aprono attorno alle 19:30, puntuali come un orologio svizzero (qui in UK si usa cosí) gli ottimi Purple Hearts di Romford, Essex, giá ai tempi d'oro compagni di palco (con buona probabilitá, anche di sbronze) degli Affair e ci regalano tre quarti d' ora di compattissimo e infettivo Power-Pop con tutte le hits che uno si aspetterebbe, "Frustration", "Jimmy", la conclusiva "Millions Of Us" e molto altro in un esaustivo "Greates Hits Live" che li trova tonici e in ottima forma!
Un gruppo da vedere, se vi capita, piú che adeguato a scaldare una platea giá adorante e pronta per il "Main Event".
E, fratelli e sorelle, si capisce dal momento in cui i Secret Affair calcano il palco del Crossing che qui stiamo su un livello giusto un attimino superiore.
Il "Mod Revival" ha visto molti interpreti con risultati variabili ma, é innegabile che, del lotto, i nostri fossero indubbiente i piú talentuosi, capaci e preparati.
Anche se Ian Page appare immediatamente invecchiato rispetto al derviscio filiforme di un tempo (ormai non suona nemmeno piú la tromba sul palco e siede su uno sgabello tra un pezzo e l' altro) e la sua voce é scesa di qualche tonalitá, "Shake And Shout", da "Glory Boys", manda immediatamente il sangue in faccia agli astanti e scatena una danza collettiva degna del Wigan Casino (ma senza borotalco).
Continua "Don't Look Down" sempre dal primo LP ed offre un ulteriore, eclatante esempio della superioritá compositiva e strumentale dei Secret Affair: una band che, se agli occhi piú cinici incarnava un "cliché", di certo é sempre stata piú che in grado di esprimerlo nella maniera piú autorevole e competente, persino andando oltre (penso al secondo "difficile" album "Behind Close Doors" che esprimeva disillusione per un'era ormai agli sgoccioli in una chiave mutuata da tentazioni maliconiche e quasi psichedeliche).
La line-up che abbiamo davanti, sia chiaro, non é l' originale e, attorno al nucleo storico di Ian Page e quel mattatore di Dave Cairns (davvero funambolico alla chitarra solista) troviamo Russ Baxter (batteria) Ed Pearson (basso) Stevie Watts (organo Hammond) e John O'Neill (sassofono) per una formazione ormai giá rodatissima, ben oliata e piú che in grado di rendere giustizia a un set-list storico: l' assolo di Sax di O'Neill su "My World" (brano che, inevitabilmente, fa scendere lacrimoni dagli occhi di molti dei Mods e Modettes presenti) non fa rimpiangere quello, iconico, di Dave Winthrop sull' originale.
Arriva, sorprendemente a metá set, il vero e proprio manifesto ideale di "Glory Boys" che manda tutti in brodo di giuggiole,a c'é spazio anche per qualche perla pescata dagli album successivi ("Sound Of Confusion" dal secondo, "Dancemaster" nei bis dal terzo e, secondo me, loro migliore LP "Business As Usual", "Walk Away" e una notevole jam sulla cover di "I Don't Need No Doctor" di Nick Ashford dall' eccellente "Soho Dreams" del 2012).
Dietro al gruppo scorrono immagini vintage dei giorni della Bridge House Tavern e, se il senso di nostalgia é forte, é bello constatare che la fiamma ancora arde, piú accesa che mai.
Musica, sonoritá e attitudine senza tempo, non mero revival ma qualcosa di ancora estremamente rilevante in questi tempi bui, alla stregua di Blues, Folk, Jazz e altre forme di espressione musicale ormai inevitabilmente "classicizzate".
Il gran finale é riservato al familiare "show-stopper" di "I'm Not Free (But I'm Cheap)" sarcastica riflessione di Ian Page su una disillusione verso il Music Biz che giá covava dai tempi dei New Hearts, la sua prima (e sfortunata) avventura in coppia con Dave Cairns prima che l' ideale e immagine dei "Glory Boys" e dei Secret Affair prendessero forma.
La cover autorevolissima di "Going To A Go-Go" dei Miracles, originali come "Lost In The Night (Mack The Knife)" e l' inattesa B-Side "Soho Strut" fanno il resto per riscaldare l' altrimenti ennesima gelida serata d' inverno Albionico.
Non mancano, ovviamente inni generazionali come il primo singolo bomba "Time For Action" e l' arrembante "Let Your Heart Dance" e, a fine concerto, siamo tutti sudati, esausti e bevuti.
Di sicuro, il floor (e il personale) del Crossing sono felici di vederci finalmente "sfanculare" come si dice a Roma!
Ho sentito dire che la band suonerá anche in Italia: per l' amor d' Iddio, non perdeteli perché, come si diceva nei '60s, questa é "Satisfaction Guaranteed".

COSE VARIE
° Ogni giorno mie recensioni italiane su www.radiocoop.it (per cui curo ogni settimana un TG video musicale - vedi pagina FB https://www.facebook.com/RadiocoopTV/).
° Ogni mese varie su CLASSIC ROCK.
° Ogni sabato un video con aggiornamenti musicali sul portale https://www.facebook.com/goodmorninggenova
° Ogni lunedì la mia rubrica "La musica che gira intorno" nelle pagine di www.piacenzasera.it
° Sulle riviste/zines "GIMME DANGER" e "GARAGELAND"
° Periodicamente su "Il Manifesto" e "Vinile".

E' uscito il mio libro dedicato a Ringo Starr, "Ringo Starr. Batterista" per Low Edizioni.
Alla scoperta del batterista RINGO STARR attraverso l'analisi tecnica ed espressiva di tutti i brani in cui ha suonato (dai Beatles, ai live, alla carriera solista alle infinite collaborazioni).
Un pretesto per raccontare la sua vita artistica (anche attraverso un dettagliato percorso nella sua attività solista e cinematografica).
Franco Zanetti cura la prefazione, Giovanni Naska Deidda ci elenca tutte le batterie che ha suonato.

Per acquisto diretto: https://www.edizionilow.it/ringo-starr-batterista/

Martedì 4 marzo:
La Galera C.so Cavour 19/a, Correggio (Reggio Emilia).
Presentazione di "Ringo Starr. Batterista" con Fabrizio Tavernelli.

La Vetreria di Borgonovo Piacentino è, dal 1950, tra le aziende più floride e d'avanguardia della zona e non solo.
Quest'anno ha deciso di allegare al catalogo uno speciale dedicato al SOUTHERN ROCK (dagli Allman Brothers Band ai Lynyrd Skynyrd, fino ai Black Crowes) la cui stesura è stata a cura del sottoscritto, con adeguata e pertinente grafica.

Se ne può richiedere copia qui: info@borgonovo.it

giovedì, febbraio 27, 2025

Mick Talbot

MICK TALBOT ha trovato notorietà e successo nel progetto STYLE COUNCIL a fianco di Paul Weller negli anni Ottanta.
La sua discografia è pressoché sterminata pur avendo pubblicato pochissimo a suo nome.

In questa sede un veloce sunto delle sue migliori opere e partecipazioni (grazie al prezioso aiuto di Flavio Cpt Stax Candiani).

MERTON PARKAS - Face in the crowd (1979)
L'esordio discografico con la mod band è del 1979 (dopo aver lasciato il nome di The Sneekers con cui suonavano power pop).
Ebbero una breve notorietà (il singolo "You Need Wheels" finì nella top 40 inglese) e qualche piccola soddisfazione. L'album rimane molto godibile, nella sua semplicità, spontaneità, freschezza.

THE BUREAU - s/t (1981)
Dopo una breve (burrascosa?) permanenza nei Dexy's Midnight Runners, Talbot si allontana con altri membri per fondare i Bureau e proseguire sostanzialmente la strada artistica della band di Rowland (nel frattempo in procinto di ripescare le radici celtiche e sfondare in tutto il mondo con "Come on Eileen").
L'album che ne esce è un ottimo condensato di energico soul rock che avrebbe meritato miglior fortuna.
La band si scioglie poco tempo dopo.

STYLE COUNCIL (1982-1989)
L'opera omnia del gruppo, fatta di alti e bassi, ha messo in luce le capacità di Talbot (che con Weller aveva già collaborato in "Setting sons" dei Jam, suonando "Heatwave" mentre Rick Buckler suonò la batteria con i Merton Parkas a Londra).
Ebbe spazio per suoi brani in stile Hammond beat, fu protagonista delle tendenze classico sinfoniche di "Confessions of a Pop Group" e delle discusse scelte di abbracciare la house music nell'ultimo periodo dei vita della band.

TALBOT and WHITE - Unied states of mind (1993)
TALBOT and WHITE - Off the beaten track (1997)
L'accoppiata con l'ex batterista degli Style Council produce due ottimi album.
Il primo più funk soul oriented con le voci di Annie McCaig e Linda Muriel in gran spolvero. Al sax Jacko Peake, a lungo con Paul Weller. Nel secondo si vira verso un classico Hammond sound strumentale, più jazzato con Mark Felthan (Nine Below Zero e Truth) e Paul Weller alla chitarra nel remix di un brano funk.

THE PLAYERS - Clear the desks (2003)
THE PLAYERS - From the six corners (2005)
Talbot e White si affiancano a Damon Minchella e Steve Cradock degli Ocean Colours Scene e del giro Paul Weller e Aziz Ibrahim (SimplY Red, Stone Roses, Ian Brown e sempre Weller). Atmosfere new funk, strumentali nel primo, con la voce di Kelly Dickson nel secondo, più curato, raffinato, meno prevedibile e meglio riuscito.

ROGER DALTREY + WILKO JOHNSON - Going back home (2014)
Super duo affiancato dall’ex bassista dei Blockheads Norman Watt Roy e dal batterista Dylan Howe (figlio di Steve Howe degli Yes, anche lui con Blockheads e già con Wilko).
Mick svolge un ottimo lavoro alle tastiere con mestiere e discrezione.
Riprendono una serie di brani del repertorio di Johnson riproposti in un torrido album di ruvidissimo e minimale rock blues/pub rock/rhythm and blues dove la ruvida voce di Roger si trova benissimo con la sferragliante chitarra di i Wilko. Roba semplicissima, basica, elementare, poco altro.

BANGS & TALBOT - Back To Business (2022)
L'accoppiata con Chris Bangs (l'inventore del termine "acid jazz") lo coglie alle prese con il suo mondo strumentale a base di latin soul, boogaloo, modern jazz, acid jazz.
Divertente, godibile e trascinante (vedi alla voce James Taylor Quartet, Big Boss Man, Corduroy).

Da ricordare le sue partecipazioni nel primo album dei GALLIANO "In Pursuit of the 13th Note" del 1991 e in quello degli YOUNG DISCIPLES dello stesso anno "Road to Freedom", nel singolo "Be lucky" degli WHO nel 2014, in diversi album di PAUL WELLER ("Wild wood", "Stanley Road", "On sunset" e in "One Day I'm Going to Soar" dei DEXYS.

L'unico brano solista accreditato a lui è nella compilation "A Certain Kind Of Freedom" uscita poco dopo lo split degli Style Council, "That Guy Called Pumpkin":
https://www.youtube.com/watch?v=VB_MU6tgJ8M

Alter-ego usati negli anni: "Elliot Arnold" nei King Truman, "Agent" 88 in un EP di suoi strumentali degli Style Council e come "The Mixed Companions" in alcune B sides degli Style Council.

mercoledì, febbraio 26, 2025

Tano D'Amico - I nostri anni

Tano D'Amico è stato uno dei fotografi che hanno meglio rappresentato il Movimento del 1977, a fianco dei rivoltosi e rivoluzionari.

Ne ha pagato conseguenze molto care: emarginazione, ostracismo, denunce, processi, tradimenti.
In questo libro raccoglie (parlando in terza persona di un "ipotetico" fotografo) una serie di riflessioni personali su "quegli anni", per molti "i nostri anni".

Centrale nella repressione il ruolo di buona parte (la quasi totalità) della stampa:
"Aumentava nella stampa il desiderio, forse il bisogno di denigrare e distruggere donne e uomini che scendevano in strada.
Anche nel giornale in cui il fotografo lavorava...denigrare e criminalizzare il movimento era il compito della stampa".

E' rimasta la consapevolezza di un momento probabilmente irripetibile, pur con tutte le sue contraddizioni e devastazioni.
Un'altra epoca, un' altra idea di vita e società.

"Tutti noi, anche senza dircelo, sentiamo di aver vissuto qualcosa che non era mai stato vissuto.
Forse ne era stata percepita la mancanza. Qualcosa da cercare, che poteva nascere se la cercavamo tutti insieme.
Noi tutti eravamo quelli che ne sentivamo la mancanza.
Eravamo contagiosi.
Eravamo sempre di più, sempre di più.
E sempre di più ci riconoscevamo e ci legavamo."



Tano D'Amico
I nostri anni
Milieu Edizioni
96 pagine
14,90

martedì, febbraio 25, 2025

Secret Affair + Purple Hearts 22 Febbraio @Crossing, Birmingham

L'amico RAMBLIN ERIKK vive a Birmingham e ci concede questa appassionata recensione di una serata magica con SECRET AFFAIR e PURPLE HEARTS.

Ricordo che i Secret Affair saranno il concerto con i nostri The Mads a Torino il 1° giugno al Teatro Q77 in Corso Brescia 77 in occasione del 45° anniversario di Piazza Statuto Mod.


La mia passione per i Secret Affair é relativamente recente e scaturisce proprio dalla lettura di questo Blog : mi preme, dunque, ringraziare Tony, innanzitutto per il suo encomiabile (e instancabile) lavoro di divulgatore culturale ma per avermi dato, in un surreale momento di giustizia poetica, l' opportunitá di offrire il mio resoconto del concerto tenuto dai Secret Affair nella sera di un ventoso 22 Febbraio al Crossing di Birmingham.

Cade, proprio quest' anno, il 45esimo anniversario della pubblicazione di "Glory Boys", iconico long-playing di debutto dei nostri che, immediatamente, li ha cementati come band di punta del cosiddetto "Mod Revival" Inglese di fine anni '70 (assieme ai Jam) una breve, quanto fulgida fiammata di interesse verso le sonoritá e l' estetica di certi anni '60 Britannici iniziata proprio dal gesto dei sopracitati Jam di Paul Weller ma, se é possibile, incarnata in maniera ancor piú decisa e militante dal gruppo di Ian Page, Dave Cairns e soci.
Il famoso  concerto "Mods Mayday" del 1979 e relativo album live promossi da Terry Murphy alla sua Bridge House Tavern di Canning Town, Londra, immortalato nell' album live omonimo (con gli stessi Secret Affair a fare da headliners e "signature band") fece da stura a un movimento  di cui ancor oggi si avverte la forte risonanza musicale, sociopolitica e culturale, in Inghilterra come altrove.
Ma di questo, indubbiamente, avete giá letto sul presente Blog, narrato in maniera ben piú autorevole.

Questa é piuttosto la storia di un lungocrinito Punk/Sleaze Rocker in maglietta di David Johansen che, un pó timidamente, vista la folla interamente composta da Mods e Skinheads, si avvicina alla sua prima esperienza dei Secret Affair dal vivo.
E, tocca dirlo, fossero ancora stati gli anni 70/80, qualcuno sarebbe tornato a casa con qualche livido e dente rotto, come minimo!

Per fortuna, i tempi sono cambiati e, oggigiorno, chiunque puó assistere a qualunque concerto, dagli Sham 69 ai Cock Sparrer, passando per i Secret Affair, senza dover temere per la propria incolumitá.

Aprono attorno alle 19:30, puntuali come un orologio svizzero (qui in UK si usa cosí) gli ottimi Purple Hearts di Romford, Essex, giá ai tempi d'oro compagni di palco (con buona probabilitá, anche di sbronze) degli Affair e ci regalano tre quarti d' ora di compattissimo e infettivo Power-Pop con tutte le hits che uno si aspetterebbe, "Frustration", "Jimmy", la conclusiva "Millions Of Us" e molto altro in un esaustivo "Greates Hits Live" che li trova tonici e in ottima forma!
Un gruppo da vedere, se vi capita, piú che adeguato a scaldare una platea giá adorante e pronta per il "Main Event".

E, fratelli e sorelle, si capisce dal momento in cui i Secret Affair calcano il palco del Crossing che qui stiamo su un livello giusto un attimino superiore.
Il "Mod Revival" ha visto molti interpreti con risultati variabili ma, é innegabile che, del lotto, i nostri fossero indubbiente i piú talentuosi, capaci e preparati.
Anche se Ian Page appare immediatamente invecchiato rispetto al derviscio filiforme di un tempo (ormai non suona nemmeno piú la tromba sul palco e siede su uno sgabello tra un pezzo e l' altro) e la sua voce é scesa di qualche tonalitá, "Shake And Shout", da "Glory Boys", manda immediatamente il sangue in faccia agli astanti e scatena una danza collettiva degna del Wigan Casino (ma senza borotalco).
Continua "Don't Look Down" sempre dal primo LP ed offre un ulteriore, eclatante esempio della superioritá compositiva e strumentale dei Secret Affair: una band che, se agli occhi piú cinici incarnava un "cliché", di certo é sempre stata piú che in grado di esprimerlo nella maniera piú autorevole e competente, persino andando oltre (penso al secondo "difficile" album "Behind Close Doors" che esprimeva disillusione per un'era ormai agli sgoccioli in una chiave mutuata da tentazioni maliconiche e quasi psichedeliche).

La line-up che abbiamo davanti, sia chiaro, non é l' originale e, attorno al nucleo storico di Ian Page e quel mattatore di Dave Cairns (davvero funambolico alla chitarra solista) troviamo Russ Baxter (batteria) Ed Pearson (basso) Stevie Watts (organo Hammond) e John O'Neill (sassofono) per una formazione ormai giá rodatissima, ben oliata e piú che in grado di rendere giustizia a un set-list storico: l' assolo di Sax di O'Neill su "My World" (brano che, inevitabilmente, fa scendere lacrimoni dagli occhi di molti dei Mods e Modettes presenti) non fa rimpiangere quello, iconico, di Dave Winthrop sull' originale.
Arriva, sorprendemente a metá set, il vero e proprio manifesto ideale di "Glory Boys" che manda tutti in brodo di giuggiole,a c'é spazio anche per qualche perla pescata dagli album successivi ("Sound Of Confusion" dal secondo, "Dancemaster" nei bis dal terzo e, secondo me, loro migliore LP "Business As Usual",  "Walk Away" e una notevole jam sulla cover di "I Don't Need No Doctor" di Nick Ashford dall' eccellente "Soho Dreams" del 2012).

Dietro al gruppo scorrono immagini vintage dei giorni della Bridge House Tavern e, se il senso di nostalgia é forte, é bello constatare che la fiamma ancora arde, piú accesa che mai.
Musica, sonoritá e attitudine senza tempo, non mero revival ma qualcosa di ancora estremamente rilevante in questi tempi bui, alla stregua di Blues, Folk, Jazz e altre forme di espressione musicale ormai inevitabilmente "classicizzate".

Il gran finale é riservato al familiare "show-stopper" di "I'm Not Free (But I'm Cheap)" sarcastica riflessione di Ian Page su una disillusione verso il Music Biz che giá covava dai tempi dei New Hearts, la sua prima (e sfortunata) avventura in coppia con Dave Cairns prima che l' ideale e immagine dei "Glory Boys" e dei Secret Affair prendessero forma.
La cover autorevolissima di "Going To A Go-Go" dei Miracles, originali come "Lost In The Night (Mack The Knife)" e l' inattesa B-Side "Soho Strut" fanno il resto per riscaldare l' altrimenti ennesima gelida serata d' inverno Albionico.
Non mancano, ovviamente inni generazionali come il primo singolo bomba "Time For Action" e l' arrembante "Let Your Heart Dance" e, a fine concerto, siamo tutti sudati, esausti e bevuti.
Di sicuro, il floor (e il personale) del Crossing sono felici di vederci finalmente "sfanculare" come si dice a Roma!

Ho sentito dire che la band suonerá anche in Italia: per l' amor d' Iddio, non perdeteli perché, come si diceva nei '60s, questa é "Satisfaction Guaranteed".

Setlist:
Shake And Shout
Don't Look Down
Soho Strut
Glory Boys
Going To A Go-Go
One Day In Your Life
Walk Away
New Dance
Do You Know/Sound Of Confusion
Lost In The Night (Mack The Knife)
Do I Love You (Indeed I Do)
Time For Action
Let Your Heart Dance
My World

Encore:
Dancemaster
I'm Not Free (But I'm Cheap)

lunedì, febbraio 24, 2025

Blur: To the end

L'amico GINO DELLEDONNE ci regala la recensione in anteprima di "BLUR: TO THE END" il doc che arriva nelle sale italiane in questi giorni.

Pochi giorni fa ho visto in anteprima Blur: To the end, il doc che sarà nelle sale italiane il 24, 25 e 26 febbraio.
Solo tre giorni a disposizione (salvo che sia successivamente accessibile su qualche piattaforma) per i fan della band per seguire Damon Albarn, Graham Coxon, Alex James e Dave Rowntree nelle settimane precedenti le due date di Wembley.

Dopo la precedente reunion, documentata nel 2010 dalle immagini di No distance left to run, i quattro tornano ancora insieme per quello che può tranquillamente essere considetato unanimemente il punto più alto nella storia dei live del gruppo.
Wembley, il luogo che Damon dice di aver mitizzato vedendo da ragazzino il Live-Aid in tv, ora i Blur, la sua band, sbancare con due sold out da 90.000 spettatori per evento.

Però non sono i biglietti venduti, il luogo e nemmeno il concerto a rendere interessante e spesso toccante il film.
A creare la magia e dare valore al lavoro è l’aspetto umano che emerge dal ritrovarsi di quattro ex adolescenti che per un decennio hanno rarefatto i rapporti reciproci “in dieci anni ci siamo scambiati tre mail, forse”, dice Damon parlando di Alex.
In realtà gli anni trascorsi dal 2010 erano 13, all’epoca del film e 8 anni erano trascorsi dall’uscita di Coxon dal gruppo prima della reunion testimoniata da No distance left to run.

Anche nel 2009 la reunion era motivata dalla voglia di tornare a fare qualcosa insieme.
E’ una sorta di bisogno ciclico di allontanarsi per lunghi periodi, fare ognuno le proprie cose, condurre in un modo o nell’altro le proprie vite, per poi sentire il bisogno di ritrovare gli amici dell’adolescenza coi quali si era formata una band che nessuno di loro immaginava che avrebbe avuto un simile successo.
Come spesso accade però lo stress da successo a cui è sottoposta una band di giovinazzi parecchio cazzoni accentua e spesso infiamma gli aspetti caratteriali dei singoli componenti.

Per oltre 10 anni i Blur sono stati i Blur, con tutto quanto ne consegue in fatto di esposizione e iperlavoro, alcol e fattanze varie comprese (quale e se sia un rapporto causa/effetto poco conta).
Conta che a Damon, sentiti gli altri, rimontata la voglia di fare un disco insieme, The ballad of Darren (2023), come otto anni prima c’era stato The magic whip e, ancora più indietro nel tempo Think Tank, nel 2003.
Nelle lunghe pause chi prosegue con una frenetica attività, praticamente drogato di creatività, da solista o con i Gorillaz o con The Good, the Bad & the Queen e via così con tutto quello che gli salta in testa come fa Damon, chi si ritira in campagna con moglie e figliolanza producendo i suoi formaggi come Alex (nota: lo avreste mai immaginato il bassista dei Blur che fa il casaro? Io no), come Graham che fa le sue robe da solista e collabora persino al disco dei Duran Duran o come Dave che, oltre ad avere un suo progetto musicale con gli Ailerons, ad essere una schiappa nel tennis (vedete il film e capirete perché) e pilotare aerei, è stato candidato laburista nella circoscrizione del Mid Sussex al Parlamento britannico nel 2010 e nel 2024, senza successo in entrambe le tornate elettorali.

Penso seriamente che la bellezza del film stia nella naturalezza di quanto scorre sullo schermo, sembra quasi di vedere un filmino di famiglia, senza i limiti dell’arcaico formato e girato da qualcuno che sa impugnare la macchina da presa, dove lo spettatore è lì, in mezzo a loro mentre fanno le loro cose, mentre parlano, cazzeggiano, provano. Insomma, esattamente come se la macchina da presa non ci fosse.
Per questo, all’inizio, il film sembra arrancare scorrendo un po’impacciato ma poi ti accorgi che sono loro, dopo anni di distanza, che arrancano per ritrovare i propri codici comunicativi e sciogliere gli imbarazzi di vecchi scazzi.

Una volta rotto il ghiaccio fila tutto liscio, come se i ragazzi non fossero lì perché incombe un evento da far tremare i polsi come due date a Wembley o per un album chiamato The ballad of Darren ma per dare vita a Parklife, stessa impostazione cazzona da studenti che mettono insieme una band per dare una scossa lalle proprie vite di provincia.

Di sicuro aveva ragione Mick Jagger quando diceva, di sé e dei suoi compagni di band, che “una volta eravamo giovani, belli e stupidi. Ora non siamo più né belli né giovani”.
Credo che questo valga anche per il Blur ed è quello che ci piace da sempre di loro: la capacità di parlare anche di cose serie, serissime, senza mai prendersi sul serio… da cazzoni, insomma.

In sintesi, se si dovesse trovare un aggettivo per descrivere questo film io sceglierei: autentico.
E non è un complimento da poco.

venerdì, febbraio 21, 2025

Stagger Lee

Lee Shelton, conosciuto anche come Stagolee, STAGGER LEE o Stack-O-Lee era un criminale americano vissuto a cavallo tra l'800 e il '900, diventato famoso grazie alla canzone folk popolare STAGGER LEE suonata nelle più svariate versioni da una lungo elenco di musicisti.

Lee era un afroamericano nato in Texas nel 1865, entrato nel giro delle scommesse e abituale frequentatore di locali poco raccomandabili.
Durante una discussione nella notte di Natale del 1895 uccise a colpi di pistola, in un saloon di St.Louis, William "Billy" Lyons.
Condannato a 25 anni di prigione ma rilasciato "sulla parola" nel 1909, venne di nuovo arrestato per rapina due anni dopo e morì in carcere nel 1912.

Incominciò a circolare una canzone su di lui, suonata dai lavoratori neri e dai primi bluesmen, arricchita ogni volta da nuovi particolari, versi, parole.

Fu pubblicata la prima volta nel 1911, in seguito viene registrata a Camden, New Jersey il 18 aprile del 1923, ad opera dei Fred Waring’s Pennsylvanians su un supporto a 78 giri con il titolo di "Stack O Lee Blues"

https://www.youtube.com/watch?v=9i6owdt6UB8

Nel 1924 ne esce una versione di Herb Wiedoeft, prima della seconda guerra mondiale la canzone passa per varie mani, venendo incisa anche avente titolo Stack-o-lee, ne fanno una versione pure sir Duke Ellington (1899-1974) nel 1927, Cab Calloway (1907-1994) nel 1931 e infine Woody Guthrie (1912-1967) nel 1941.
Nel 1959 il brano ha avuto successo come cover incisa da Lloyd Price.

https://www.youtube.com/watch?v=FCPutYaGFlE

Tra le innumerevoli versioni quelle di:
Woody Guthrie, Beck, Bill Haley & His Comets, James Brown, Nick Cave and the Bad Seeds,Fats Domino, Dr. John, Champion Jack Dupree, Bob Dylan, The Isley Brothers, Jerry Lee Lewis, Professor Longhair, Pete Seeger, Taj Mahal, Amy Winehouse, Wilson Pickett, Clash (che la accennano all'inizio di "Wrong em Bojo" su "London calling").

Una lista approssimativa delle versioni:

Mississippi John Hurt – Stack O’Lee Blues
Lloyd Price – Stagger Lee
Grateful Dead – Stagger Lee
The Clash – Wrong ‘Em Boyo
Mickey Baker – Stack O’Lee
Bob Dylan – Stack a Lee
Nick Cave & the Bad Seeds – Stagger Lee
Taj Mahal – Stagger Lee
Woody Guthrie – Stackolee
Dr. John – Stagger Lee
Pete Seeger – Stagolee (Stagger Lee)
The Black Keys – Stack Shot Billy
Chris Whitley & Jeff Lang – Stagger Lee
Fats Domino – Stagger Lee (Live at Montreaux)
John Cephas & Phil Wiggins – Staggerlee (Stackolee)
Grateful Dead – Stagger Lee (Live in Egypt, 1978)
New Monsoon – Stagger Lee (Live)
Ike & Tina Turner – Stagger Lee and Billy
Pacific Gas & Electric – Staggolee
Samuel L. Jackson – Stack-o-Lee
Wilson Pickett – Stagger Lee
Beck – Stagolee
Neil Diamond – Stagger Lee
Jerry Lee Lewis – Stagger Lee
Huey Lewis & the News – Stagger Lee
The Fabulous Thunderbirds – Stagger Lee
Bill Haley & His Comets – Stagger Lee

giovedì, febbraio 20, 2025

Rick Buckler

Un doveroso omaggio a RICK BUCKLER, batterista dei Jam, scomparso qualche giorno fa.

Una carriera da “loser”, partita con l’incredibile fiammata dei JAM, durata lo spazio di cinque anni, da “In the city” del 1977 a “The gift” del 1982 e finita sostanzialmente subito, con una caduta (che poteva probabilmente essere evitata) nell’oblìo e in avventure artistiche mai significative.

Non è mai stato un batterista particolarmente esuberante ma d’altronde nemmeno Weller e Foxton eccellevano nel loro strumento, comunque sempre funzionali al carattere delle canzoni.

Buckler è riuscito solo parzialmente ad adattarsi alla maggiore complessità ritmica che aveva acquisito nel corso degli anni la scrittura di Weller anche se ascoltando la discografia dei Jam è evidente la sua crescita, dai tempi essenziali dei primi due album alla raffinatezza richiesta in “Sound affects” e “The gift”.
Ma Weller non è più contento di come sta andando la band, soprattutto di come la sua svolta artistica verso soul e funk non trovi due musicisti all’altezza (ritiene Paul).

Non sono il miglior batterista del mondo, ma ho preso spunto da Ringo Starr. Lui si è reso conto che la star è la canzone, giusto? Non altro.
Non è qualcuno che cerca di essere il miglior batterista del mondo, o il miglior bassista del mondo, o il miglior chitarrista del mondo, e Paul non è certamente il miglior chitarrista del mondo, nonostante tutte le sue capacità di autore di canzoni.
Nessuno di noi era un musicista eccezionale sotto molti aspetti, ma penso che stessimo cercando di essere il più creativi possibile, in modo da lavorare bene insieme come band.


I Jam avevano fatto un passo avanti e si erano evoluti in ogni modo possibile, musicalmente e nella scrittura delle canzoni e abbiamo provato un sacco di cose diverse. Abbiamo portato dentro la sezione fiati. Eravamo probabilmente una delle band più flessibili al mondo all'epoca, per essere in grado di passare a diverse aree e stili. Io e Bruce come sezione ritmica, abbiamo contribuito molto al sound della band.

Purtroppo la storia finisce malamente, Weller se ne va per fondare gli Style Council, Bruce e Rick fanno causa a lui e al padre manager John Weller per diritti non pagati.

Penso che molto di ciò avesse a che fare con il modo in cui la band era gestita, perché c'erano molte domande sul perché John e Paul avevano tutti questi soldi, e io e Bruce non ne avevamo molti. C'era questa cosa da cittadini di prima e seconda classe che stava accadendo all'interno della nostra stessa band. Stavamo iniziando a farci delle domande.
La dichiarazione è suscettibile di contraddittorio, considerando che Weller è sempre stato l’esclusivo autore di tutti i successi e del 95% del repertorio dei Jam, conseguentemente economicamente ben più retribuito dei due compagni.

C’era uno slancio che si è accumulato durante l'evoluzione della band e il modo in cui abbiamo lavorato e così via, che una volta che si è rotto, non penso che si possa mai più ricucire insieme. Se la band dovesse mai riunirsi e fare qualcosa, cosa che non vedo possa accadere mai, sarebbe semplicemente tornare su vecchi terreni. Ed è un vero peccato che quella connessione, quel tipo di spinta, sia stata letteralmente abbandonata, il che è stato un vero peccato. È stato quasi un atto di vandalismo musicale dividere la band a quel tempo.

La carriera successiva allo scioglimento dei Jam è piuttosto oscura.
Sorprende, considerando che un musicista così conosciuto non abbia saputo trovare posto in contesti più prestigiosi.
Bruce Foxton cercò una (infelice) carriera solista ma poi si accasò per 15 anni con gli Stiff Little Fingers e poi nei Casbah Club di Simon Townshend, fratello di Pete.

L’esperienza con i TIME UK produce tra il 1983 e il 1985 tre singoli, non particolarmente interessanti, con un pop rock piuttosto anonimo.
Sciolta la band tornò a fianco di Bruce Foxton (e Jimmy Edwards) con gli SHARP con cui realizzò il 45 giri “Entertain me” / “So say Hurrah”, anche in questo caso scialbo e dimenticabile.
Compare saltuariamente in altri lavori, come “Fourth wall” album accreditato a lui, Brian Viner, Noel Jones, con gli Highliners, band tra rock e psychobilly (con cui andrà in tour nel 1990), produce “Tell 'Em We're Surfin” dei Family Cat per poi abbandonare la carriera musicale per una quindicina di anni.

Tornerà prima con i The Gift, cover band dei Jam a cui segue l’avventura con i From The Jam, di nuovo a fianco di Bruce Foxton, altra tribute band ai Jam (criticata aspramente da Weller) e un breve periodo . Lascia polemicamente il gruppo qualche anno dopo, volendo incominciare a comporre brani originali, contro il volere dei restanti componenti, risoluti a proseguire il loro status di tributo.

Svolge il lavoro da manager per oscuri artisti come Sarah Jane e Brompton Six, pubblica l’autobiografia “That's Entertainment: My Life in the Jam” e lo ritroviamo spesso in talk e incontri nelle serate mod.

“Quando Paul disse che avrebbe lasciato la band, io e Bruce sentivamo che c'era ancora molto da fare. Forse un altro paio d'anni o un altro paio di album. C'erano ancora cose che potevamo realizzare. Non so cosa provasse Paul quando lo fece. Penso che segretamente sappia di aver fatto un errore."

Le dichiarazioni di Rick Buckler sono tratte da queste interviste:

https://thestrangebrew.co.uk/interviews/rick-buckler-the-jam-1982/

https://writewyattuk.com/2018/02/15/getting-by-in-time-back-in-touch-with-rick-buckler/

mercoledì, febbraio 19, 2025

Hannah Rothschild - La baronessa

Fulminante e splendida biografia della prozia dell'autrice (scrittrice e redattrice per The Times, New York Times, Vogue, Bazaar e Vanity Fair), Pannonica Rothschild de Koenigswarter.

La formidabile vita di Nica, "la baronessa del jazz", rampolla della famiglia Rothschild, tra le più ricche e influenti della storia recente.

Ricchissima, madre di cinque figli, combatte durante la seconda guerra mondiale contro i nazisti a cui sfugge dal monumentale castello in cui vive in Francia, va al fronte in Nord Africa, guida aerei, ambulanze, decodifica codici, organizza rifornimenti alle truppe.

Nel 1948 abbandona tutto, famiglia inclusa e si trasferisce a New York dove scopre il mondo del jazz lasciando una vita agiata ma che l'avrebbe portata all'infelicità.
"Non si limitò ad ascoltare il jazz: lo visse. Si alzava nel cuore della notte, trascurando la luce del giorno e trattandola con assoluto disprezzo...vide nei musicisti l'incarnazione della vita e della libertà".

Ne diventa protagonista, aiutando alcuni esponenti di spicco della scena, da John Coltrane a Bud Powell, Art Blakey ma soprattutto Thelonious Monk di cui diventa sodale, amante, protettrice, a fianco del quale resterà fino alla fine, quando sarà distrutto da malattie e dai problemi di varie dipendenze.

Il suo nome, la sua disponibilità economica, il suo rango e prestigio saranno sempre a disposizione di chi aveva bisogno, in un'epoca in cui negli States una donna bianca che frequentava la comunità nera non era particolarmente gradita.

Archie Shepp:
"Era una donna in anticipo sui tempi. Prese posizione quando farlo non era affatto comodo. E' un modello, una delle prime femministe.
Non soltanto affermò il proprio diritto di essere sé stessa ma si considerò una persona che contribuiva al cambiamento sociale e quindi pensava che anche chi apparteneva alla sua classe poteva partecipare a questo cambiamento."


A lei sono dedicati più di venti brani, in particolare "Pannonica" di Thelonious Monk ma anche "Nica" di Sonny Clark, "Poor butterfly" di Sonny Rollinbs, "Theolonica" di Tony Flanagan.
Non ebbe vita facile, nonostante la fortuna economica su cui poteva sempre contare, osteggiata dalla società bianca, guardata con diffidenza dalla comunità nera.

Un libro consigliatissimo, stupendo e appassionante, che racconta anche con dovizia di dettagli la nascita della fortuna della famiglia Rothschild.

I jazz club della Cinquantaduesima Strada erano piccoli e avevano la medesima clientela notte dopo notte.
Nica si sedette ai tavolini con Kerouac, William Burroughs, Allen Ginsberg e i pittori espressionisti astratti Jackson Pollock, Willem de Kooning, Franz Kline e Frank Stella ad ascoltare Charlie Parker, Dizzy Gillespie, John Coltrane e Miles Davis.


Hannah Rothschild
La baronessa
Neri PozzaPagine 288
19 euro
Traduzione di Alessandro Zabini

martedì, febbraio 18, 2025

Ska e 2Tone Records

Riprendo l'articolo che ho scritto sabato scorso per l'inserto "Alias" de "Il Manifesto".

La storia dell’etichetta discografica 2Tone, fondata da Jerry Dammers, tastierista degli Specials nel 1979, è una delle più appassionanti e significative nell’ambito delle realtà autoprodotte e autogestite.

Attraverso minuziosi dettagli la vicenda è raccontata nel libro “Too Much Too Young” di Daniel Rachel, recentemente pubblicato da HellNation con la traduzione italiana di Flavio Frezza.

“Nell’esatto momento in cui si instaurava il nuovo governo conservatore, la 2 Tone veniva alla ribalta presentandosi come una sorta di cooperativa socialista. In un periodo caratterizzato da forti ambizioni monetarie, l’etichetta seppe promuovere il collettivismo e la solidarietà nei confronti dei propri simili, utilizzando questi valori come antidoto ai mali provocati dalla dottrina dominante dell’individualismo e della sola affermazione di sé stessi. Al centro di tutto ciò c’era un pensatore marxista, umanitario e fortemente antirazzista, Jerry Dammers.”

Gruppi come Specials, Selecter, Madness, Bodysnatchers rivitalizzarono lo ska e i ritmi giamaicani, filtrandoli attraverso la nuova energia e sensibilità punk e portando ai vertici delle classifiche istanze socio politiche, integrazione (in ogni band, eccetto i Madness, c’erano elementi bianchi e neri), caratteristica ancora rara a i tempi, soprattutto quando poi le stesse band finirono in televisione e sui giornali.
Si trattava di una situazione in tutto e per tutto inclusiva, e ciò costituiva di per sé una presa di posizione politica. Giovani bianchi e neri venivano messi nelle condizioni di sentirsi uguali. Una cosa straordinaria, mai vista prima.

Anche se per i giovani giamaicani lo ska era qualcosa che apparteneva ai propri genitori.
Si trattava della musica di un’altra era, di anni lontani, con poco appeal per i gusti moderni, che anche nel Regno Unito era passata completamente di moda. Per comprendere le origini del fenomeno bisogna tornare al primo Dopoguerra.

Nel 1947, le navi SS Ormonde e SS Almanzora, provenienti dalla Giamaica, attraccarono nei porti di Liverpool e Southampton, facendo sbarcare un piccolo numero di cittadini britannici d’oltremare sulle coste del Regno Unito. Un anno più tardi la HMT Windrush trasportò fino al porto di Tilbury quattrocentoventi passeggeri giamaicani, molti dei quali avevano combattuto con gli alleati, che erano stati attirati dalla promessa di una vita prospera nella madrepatria.

Nel 1962, il numero di indo-occidentali giunti in Gran Bretagna ammontava a oltre 300.000 unità, e metà di loro erano giamaicani. L’impatto fu, per la maggior parte di loro, molto violento.
A partire dal cambiamento logistico.
Ricorda il toaster/cantante degli Specials, Neville Staple, che rimase a bocca aperta vedendo, appena arrivato, che le strade e le città erano illuminate anche di notte, abituato a villaggi in cui l’elettricità non era ancora arrivata o rigidamente razionata.
Il clima piovoso e freddo era l’antitesi di quello che avevano lasciato ma l’aspetto più devastante fu constatare che venivano considerati cittadini (formalmente ancora britannici, almeno fino all’indipendenza della Giamaica, nel 1962) di serie B, emarginati nelle periferie in case spesso fatiscenti e poco ben voluti dalla popolazione locale.
Lo stupore proseguì nel riscontrare che anche i bianchi facevano i lavori più duri e “umili” (contrariamente alla situazione nelle colonie caraibiche e asiatiche) e constatare di conseguenza che la loro presenza avrebbe costituito una concorrenza diretta agli autoctoni.
I progressivi ricongiungimenti famigliari portarono da Oltre Oceano anche i figli piccoli e altri ne nacquero durante la permanenza.
Gli adulti affrontavano problematiche come disoccupazione e impieghi a bassa retribuzione che facevano allontanare l’idea di un futuro ritorno nelle terre natìe.
I loro figli stringevano rapporti di amicizia a scuola, diventavano parte integrante della società inglese e vedevano le West Indies come luoghi esotici e lontani.
I ragazzi bianchi entrarono in contatto con generi come lo ska e il calypso, i neri scoprivano Beatles, Who, Rolling Stones.

Pauline Black, voce dei Selecter:
“Si stava verificando una sorta di ibridazione. Molti ragazzi neri, figli di immigrati, ascoltavano il pop bianco. Questi intuirono che esisteva la possibilità di far evolvere il dialogo già in corso tra musica bianca e musica nera”.

Negli anni Sessanta lo ska entrò nelle classifiche, veniva ballato nei club, molti artisti ne furono influenzati.

Perfino i Beatles lo citarono nell'assolo di “I Call Your Name”, già nel 1964 (il brano è di John Lennon, ai tempi grande appassionato del genere), mentre con “Ob-La-Di Ob-La-Da” del 1968, di Paul, fecero un vero e proprio brano ska.

Allo scadere del decennio, psichedelia, hard rock e prog e l’arrivo di soul e funk fecero cadere nel dimenticatoio il genere, che pur era stato la colonna sonora durante la cerimonia per il passaggio da colonia all’indipendenza della Giamaica nel 1962.
Ci volle il punk a riportare in auge queste sonorità.

Partendo dall’ibridazione con il reggae che band come Clash, Stiff Little Fingers, Police, Ruts, Members inserirono nel loro sound e che avvicinò sempre di più bianchi e neri nel contrasto al rinascente neo fascismo in Inghilterra, guidato dal National Front che reclutava sempre più giovani, in un periodo sociale oscuro e dal futuro incerto, in cui il governo di Tatcher si scagliava contro la classe lavoratrice, i poveri, le frange sociali disagiate e faceva forza sulla discriminazione razziale per dividere le masse.

Sotto le bandiere del Rock Against Racism si unirono gruppi punk e new wave con neo nate band reggae (dagli Aswad agli Steel Pulse).
Gruppi come gli Specials si accorsero che il reggae era troppo lento e rilassato per potere essere accostato a brani punk.
“Pensavamo che proporre un tipo di musica integrata e britannica fosse più salutare che vedere dei bianchi che suonavano il rock e dei neri dediti ai propri generi musicali: lo ska rappresentava l’integrazione tra queste due tendenze”. (Jerry Dammers).

Convinto marxista, Dammers decise di creare una struttura che si autoproducesse, in cui ogni componente delle band decidesse comunitariamente, senza imposizioni dall’alto di una casa discografica, costruendo un movimento orbitante intorno all’etichetta, incentrato su ideali di eguaglianza ed equità.

Dammers aveva in mente un equivalente britannico della Motown, caratterizzato da una musica ben identificabile che poi, nel tempo, si sarebbe gradualmente evoluta.
“Non c’erano contratti formalizzati. Gli accordi venivano siglati da una stretta di mano, più che una casa discografica, era una presa per il culo delle stesse”.

Ci provò, quasi contemporaneamente, ma con scarso successo, anche Paul Weller, con la sua Respond Records a costruire una realtà simile.
I musicisti provenivano spesso da situazioni di grande disagio, con lavori precari, alloggiati in monolocali al limite della vivibilità, senza un soldo in tasca.
La musica e l’idea della 2Tone diede loro speranze, energia e alla fine il meritato successo. Anche i testi erano peculiari e affini all’aspetto politico dell’operazione.
Si parlava della quotidianità più dura, di disoccupazione, violenza nelle strade, razzismo, abusi sessuali, gravidanze adolescenziali, arroganza di polizia e potere.
Il tutto cantato su ritmi ballabili, melodie divertenti, soprattutto quando dal vivo si scatenava un’energia che colloca le band come una prosecuzione del punk, sia nell’attitudine che nell’atteggiamento antisistema, contro le autorità e l’autoritarismo.

L'etichetta ebbe un enorme successo, vendette milioni di dischi, sostenne l'antirazzismo, combatté sessismo e incoraggiò persone di idee differenti a sposare il multiculturalismo.
Diede un concreto esempio di unione tra razze e culture, spesso ancora considerate conflittuali.
Il successo e la popolarità dei gruppi usciti dalla 2Tone (purtroppo finita malamente qualche anno dopo, tra scioglimenti, litigi, debiti), riportò in auge molti protagonisti della scena originale giamaicana.
Personaggi come Laurel Aitken, Desmond Dekker, Skatalites, tornarono in tour, trovando in Europa e Stati Uniti platee colme di nuovi fan.

Il figlio di John Mayall, Gaz Mayall, oltre a divertirsi con la ska band dei Trojans, incominciò a passare parecchie volte oscuri brani giamaicani nelle sue serate londinesi da DJ nel suo Gaz' Rockin Blues Club, “inventando” l'improbabile “celtic ska”, combinazione di ritmi in levare e cornamuse.

Il nuovo ska si espanse in America con band come Toasters, Untouchables (meno rigidi e più aperti ad altre sonorità), Bim Skala Bim, e in Europa, arrivando anche in Italia.
Dopo alcuni goffi tentativi puramente commerciali di Alberto Camerini, Donatella Rettore, Edoardo Bennato, furono band come Statuto e Casino Royale, in particolare, a proporne una versione fedele allo stile originale, mettendo i semi per una nuova generazione di amanti del ritmo in levare, dai Persiana Jones, agli Strike, Arpioni e Vallanzaska, tra i tanti.
Questi ultimi si sposteranno anche verso lidi affini, come swing, jive e pop, costruendo una carriera di buon successo, anche in virtù di un nome quanto mai suggestivo e accattivante.

Gli Statuto hanno cambiato spesso pelle artistica, rimanendo sempre ancorati però all'universo mod ma conservando in ogni concerto ampio spazio alle origini, a cui frequentemente tornano, anche discograficamente.

Diverso il discorso dei Casino Royale che dopo i primi due album hanno virato, con “Dainamaita”, album del 1993, verso un sound che ha incominciato ad assorbire mille influenze, dall'hip hop al funk, all'elettronica, pur se, occasionalmente, il gusto del tempo in levare è rimasto inevitabile.

Grazie all'esempio della 2Tone lo ska si sparse in tutto il mondo, rivitalizzandolo e portandolo a ibridarsi con una musica e un ambito solo apparentemente sorprendente, il punk. In realtà era già entrato in qualche brano del genere ma trova la inaspettata sublimazione con l'arrivo della cosiddetta “Third Wave Ska”, sviluppatasi soprattutto in America negli anni Novanta. Band che introducono elementi della musica giamaicana in repertori prevalentemente punk rock e hardcore.
Non alternandoli, come fecero Clash e Ruts, ad esempio, ma mischiandoli con una percentuale di punk maggioritaria rispetto allo ska, di cui si mantiene soprattutto il ritmo in levare, velocizzandolo ancora di più rispetto ai gruppi inglesi a cavallo dei Settanta e Ottanta.
A partire dai Rancid (vedi “Time Bomb” da “And Out Come The Wolves” del 1995), passando ai Sublime, che fecero largo uso di ritmi in levare. Ma probabilmente i re del “genere” furono i Bostoniani Mighty Mighty Bosstones con ritmi velocissimi, chitarre distorte e sezione fiati a macinare riff soul. Anche i No Doubt di Gwen Stefani hanno flirtato, in chiave più pop, con lo ska, in varie canzoni.
E ancora Operation Ivy sorta di prime movers del genere, Goldfinger, Voodoo Glow Skulls, gli spagnoli Ska-P, fino ai più recenti californiani The Interrupters, piombati nelle classifiche americane nel 2018 con “She's Kerosene” e i Bad Operation da New Orleans, con testi politicizzati.

Anche in Italia questa contaminazione trova estimatori e seguaci, in particolare nei Punkreas, Shandon, Matrioska e nella prima incarnazione dei liguri Meganoidi che con il brano che porta il loro nome fanno esplodere l'album d'esordio “Into the darkness, into the moda” del 2000.
Anche i romani Banda Bassotti non esitano a lavorare di ska nel loro repertorio aspro e rude.
Meno compromessi con il punk i torinesi Fratelli Di Soledad, indirizzati verso contaminazioni che li avvicinano di più alla patchanka alla Mano Negra, a cui guardano anche i romani Radici nel Cemento, più reggae oriented.

Un'ulteriore contaminazione, non frequentissima, è quella del cosiddetto ska jazz in cui la mistura dei due ambiti dà vita a un sound prevalentemente basato sull'uso dei fiati e che contempla anche l'improvvisazione dei solisti.
Il nome più conosciuto è quello degli americani New York Ska-Jazz Ensemble, nati nel 1994 e tutt'ora in attività con una decina di album nel carniere. In Italia i bergamaschi Orobians, in pista dal 1997, con una mezza dozzina di album ne hanno raccolto la gustosa eredità.
Il mischiare suoni, generi, tendenze, è sinonimo di evoluzione, sperimentazione, volontà di non rimanere attaccati forzatamente alle radici in una costante ripetizione di sonorità del passato.
Allo stesso modo i puristi di un suono, di una cultura e filosofia, cercano spesso di riappropriarsi ciò che ritengono gli appartenga, anche a salvaguardia di fondamenta che rischiano di perdersi e, attraverso le progressive contaminazioni, allontanarsi inesorabilmente dal seme originario.
Ed è così che, spontaneamente, in reazione allo ska punk, tornano band che suonano lo ska originale, ritornando anche a vestire un abbigliamento più consono e affine al contesto, con completi e pork pie hat.

E' quello che fanno Giuliano Palma (ex Casino Royale) & the Bluebeaters, supergruppo con componenti di varie band, dal 1993 in poi, con la particolarità di coverizzare in levare brani più o meno famosi della canzone d'autore italiana.
La formula ha grande successo, soprattutto dal vivo.
Tanto che all'indomani dell'abbandono del cantante la band prosegue con il nome di The Bluebeaters. Lo scorso anno i campani The Officinalis hanno realizzato un ottimo album di ska jazz strumentale, “Back To Sorrento” mentre dalla Svizzera hanno risposto i Cosmic Shuffling con “Cosmic Quest” con anche numerose influenze reggae e rocksteady.

I nomi storici come Specials, Madness, Bad Manners, Selecter proseguono le carriere, sia discograficamente che a livello concertistico, pur avendo spesso svoltato musicalmente verso altre forme sonore ma conservando sempre un forte legame con il Jamaica Sound.

In tutto il mondo nascono e proliferano nuove band ska o che si rifanno comunque a questo suono e ritmo, nato ormai da quasi settanta anni e che continua a trovare adepti, consensi e fan, in virtù di un ritmo irresistibile, che può essere tanto energico e travolgente, quanto rilassante e che culla i sensi.
Che ha sempre portato con sé un significato intrinsecamente politico e sociale, di unità e sorpasso delle differenze.

Proprio come uno dei principali scopi della citata 2Tone Records: educare il pubblico e fargli capire che si trattava di musica inventata dai neri: dovete accettare il fatto che il mondo non è bianco, ma a due colori.

La 2 Tone tentava di infondere nella testa della gente l’idea di uguaglianza e di dare un freno al razzismo.
In qualche modo, pur in un mondo così cupo e oscuro, ce l'ha parzialmente fatta.
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