Breve pausa forzata.
Si riprende il prima possibile.
PS: non sono reperibile e conseguentemente non risponderò, né tramite mail, Messenger o telefonicamente.
Ci si risente l'8 settembre.
Ricordando sempre che:
Life is very short and there's no time
For fussing and fighting, my friend
lunedì, settembre 01, 2025
Le trasmissioni riprenderanno il prima possibile
Etichette:
I me mine
Musica e intelligenza artificiale
Nella mia rubrica settimanale "La musica che gira intorno" nelle pagine web di www.piacenzasera.it, parlo oggi, partendo dall'esempio dei Velvet Sundown (band generata da un algortimo) delle modalità d'uso dell'Intelligenza Arttificiale nella musica.
Qui:
https://www.piacenzasera.it/2025/09/suona-un-po-cosi-la-musica-generata-con-lintelligenza-artificiale-ma-che-futuro-ha/607821/
Qui:
https://www.piacenzasera.it/2025/09/suona-un-po-cosi-la-musica-generata-con-lintelligenza-artificiale-ma-che-futuro-ha/607821/
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Di cosa parliamo quando parliamo di musica
venerdì, agosto 29, 2025
Agosto 2025. Il meglio
THE WHO - Live at Oval 1971
Poderoso live degli WHO, registrato il Il 18 settembre 1971 davanti a 35.000 spettatori al "Goodbye Summer: A Rock Concert in aid of Famine Relief for the People of Bangladesh" nello stadio di cricket The Oval di Kennington, South London.
In "Live a the Oval 1971" ci sono quindici brani di cui cinque dall'appena uscito "Who's Next", due da "Tommy" e materiale sparso.
La band è all'apice della forma, Keith Moon funambolico e precisissimo, Roger Daltrey con una voce potentissima, John Entwistle che suona come un'orchestra e Pete Townshend che dimostra la sua versatilità tanto ritmica quanto solista.
Freschezza, hard, blues, soul, un treno in corsa, con usuale distruzione degli strumenti finale.
Registrazione più che buona (rispetto ai bootleg in circolazione), materiale remixato da nastri analogici multitraccia originali a otto piste.
THE NEW EVES - The New Eve is Rising
Le recensioni di questo esordio del quartetto tutto femminile inglese si sbizzarriscono in definizioni e paragoni. Hanno tutti ragione: Patti Smith (del primo periodo, soprattutto), Raincoats, Fall, Pixies. Io aggiungerei Slits, Velvet Underground, lo sciamanesimo dei Goat, Poison Girls, folk psichedelico inglese dei 60/70. Ma sono sicuro che ogni ascoltatore potrà trovare altre cose. Sorprendente, sanguigno, travolgente. Tra le uscite più intriganti dell'anno in corso.
NAT BIRCHALL - Liberated Sounds
Il saxofonista inglese si cimenta, in chiave strumentale, con ska e rocksteady, con un tocco jazz, alla maniera dei New York Ska Jazz Ensemble. Un omaggio esplicito a Don Drummond, Tommy McCook, Roland Alphonso, Lester Sterling, Baba Brooks, Dizzy Moore, Lloyd Brevett, Ernest Ranglin, Jackie Mittoo, Lloyd Knibb, Drumbago.
Molto piacevole e coinvolgente.
THE CAPELLAS - Untamed
La band inglese (con membri di Missing Souls, The Jack Cades, Thee Vicars, The Baron Four, Embrooks, Barracudas, Chrome Reverse) all'esordio, dopo un ottimo ep, con un album che si tuffa nei profondi Sixties, tra rhythm and blues, garage, freakbeat. La voce di Elsa Witthaker è un delizioso e potente mix di Julie Driscolle Mariska Veres degli Shocking Blue, la band suona con energia e in modo ruvido. Ottimo lavoro.
JONATHAN RICHMAN - Only Frozen Sky Anyway
Uno dei personaggi più originali della musica "rock", dai Modern Lovers ad oggi, sempre a percorrere una sua strada, incurante del successo. Nel nuovo album ci propone ad esempio una stralunata cover di "Night Fever" dei Bee Gees, come se fosse stata affidata a un Lou Reed assonnato, brani spagnoleggianti e altre dolcemente folli tra testi che parlano di morte, cambiamenti, perdite di persone care. Non gli cambierà la carriera ma alleieterà ancora una volta le nostre orecchie.
THE HIVES - The Hives Forever Forever The Hives
La band svedese è da tempo una certezza. Nel senso che il loro sound non cambia granchè, con quel gradevole mix di rock 'n' roll, pop punk, power pop. Avercene! Anche se alla lunga distanza non tutto è così riuscito, fa sempre piacere dare un ascolto.
BLACK KEYS - No Rain, No Flowers
Non sarebbe (non è) un brutto album.
Pop, funk, un gusto soul estivo.
Il "problema" è che è stato fatto dai BLACK KEYS.
Massimo rispetto per le scelte e le evoluzioni artistiche ma: perché?
Non mi capacito ma è un limite mio.
ALICE COOPER - The revenge of Alice Cooper
Prodotto da Bob Ezrin, suonato con membri originali del 1973 rientrati nella band. Niente di epico ma un buon album rock hard blues con tanto di buona cover di "Ain't done wrong" degli Yardbirds. Si lascia ascoltare con piacere.
LUKE HAINES and PETER BUCK - Going Down To The River … To Blow My Mind
L'ex The Auteurs Luke Haines unisce per la terza le forze con Peter Buck, già anima dei REM in un album composto e registrato in pochi giorni. Sound rockeggiante, aspro, con gli arpeggi chitarristici che riportano spesso inevitabilmente alla band di Athens. Buon lavoro pur se, sinceramente, trascurabile.
TENDHA - Soap doesn't exist because it can't be told
Ispirati, testualmente, da sonorità il cui riferimento sono le colonne sonore dei videogiochi 8 bit, i Tendha si addentrano in un contesto semi strumentale, in cui le voci sono esse stesse strumento e solo raramente si affidano a un testo cantato. I brani si addentrano tra post rock, lounge, Stereolab, math rock, jazz e tanto altro. Un lavoro molto personale, strano, a cui trovare una collocazione è pressoché impossibile (e ciò ne avvalora lo spessore artistico).
AA.VV. - Stax Revue – Live In 65
Registrato live nel 1965 al "5/4 Club" di Los Angeles con nomi super come BookerT and the Mg's, The Mar Keys, un travolgente Wilson Pickett con 9 minuti di "In the Midnight Hour" e un funambolico Rufus Thomas on 20 minuti di "The Dog". Una testimonianza vitale e infuocata di quell'incredibile periodo.
ASCOLTATO ANCHE:
DOOBIE BROTHERS (rock da FM anni 70 senza nessuna particella di quelle atmosfere blue eyed soul), YUFU (buon album di jazz soul funk strumentale).
LIBRI
Robyn Hitchcock - 1967. Come ci sono arrivato e perché non me ne sono più andato
L’artista inglese è sempre stato un discepolo fedele della breve epica e attitudine sonora di Syd Barrett che ha permeato la sua prima avventura con i Soft Boys e la successiva incarnazione solista.
Non stupisce quindi che questa sua autobiografia “1967” (edita da Hellnation Libri, tradotta da Carlo Bordone) ruoti pressoché esclusivamente intorno al fatidico 1967 e ai suoi quattordici anni, quando scoprì e si innamorò di Bob Dylan, la Incredible String Band e, inevitabilmente dei Beatles, in una sorta di sgangherato quanto fascimoso romanzo di formazione psichedelico.
I flash pre adolescenziali sono abbaglianti fotografie che abbiamo un po’ tutti vissuto:
“Non vedo l’ora che la mia voce si abbassi, che mi cresca una peluria rispettabile e di abbandonare finalmente lo scricchiolante reame della fanciullezza.”
Arrivano anche david Bowie e Jimi Hendrix:
“Sono un adolescente in fiamme, Cristo santo questa è musica che ti fa levitare”. I vestiti diventano più audaci, i capelli si allungano. “Sto imparando che il barbiere è il nemico naturale della libertà”.
Anche se il periodo di transizione è ancora lungo e complesso “Una cultura in cui sono tutti maschi e le donne sono un’altra specie, esistono solo dietro a un vetro, come una Monna Lisa. Ci sono le persone e poi ci sono le femmine”.
Improvvisamente arrivano un giradischi e una chitarra e nulla sarà mai più come prima “Ho la mia chitarra e mio cugino, sia benedetto, mi presta uno di quegli oggetti che ti cambiano la vita: un giradischi a pile.”
Cambia anche il tanto agognato aspetto fisico “Sono alto un metro e ottanta e con un caschetto alla Beatles” ma anche una constatazione postuma illuminante, che in molti possono condividere: “Sono un adolescente e lo rimarrò per il resto della vita”.
Incomincia a suonare sopra ai tanto amati dischi dei nuovi idoli:
“Il mio istinto è suonare la chitarra molto prima di avere imparato a suonarla”.
Alla fine Robyn vivrà con la sua musica, girerà il mondo, inciderà eccellenti dischi, riladcerà interviste a quelle riviste che spulciava freneticamente da adolescente, seguendo quello “spirito del 1967” da cui è partito.
“A parte tutto sono grato che l’orologio fermo del 1967 rintocchi ancora dentro di me. Mi ha dato un mestiere per la vita”.
Alberto Gedda - Musica da fotocamera. Storie e immagini della Musica Live
Giornalista, fotografo, scrittore, direttore del settimanale “Corriere di Saluzzo”, Alberto Gedda ci porta in un interessante e intrigante viaggio nella canzone d'autore italiana (ma non solo) attraverso sue foto di concerti o in posa, con la preziosa aggiunta di aneddoti relativi ai concerti, interviste, momenti in cui le ha realizzate, dagli anni Settanta ad oggi.
Ci sono Fabrizio De André, Francesco Guccini, Vasco Rossi, Zucchero, Ivano Fossati, Augusto Daolio, Luciano Ligabue, i capricci di Patty Pravo, Gianna Nannini, la gentilezza e disponibilità di Joan Baez e Joni Mitchell, la forza di Chuck Berry, l'arroganza e alterigia dei "simpaticissimi" Elio e le Storie Tese, la spontaneità di Massimo Ranieri. Un vero piacere leggere questo libro e osservare la spontaneità dei 71 artisti ritratti.
CONCERTI
Paul Roland and his Rockin Teenage Combo live a Nibbiano (Piacenza) 12/08/2025
Paul Roland è cantautore, poeta, scrittore, saggista, consulente per la BBC sui fenomeni paranormali.
Ha alle spalle una discografia sterminata ed è in procinto di pubblicare un nuovo album.
Sulle colline piacentine, nella piazza di Nibbiano, ha dato sfoggio di grande e innata classe, accompagnato dal suo Rockin Teenage Combo (Annie Barbazza, Alex Canella, Christian Castelletti, questi ultimi due membri dei Tal Neunder che hanno aperto la serata, in sostituzione dei previsti Not Moving, con un personalissimo rock dalle forti tinte prog e un'anima pop).
Paul Roland si addentra in meandri rock, talvolta aspri, altre volte dai colori più fruibili, spazia in mille sfumature, dal pop, al prog, a influenze anni 70 e gotiche.
Il pubblico è numeroso e apprezza, il culto di un personaggio rimasto volutamente sempre in una dimensione molto personale, quasi "dietro le quinte", cresce ancora di più.
COSE VARIE
° Ogni giorno mie recensioni italiane su www.radiocoop.it (per cui curo ogni settimana un TG video musicale - vedi pagina FB https://www.facebook.com/RadiocoopTV/).
° Ogni mese varie su CLASSIC ROCK.
° Ogni sabato un video con aggiornamenti musicali sul portale https://www.facebook.com/goodmorninggenova
° Ogni lunedì la mia rubrica "La musica che gira intorno" nelle pagine di www.piacenzasera.it
° Sulle riviste/zines "GIMME DANGER" e "GARAGELAND"
° Periodicamente su "Il Manifesto" e "Vinile".
Poderoso live degli WHO, registrato il Il 18 settembre 1971 davanti a 35.000 spettatori al "Goodbye Summer: A Rock Concert in aid of Famine Relief for the People of Bangladesh" nello stadio di cricket The Oval di Kennington, South London.
In "Live a the Oval 1971" ci sono quindici brani di cui cinque dall'appena uscito "Who's Next", due da "Tommy" e materiale sparso.
La band è all'apice della forma, Keith Moon funambolico e precisissimo, Roger Daltrey con una voce potentissima, John Entwistle che suona come un'orchestra e Pete Townshend che dimostra la sua versatilità tanto ritmica quanto solista.
Freschezza, hard, blues, soul, un treno in corsa, con usuale distruzione degli strumenti finale.
Registrazione più che buona (rispetto ai bootleg in circolazione), materiale remixato da nastri analogici multitraccia originali a otto piste.
THE NEW EVES - The New Eve is Rising
Le recensioni di questo esordio del quartetto tutto femminile inglese si sbizzarriscono in definizioni e paragoni. Hanno tutti ragione: Patti Smith (del primo periodo, soprattutto), Raincoats, Fall, Pixies. Io aggiungerei Slits, Velvet Underground, lo sciamanesimo dei Goat, Poison Girls, folk psichedelico inglese dei 60/70. Ma sono sicuro che ogni ascoltatore potrà trovare altre cose. Sorprendente, sanguigno, travolgente. Tra le uscite più intriganti dell'anno in corso.
NAT BIRCHALL - Liberated Sounds
Il saxofonista inglese si cimenta, in chiave strumentale, con ska e rocksteady, con un tocco jazz, alla maniera dei New York Ska Jazz Ensemble. Un omaggio esplicito a Don Drummond, Tommy McCook, Roland Alphonso, Lester Sterling, Baba Brooks, Dizzy Moore, Lloyd Brevett, Ernest Ranglin, Jackie Mittoo, Lloyd Knibb, Drumbago.
Molto piacevole e coinvolgente.
THE CAPELLAS - Untamed
La band inglese (con membri di Missing Souls, The Jack Cades, Thee Vicars, The Baron Four, Embrooks, Barracudas, Chrome Reverse) all'esordio, dopo un ottimo ep, con un album che si tuffa nei profondi Sixties, tra rhythm and blues, garage, freakbeat. La voce di Elsa Witthaker è un delizioso e potente mix di Julie Driscolle Mariska Veres degli Shocking Blue, la band suona con energia e in modo ruvido. Ottimo lavoro.
JONATHAN RICHMAN - Only Frozen Sky Anyway
Uno dei personaggi più originali della musica "rock", dai Modern Lovers ad oggi, sempre a percorrere una sua strada, incurante del successo. Nel nuovo album ci propone ad esempio una stralunata cover di "Night Fever" dei Bee Gees, come se fosse stata affidata a un Lou Reed assonnato, brani spagnoleggianti e altre dolcemente folli tra testi che parlano di morte, cambiamenti, perdite di persone care. Non gli cambierà la carriera ma alleieterà ancora una volta le nostre orecchie.
THE HIVES - The Hives Forever Forever The Hives
La band svedese è da tempo una certezza. Nel senso che il loro sound non cambia granchè, con quel gradevole mix di rock 'n' roll, pop punk, power pop. Avercene! Anche se alla lunga distanza non tutto è così riuscito, fa sempre piacere dare un ascolto.
BLACK KEYS - No Rain, No Flowers
Non sarebbe (non è) un brutto album.
Pop, funk, un gusto soul estivo.
Il "problema" è che è stato fatto dai BLACK KEYS.
Massimo rispetto per le scelte e le evoluzioni artistiche ma: perché?
Non mi capacito ma è un limite mio.
ALICE COOPER - The revenge of Alice Cooper
Prodotto da Bob Ezrin, suonato con membri originali del 1973 rientrati nella band. Niente di epico ma un buon album rock hard blues con tanto di buona cover di "Ain't done wrong" degli Yardbirds. Si lascia ascoltare con piacere.
LUKE HAINES and PETER BUCK - Going Down To The River … To Blow My Mind
L'ex The Auteurs Luke Haines unisce per la terza le forze con Peter Buck, già anima dei REM in un album composto e registrato in pochi giorni. Sound rockeggiante, aspro, con gli arpeggi chitarristici che riportano spesso inevitabilmente alla band di Athens. Buon lavoro pur se, sinceramente, trascurabile.
TENDHA - Soap doesn't exist because it can't be told
Ispirati, testualmente, da sonorità il cui riferimento sono le colonne sonore dei videogiochi 8 bit, i Tendha si addentrano in un contesto semi strumentale, in cui le voci sono esse stesse strumento e solo raramente si affidano a un testo cantato. I brani si addentrano tra post rock, lounge, Stereolab, math rock, jazz e tanto altro. Un lavoro molto personale, strano, a cui trovare una collocazione è pressoché impossibile (e ciò ne avvalora lo spessore artistico).
AA.VV. - Stax Revue – Live In 65
Registrato live nel 1965 al "5/4 Club" di Los Angeles con nomi super come BookerT and the Mg's, The Mar Keys, un travolgente Wilson Pickett con 9 minuti di "In the Midnight Hour" e un funambolico Rufus Thomas on 20 minuti di "The Dog". Una testimonianza vitale e infuocata di quell'incredibile periodo.
ASCOLTATO ANCHE:
DOOBIE BROTHERS (rock da FM anni 70 senza nessuna particella di quelle atmosfere blue eyed soul), YUFU (buon album di jazz soul funk strumentale).
LIBRI
Robyn Hitchcock - 1967. Come ci sono arrivato e perché non me ne sono più andato
L’artista inglese è sempre stato un discepolo fedele della breve epica e attitudine sonora di Syd Barrett che ha permeato la sua prima avventura con i Soft Boys e la successiva incarnazione solista.
Non stupisce quindi che questa sua autobiografia “1967” (edita da Hellnation Libri, tradotta da Carlo Bordone) ruoti pressoché esclusivamente intorno al fatidico 1967 e ai suoi quattordici anni, quando scoprì e si innamorò di Bob Dylan, la Incredible String Band e, inevitabilmente dei Beatles, in una sorta di sgangherato quanto fascimoso romanzo di formazione psichedelico.
I flash pre adolescenziali sono abbaglianti fotografie che abbiamo un po’ tutti vissuto:
“Non vedo l’ora che la mia voce si abbassi, che mi cresca una peluria rispettabile e di abbandonare finalmente lo scricchiolante reame della fanciullezza.”
Arrivano anche david Bowie e Jimi Hendrix:
“Sono un adolescente in fiamme, Cristo santo questa è musica che ti fa levitare”. I vestiti diventano più audaci, i capelli si allungano. “Sto imparando che il barbiere è il nemico naturale della libertà”.
Anche se il periodo di transizione è ancora lungo e complesso “Una cultura in cui sono tutti maschi e le donne sono un’altra specie, esistono solo dietro a un vetro, come una Monna Lisa. Ci sono le persone e poi ci sono le femmine”.
Improvvisamente arrivano un giradischi e una chitarra e nulla sarà mai più come prima “Ho la mia chitarra e mio cugino, sia benedetto, mi presta uno di quegli oggetti che ti cambiano la vita: un giradischi a pile.”
Cambia anche il tanto agognato aspetto fisico “Sono alto un metro e ottanta e con un caschetto alla Beatles” ma anche una constatazione postuma illuminante, che in molti possono condividere: “Sono un adolescente e lo rimarrò per il resto della vita”.
Incomincia a suonare sopra ai tanto amati dischi dei nuovi idoli:
“Il mio istinto è suonare la chitarra molto prima di avere imparato a suonarla”.
Alla fine Robyn vivrà con la sua musica, girerà il mondo, inciderà eccellenti dischi, riladcerà interviste a quelle riviste che spulciava freneticamente da adolescente, seguendo quello “spirito del 1967” da cui è partito.
“A parte tutto sono grato che l’orologio fermo del 1967 rintocchi ancora dentro di me. Mi ha dato un mestiere per la vita”.
Alberto Gedda - Musica da fotocamera. Storie e immagini della Musica Live
Giornalista, fotografo, scrittore, direttore del settimanale “Corriere di Saluzzo”, Alberto Gedda ci porta in un interessante e intrigante viaggio nella canzone d'autore italiana (ma non solo) attraverso sue foto di concerti o in posa, con la preziosa aggiunta di aneddoti relativi ai concerti, interviste, momenti in cui le ha realizzate, dagli anni Settanta ad oggi.
Ci sono Fabrizio De André, Francesco Guccini, Vasco Rossi, Zucchero, Ivano Fossati, Augusto Daolio, Luciano Ligabue, i capricci di Patty Pravo, Gianna Nannini, la gentilezza e disponibilità di Joan Baez e Joni Mitchell, la forza di Chuck Berry, l'arroganza e alterigia dei "simpaticissimi" Elio e le Storie Tese, la spontaneità di Massimo Ranieri. Un vero piacere leggere questo libro e osservare la spontaneità dei 71 artisti ritratti.
CONCERTI
Paul Roland and his Rockin Teenage Combo live a Nibbiano (Piacenza) 12/08/2025
Paul Roland è cantautore, poeta, scrittore, saggista, consulente per la BBC sui fenomeni paranormali.
Ha alle spalle una discografia sterminata ed è in procinto di pubblicare un nuovo album.
Sulle colline piacentine, nella piazza di Nibbiano, ha dato sfoggio di grande e innata classe, accompagnato dal suo Rockin Teenage Combo (Annie Barbazza, Alex Canella, Christian Castelletti, questi ultimi due membri dei Tal Neunder che hanno aperto la serata, in sostituzione dei previsti Not Moving, con un personalissimo rock dalle forti tinte prog e un'anima pop).
Paul Roland si addentra in meandri rock, talvolta aspri, altre volte dai colori più fruibili, spazia in mille sfumature, dal pop, al prog, a influenze anni 70 e gotiche.
Il pubblico è numeroso e apprezza, il culto di un personaggio rimasto volutamente sempre in una dimensione molto personale, quasi "dietro le quinte", cresce ancora di più.
COSE VARIE
° Ogni giorno mie recensioni italiane su www.radiocoop.it (per cui curo ogni settimana un TG video musicale - vedi pagina FB https://www.facebook.com/RadiocoopTV/).
° Ogni mese varie su CLASSIC ROCK.
° Ogni sabato un video con aggiornamenti musicali sul portale https://www.facebook.com/goodmorninggenova
° Ogni lunedì la mia rubrica "La musica che gira intorno" nelle pagine di www.piacenzasera.it
° Sulle riviste/zines "GIMME DANGER" e "GARAGELAND"
° Periodicamente su "Il Manifesto" e "Vinile".
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Il meglio del mese
giovedì, agosto 28, 2025
Intervista a Eddie Piller
Riprendo l'intervista che ho fatto a EDDIE PILLER, pubblicata lo scorso sabato nelle pagine dell'inserto "Alias" de "Il manifesto".
La recente ristampa della compilation con il meglio della tua Countdown Records e diverse altre raccolte legate al "suono mod" testimoniano che c'è sempre interesse per questo settore. Cosa pensi della cultura mod nel 2025?
Si è rinnovata o rimane ancorata al revival e alle radici?
Ho lavorato a un film con il regista Nico Beyer, in cui esamino tutti gli aspetti della scena mod. Il passato, il futuro e il presente. L'unica cosa che ho notato è che il mod non sta andando da nessuna parte. Hai parlato della ristampa dell'album “Countdown” che è stato ripubblicato nel suo quarantesimo anniversario ma si possono trovare ottimi esempi di musica mod se si torna indietro di altri trent'anni.
Il Mod esiste dal 1957, in Gran Bretagna e in molti paesi internazionali. Si pensa che la cultura mod sia una cosa esclusivamente britannica ma non lo è, assolutamente. I raduni Mod si sono estesi in Thailandia, Giappone, Messico, Israele, Brasile, Indonesia e America.
Gli anni Sessanta sono stati ormai esplorati in ogni angolo remoto. Pensi che ci sia ancora qualcosa da scoprire?
Certo, si stanno scoprendo ancora fantastici dischi soul che hanno significato molto per la gente all'epoca ma che non sono ancora stati ascoltati. Ci sono letteralmente milioni di dischi soul e rhythm and blues da scoprire.
E non c'è abbastanza tempo per ascoltarli tutti. Ma non è solo soul, è jazz, British Beat, rocksteady, ska, garage, freakbeat, brasiliano, latin sound, Batacada. C'è sempre di più.
Conosci Paul Weller fin dagli inizi. È sempre stato l'emblema del "Mod perfetto", sempre alla ricerca del Nuovo. Pensi che abbia concluso il suo percorso (vedi il nuovo album che sarà di cover) o pensi che possa ancora riservarci delle sorprese?
Paul Weller ha già fatto un album di cover in precedenza, “Studio 150”, quindi non considero questo nuovo lavoro di rifacimenti come la fine di niente. Penso che Paul sia più fresco e frizzante da quando l'ho conosciuto. Il fatto è che senza di lui io non sarei qui e nemmeno tu.
Non so cosa sia, come abbia fatto Weller, in modo che centinaia di migliaia di persone lo seguano, sia che si tratti di stile, moda, musica, attitudine e vita. Ma sono molto felice che lo abbia fatto perché da solo ha ricostituito la scena mod per noi. Davvero contento che lo abbia fatto.
Chi è il pubblico che viene ad ascoltare e ballare i vostri DJ set? Giovani, meno giovani, persone della "scena" o anche solo curiosi?
Un buon esempio dello stato delle cose sono le feste Modcast. Abbiamo mod settantenni che frequentavano club storici come “Marquee” e “Flamingo” a Londra nei primi anni Sessanta, altri che seguivano i primi gruppi del “mod revival” alla fine degli anni Settanta, altri che risalgono all'esplosione del Brit Pop a metà degli anni Novanta, fan di Oasis e Blur e altri giovani che si stanno avvicinando al soul. Puoi immaginare che abbiamo una “chiesa” molto ampia e che stiamo per invadere l'Europa.
L'Acid Jazz Records compie 40 anni. Come è nata l'idea dell'etichetta? C'erano già band che avevano quel sound o è stata l'etichetta a creare un genere unico?
Cercavo qualcosa da fare dopo aver gestito le etichette Re-Elect The President e Countdown. Ero diventato sempre più entusiasta del jazz e avevo iniziato a pubblicare cose come i Jazz Renegades e il James Taylor Quartet.
Nello stesso periodo, a Londra, c'era una scena jazz underground (parlo del 1985) con artisti come Paul Murphy, Chris Bangs e Gilles Peterson. Era una scena molto piccola e le persone si conoscevano molto bene.
Poi, quasi da un giorno all'altro, nel 1986/87, la gente scoprì l'ecstasy e fu a Ibiza che partecipai alla vacanza allo Special Branch Club di Nicky Holloway, con Pete Tong, Paul Oakenfold, Danny Rampling e gente come quella, con cui scoprivo questo nuovo sound che incominciavano a proporre alcuni Dj. La chiamavano Acid House.
La riportammo a Londra e divenne di grande successo ma dopo un po' per me quella musica è diventata noiosa. Dopo sei mesi di Acid House volevamo di più, così io e Gilles Peterson abbiamo unito la nostra passione per il jazz, a cui abbiamo cercato di dare un nuovo senso, abbiamo miscelato il tutto e l'abbiamo chiamato Acid Jazz. Quello che è successo è stato straordinario. Galliano, A Man Called Adam, Brand New Heavies, Mother Earth, Jamiroquai furono messi tutti sotto contratto il primo anno. Gilles è rimasto con me otto mesi e poi ha creato una sua etichetta, la Talking Loud, diventando il mio principale concorrente. Il resto è storia.
Ci devono essere un sacco di momenti salienti e aneddoti da gestore e DJ dell'Acid jazz Records
Certo che ci sono! Cose come fare il DJ per Paul e Linda McCartney a casa loro o farlo per il quarantesimo compleanno di Sylvester Stallone. Ero diventato un esperto delle feste di compleanno! Puoi aggiungere anche Pelé, Paul Weller e Ray Charles, tra gli altri.
Ma il mio ricordo migliore dell'Acid Jazz è riscoprire il cantante soul Terry Callier e convincerlo a uscire dal pensionamento, perché si nascondeva a Chicago e non voleva più essere trovato.
Ci sono voluti quattro mesi per convincerlo ma sono felice di averlo fatto perché poi Terry è tornato in scena e ha avuto una seconda fantastica carriera, vincendo perfino un Mercury Prize.
Era un uomo così magico e spirituale.
Il tuo libro, Clean living under difficult circumstances molto interessante e coinvolgente e ha avuto molto successo. Dovremmo aspettarci un secondo capitolo?
Al momento ne sto parlando con gli editori.
L'eventuale secondo capitolo si focalizzerà molto di più sull'attività della Acid Jazz e della serata che facevo negli anni Novanta a Londra, The Bue Note oltre a tutte le prove e tribolazioni che deve subire un mod in affari
La domanda è banale e ovvia, ma sarebbe bello sapere quali dischi porteresti sulla famosa "isola deserta". E perché?
“Think I'm Falling In Love” di Leroy Houston è semplicemente il disco soul più dolce mai realizzato da un artista, pressoché totalmente ignorato.
“I Think I'll Call It Morning From Now On” di Gil Scott Heron. Non c'è niente di meglio di quello che ha fatto Gil in questo album (“Pieces Of A man” del 1971) . Alcuni dei migliori musicisti jazz del mondo, combinati con la sua gloriosa voce, rendono questo disco semplicemente incredibile.
“Tin Soldier” degli Small Faces. C'è qualcosa di speciale nel modo in cui Steve Marriott canta questa incredibile canzone. E' innamorato e in realtà è un inno dedicato alla sua fidanzata di allora, che poi diventerà sua moglie, Jenny Rylance, per lasciare Rod Stewart e uscire invece con lui. Ha funzionato.
Con "Extraordinary Sensations" eri direttamente coinvolto nel mondo delle fanzine. Ho sempre pensato che fossero una palestra per chi sarebbe poi diventato giornalista, scrittore, grafico, fotografo. Credi anche tu nell'importanza delle fanzine, oltre al fatto che fornivano informazioni completamente diverse dalle pubblicazioni ufficiali?
Certo, le fanzine erano importanti perché coprivano argomenti che nessuna pubblicazione ufficiale avrebbe mai trattato. Erano scritte dai ragazzi per i ragazzi e non contenevano quindi nessuna di quella merda che troviamo sulla stampa ufficiale. Ho scritto un libro, pubblicato da Omnibus, intitolato “Modzines” che esamina la cultura delle fanzine in modo più dettagliato.
Nel Regno Unito c'erano migliaia di fanzines solo nel mondo mod, senza parlare di Italia, Spagna, Francia, Europa, America. La lista è infinita. Oggi non si vedono più perché la lro funzione è affidata ai blog su internet.
La recente ristampa della compilation con il meglio della tua Countdown Records e diverse altre raccolte legate al "suono mod" testimoniano che c'è sempre interesse per questo settore. Cosa pensi della cultura mod nel 2025?
Si è rinnovata o rimane ancorata al revival e alle radici?
Ho lavorato a un film con il regista Nico Beyer, in cui esamino tutti gli aspetti della scena mod. Il passato, il futuro e il presente. L'unica cosa che ho notato è che il mod non sta andando da nessuna parte. Hai parlato della ristampa dell'album “Countdown” che è stato ripubblicato nel suo quarantesimo anniversario ma si possono trovare ottimi esempi di musica mod se si torna indietro di altri trent'anni.
Il Mod esiste dal 1957, in Gran Bretagna e in molti paesi internazionali. Si pensa che la cultura mod sia una cosa esclusivamente britannica ma non lo è, assolutamente. I raduni Mod si sono estesi in Thailandia, Giappone, Messico, Israele, Brasile, Indonesia e America.
Gli anni Sessanta sono stati ormai esplorati in ogni angolo remoto. Pensi che ci sia ancora qualcosa da scoprire?
Certo, si stanno scoprendo ancora fantastici dischi soul che hanno significato molto per la gente all'epoca ma che non sono ancora stati ascoltati. Ci sono letteralmente milioni di dischi soul e rhythm and blues da scoprire.
E non c'è abbastanza tempo per ascoltarli tutti. Ma non è solo soul, è jazz, British Beat, rocksteady, ska, garage, freakbeat, brasiliano, latin sound, Batacada. C'è sempre di più.
Conosci Paul Weller fin dagli inizi. È sempre stato l'emblema del "Mod perfetto", sempre alla ricerca del Nuovo. Pensi che abbia concluso il suo percorso (vedi il nuovo album che sarà di cover) o pensi che possa ancora riservarci delle sorprese?
Paul Weller ha già fatto un album di cover in precedenza, “Studio 150”, quindi non considero questo nuovo lavoro di rifacimenti come la fine di niente. Penso che Paul sia più fresco e frizzante da quando l'ho conosciuto. Il fatto è che senza di lui io non sarei qui e nemmeno tu.
Non so cosa sia, come abbia fatto Weller, in modo che centinaia di migliaia di persone lo seguano, sia che si tratti di stile, moda, musica, attitudine e vita. Ma sono molto felice che lo abbia fatto perché da solo ha ricostituito la scena mod per noi. Davvero contento che lo abbia fatto.
Chi è il pubblico che viene ad ascoltare e ballare i vostri DJ set? Giovani, meno giovani, persone della "scena" o anche solo curiosi?
Un buon esempio dello stato delle cose sono le feste Modcast. Abbiamo mod settantenni che frequentavano club storici come “Marquee” e “Flamingo” a Londra nei primi anni Sessanta, altri che seguivano i primi gruppi del “mod revival” alla fine degli anni Settanta, altri che risalgono all'esplosione del Brit Pop a metà degli anni Novanta, fan di Oasis e Blur e altri giovani che si stanno avvicinando al soul. Puoi immaginare che abbiamo una “chiesa” molto ampia e che stiamo per invadere l'Europa.
L'Acid Jazz Records compie 40 anni. Come è nata l'idea dell'etichetta? C'erano già band che avevano quel sound o è stata l'etichetta a creare un genere unico?
Cercavo qualcosa da fare dopo aver gestito le etichette Re-Elect The President e Countdown. Ero diventato sempre più entusiasta del jazz e avevo iniziato a pubblicare cose come i Jazz Renegades e il James Taylor Quartet.
Nello stesso periodo, a Londra, c'era una scena jazz underground (parlo del 1985) con artisti come Paul Murphy, Chris Bangs e Gilles Peterson. Era una scena molto piccola e le persone si conoscevano molto bene.
Poi, quasi da un giorno all'altro, nel 1986/87, la gente scoprì l'ecstasy e fu a Ibiza che partecipai alla vacanza allo Special Branch Club di Nicky Holloway, con Pete Tong, Paul Oakenfold, Danny Rampling e gente come quella, con cui scoprivo questo nuovo sound che incominciavano a proporre alcuni Dj. La chiamavano Acid House.
La riportammo a Londra e divenne di grande successo ma dopo un po' per me quella musica è diventata noiosa. Dopo sei mesi di Acid House volevamo di più, così io e Gilles Peterson abbiamo unito la nostra passione per il jazz, a cui abbiamo cercato di dare un nuovo senso, abbiamo miscelato il tutto e l'abbiamo chiamato Acid Jazz. Quello che è successo è stato straordinario. Galliano, A Man Called Adam, Brand New Heavies, Mother Earth, Jamiroquai furono messi tutti sotto contratto il primo anno. Gilles è rimasto con me otto mesi e poi ha creato una sua etichetta, la Talking Loud, diventando il mio principale concorrente. Il resto è storia.
Ci devono essere un sacco di momenti salienti e aneddoti da gestore e DJ dell'Acid jazz Records
Certo che ci sono! Cose come fare il DJ per Paul e Linda McCartney a casa loro o farlo per il quarantesimo compleanno di Sylvester Stallone. Ero diventato un esperto delle feste di compleanno! Puoi aggiungere anche Pelé, Paul Weller e Ray Charles, tra gli altri.
Ma il mio ricordo migliore dell'Acid Jazz è riscoprire il cantante soul Terry Callier e convincerlo a uscire dal pensionamento, perché si nascondeva a Chicago e non voleva più essere trovato.
Ci sono voluti quattro mesi per convincerlo ma sono felice di averlo fatto perché poi Terry è tornato in scena e ha avuto una seconda fantastica carriera, vincendo perfino un Mercury Prize.
Era un uomo così magico e spirituale.
Il tuo libro, Clean living under difficult circumstances molto interessante e coinvolgente e ha avuto molto successo. Dovremmo aspettarci un secondo capitolo?
Al momento ne sto parlando con gli editori.
L'eventuale secondo capitolo si focalizzerà molto di più sull'attività della Acid Jazz e della serata che facevo negli anni Novanta a Londra, The Bue Note oltre a tutte le prove e tribolazioni che deve subire un mod in affari
La domanda è banale e ovvia, ma sarebbe bello sapere quali dischi porteresti sulla famosa "isola deserta". E perché?
“Think I'm Falling In Love” di Leroy Houston è semplicemente il disco soul più dolce mai realizzato da un artista, pressoché totalmente ignorato.
“I Think I'll Call It Morning From Now On” di Gil Scott Heron. Non c'è niente di meglio di quello che ha fatto Gil in questo album (“Pieces Of A man” del 1971) . Alcuni dei migliori musicisti jazz del mondo, combinati con la sua gloriosa voce, rendono questo disco semplicemente incredibile.
“Tin Soldier” degli Small Faces. C'è qualcosa di speciale nel modo in cui Steve Marriott canta questa incredibile canzone. E' innamorato e in realtà è un inno dedicato alla sua fidanzata di allora, che poi diventerà sua moglie, Jenny Rylance, per lasciare Rod Stewart e uscire invece con lui. Ha funzionato.
Con "Extraordinary Sensations" eri direttamente coinvolto nel mondo delle fanzine. Ho sempre pensato che fossero una palestra per chi sarebbe poi diventato giornalista, scrittore, grafico, fotografo. Credi anche tu nell'importanza delle fanzine, oltre al fatto che fornivano informazioni completamente diverse dalle pubblicazioni ufficiali?
Certo, le fanzine erano importanti perché coprivano argomenti che nessuna pubblicazione ufficiale avrebbe mai trattato. Erano scritte dai ragazzi per i ragazzi e non contenevano quindi nessuna di quella merda che troviamo sulla stampa ufficiale. Ho scritto un libro, pubblicato da Omnibus, intitolato “Modzines” che esamina la cultura delle fanzine in modo più dettagliato.
Nel Regno Unito c'erano migliaia di fanzines solo nel mondo mod, senza parlare di Italia, Spagna, Francia, Europa, America. La lista è infinita. Oggi non si vedono più perché la lro funzione è affidata ai blog su internet.
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Le interviste
martedì, agosto 26, 2025
Intervista a Luca Sapio
Riprendo l'intervista che ho fatto a LUCA SAPIO per "Il Manifesto", sezione "Alias", lo scorso sabato.
Luca Sapio, musicista, cantante, cultore della vocalità più sperimentale, produttore, conduttore radiofonico, gestore di un'etichetta indipendente, ha costruito la sua carriera con un lungo periodo di studi e ricerche.
Esperto di tecniche vocali che gli permettono di entrare nel 1999 come cantante negli Area, prendendo il posto che fu del maestro della voce, Demetrio Stratos.
Collabora con diversi jazzisti del panorama internazionale, dopo la laurea viaggia a lungo negli States e nel 2009 entra nei Quintorigo (con cui incide l'album “English Garden”) per dare poi vita al duo Black Friday. Pubblica il suo primo album solista “Who Knows” nel 2012.
A partire dal Settembre 2013 è autore e conduttore della trasmissione radiofonica Latitudine Black su radio RAI 2 e successivamente della storica trasmissione Stereonotte su Radio Rai. Ha fondato una sua etichetta, la Blind Faith Records e ha da poco pubblicato il suo nuovo album “Black Waves”.
Luca Sapio è un artista a 360 gradi che ha avuto al primo posto delle sue preferenze artistiche (vedi il recente album “Black Waves”) la soul music.
Riguardo alla quale ha un'opinione molto netta e pessimista:
Il soul in Italia non interessa a nessuno.
Non abbiamo raccolto l’eredità straordinaria della musica italiana capace di imporsi oltreconfine, un ventennio che dagli anni sessanta agli ottanta, dalle colonne sonore al jazz, passando per i gruppi beat e progressive, fino all’Italo disco era apprezzata e rispettata ovunque. Abbiamo esportato tonnellate di dischi. Oggi la maggior parte degli Italiani ascolta musica evanescente talmente inconsistente che evapora dopo qualche settimana dalla sua pubblicazione. Nulla di quello che ascoltano oggi resterà domani. Quando mi chiamarono per fare la storica trasmissione Latitudine Soul, l’illuminato direttore Rai di allora mi disse testualmente:“La musica soul è la meno ascoltata d’Italia. Facciamo evangelizzazione”.
Non è un caso che Il Porretta Soul Festival sia frequentato soprattutto da stranieri che arrivano da ogni parte del mondo per godere degli straordinari cartelloni montati a regola da Graziano Uliani.
Un artista della sua esperienza, soprattutto in un contesto che ha fatto spesso del “messaggio” una delle principali ragioni d'essere, riesce ad essere particolarmente lucido su quello che accade ai nostri giorni:
Oggi la musica non fa più paura a nessuno mentre un tempo aveva una forza inaudita. Dopo l’assassinio di Martin Luther King con le bronzeville americane in fiamme James Brown ferma prima la rivolta di Boston e poi calma gli animi dei ghetti neri più infuriati diventando un referente per Richard Nixon.
Nella Jamaica in balia delle gang sanguinarie emissarie del partito laburista Bob Marley dal palco del One love distende gli animi facendo stringere le mani ai due leader politici avversari e di fatto chiamando una tregua.
Ancora in America, durante le proteste per l’inammissibile omicidio di Rodney King da parte della polizia i NWA con la loro “fuck the police” fanno orgogliosi da endorsement al movimento. Oggi la musica ha perduto la componente “attivista”.
Il mondo sta bruciando letteralmente e nessuno ne canta.
Gli artisti sembrano anzi evitare accuratamente di prendere qualsiasi posizione. Penso alle produzioni soul di oggi, il livello musicale e creativo e’ altissimo, ma quello che manca e’ il famoso dito sulla pulsazione del presente.
Un tempo i movimenti politici chiedevano agli artisti di schierarsi, di utilizzare la loro visibilita’ per sensibilizzare una causa.
Sam Cooke, Curtis Mayfield, Marvin Gaye, Gil Scott Heron sono tra i casi piu’ eclatanti di quelli che raccolsero l’invito. Forse oggi quello che manca e’ una classe politica che comprenda quanto la musica possa essere un medium potentissimo e riesca ad interfacciarsi con le nuove generazioni, in fondo saranno loro a guidare il mondo di domani.
Il citato nuovo album “Black Waves” è un lavoro raffinatissimo, elegante, avvolgente, perfettamente affine al gusto dei primi anni Settanta caro a Marvin Gaye, Curtis Mayfield, Temptations, Ohio Players, di grande respiro internazionale.
>“Black waves” e’ stato un disco dalla gestazione complessa. la pandemia mi ha isolato per forza di cose e ho lavorato molto da solo rispetto al passato. mi sono ritrovato a fare il produttore di me stesso ed e’ stato piuttosto difficile.
Ho avuto fortunatamente il supporto di alcuni musicisti chiave.
Ho avuto fortunatamente il supporto di alcuni musicisti chiave come il mio storico collaboratore polistrumentista Claudio Giusti che ha scritto tutti gli arrangiamenti dei fiati, il maestro Marco Tiso che si e’ occupato degli archi e della loro direzione, Pierpaolo Ranieri al basso, ma anche il leggendario veterano della Motown Dennis Coffey, il chitarrista Rob Harris dei Jamiroquai.
Tutti interlocutori validissimi e straordinari musicisti che mi hanno accompagnato dove volevo arrivare.
Interessante capire come Luca sia arrivato alla soul music, da sempre presente nell'humus discografico italiano (basti pensare agli anni Sessanta di Rocky Roberts, ai Settanta di Lucio Battisti, al Neapolitan Power funk, a quello più commerciale di Zucchero e alle decine di nuove band che viaggiano su quei sentieri) ma rimasto comunque in un contesto di nicchia
Sono cresciuto nell’apice massimo della rivoluzione Hip Hop.
Da ragazzino guardavo Mtv rap e da adolescente compravo dischi nei quali spesso ritrovavo canzoni che avevo sentito spulciando tra i dischi di mio padre che aveva una rispettabile collezione di musica jazz e qualche classico del soul.
Sono andato dunque a ritroso, un impresa molto difficile in era pre internet. Faccio parte di quelli che scrivevano a mano ai negozi di dischi oltreoceano per farsi mandare cataloghi e che passavano giornate nei negozi sperando di carpire più informazioni possibili guardando i crediti delle copertine.
Come già specificato l'attività di Sapio abbraccia anche (e soprattutto) l'aspetto produttivo, espresso al meglio con la sua Blind Faith Records.
Mi consente di pensare in maniera sartoriale cercando di cucire addosso ad un artista un vestito che lo valorizzi al massimo. questo ha anche affinato molto la mia scrittura e la mia tecnica di ripresa e mixaggio visto che sono produzioni in cui firmo tutti i brani li registro e mixo personalmente. Ovviamente e’ una sfida.
E’ un mercato esattamente di nicchia che si muove nell’ordine di poche centinaia di copie fisiche, ma capita spesso che qualche brano venga utilizzato in una serie televisiva o in una pubblicità.
Un aspetto che riguarda (talvolta drammaticamente) molti nostri artisti è l'impossibilità o quasi di “vivere di musica”. Un personaggio con il suo spessore e curriculum ce la farà? No. Bisogna diversificare.
Io tra le mie produzioni, brani che ho firmato per altri ho raggiunto la scorsa settimana i 70 milioni di streaming solo su Spotify. Una volta con sette milioni di dischi venduti ti compravi un quartiere.
Oggi al massimo posso offrire una giornata a Ostia ai miei musicisti.
Io ho uno studio di registrazione, una società di edizioni, lavoro in radio, faccio consulenze, se facessi solo Luca Sapio cantante vivrei lo stress incredibile di dover inseguire le logiche di un mercato senza logica e del tutto imprevedibile.
Infine una riflessione sull'“invasione” dell'Intelligenza Artificiale che si teme possa rendere sempre più obsoleta la figura di operatori dell'arte, della musica, dello spettacolo, che hanno fatto della loro “artigianalità” la peculiarità creativa principale.
E’ un pò come dire che l’invenzione nel 1800 della macchina fotografica ha reso la pittura obsoleta. Mi sembra che tutta la pittura del Novecento sia la risposta più evidente.
L’AI è un tool straordinario che consente di fare cose straordinarie ma per far si che accada bisogna usare i prompt giusti, bisogna allenarla con i riferimenti giusti. Se il panettiere sotto casa scrive a SUNO di fargli un pezzo probabilmente SUNO elaborerà qualcosa che supererà le sue aspettative, e quelle dei suoi amici, qualcosa di impensabile per lui, ma non sarà mai il bianco dei Beatles né Kind Of Blue di Miles.
Se a scrivere il prompt è invece qualcuno che ha nozioni armonico melodiche e artisticità le cose cambiano e i risultati possono davvero essere incredibili.
Ad esempio inserire una buon demo può dare spunti inaspettati e suggerire strade molto creative. Sono decisamente a favore dell'AI.
Luca Sapio, musicista, cantante, cultore della vocalità più sperimentale, produttore, conduttore radiofonico, gestore di un'etichetta indipendente, ha costruito la sua carriera con un lungo periodo di studi e ricerche.
Esperto di tecniche vocali che gli permettono di entrare nel 1999 come cantante negli Area, prendendo il posto che fu del maestro della voce, Demetrio Stratos.
Collabora con diversi jazzisti del panorama internazionale, dopo la laurea viaggia a lungo negli States e nel 2009 entra nei Quintorigo (con cui incide l'album “English Garden”) per dare poi vita al duo Black Friday. Pubblica il suo primo album solista “Who Knows” nel 2012.
A partire dal Settembre 2013 è autore e conduttore della trasmissione radiofonica Latitudine Black su radio RAI 2 e successivamente della storica trasmissione Stereonotte su Radio Rai. Ha fondato una sua etichetta, la Blind Faith Records e ha da poco pubblicato il suo nuovo album “Black Waves”.
Luca Sapio è un artista a 360 gradi che ha avuto al primo posto delle sue preferenze artistiche (vedi il recente album “Black Waves”) la soul music.
Riguardo alla quale ha un'opinione molto netta e pessimista:
Il soul in Italia non interessa a nessuno.
Non abbiamo raccolto l’eredità straordinaria della musica italiana capace di imporsi oltreconfine, un ventennio che dagli anni sessanta agli ottanta, dalle colonne sonore al jazz, passando per i gruppi beat e progressive, fino all’Italo disco era apprezzata e rispettata ovunque. Abbiamo esportato tonnellate di dischi. Oggi la maggior parte degli Italiani ascolta musica evanescente talmente inconsistente che evapora dopo qualche settimana dalla sua pubblicazione. Nulla di quello che ascoltano oggi resterà domani. Quando mi chiamarono per fare la storica trasmissione Latitudine Soul, l’illuminato direttore Rai di allora mi disse testualmente:“La musica soul è la meno ascoltata d’Italia. Facciamo evangelizzazione”.
Non è un caso che Il Porretta Soul Festival sia frequentato soprattutto da stranieri che arrivano da ogni parte del mondo per godere degli straordinari cartelloni montati a regola da Graziano Uliani.
Un artista della sua esperienza, soprattutto in un contesto che ha fatto spesso del “messaggio” una delle principali ragioni d'essere, riesce ad essere particolarmente lucido su quello che accade ai nostri giorni:
Oggi la musica non fa più paura a nessuno mentre un tempo aveva una forza inaudita. Dopo l’assassinio di Martin Luther King con le bronzeville americane in fiamme James Brown ferma prima la rivolta di Boston e poi calma gli animi dei ghetti neri più infuriati diventando un referente per Richard Nixon.
Nella Jamaica in balia delle gang sanguinarie emissarie del partito laburista Bob Marley dal palco del One love distende gli animi facendo stringere le mani ai due leader politici avversari e di fatto chiamando una tregua.
Ancora in America, durante le proteste per l’inammissibile omicidio di Rodney King da parte della polizia i NWA con la loro “fuck the police” fanno orgogliosi da endorsement al movimento. Oggi la musica ha perduto la componente “attivista”.
Il mondo sta bruciando letteralmente e nessuno ne canta.
Gli artisti sembrano anzi evitare accuratamente di prendere qualsiasi posizione. Penso alle produzioni soul di oggi, il livello musicale e creativo e’ altissimo, ma quello che manca e’ il famoso dito sulla pulsazione del presente.
Un tempo i movimenti politici chiedevano agli artisti di schierarsi, di utilizzare la loro visibilita’ per sensibilizzare una causa.
Sam Cooke, Curtis Mayfield, Marvin Gaye, Gil Scott Heron sono tra i casi piu’ eclatanti di quelli che raccolsero l’invito. Forse oggi quello che manca e’ una classe politica che comprenda quanto la musica possa essere un medium potentissimo e riesca ad interfacciarsi con le nuove generazioni, in fondo saranno loro a guidare il mondo di domani.
Il citato nuovo album “Black Waves” è un lavoro raffinatissimo, elegante, avvolgente, perfettamente affine al gusto dei primi anni Settanta caro a Marvin Gaye, Curtis Mayfield, Temptations, Ohio Players, di grande respiro internazionale.
>“Black waves” e’ stato un disco dalla gestazione complessa. la pandemia mi ha isolato per forza di cose e ho lavorato molto da solo rispetto al passato. mi sono ritrovato a fare il produttore di me stesso ed e’ stato piuttosto difficile.
Ho avuto fortunatamente il supporto di alcuni musicisti chiave.
Ho avuto fortunatamente il supporto di alcuni musicisti chiave come il mio storico collaboratore polistrumentista Claudio Giusti che ha scritto tutti gli arrangiamenti dei fiati, il maestro Marco Tiso che si e’ occupato degli archi e della loro direzione, Pierpaolo Ranieri al basso, ma anche il leggendario veterano della Motown Dennis Coffey, il chitarrista Rob Harris dei Jamiroquai.
Tutti interlocutori validissimi e straordinari musicisti che mi hanno accompagnato dove volevo arrivare.
Interessante capire come Luca sia arrivato alla soul music, da sempre presente nell'humus discografico italiano (basti pensare agli anni Sessanta di Rocky Roberts, ai Settanta di Lucio Battisti, al Neapolitan Power funk, a quello più commerciale di Zucchero e alle decine di nuove band che viaggiano su quei sentieri) ma rimasto comunque in un contesto di nicchia
Sono cresciuto nell’apice massimo della rivoluzione Hip Hop.
Da ragazzino guardavo Mtv rap e da adolescente compravo dischi nei quali spesso ritrovavo canzoni che avevo sentito spulciando tra i dischi di mio padre che aveva una rispettabile collezione di musica jazz e qualche classico del soul.
Sono andato dunque a ritroso, un impresa molto difficile in era pre internet. Faccio parte di quelli che scrivevano a mano ai negozi di dischi oltreoceano per farsi mandare cataloghi e che passavano giornate nei negozi sperando di carpire più informazioni possibili guardando i crediti delle copertine.
Come già specificato l'attività di Sapio abbraccia anche (e soprattutto) l'aspetto produttivo, espresso al meglio con la sua Blind Faith Records.
Mi consente di pensare in maniera sartoriale cercando di cucire addosso ad un artista un vestito che lo valorizzi al massimo. questo ha anche affinato molto la mia scrittura e la mia tecnica di ripresa e mixaggio visto che sono produzioni in cui firmo tutti i brani li registro e mixo personalmente. Ovviamente e’ una sfida.
E’ un mercato esattamente di nicchia che si muove nell’ordine di poche centinaia di copie fisiche, ma capita spesso che qualche brano venga utilizzato in una serie televisiva o in una pubblicità.
Un aspetto che riguarda (talvolta drammaticamente) molti nostri artisti è l'impossibilità o quasi di “vivere di musica”. Un personaggio con il suo spessore e curriculum ce la farà? No. Bisogna diversificare.
Io tra le mie produzioni, brani che ho firmato per altri ho raggiunto la scorsa settimana i 70 milioni di streaming solo su Spotify. Una volta con sette milioni di dischi venduti ti compravi un quartiere.
Oggi al massimo posso offrire una giornata a Ostia ai miei musicisti.
Io ho uno studio di registrazione, una società di edizioni, lavoro in radio, faccio consulenze, se facessi solo Luca Sapio cantante vivrei lo stress incredibile di dover inseguire le logiche di un mercato senza logica e del tutto imprevedibile.
Infine una riflessione sull'“invasione” dell'Intelligenza Artificiale che si teme possa rendere sempre più obsoleta la figura di operatori dell'arte, della musica, dello spettacolo, che hanno fatto della loro “artigianalità” la peculiarità creativa principale.
E’ un pò come dire che l’invenzione nel 1800 della macchina fotografica ha reso la pittura obsoleta. Mi sembra che tutta la pittura del Novecento sia la risposta più evidente.
L’AI è un tool straordinario che consente di fare cose straordinarie ma per far si che accada bisogna usare i prompt giusti, bisogna allenarla con i riferimenti giusti. Se il panettiere sotto casa scrive a SUNO di fargli un pezzo probabilmente SUNO elaborerà qualcosa che supererà le sue aspettative, e quelle dei suoi amici, qualcosa di impensabile per lui, ma non sarà mai il bianco dei Beatles né Kind Of Blue di Miles.
Se a scrivere il prompt è invece qualcuno che ha nozioni armonico melodiche e artisticità le cose cambiano e i risultati possono davvero essere incredibili.
Ad esempio inserire una buon demo può dare spunti inaspettati e suggerire strade molto creative. Sono decisamente a favore dell'AI.
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Le interviste
venerdì, agosto 22, 2025
Lo sgombero del Leoncavallo
Ho frequentato Centri Sociali di ogni tipo su e giù per l'Italia, Germania, Belgio, altri luoghi.
Per suonarci, vedere concerti o altri eventi.
Ho incontrato disorganizzazioni pazzesche e luoghi impeccabili, situazioni deprecabili e vere eccellenze, ci ho mangiato e dormito con risultati antitetici, gli aneddoti si potrebbero sprecare. Lo sgombero del Leoncavallo è un prevedibile tassello di un'epoca che si chiude, di una modalità operativa e comunicativa che si è trasformata, di una società sempre più turbocapitalista in cui le situazioni non conformi non sono più accettate.
Rimane però intatta l'esigenza di "magnifiche illusioni", di spazi condivisi, socialità, autogestione, del diritto di sbagliare, di costruire qualcosa che non venga concesso dall'alto mediante carte bollate.
Io sono vecchio ma sosterrò sempre con entusiasmo iniziative che rappresentino questo spirito.
Per suonarci, vedere concerti o altri eventi.
Ho incontrato disorganizzazioni pazzesche e luoghi impeccabili, situazioni deprecabili e vere eccellenze, ci ho mangiato e dormito con risultati antitetici, gli aneddoti si potrebbero sprecare. Lo sgombero del Leoncavallo è un prevedibile tassello di un'epoca che si chiude, di una modalità operativa e comunicativa che si è trasformata, di una società sempre più turbocapitalista in cui le situazioni non conformi non sono più accettate.
Rimane però intatta l'esigenza di "magnifiche illusioni", di spazi condivisi, socialità, autogestione, del diritto di sbagliare, di costruire qualcosa che non venga concesso dall'alto mediante carte bollate.
Io sono vecchio ma sosterrò sempre con entusiasmo iniziative che rappresentino questo spirito.
giovedì, agosto 21, 2025
Oasis : Erin Go Bragh
L'amico MICHELE SAVINI prosegue la ricerca di elementi interessanti e particolari dell'Irlanda meno conosciuta.
Gli altri racconti sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/The%20Auld%20Triangle%3A%20narrazioni%20dalla%20Repubblica%20d%27Irlanda
ERIN GO BRAGH
Se qualcuno di voi non lo avesse notato (e non serve essere fanatici di musica o social per saperlo), gli Oasis hanno dato il via al loro tour mondiale, uno degli eventi più chiacchierati degli ultimi mesi, che ha riportato i fratelli Gallagher insieme su un palco per la prima volta dopo 16 anni. Cardiff, Manchester, Londra, Edimburgo e Dublino sono le prime tappe di una tournée internazionale che, si dice, potrebbe durare anche per tutto il 2026.
(Oasis sul palco a Dublino con la bandiera Erin Go Bragh)
Durante le prime date del tour Oasis Live '25, i fan più attenti avranno sicuramente notato un dettaglio particolare sul palco.
Oltre allo stemma del Manchester City e alla sagoma in cartone di Pep Guardiola, su uno degli amplificatori della band compariva un altro “vessillo” portafortuna: la bandiera verde con l’arpa dorata, conosciuta come Erin Go Bragh.
“Erin Go Bragh” è un motto irlandese, spesso associato al nazionalismo repubblicano, che significa letteralmente “Irlanda per sempre”. Nato durante la ribellione del 1798, riapparve nei secoli successivi, soprattutto nei periodi di lotta per l’indipendenza dall’occupazione britannica, diventando un simbolo di resistenza e orgoglio nazionale.
Per gli Oasis, rappresenta un modo chiaro di ribadire il proprio legame con quelle radici, un tratto fondamentale per comprendere l’identità del gruppo.
Tutti e cinque i membri originali della band, infatti, hanno origini irlandesi. Perciò, i concerti di Dublino allo stadio di Croke Park, previsti per il 16 e 17 agosto scorsi, assumevano un significato speciale sia per i fan locali sia per la band stessa. Se Manchester è la loro città natale, Dublino e l’Irlanda non sono da meno: le loro esibizioni qui racchiudono sempre un significato particolare, legato alle radici irlandesi dei fratelli Gallagher e al forte legame culturale che li unisce a questa terra.
“Croker”, come viene affettuosamente chiamato Croke Park, è considerato il tempio dei giochi gaelici per antonomasia.
Nel 1920, fu anche teatro di uno dei massacri più tragici della storia irlandese, quando le truppe britanniche irruppero durante una partita di calcio gaelico tra Dublino e Tipperary e spararono sulla folla di circa 15.000 spettatori, uccidendo 14 civili.
Per Noel questa è la quarta performance qui.
L’ultima volta aprì per gli U2 con i suoi High Flying Birds nel 2017.
La prima, invece, risale ai primi anni ’80, quando da adolescente, giocò una partita amichevole con il CLG Oisín, un club di calcio gaelico di Manchester per cui i fratelli Gallagher giocavano da bambini. (Una foto del giovane Noel Gallagher durante una partita amichevole di calcio gaelico a Croke Park)
Noel e Liam Gallagher, infatti, sono cresciuti in un ambiente profondamente legato alla cultura irlandese.
Fin da giovani hanno frequentato gli Irish Social Club a Manchester, hanno giocato a football gaelico e visitato regolarmente la loro terra d’origine durante l’estate. Questa forte eredità culturale è stata trasmessa loro direttamente dai genitori, Thomas e Peggy, entrambi nati in Irlanda.
Il padre, Thomas Gallagher, proveniva da Duleek, un piccolo paese nella contea di Meath, mentre la madre, Peggy Sweeney, era originaria di Charlestown, nella contea di Mayo. Entrambi emigrarono a Manchester alla fine degli anni ’60, in cerca di migliori opportunità di lavoro e una vita più stabile.
E sebbene il turbolento rapporto con il padre, segnato anche da episodi di violenza fisica, avrebbe potuto allontanarli dalle loro radici irlandesi, è stato invece il forte legame con la madre a mantenerli profondamente legati alle proprie origini gaeliche.
Peggy, che si dice possa essere proprio qui stasera a Croke Park per assistere a uno degli show del Live 25, rappresenta il cuore pulsante della famiglia. Se tutta la combriccola dei Gallagher infatti, composta da figli, parenti e amici, ha seguito praticamente tutti i concerti di questo tour, sembra che Peggy abbia deciso di muoversi soltanto per la data di Dublino, dove potrà godersi lo spettacolo insieme a tutta la sua famiglia, in arrivo direttamente dalla contea di Mayo.
A lei, tutti i fan degli Oasis devono molto, non solo perché ha dato alla luce i due fratelli che hanno reso grande la band, ma anche perché si dice sia tra le principali artefici di questa attesissima reunion.
È lei che continuava a ricordargli di non pronunciare la seconda G in Gallagher (cognome di origine irlandese che va pronunciato “Gallaher”, con la G muta) e a ripetergli all’infinito, fin da bambini: «Siete inglesi “solo” perché siete nati qui», ricorda Noel.
Il principale compositore degli Oasis ha anche rivelato in diverse interviste che il verso di Don’t Look Back in Anger, “stand up beside the fireplace, take that look from off your face”, si riferisce proprio a quando sua madre li costringeva a posare accanto al caminetto, in uniforme scolastica, per scattare foto da inviare ai parenti rimasti a Charlestown e Duleek.
Ed è proprio il paesino di Charlestown della contea di Mayo dove risiede la famiglia di Peggy, che ha giocato, se vogliamo, un piccolo ma decisivo ruolo in questo trionfale ritorno degli Oasis.
Nel documentario su Liam Gallagher As It Was, pubblicato nel 2019, come raccontato dal fratello Paul, si scopre che proprio lì, al pub locale JJ Finan, scoccò la scintilla che spinse Liam a rilanciarsi con una carriera solista dopo lo scioglimento dei Beady Eye.
Durante una sessione di bevute al pub, una maratona di 8 ore e 30 pinte di Guinness (sì, TRENTA!!!), qualcuno gli mette in mano una chitarra:
Liam si anima ed esegue per la prima volta Bold, una delle canzoni che finirà poi nel suo primo album solista.
Uno dei presenti tira fuori un telefono, riprende tutto ed il gioco è fatto: il video fa il giro del mondo, scatenando l’isteria dei fan. Liam prende coraggio e intraprende la carriera solista, quella stessa carriera che negli ultimi dieci anni ha avvicinato milioni di nuovi giovanissimi fan alla musica degli Oasis.
Insomma, senza quel video e senza quelle trenta pinte in quel pub di Charlestown, chissà se oggi saremmo qui a parlare di reunion e di concerti a Croke Park.
(Noel, Paul, Liam con la madre Peggy)
Il forte rapporto con la madre e i frammenti di ricordi familiari che emergono dai racconti dei fratelli Gallagher richiamano la massiccia ondata migratoria irlandese tra gli anni ’50 e ’70, quando molte famiglie, spinte dalla crisi economica e dalla scarsità di lavoro, si trasferirono nelle città industriali britanniche come Manchester, Leeds e Liverpool, portando con sé la loro lingua, la loro musica e una forte identità culturale.
Queste tradizioni si preservavano e si tramandavano nonostante le difficoltà di adattamento ad un nuovo contesto sociale, spesso segnato da condizioni di lavoro dure e da un ambiente urbano complesso.
L’Inghilterra degli anni ’70-‘80 era ancora un paese profondamente segnato dal razzismo verso i “Paddies” (termine dispregiativo usato per indicare gli irlandesi) che venivano guardati con sospetto e ostilità, soprattutto durante i periodi più intensi delle durissime campagne dell’IRA. Quegli anni, segnati dall’eco delle bombe che risuonavano in tutta la Gran Bretagna, hanno inevitabilmente influenzato l’ambiente in cui i fratelli Gallagher sono cresciuti.
Noel ricorda un episodio avvenuto durante il viaggio di ritorno a Manchester, dopo una delle tante vacanze estive passate a trovare sua nonna nella contea di Mayo, quando l’auto di famiglia fu perquisita dai soldati britannici.
«Quando sei con i tuoi genitori, ti senti al sicuro, ma quando tirano fuori tuo zio Paddy dall’auto, vieni mandato in una stanza da solo e i militari arrivano con i cani e controllano la macchina con gli specchi sotto il telaio …??? All’epoca non capivo davvero cosa stessero cercando…Ero abbastanza grande da sentirne parlare al telegiornale, ma ancora troppo piccolo per comprenderlo fino in fondo».
(Da sinistra a destra: Noel, Liam e Paul durante una delle vacanze estive nella contea di Mayo).
Il paese era un crocevia di culture e spesso teatro di conflitti legati a identità etniche e sociali; in questo contesto, la comunità irlandese trovava rifugio e sostegno negli Irish Social Clubs, luoghi di aggregazione fondamentali per preservare le proprie tradizioni. Nati per iniziativa di emigrati irlandesi e spesso legati ad associazioni parrocchiali o comitati locali, gli Irish Social Club erano molto più di semplici pub: rappresentavano veri e propri centri comunitari per la diaspora irlandese, soprattutto per chi era emigrato in cerca di lavoro durante i grandi flussi migratori dagli anni ’50 in poi. All’interno si esibivano gruppi e DJ di musica country e folk irlandese, creando un vero e proprio microcosmo d’Irlanda, un angolo di patria lontano da casa.
Nonostante i rapporti difficili con il padre, l’esperienza negli Irish Social Club di Manchester, dove Thomas Gallagher faceva il DJ, ha influenzato profondamente Noel.
Lui e suo fratello Paul accompagnavano spesso il padre, aiutandolo a portare i dischi e a preparare le serate.
In quei lunghissimi pomeriggi ascoltavano brani di The Chieftains, The Dubliners e Daniel O'Donnell, ma anche le coinvolgenti Irish rebel songs che animavano quei luoghi, contribuendo a creare quell’energia esplosiva e quel senso di ribellione che caratterizzeranno la musica degli Oasis.
Quelle canzoni, cantate in coro come epici inni, racchiudevano lo stesso spirito corale e trascinante dei brani più famosi della band: un’energia collettiva che si alimenta proprio nel momento in cui le si canta insieme.
La musica degli Oasis, infatti, è permeata da un atteggiamento di sfida e autoaffermazione che richiama da vicino le lotte per l’indipendenza irlandese, dove la ribellione contro l’autorità e l’oppressione ha sempre avuto una forte carica emotiva e di protesta.
Lo stesso Noel ha definito Definitely Maybe come «il suono di cinque cattolici irlandesi di seconda generazione che escono da un complesso popolare. C’è una natura ribelle in Definitely Maybe, un atteggiamento di sfida, ed è la stessa ribellione e sfida che caratterizzano l’animo irlandese».
Ma se da un lato esiste questo forte senso di appartenenza alla propria identità irlandese, è forse proprio il desiderio di fuggire dall’ambiente legato al rapporto tormentato con il padre che ha spinto Noel a cercare una via di fuga nella musica. Non voleva restare intrappolato in quell’ambiente, in qualche modo imposto dalla figura paterna, né farsi soffocare dalla nostalgia irlandese che caratterizzava la comunità degli immigrati a Manchester.
C’era il punk là fuori, un’esplosione di energia e ribellione che stava scuotendo il paese, e Noel non aveva alcuna intenzione di passare tutta la vita a cantare vecchie canzoni tradizionali, strafatto di Guinness (e non certo per la Guinness).
Voleva essere libero di fare e cantare quello che voleva, come avrebbe scritto anni dopo nei versi di Whatever: "I'm free to be whatever I, Whatever I choose, and I'll sing the blues if I want."
Non si tratta di un rifiuto delle proprie origini, ma semplicemente di una realtà complessa e sfaccettata. Noel Gallagher non può definirsi né completamente irlandese né del tutto inglese: è il prodotto d’immigrati irlandesi di seconda generazione, sospeso a cavallo tra due mondi.
Nato a Manchester da genitori originari dell’Irlanda, la sua eredità è un mosaico di culture e identità. Le radici dei suoi genitori affondano nel duro suolo irlandese, ma l’anima di Noel è stata plasmata dal ronzio industriale dell’Inghilterra settentrionale e dall’atmosfera vibrante della sua scena musicale.
(una foto del recente show degli Oasis a Croke Park, sabato 16.08.25)
Questo “melting pot” culturale, nato dalla crescente presenza delle comunità irlandesi nelle città del nord d’Inghilterra, ha profondamente influenzato e rimodellato il panorama del rock britannico dagli anni ’50 in poi. Se diamo un’occhiata nel dettaglio alle origini di alcuni dei più grandi gruppi pop della storia del Regno Unito, scopriremo una fortissima influenza irlandese, proveniente da migranti di seconda, terza e quarta generazione.
Molti di questi artisti divennero inevitabilmente i modelli musicali del giovane Noel.
John Lennon e tutti e quattro i Beatles avevano radici irlandese.
I loro avi, erano tutti fuggiti dalla verde Irlanda durante gli anni della Grande Carestia che colpi l’isola tra il 1845 al 1852.
Così come i genitori di John Lydon dei Sex Pistols, immigrati irlandesi a Londra, con la madre originaria di Cork e il padre di Tuam, nella contea di Galway.
I principali compositori degli Smiths, altra band amatissima dal giovane Noel, hanno anch’essi fortissime ascendenze irlandesi, di cui si può trovare traccia anche in alcune delle loro canzoni. Morrissey, autore di “Irish Blood, English Heart” e “This is not your country” ha entrambi i genitori provenienti dal quartiere di Crumlin, a Dublino (lo stesso che ha dato i natali a Phil Linotts dei Thin Lizzy) e ha vissuto parecchi anni nella capitale irlandese.
Stesso discorso per Johnny Marr, le cui radici affondano ad Athy, nella contea di Kildare: i suoi genitori emigrarono negli anni ’60 e continuarono a cantargli canzoni tradizionali irlandesi per tutta la sua infanzia. Come molti dei fan più attenti degli Smiths sapranno, uno dei pezzi più celebrati della band, Please, Please, Please, Let Me Get What I Want, si chiamava originariamente “The Irish Waltz”, perché fu proprio il senso di nostalgia e malinconia tipico delle ballate dei migranti irlandesi lontani da casa a ispirarne la melodia.
George Byrne, noto giornalista e critico musicale della rivista Hot Press, una volta, durante un’intervista a metà degli anni ’90, con il sorriso sulle labbra, definì gli Oasis “la migliore band irlandese dai tempi degli Smiths” e, chissà, forse non si sbagliava di molto.”
Ed è proprio Noel a spiegare meglio di chiunque altro come il legame profondo con l’Irlanda sia il segreto dietro il successo degli Oasis:
“C’è della rabbia nella musica degli Oasis, lascia che te lo spieghi.
Se dico alla gente che c’è rabbia nella musica, potrebbe pensare a urla e grida, ma esiste anche un tipo di rabbia “gioiosa”.
Quando gli irlandesi sono tristi, sono le persone più tristi al mondo; quando sono felici, sono le persone più felici al mondo. Quando bevono, sono le persone più ubriache al mondo. C’è una regola per gli irlandesi e una regola diversa per tutti gli altri.
Siamo irlandesi, io e Liam.
Non c’è sangue inglese in noi, e chi lo sa capisce che c’è il bere normale e poi c’è il bere irlandese.
Il bere irlandese può essere infinito.
Gli Oasis non avrebbero mai potuto esistere, essere così grandi, così importanti, così imperfetti, così amati e odiati, se non fossimo stati tutti prevalentemente irlandesi.»
Noel Gallagher
Gli altri racconti sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/The%20Auld%20Triangle%3A%20narrazioni%20dalla%20Repubblica%20d%27Irlanda
ERIN GO BRAGH
Se qualcuno di voi non lo avesse notato (e non serve essere fanatici di musica o social per saperlo), gli Oasis hanno dato il via al loro tour mondiale, uno degli eventi più chiacchierati degli ultimi mesi, che ha riportato i fratelli Gallagher insieme su un palco per la prima volta dopo 16 anni. Cardiff, Manchester, Londra, Edimburgo e Dublino sono le prime tappe di una tournée internazionale che, si dice, potrebbe durare anche per tutto il 2026.
(Oasis sul palco a Dublino con la bandiera Erin Go Bragh)
Durante le prime date del tour Oasis Live '25, i fan più attenti avranno sicuramente notato un dettaglio particolare sul palco.
Oltre allo stemma del Manchester City e alla sagoma in cartone di Pep Guardiola, su uno degli amplificatori della band compariva un altro “vessillo” portafortuna: la bandiera verde con l’arpa dorata, conosciuta come Erin Go Bragh.
“Erin Go Bragh” è un motto irlandese, spesso associato al nazionalismo repubblicano, che significa letteralmente “Irlanda per sempre”. Nato durante la ribellione del 1798, riapparve nei secoli successivi, soprattutto nei periodi di lotta per l’indipendenza dall’occupazione britannica, diventando un simbolo di resistenza e orgoglio nazionale.
Per gli Oasis, rappresenta un modo chiaro di ribadire il proprio legame con quelle radici, un tratto fondamentale per comprendere l’identità del gruppo.
Tutti e cinque i membri originali della band, infatti, hanno origini irlandesi. Perciò, i concerti di Dublino allo stadio di Croke Park, previsti per il 16 e 17 agosto scorsi, assumevano un significato speciale sia per i fan locali sia per la band stessa. Se Manchester è la loro città natale, Dublino e l’Irlanda non sono da meno: le loro esibizioni qui racchiudono sempre un significato particolare, legato alle radici irlandesi dei fratelli Gallagher e al forte legame culturale che li unisce a questa terra.
“Croker”, come viene affettuosamente chiamato Croke Park, è considerato il tempio dei giochi gaelici per antonomasia.
Nel 1920, fu anche teatro di uno dei massacri più tragici della storia irlandese, quando le truppe britanniche irruppero durante una partita di calcio gaelico tra Dublino e Tipperary e spararono sulla folla di circa 15.000 spettatori, uccidendo 14 civili.
Per Noel questa è la quarta performance qui.
L’ultima volta aprì per gli U2 con i suoi High Flying Birds nel 2017.
La prima, invece, risale ai primi anni ’80, quando da adolescente, giocò una partita amichevole con il CLG Oisín, un club di calcio gaelico di Manchester per cui i fratelli Gallagher giocavano da bambini. (Una foto del giovane Noel Gallagher durante una partita amichevole di calcio gaelico a Croke Park)
Noel e Liam Gallagher, infatti, sono cresciuti in un ambiente profondamente legato alla cultura irlandese.
Fin da giovani hanno frequentato gli Irish Social Club a Manchester, hanno giocato a football gaelico e visitato regolarmente la loro terra d’origine durante l’estate. Questa forte eredità culturale è stata trasmessa loro direttamente dai genitori, Thomas e Peggy, entrambi nati in Irlanda.
Il padre, Thomas Gallagher, proveniva da Duleek, un piccolo paese nella contea di Meath, mentre la madre, Peggy Sweeney, era originaria di Charlestown, nella contea di Mayo. Entrambi emigrarono a Manchester alla fine degli anni ’60, in cerca di migliori opportunità di lavoro e una vita più stabile.
E sebbene il turbolento rapporto con il padre, segnato anche da episodi di violenza fisica, avrebbe potuto allontanarli dalle loro radici irlandesi, è stato invece il forte legame con la madre a mantenerli profondamente legati alle proprie origini gaeliche.
Peggy, che si dice possa essere proprio qui stasera a Croke Park per assistere a uno degli show del Live 25, rappresenta il cuore pulsante della famiglia. Se tutta la combriccola dei Gallagher infatti, composta da figli, parenti e amici, ha seguito praticamente tutti i concerti di questo tour, sembra che Peggy abbia deciso di muoversi soltanto per la data di Dublino, dove potrà godersi lo spettacolo insieme a tutta la sua famiglia, in arrivo direttamente dalla contea di Mayo.
A lei, tutti i fan degli Oasis devono molto, non solo perché ha dato alla luce i due fratelli che hanno reso grande la band, ma anche perché si dice sia tra le principali artefici di questa attesissima reunion.
È lei che continuava a ricordargli di non pronunciare la seconda G in Gallagher (cognome di origine irlandese che va pronunciato “Gallaher”, con la G muta) e a ripetergli all’infinito, fin da bambini: «Siete inglesi “solo” perché siete nati qui», ricorda Noel.
Il principale compositore degli Oasis ha anche rivelato in diverse interviste che il verso di Don’t Look Back in Anger, “stand up beside the fireplace, take that look from off your face”, si riferisce proprio a quando sua madre li costringeva a posare accanto al caminetto, in uniforme scolastica, per scattare foto da inviare ai parenti rimasti a Charlestown e Duleek.
Ed è proprio il paesino di Charlestown della contea di Mayo dove risiede la famiglia di Peggy, che ha giocato, se vogliamo, un piccolo ma decisivo ruolo in questo trionfale ritorno degli Oasis.
Nel documentario su Liam Gallagher As It Was, pubblicato nel 2019, come raccontato dal fratello Paul, si scopre che proprio lì, al pub locale JJ Finan, scoccò la scintilla che spinse Liam a rilanciarsi con una carriera solista dopo lo scioglimento dei Beady Eye.
Durante una sessione di bevute al pub, una maratona di 8 ore e 30 pinte di Guinness (sì, TRENTA!!!), qualcuno gli mette in mano una chitarra:
Liam si anima ed esegue per la prima volta Bold, una delle canzoni che finirà poi nel suo primo album solista.
Uno dei presenti tira fuori un telefono, riprende tutto ed il gioco è fatto: il video fa il giro del mondo, scatenando l’isteria dei fan. Liam prende coraggio e intraprende la carriera solista, quella stessa carriera che negli ultimi dieci anni ha avvicinato milioni di nuovi giovanissimi fan alla musica degli Oasis.
Insomma, senza quel video e senza quelle trenta pinte in quel pub di Charlestown, chissà se oggi saremmo qui a parlare di reunion e di concerti a Croke Park.
(Noel, Paul, Liam con la madre Peggy)
Il forte rapporto con la madre e i frammenti di ricordi familiari che emergono dai racconti dei fratelli Gallagher richiamano la massiccia ondata migratoria irlandese tra gli anni ’50 e ’70, quando molte famiglie, spinte dalla crisi economica e dalla scarsità di lavoro, si trasferirono nelle città industriali britanniche come Manchester, Leeds e Liverpool, portando con sé la loro lingua, la loro musica e una forte identità culturale.
Queste tradizioni si preservavano e si tramandavano nonostante le difficoltà di adattamento ad un nuovo contesto sociale, spesso segnato da condizioni di lavoro dure e da un ambiente urbano complesso.
L’Inghilterra degli anni ’70-‘80 era ancora un paese profondamente segnato dal razzismo verso i “Paddies” (termine dispregiativo usato per indicare gli irlandesi) che venivano guardati con sospetto e ostilità, soprattutto durante i periodi più intensi delle durissime campagne dell’IRA. Quegli anni, segnati dall’eco delle bombe che risuonavano in tutta la Gran Bretagna, hanno inevitabilmente influenzato l’ambiente in cui i fratelli Gallagher sono cresciuti.
Noel ricorda un episodio avvenuto durante il viaggio di ritorno a Manchester, dopo una delle tante vacanze estive passate a trovare sua nonna nella contea di Mayo, quando l’auto di famiglia fu perquisita dai soldati britannici.
«Quando sei con i tuoi genitori, ti senti al sicuro, ma quando tirano fuori tuo zio Paddy dall’auto, vieni mandato in una stanza da solo e i militari arrivano con i cani e controllano la macchina con gli specchi sotto il telaio …??? All’epoca non capivo davvero cosa stessero cercando…Ero abbastanza grande da sentirne parlare al telegiornale, ma ancora troppo piccolo per comprenderlo fino in fondo».
(Da sinistra a destra: Noel, Liam e Paul durante una delle vacanze estive nella contea di Mayo).
Il paese era un crocevia di culture e spesso teatro di conflitti legati a identità etniche e sociali; in questo contesto, la comunità irlandese trovava rifugio e sostegno negli Irish Social Clubs, luoghi di aggregazione fondamentali per preservare le proprie tradizioni. Nati per iniziativa di emigrati irlandesi e spesso legati ad associazioni parrocchiali o comitati locali, gli Irish Social Club erano molto più di semplici pub: rappresentavano veri e propri centri comunitari per la diaspora irlandese, soprattutto per chi era emigrato in cerca di lavoro durante i grandi flussi migratori dagli anni ’50 in poi. All’interno si esibivano gruppi e DJ di musica country e folk irlandese, creando un vero e proprio microcosmo d’Irlanda, un angolo di patria lontano da casa.
Nonostante i rapporti difficili con il padre, l’esperienza negli Irish Social Club di Manchester, dove Thomas Gallagher faceva il DJ, ha influenzato profondamente Noel.
Lui e suo fratello Paul accompagnavano spesso il padre, aiutandolo a portare i dischi e a preparare le serate.
In quei lunghissimi pomeriggi ascoltavano brani di The Chieftains, The Dubliners e Daniel O'Donnell, ma anche le coinvolgenti Irish rebel songs che animavano quei luoghi, contribuendo a creare quell’energia esplosiva e quel senso di ribellione che caratterizzeranno la musica degli Oasis.
Quelle canzoni, cantate in coro come epici inni, racchiudevano lo stesso spirito corale e trascinante dei brani più famosi della band: un’energia collettiva che si alimenta proprio nel momento in cui le si canta insieme.
La musica degli Oasis, infatti, è permeata da un atteggiamento di sfida e autoaffermazione che richiama da vicino le lotte per l’indipendenza irlandese, dove la ribellione contro l’autorità e l’oppressione ha sempre avuto una forte carica emotiva e di protesta.
Lo stesso Noel ha definito Definitely Maybe come «il suono di cinque cattolici irlandesi di seconda generazione che escono da un complesso popolare. C’è una natura ribelle in Definitely Maybe, un atteggiamento di sfida, ed è la stessa ribellione e sfida che caratterizzano l’animo irlandese».
Ma se da un lato esiste questo forte senso di appartenenza alla propria identità irlandese, è forse proprio il desiderio di fuggire dall’ambiente legato al rapporto tormentato con il padre che ha spinto Noel a cercare una via di fuga nella musica. Non voleva restare intrappolato in quell’ambiente, in qualche modo imposto dalla figura paterna, né farsi soffocare dalla nostalgia irlandese che caratterizzava la comunità degli immigrati a Manchester.
C’era il punk là fuori, un’esplosione di energia e ribellione che stava scuotendo il paese, e Noel non aveva alcuna intenzione di passare tutta la vita a cantare vecchie canzoni tradizionali, strafatto di Guinness (e non certo per la Guinness).
Voleva essere libero di fare e cantare quello che voleva, come avrebbe scritto anni dopo nei versi di Whatever: "I'm free to be whatever I, Whatever I choose, and I'll sing the blues if I want."
Non si tratta di un rifiuto delle proprie origini, ma semplicemente di una realtà complessa e sfaccettata. Noel Gallagher non può definirsi né completamente irlandese né del tutto inglese: è il prodotto d’immigrati irlandesi di seconda generazione, sospeso a cavallo tra due mondi.
Nato a Manchester da genitori originari dell’Irlanda, la sua eredità è un mosaico di culture e identità. Le radici dei suoi genitori affondano nel duro suolo irlandese, ma l’anima di Noel è stata plasmata dal ronzio industriale dell’Inghilterra settentrionale e dall’atmosfera vibrante della sua scena musicale.
(una foto del recente show degli Oasis a Croke Park, sabato 16.08.25)
Questo “melting pot” culturale, nato dalla crescente presenza delle comunità irlandesi nelle città del nord d’Inghilterra, ha profondamente influenzato e rimodellato il panorama del rock britannico dagli anni ’50 in poi. Se diamo un’occhiata nel dettaglio alle origini di alcuni dei più grandi gruppi pop della storia del Regno Unito, scopriremo una fortissima influenza irlandese, proveniente da migranti di seconda, terza e quarta generazione.
Molti di questi artisti divennero inevitabilmente i modelli musicali del giovane Noel.
John Lennon e tutti e quattro i Beatles avevano radici irlandese.
I loro avi, erano tutti fuggiti dalla verde Irlanda durante gli anni della Grande Carestia che colpi l’isola tra il 1845 al 1852.
Così come i genitori di John Lydon dei Sex Pistols, immigrati irlandesi a Londra, con la madre originaria di Cork e il padre di Tuam, nella contea di Galway.
I principali compositori degli Smiths, altra band amatissima dal giovane Noel, hanno anch’essi fortissime ascendenze irlandesi, di cui si può trovare traccia anche in alcune delle loro canzoni. Morrissey, autore di “Irish Blood, English Heart” e “This is not your country” ha entrambi i genitori provenienti dal quartiere di Crumlin, a Dublino (lo stesso che ha dato i natali a Phil Linotts dei Thin Lizzy) e ha vissuto parecchi anni nella capitale irlandese.
Stesso discorso per Johnny Marr, le cui radici affondano ad Athy, nella contea di Kildare: i suoi genitori emigrarono negli anni ’60 e continuarono a cantargli canzoni tradizionali irlandesi per tutta la sua infanzia. Come molti dei fan più attenti degli Smiths sapranno, uno dei pezzi più celebrati della band, Please, Please, Please, Let Me Get What I Want, si chiamava originariamente “The Irish Waltz”, perché fu proprio il senso di nostalgia e malinconia tipico delle ballate dei migranti irlandesi lontani da casa a ispirarne la melodia.
George Byrne, noto giornalista e critico musicale della rivista Hot Press, una volta, durante un’intervista a metà degli anni ’90, con il sorriso sulle labbra, definì gli Oasis “la migliore band irlandese dai tempi degli Smiths” e, chissà, forse non si sbagliava di molto.”
Ed è proprio Noel a spiegare meglio di chiunque altro come il legame profondo con l’Irlanda sia il segreto dietro il successo degli Oasis:
“C’è della rabbia nella musica degli Oasis, lascia che te lo spieghi.
Se dico alla gente che c’è rabbia nella musica, potrebbe pensare a urla e grida, ma esiste anche un tipo di rabbia “gioiosa”.
Quando gli irlandesi sono tristi, sono le persone più tristi al mondo; quando sono felici, sono le persone più felici al mondo. Quando bevono, sono le persone più ubriache al mondo. C’è una regola per gli irlandesi e una regola diversa per tutti gli altri.
Siamo irlandesi, io e Liam.
Non c’è sangue inglese in noi, e chi lo sa capisce che c’è il bere normale e poi c’è il bere irlandese.
Il bere irlandese può essere infinito.
Gli Oasis non avrebbero mai potuto esistere, essere così grandi, così importanti, così imperfetti, così amati e odiati, se non fossimo stati tutti prevalentemente irlandesi.»
Noel Gallagher
martedì, agosto 19, 2025
The Beaulieu Jazz Festival 1960 - Free beer for the working man






Esattamente (più o meno) 65 anni fa la terza edizione del Beaulieu Jazz Festival, svoltasi il 30 luglio 1960, nell'omonima località al Lord Montagu fu funestata da una serie di scontri tra giovani spettatori e polizia che sfociarono in arresti vari, una campagna stampa feroce contro i nuovi "beatniks" e in 39 feriti di cui tre portati all'ospedale, il piano di Bill Acker, che stava suonando, cadde dal palco sfondato dai ragazzi che lo avevano invaso mentre volavano sedie ovunque..
Il festival era trasmesso in diretta TV dalla BBC, che interruppe immediatamente le riprese .
Pare che ci fosse già una certa tensione tra i fans del BeBop (i Mod-ernisti) e quelli del jazz tradizionale, i Trads, ma il tutto scoppiò per un banale incidente nel momento in cui un ragazzo salì sul palco e, cosa inaudita per i tempi, prese il microfono urlando FREE BEER FOR THE WORKING MEN.
L'affermazione fu colorata di significati politico/sociali, i giornali accusarono i fomentatori di questa clima rivoltoso (vedi ritaglio): Jack “The Hobos’ Prophet” Kerouac, Allen “The Hate Merchant” Ginsberg; William “The Ex-Drug Addict” Burroughs, Gregory “The Crank Poet” Corso che con i loro scritti e il loro nuovo stile portavano i giovani beatniks alla perdizione.

In realtà fu probabilmente solo una trovata di un ubriaco.
Un particolare molto curioso è la presenza al Festival di un giovanissimo beatnick, futuro Mod, ROD STEWART (lo si vede con zaino, chitarra e sinbolo della pace in questo brevissimo filmato, dal 14° secondo: https://www.youtube.com/watch?v=Wm_fswB3QrE
Il suo ricordo è altrettanto curioso e particolare: "Avevo sedici anni quando andai al festival, mi intrufolai con alcuni amici da un tubo delle fogne ! E fu lì che persi la mia verginità con una donna ben più vecchia (e larga) di me che mi accalappiò nella tenda della birra. Quanto più vecchia fosse non lo so ma abbastanza per restare parecchio incazzata dalla brevità dell'esperienza !"....
lunedì, agosto 18, 2025
Alberto Gedda - Musica da fotocamera. Storie e immagini della Musica Live
Giornalista, fotografo, scrittore, direttore del settimanale “Corriere di Saluzzo”, Alberto Gedda ci porta in un interessante e intrigante viaggio nella canzone d'autore italiana (ma non solo) attraverso sue foto di concerti o in posa, con la preziosa aggiunta di aneddoti relativi ai concerti, interviste, momenti in cui le ha realizzate, dagli anni Settanta ad oggi.
Ci sono Fabrizio De André, Francesco Guccini, Vasco Rossi, Zucchero, Ivano Fossati, Augusto Daolio, Luciano Ligabue, i capricci di Patty Pravo, Gianna Nannini, l gentilezza e disponibilità di Joan Baez e Joni Mitchell, la forza di Chuck Berry, l'arroganza e alterigia dei "simpaticissimi" Elio e le Storie Tese, la spontaneità di Massimo Ranieri. Un vero piacere leggere questo libro e osservare la spontaneità dei 71 artisti ritratti.
Alberto Gedda
Musica da FotoCamera - Storie e Immagini della Musica Live
Fusta editore 204 pagine
28 euro
Ci sono Fabrizio De André, Francesco Guccini, Vasco Rossi, Zucchero, Ivano Fossati, Augusto Daolio, Luciano Ligabue, i capricci di Patty Pravo, Gianna Nannini, l gentilezza e disponibilità di Joan Baez e Joni Mitchell, la forza di Chuck Berry, l'arroganza e alterigia dei "simpaticissimi" Elio e le Storie Tese, la spontaneità di Massimo Ranieri. Un vero piacere leggere questo libro e osservare la spontaneità dei 71 artisti ritratti.
Alberto Gedda
Musica da FotoCamera - Storie e Immagini della Musica Live
Fusta editore 204 pagine
28 euro
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mercoledì, agosto 13, 2025
Paul Roland and his Rockin Teenage Combo live a Nibbiano (Piacenza) 12/08/2025
Paul Roland è cantautore, poeta, scrittore, saggista, consulente per la BBC sui fenomeni paranormali.
Ha alle spalle una discografia sterminata ed è in procinto di pubblicare un nuovo album.
Sulle colline piacentine, nella piazza di Nibbiano, ha dato sfoggio di grande e innata classe, accompagnato dal suo Rockin Teenage Combo (Annie Barbazza, Alex Canella, Christian Castelletti, questi ultimi due membri dei Tal Neunder che hanno aperto la serata, in sostituzione dei previsti Not Moving, con un personalissimo rock dalle forti tinte prog e un'anima pop).
Paul Roland si addentra in meandri rock, talvolta aspri, altre volte dai colori più fruibili, spazia in mille sfumature, dal pop, al prog, a influenze anni 70 e gotiche.
Il pubblico è numeroso e apprezza, il culto di un personaggio rimasto volutamente sempre in una dimensione molto personale, quasi "dietro le quinte", cresce ancora di più.
Ha alle spalle una discografia sterminata ed è in procinto di pubblicare un nuovo album.
Sulle colline piacentine, nella piazza di Nibbiano, ha dato sfoggio di grande e innata classe, accompagnato dal suo Rockin Teenage Combo (Annie Barbazza, Alex Canella, Christian Castelletti, questi ultimi due membri dei Tal Neunder che hanno aperto la serata, in sostituzione dei previsti Not Moving, con un personalissimo rock dalle forti tinte prog e un'anima pop).
Paul Roland si addentra in meandri rock, talvolta aspri, altre volte dai colori più fruibili, spazia in mille sfumature, dal pop, al prog, a influenze anni 70 e gotiche.
Il pubblico è numeroso e apprezza, il culto di un personaggio rimasto volutamente sempre in una dimensione molto personale, quasi "dietro le quinte", cresce ancora di più.
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Concerti
martedì, agosto 12, 2025
Slane Castle
L'amico MICHELE SAVINI prosegue la ricerca di elementi interessanti e particolari dell'Irlanda meno conosciuta.
Gli altri racconti sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/The%20Auld%20Triangle%3A%20narrazioni%20dalla%20Repubblica%20d%27Irlanda
Oggi viaggiamo fino alla suggestiva County Meath, cuore pulsante della campagna irlandese, per scoprire uno dei luoghi più iconici e leggendari della musica dal vivo in Irlanda: Slane Castle. Situato nel villaggio di Slane, a poco più di un’ora da Dublino, ed elegantemente arroccato sulla cima di una collina sopra il fiume Boyne, questo castello (in gaelico Caisleán Bhaile Shláine) fu costruito alla fine del XVIII secolo dalla famiglia anglo-irlandese dei Conyngham, insediatasi in Irlanda poco più di un secolo prima.
La recente scomparsa di Lord Henry Conyngham, l’uomo che ha trasformato questa storica tenuta in un vero santuario della musica, offre l’occasione per celebrare la sua straordinaria visione e riflettere sull’eredità che ha lasciato.
Dopo una lunga battaglia contro un tumore polmonare, Lord Henry si è spento all’età di 74 anni, lasciando un’impronta indelebile nel panorama culturale e musicale irlandese. Principalmente conosciuto con il nome di Lord Mount Charles, assunse la gestione della tenuta di Slane nel 1976, a soli 25 anni, dopo essere tornato da Londra, dove lavorava per la casa editrice Faber & Faber.
In quel periodo ricevette una telefonata dal padre, Frederick, che gli comunicò che, a causa delle pesanti imposte fiscali, sarebbe stato costretto a lasciare Slane e vendere tutto, a meno che non fosse tornato per occuparsene. Decise così di rientrare in patria per salvare il patrimonio di famiglia, cercando nuovi modi per rendere la tenuta sostenibile.
Henry trasformò le stalle e gli annessi della tenuta in un ristorante e in un nightclub, prima di rivolgere la sua attenzione al grande campo adiacente al castello.
Notò infatti il dolce declivio del pendio verso il fiume Boyne e si rese conto che formava un vero e proprio anfiteatro naturale ideale per spettacoli all’aperto.
L’inclinazione del terreno permetteva non solo di creare posti a sedere senza bisogno di opere di sterro, ma anche di offrire una bellezza paesaggistica unica e un’acustica sorprendentemente efficace.
L’erba e la pendenza dolce assorbono e riflettono il suono in modo simile agli antichi anfiteatri di pietra, riducendo l’eco e garantendo una proiezione chiara fino alle ultime file
. Quando si rese conto che il luogo poteva ospitare circa 80.000 persone, il resto venne da sé.
(Philip Lynott dei Thin Lizzy sul palco di Slane nel 1981)
Il debutto fu il 16 agosto 1981, con la band dei Thin Lizzy come headliner e dei giovanissimi U2 come band di supporto.
L’esordio di Slane Castle come sede di concerti avvenne in un periodo turbolento, durante gli scioperi della fame nel pieno dei Troubles, quando le tenute anglo-irlandesi erano spesso nel mirino, e organizzare concerti rock in Irlanda implicava rischi non indifferenti.
Nel pieno dello sciopero della fame del 1981, Lord Henry ricevette minacce personali affinché annullasse l’evento, ma non fece marcia indietro, dichiarando con determinazione: «Costi quel che costi, lo spettacolo si farà».
Nonostante tutto, il concerto fu un successo.
Circa 18.000 persone parteciparono all’evento, contribuendo in modo decisivo al successo dell’iniziativa e alla salvaguardia del castello grazie ai proventi raccolti.
La definitiva consacrazione arrivò l’anno seguente, il 24 luglio 1982, quando i Rolling Stones trascinarono 70.000 persone nella Boyne Valley per la loro esibizione, trasformando Slane Castle in una tappa imprescindibile dei grandi tour internazionali.
Sul palco salirono infatti Bob Dylan (1984), Bruce Springsteen (che si dice abbia portato circa 100.000 spettatori nel 1985), Queen (1986) e David Bowie (1987), prima di fermarsi per qualche anno a causa di un incendio scoppiato nel 1991 che danneggiò gran parte della tenuta.
(Una folla di 70.000 persone al concerto dei Rolling Stones a Slane, luglio 1982)
Dopo un’assenza di cinque anni, la più lunga dall’inizio dell’evento nel 1981, Slane tornò nel 1992.
I cinque concerti degli anni ’90 ebbero come headliner Guns N’ Roses, Neil Young, R.E.M. (con gli Oasis come band di supporto), The Verve e Robbie Williams.
Negli anni 2000 Slane Castle consolidò la sua fama internazionale grazie a performance memorabili di grandi artisti, come i Red Hot Chili Peppers, che nel 2003 registrarono il celebre concerto poi pubblicato nell’edizione video Live at Slane Castle, e gli U2, tornati nel 2001 con un’esibizione iconica immortalata nel live U2 Go Home – Live from Slane Castle.
Proprio la band di Bono e The Edge è tra le più legate a Slane Castle: oltre alle esibizioni dal vivo, nel maggio del 1984 gli U2 vi si stabilirono per alcune settimane per registrare l’album The Unforgettable Fire. Per l’occasione, il salotto del castello fu trasformato in studio di registrazione e la sala da ballo venne utilizzata per girare alcune scene del videoclip di Pride. (Bono durante l’esibizione degli U2 a Slane nel 2001)
Numerosi sono gli aneddoti leggendari che si raccontano sulle iconiche performance nella valle del Boyne.
Nel 1992, si dice che Axl Rose fosse ubriaco in un pub di Dublino e irrintracciabile, a pochi minuti dall’inizio del concerto, tanto che Lord Henry dovette organizzare un elicottero speciale per portarlo a Slane Castle, mentre Slash e gli altri membri della band si rilassavano pescando nel fiume dietro il palco.
David Bowie, nella sua unica esibizione a Slane nel 1987, arrivò sul palco con la disarmante tranquillità che lo caratterizzava.
Lo stesso Lord Henry raccontò in un’intervista a Hot Press
“Quando Bowie è salito sul palco a Slane, è stato come se tutto si fosse fermato per un attimo. Aveva quella presenza magnetica che ti cattura subito. Ricordo che eravamo nel backstage, seduti vicino al fiume Boyne chiacchierando, quando lui ha guardato l’orologio e mi ha detto: “Oh Henry, penso sia ora che io salga sul palco.” Si è alzato, ha attraversato con calma il ponticello sul fiume e con nonchalance è salito sul palco. Ho pensato solo: “È incredibile riuscire a essere così tranquilli e sicuri di sé.” Ma, d’altra parte, lui era un personaggio straordinario.»
(David Bowie, Slane Castle 1987)
Per chi fosse interessato, tutte le line-up complete dei concerti tenutisi a Slane Castle dal 1981 al 2019, inclusi gli eventuali gruppi di supporto, sono disponibili sul sito ufficiale del castello:
https://www.slanecastle.ie/concerts/1981-2019/
Oltre alla musica, Slane Castle ha ampliato la sua offerta culturale e imprenditoriale: nel 2015 la famiglia Conyngham ha aperto all’interno della tenuta la distilleria di whisky irlandese “Slane Irish Whiskey”, contribuendo a valorizzare la storia e il patrimonio della tenuta.
Con la scomparsa di Lord Henry, il futuro di Slane Castle, uno dei luoghi più emblematici della musica dal vivo irlandese, passa nelle mani del figlio Alex Conyngham, deciso a proseguire l’eredità del padre. Il nuovo padrone di casa ha confermato di essere al lavoro su un evento di grande portata per il 2026 e in contatto con diversi promoter e artisti, con l’obiettivo di far tornare la storica location all’aperto della contea di Meath al centro della scena rock internazionale.
La mia esperienza personale a Slane risale al 20 giugno 2009, quando sul leggendario palco della County Meath si esibirono gli Oasis, con l’album Dig Out Your Soul ancora fresco di stampa. Ad accompagnarli c’erano Prodigy e Kasabian.
(Il sottoscritto e il mio amico Emanuele a Slane 2009)
Quel giorno eravamo 90.000, come riportarono i giornali nei giorni successivi.
Ho ricordi frammentati dell’evento, momenti unici e irripetibili che custodisco gelosamente.
Ricordo il viaggio d’andata su autobus gremiti di fan (ognuno dei quali sembrava una copia di Liam Gallagher), la dolce camminata all’interno della tenuta, una buona mezz’ora di saliscendi tra le colline della Boyne Valley, prima che si aprisse davanti a noi lo spettacolo dell’anfiteatro naturale affacciato sul fiume.
La potenza travolgente dei Kasabian.
Gli occhi fuori dalle orbite di Keith Flint davanti a una folla ruggente.
Una giornata di sole fantastica e tutt’altro che scontata.
Le note di Fucking in the Bushes che annunciano l’ingresso degli Oasis, l’esplosione del pubblico, un concerto che diventa una maratona.
Le distorsioni ipnotiche di I Am The Walrus a chiudere il tutto con la folla completamente in estasi e la lunga attesa durata fino alle 6 del mattino in cerca del primo autobus per tornare a Dublino.
Quello che ignoravamo era che quella sarebbe stata l’ultima volta che avremmo visto gli Oasis dal vivo.
Solo 69 giorni dopo infatti, il 28 agosto 2009, Noel avrebbe ufficialmente annunciato la fine della band.
(La folla di Slane Castle durante il concerto degli Oasis, 20 Giugno 2009)
Lo stesso Noel Gallagher, in un’intervista alla rivista Hot Press, ha descritto così l’esperienza di suonare a Slane:
«L’adrenalina che ti dà quando esci su quel palco è incredibile. Hai davanti un anfiteatro di persone che impazziscono, un fiume alle tue spalle e una residenza signorile in stile Downton Abbey sulla cima della collina. Come fai a non dare il massimo quando ti trovi davanti a tutto questo?»
Gli altri racconti sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/The%20Auld%20Triangle%3A%20narrazioni%20dalla%20Repubblica%20d%27Irlanda
Oggi viaggiamo fino alla suggestiva County Meath, cuore pulsante della campagna irlandese, per scoprire uno dei luoghi più iconici e leggendari della musica dal vivo in Irlanda: Slane Castle. Situato nel villaggio di Slane, a poco più di un’ora da Dublino, ed elegantemente arroccato sulla cima di una collina sopra il fiume Boyne, questo castello (in gaelico Caisleán Bhaile Shláine) fu costruito alla fine del XVIII secolo dalla famiglia anglo-irlandese dei Conyngham, insediatasi in Irlanda poco più di un secolo prima.
La recente scomparsa di Lord Henry Conyngham, l’uomo che ha trasformato questa storica tenuta in un vero santuario della musica, offre l’occasione per celebrare la sua straordinaria visione e riflettere sull’eredità che ha lasciato.
Dopo una lunga battaglia contro un tumore polmonare, Lord Henry si è spento all’età di 74 anni, lasciando un’impronta indelebile nel panorama culturale e musicale irlandese. Principalmente conosciuto con il nome di Lord Mount Charles, assunse la gestione della tenuta di Slane nel 1976, a soli 25 anni, dopo essere tornato da Londra, dove lavorava per la casa editrice Faber & Faber.
In quel periodo ricevette una telefonata dal padre, Frederick, che gli comunicò che, a causa delle pesanti imposte fiscali, sarebbe stato costretto a lasciare Slane e vendere tutto, a meno che non fosse tornato per occuparsene. Decise così di rientrare in patria per salvare il patrimonio di famiglia, cercando nuovi modi per rendere la tenuta sostenibile.
Henry trasformò le stalle e gli annessi della tenuta in un ristorante e in un nightclub, prima di rivolgere la sua attenzione al grande campo adiacente al castello.
Notò infatti il dolce declivio del pendio verso il fiume Boyne e si rese conto che formava un vero e proprio anfiteatro naturale ideale per spettacoli all’aperto.
L’inclinazione del terreno permetteva non solo di creare posti a sedere senza bisogno di opere di sterro, ma anche di offrire una bellezza paesaggistica unica e un’acustica sorprendentemente efficace.
L’erba e la pendenza dolce assorbono e riflettono il suono in modo simile agli antichi anfiteatri di pietra, riducendo l’eco e garantendo una proiezione chiara fino alle ultime file
. Quando si rese conto che il luogo poteva ospitare circa 80.000 persone, il resto venne da sé.
(Philip Lynott dei Thin Lizzy sul palco di Slane nel 1981)
Il debutto fu il 16 agosto 1981, con la band dei Thin Lizzy come headliner e dei giovanissimi U2 come band di supporto.
L’esordio di Slane Castle come sede di concerti avvenne in un periodo turbolento, durante gli scioperi della fame nel pieno dei Troubles, quando le tenute anglo-irlandesi erano spesso nel mirino, e organizzare concerti rock in Irlanda implicava rischi non indifferenti.
Nel pieno dello sciopero della fame del 1981, Lord Henry ricevette minacce personali affinché annullasse l’evento, ma non fece marcia indietro, dichiarando con determinazione: «Costi quel che costi, lo spettacolo si farà».
Nonostante tutto, il concerto fu un successo.
Circa 18.000 persone parteciparono all’evento, contribuendo in modo decisivo al successo dell’iniziativa e alla salvaguardia del castello grazie ai proventi raccolti.
La definitiva consacrazione arrivò l’anno seguente, il 24 luglio 1982, quando i Rolling Stones trascinarono 70.000 persone nella Boyne Valley per la loro esibizione, trasformando Slane Castle in una tappa imprescindibile dei grandi tour internazionali.
Sul palco salirono infatti Bob Dylan (1984), Bruce Springsteen (che si dice abbia portato circa 100.000 spettatori nel 1985), Queen (1986) e David Bowie (1987), prima di fermarsi per qualche anno a causa di un incendio scoppiato nel 1991 che danneggiò gran parte della tenuta.
(Una folla di 70.000 persone al concerto dei Rolling Stones a Slane, luglio 1982)
Dopo un’assenza di cinque anni, la più lunga dall’inizio dell’evento nel 1981, Slane tornò nel 1992.
I cinque concerti degli anni ’90 ebbero come headliner Guns N’ Roses, Neil Young, R.E.M. (con gli Oasis come band di supporto), The Verve e Robbie Williams.
Negli anni 2000 Slane Castle consolidò la sua fama internazionale grazie a performance memorabili di grandi artisti, come i Red Hot Chili Peppers, che nel 2003 registrarono il celebre concerto poi pubblicato nell’edizione video Live at Slane Castle, e gli U2, tornati nel 2001 con un’esibizione iconica immortalata nel live U2 Go Home – Live from Slane Castle.
Proprio la band di Bono e The Edge è tra le più legate a Slane Castle: oltre alle esibizioni dal vivo, nel maggio del 1984 gli U2 vi si stabilirono per alcune settimane per registrare l’album The Unforgettable Fire. Per l’occasione, il salotto del castello fu trasformato in studio di registrazione e la sala da ballo venne utilizzata per girare alcune scene del videoclip di Pride. (Bono durante l’esibizione degli U2 a Slane nel 2001)
Numerosi sono gli aneddoti leggendari che si raccontano sulle iconiche performance nella valle del Boyne.
Nel 1992, si dice che Axl Rose fosse ubriaco in un pub di Dublino e irrintracciabile, a pochi minuti dall’inizio del concerto, tanto che Lord Henry dovette organizzare un elicottero speciale per portarlo a Slane Castle, mentre Slash e gli altri membri della band si rilassavano pescando nel fiume dietro il palco.
David Bowie, nella sua unica esibizione a Slane nel 1987, arrivò sul palco con la disarmante tranquillità che lo caratterizzava.
Lo stesso Lord Henry raccontò in un’intervista a Hot Press
“Quando Bowie è salito sul palco a Slane, è stato come se tutto si fosse fermato per un attimo. Aveva quella presenza magnetica che ti cattura subito. Ricordo che eravamo nel backstage, seduti vicino al fiume Boyne chiacchierando, quando lui ha guardato l’orologio e mi ha detto: “Oh Henry, penso sia ora che io salga sul palco.” Si è alzato, ha attraversato con calma il ponticello sul fiume e con nonchalance è salito sul palco. Ho pensato solo: “È incredibile riuscire a essere così tranquilli e sicuri di sé.” Ma, d’altra parte, lui era un personaggio straordinario.»
(David Bowie, Slane Castle 1987)
Per chi fosse interessato, tutte le line-up complete dei concerti tenutisi a Slane Castle dal 1981 al 2019, inclusi gli eventuali gruppi di supporto, sono disponibili sul sito ufficiale del castello:
https://www.slanecastle.ie/concerts/1981-2019/
Oltre alla musica, Slane Castle ha ampliato la sua offerta culturale e imprenditoriale: nel 2015 la famiglia Conyngham ha aperto all’interno della tenuta la distilleria di whisky irlandese “Slane Irish Whiskey”, contribuendo a valorizzare la storia e il patrimonio della tenuta.
Con la scomparsa di Lord Henry, il futuro di Slane Castle, uno dei luoghi più emblematici della musica dal vivo irlandese, passa nelle mani del figlio Alex Conyngham, deciso a proseguire l’eredità del padre. Il nuovo padrone di casa ha confermato di essere al lavoro su un evento di grande portata per il 2026 e in contatto con diversi promoter e artisti, con l’obiettivo di far tornare la storica location all’aperto della contea di Meath al centro della scena rock internazionale.
La mia esperienza personale a Slane risale al 20 giugno 2009, quando sul leggendario palco della County Meath si esibirono gli Oasis, con l’album Dig Out Your Soul ancora fresco di stampa. Ad accompagnarli c’erano Prodigy e Kasabian.
(Il sottoscritto e il mio amico Emanuele a Slane 2009)
Quel giorno eravamo 90.000, come riportarono i giornali nei giorni successivi.
Ho ricordi frammentati dell’evento, momenti unici e irripetibili che custodisco gelosamente.
Ricordo il viaggio d’andata su autobus gremiti di fan (ognuno dei quali sembrava una copia di Liam Gallagher), la dolce camminata all’interno della tenuta, una buona mezz’ora di saliscendi tra le colline della Boyne Valley, prima che si aprisse davanti a noi lo spettacolo dell’anfiteatro naturale affacciato sul fiume.
La potenza travolgente dei Kasabian.
Gli occhi fuori dalle orbite di Keith Flint davanti a una folla ruggente.
Una giornata di sole fantastica e tutt’altro che scontata.
Le note di Fucking in the Bushes che annunciano l’ingresso degli Oasis, l’esplosione del pubblico, un concerto che diventa una maratona.
Le distorsioni ipnotiche di I Am The Walrus a chiudere il tutto con la folla completamente in estasi e la lunga attesa durata fino alle 6 del mattino in cerca del primo autobus per tornare a Dublino.
Quello che ignoravamo era che quella sarebbe stata l’ultima volta che avremmo visto gli Oasis dal vivo.
Solo 69 giorni dopo infatti, il 28 agosto 2009, Noel avrebbe ufficialmente annunciato la fine della band.
(La folla di Slane Castle durante il concerto degli Oasis, 20 Giugno 2009)
Lo stesso Noel Gallagher, in un’intervista alla rivista Hot Press, ha descritto così l’esperienza di suonare a Slane:
«L’adrenalina che ti dà quando esci su quel palco è incredibile. Hai davanti un anfiteatro di persone che impazziscono, un fiume alle tue spalle e una residenza signorile in stile Downton Abbey sulla cima della collina. Come fai a non dare il massimo quando ti trovi davanti a tutto questo?»
lunedì, agosto 11, 2025
Robyn Hitchcock - 1967. Come ci sono arrivato e perché non me ne sono più andato
Riprendo la recensione del libro di Robyn Hitchcock che ho recsnito nelle pagine de "Il Manifesto" lo scorso sabato.
L’artista inglese è sempre stato un discepolo fedele della breve epica e attitudine sonora di Syd Barrett che ha permeato la sua prima avventura con i Soft Boys e la successiva incarnazione solista.
Non stupisce quindi che questa sua autobiografia “1967” (edita da Hellnation Libri, tradotta da Carlo Bordone) ruoti pressoché esclusivamente intorno al fatidico 1967 e ai suoi quattordici anni, quando scoprì e si innamorò di Bob Dylan, la Incredible String Band e, inevitabilmente dei Beatles, in una sorta di sgangherato quanto fascinoso romanzo di formazione psichedelico.
I flash pre adolescenziali sono abbaglianti fotografie che abbiamo un po’ tutti vissuto:
“Non vedo l’ora che la mia voce si abbassi, che mi cresca una peluria rispettabile e di abbandonare finalmente lo scricchiolante reame della fanciullezza.”
Arrivano anche David Bowie e Jimi Hendrix:
“Sono un adolescente in fiamme, Cristo santo questa è musica che ti fa levitare”.
I vestiti diventano più audaci, i capelli si allungano. “Sto imparando che il barbiere è il nemico naturale della libertà”.
Anche se il periodo di transizione è ancora lungo e complesso “Una cultura in cui sono tutti maschi e le donne sono un’altra specie, esistono solo dietro a un vetro, come una Monna Lisa. Ci sono le persone e poi ci sono le femmine”.
Improvvisamente arrivano un giradischi e una chitarra e nulla sarà mai più come prima “Ho la mia chitarra e mio cugino, sia benedetto, mi presta uno di quegli oggetti che ti cambiano la vita: un giradischi a pile.”
Cambia anche il tanto agognato aspetto fisico “Sono alto un metro e ottanta e con un caschetto alla Beatles” ma anche una constatazione postuma illuminante, che in molti possono condividere: “Sono un adolescente e lo rimarrò per il resto della vita”.
Incomincia a suonare sopra ai tanto amati dischi dei nuovi idoli:
“Il mio istinto è suonare la chitarra molto prima di avere imparato a suonarla”.
Alla fine Robyn vivrà con la sua musica, girerà il mondo, inciderà eccellenti dischi, rilascerà interviste a quelle riviste che spulciava freneticamente da adolescente, seguendo quello “spirito del 1967” da cui è partito.
“A parte tutto sono grato che l’orologio fermo del 1967 rintocchi ancora dentro di me. Mi ha dato un mestiere per la vita”.
Robyn Hitchcock
1967. Come ci sono arrivato e perché non me ne sono più andato.
Red Star Press/Hellnation libri
216 pagine
19 euro
L’artista inglese è sempre stato un discepolo fedele della breve epica e attitudine sonora di Syd Barrett che ha permeato la sua prima avventura con i Soft Boys e la successiva incarnazione solista.
Non stupisce quindi che questa sua autobiografia “1967” (edita da Hellnation Libri, tradotta da Carlo Bordone) ruoti pressoché esclusivamente intorno al fatidico 1967 e ai suoi quattordici anni, quando scoprì e si innamorò di Bob Dylan, la Incredible String Band e, inevitabilmente dei Beatles, in una sorta di sgangherato quanto fascinoso romanzo di formazione psichedelico.
I flash pre adolescenziali sono abbaglianti fotografie che abbiamo un po’ tutti vissuto:
“Non vedo l’ora che la mia voce si abbassi, che mi cresca una peluria rispettabile e di abbandonare finalmente lo scricchiolante reame della fanciullezza.”
Arrivano anche David Bowie e Jimi Hendrix:
“Sono un adolescente in fiamme, Cristo santo questa è musica che ti fa levitare”.
I vestiti diventano più audaci, i capelli si allungano. “Sto imparando che il barbiere è il nemico naturale della libertà”.
Anche se il periodo di transizione è ancora lungo e complesso “Una cultura in cui sono tutti maschi e le donne sono un’altra specie, esistono solo dietro a un vetro, come una Monna Lisa. Ci sono le persone e poi ci sono le femmine”.
Improvvisamente arrivano un giradischi e una chitarra e nulla sarà mai più come prima “Ho la mia chitarra e mio cugino, sia benedetto, mi presta uno di quegli oggetti che ti cambiano la vita: un giradischi a pile.”
Cambia anche il tanto agognato aspetto fisico “Sono alto un metro e ottanta e con un caschetto alla Beatles” ma anche una constatazione postuma illuminante, che in molti possono condividere: “Sono un adolescente e lo rimarrò per il resto della vita”.
Incomincia a suonare sopra ai tanto amati dischi dei nuovi idoli:
“Il mio istinto è suonare la chitarra molto prima di avere imparato a suonarla”.
Alla fine Robyn vivrà con la sua musica, girerà il mondo, inciderà eccellenti dischi, rilascerà interviste a quelle riviste che spulciava freneticamente da adolescente, seguendo quello “spirito del 1967” da cui è partito.
“A parte tutto sono grato che l’orologio fermo del 1967 rintocchi ancora dentro di me. Mi ha dato un mestiere per la vita”.
Robyn Hitchcock
1967. Come ci sono arrivato e perché non me ne sono più andato.
Red Star Press/Hellnation libri
216 pagine
19 euro
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Libri
venerdì, agosto 08, 2025
Giovanni Berengo Gardin










Ci ha lasciati a 94 anni il fotografo Giovanni Berengo Gardin.
Riprendo qui un post di 5 anni fa.
Uno dei più importanti fotografi italiani, nato nel 1930, ha collaborato con le maggiori testate nazionali e internazionali.
Paesaggi, vita quotidiana, attimi fuggenti, sono tra le principali caratteristiche di ciò che il suo occhio fotografico sa cogliere.
Berengo Gardin ha esposto in centinaia di mostre e pubblicato 250 libri fotografici.
Dovrei avere circa un milione e ottocento scatti.
Decine di mostre hanno celebrato il suo lavoro e la sua creatività in diverse parti del mondo, dal Museum of Modern Art di New York, alla George Eastman House di Rochester, alla Biblioteca Nazionale di Parigi.
Una foto modificata non è più una fotografia, è un’immagine. Photoshop andrebbe abolito per legge
L’importanza della fotografia è il documento, il racconto di un’immagine, di qualcosa che abbia un significato.
Non è fare un mazzo di fiori scimmiottando la pittura.
Io mi sento artigiano, mi piace lavorare con le mani.
La capacità del fotografo è quella di registrare il momento giusto.
Ed è qui che ci vuole un po’ di fortuna.
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Fotografi
giovedì, agosto 07, 2025
Carol Kaye
Riprendo l'articolo che ho dedicato lo scorso sabato alla grandissima Carol Kaye nelle pagine di "Alias" de "Il Manifesto".
Il ruolo del session man è tra i più ingrati e oscuri nella storia della musica moderna.
Pur se spesso protagonisti e indispensabile tassello per dare a un brano o a un album il giusto e migliore profilo, il loro nome rimane il più delle volte nascosto nei crediti del disco.
E se negli ultimi anni è una figura che ha finalmente trovato dignità e maggiore visibilità, precedentemente era pressoché ignorato.
Non stupisce perciò che la figura della favolosa Carol Kaye sia rimasta così a lungo nel dimenticatoio. Ha compiuto da poco 90 anni e con il curriculum che si ritrova è doveroso tributarle il giusto omaggio. In una vecchia intervista sottolineava il ruolo comprimario dei session (wo)men:
A quei tempi ci accontentavamo di fare i turnisti.
Ci volevano coraggio, dolore e lacrime per diventare una star: all'epoca molti venivano trattati come carne da macello e ci vuole un talento speciale per salire sul palco ed essere degli intrattenitori. All'epoca non ci importava molto, semplicemente riscuotevamo i nostri soldi e tornavamo a casa dalle nostre famiglie, questo era ciò che contava per noi. Intorno al 1973, le case discografiche furono obbligate a mettere i nomi dei musicisti (soprattutto della sezione ritmica) sul retro degli album. A volte non otteniamo i meriti (e nemmeno i proventi derivanti dal riutilizzo) per le nostre opere, fa un po' male sapere che il pubblico viene ingannato e che il nostro lavoro viene semplicemente accantonato come "musicisti", cosa che succede da secoli.
Da quando ha incominciato la sua attività, nel 1957, ha suonato il basso e la chitarra in più di 10.000 dischi e con molte delle leggende del pop rock, spaziando tranquillamente da Frank Zappa (in “Freak Out”) a Frank Sinatra, dai Beach Boys ai Monkees, dalle colonne sonore di Quincy Jones, Henry Mancini e Lalo Schifrin fino a Stevie Wonder, Barbra Streisand, The Supremes, Simon & Garfunkel e in un'infinità di canzoni famosissime (These Boots Are For Walking di Nancy Sinatra a Time Is On My Side di Irma Thomas, Tainted Love di Gloria Jones, Do I Love You (Indeed I Do) di Frankie Wilson, l'inno Northern Soul per antonomasia, il famoso tema della serie televisiva Batman).
Non è un caso che perfino Paul McCartney ne abbia sottolineato l'influenza nel suo modo di suonare: “Pet Sounds” dei Beach Boys è stata la mia ispirazione per creare “Sgt. Pepper”. C'è un basso molto interessante, è sempre quasi fuori tempo. Se hai una canzone in Do maggiore, la prima nota di basso sarà normalmente un Do maggiore. Ma Carol Kaye suonava un Sol maggiore. Era comunque adatto, ma dava una sensazione completamente nuova.
E' sufficiente ascoltare il lavoro di Kaye nel classico “Good Vibrations” per capire quanto Sir Paul ne sia stato condizionato.
Carol ha sempre lavorato con un impeccabile aplomb, un distacco impensabile se consideriamo con chi ha suonato e interagito.
Non ho mai pensato a me stessa come una musicista donna ma semplicemente come una bassista e una chitarrista. Una nota non ha nulla a che fare con il sesso di chi la suona. O la suoni bene o non la suoni. Alcune persone non lo sopportano, soprattutto gli uomini. Vogliono vedere il basso come qualcosa di maschile, ma quando senti un basso suonato con le palle... quella sono io!
Con molta freddezza e lucidità riassume in poche parole il momento culminante della sua carriera (anni Sessanta e Settanta):
A un certo punto, negli anni Sessanta, le case discografiche provarono a usare direttamente i gruppi per registrare le loro canzoni.
Ma ci mettevano settimane per ottenere una buona registrazione e alla fine in molti non ci riuscivano. Le case discografiche ritrattarono e ci ricontattarono immediatamente. Di solito riuscivamo a incidere un album di successo in due sessioni (sei ore). Ho visto il nostro giro arricchirsi di musicisti che fumavano erba.
All'inizio, intorno al 1968-69, la cosa non ci preoccupava, ma negli anni '70 si vedeva la cocaina negli studi e ci volevano giorni per incidere le hit, persino i produttori facevano uso di droghe e insistevano che i musicisti in studio facessero lo stesso, durante le session, cosa che ci inorridiva. A quel tempo la maggior parte di noi se ne stava tranquillamente a registrare per film e programmi TV, non c'era droga in quegli studi.
Poi arrivarono i sintetizzatori verso la metà degli anni '70 e iniziarono a rubare il lavoro. Molti di noi tornarono a suonare dal vivo, ma ci mancano sicuramente gli anni '60.
La carriera di Carol Kaye inizia a 13 anni con l'acquisto di una chitarra acustica a cui si applica subito con grande dedizione, tanto che in breve tempo è già nel giro delle big band jazz sui palchi di Los Angeles. Quando incomincia a frequentare gli studi di registrazione intuisce che è meno faticoso e più remunerativo il ruolo di session woman piuttosto che quello di musicista live. Suona la chitarra in alcuni successi dell'epoca, tra cui il mitico “La Bamba” di Richie Valens. Nel 1963 passa casualmente al basso e ne diventa una maestra, incominciando ad alternarsi alla chitarra.
Entra nella cosiddetta Wrecking Crew il gruppo di turnisti più ricercato negli anni Sessanta e da questo momento non si contano le sue apparizioni in dischi di tutti i tipi.
Il nostro gruppo aveva un suono distintivo, suonavamo molto intensamente. Le nostre vite, quelle dei nostri figli e delle nostre famiglie dipendevano tutte da quel suono. Lo chiamavamo il suono "affamato" (hungry sound). Avevamo tutta la creatività, soprattutto i musicisti della sezione ritmica jazz, per creare arrangiamenti istantanei e strutture di canzoni per dischi di successo con riff, pattern, ogni sorta di idee che ci rimbalzavano in testa, sapevamo dove posizionare le parti, i cambi di tonalità, i break, i fill e i monotoni ritornelli di media frequenza, tutte cose che si fanno costantemente nel jazz, che è improvvisazione spontanea e costante.
Il rock incominciò ad evolversi velocemente a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, le band intrapresero altre strade, diventando artefici delle loro registrazioni e rendendo il lavoro del turnista sempre meno richiesto.
Con grande saggezza e spirito imprenditoriale Carol si dedicò allora alle colonne sonore, affiancando soprattutto Quincy Jones. Un incidente stradale nel 1976 la allontanò pressoché definitivamente dalla musica attiva, pur se continuò sporadicamente a incidere.
Avevo già iniziato a smettere agli inizi degli anni '70. Avevo già smesso quattro o cinque volte perché ero esausta dalle registrazioni. Poi ho iniziato a suonare jazz e ho sentito che mi piaceva di nuovo la musica. Se registravi, verso la fine degli anni '60, parte della musica non era granché e il tuo spirito iniziava a morire se non suonavi buona musica. Quando ho smesso, ho pensato di non volere più toccare lo strumento per il resto della mia vita! Successivamente ha fondato una casa editrice e incominciato a insegnare basso e chitarra via internet.
Il suo stile, spesso suonando le linee di basso in modo sincopato, usando il plettro invece delle dita, in modo da dare più potenza al suono, è diventato un marchio di fabbrica ben riconoscibile, portando in evidenza uno strumento per antonomasia ritmico e destinato al sottofondo.
Recentemente in un'intervista ha sottolineato quanto sia sorpresa del fatto che qualcuno si ricordi ancora di lei e che le abbiano tributato così tanto interesse, rimarcando:
Ammettiamolo: oggi non c'è molta buona musica. Abbiamo bisogno di più musica oggi. Sarebbe sicuramente d'aiuto per le condizioni del mondo!
Il ruolo del session man è tra i più ingrati e oscuri nella storia della musica moderna.
Pur se spesso protagonisti e indispensabile tassello per dare a un brano o a un album il giusto e migliore profilo, il loro nome rimane il più delle volte nascosto nei crediti del disco.
E se negli ultimi anni è una figura che ha finalmente trovato dignità e maggiore visibilità, precedentemente era pressoché ignorato.
Non stupisce perciò che la figura della favolosa Carol Kaye sia rimasta così a lungo nel dimenticatoio. Ha compiuto da poco 90 anni e con il curriculum che si ritrova è doveroso tributarle il giusto omaggio. In una vecchia intervista sottolineava il ruolo comprimario dei session (wo)men:
A quei tempi ci accontentavamo di fare i turnisti.
Ci volevano coraggio, dolore e lacrime per diventare una star: all'epoca molti venivano trattati come carne da macello e ci vuole un talento speciale per salire sul palco ed essere degli intrattenitori. All'epoca non ci importava molto, semplicemente riscuotevamo i nostri soldi e tornavamo a casa dalle nostre famiglie, questo era ciò che contava per noi. Intorno al 1973, le case discografiche furono obbligate a mettere i nomi dei musicisti (soprattutto della sezione ritmica) sul retro degli album. A volte non otteniamo i meriti (e nemmeno i proventi derivanti dal riutilizzo) per le nostre opere, fa un po' male sapere che il pubblico viene ingannato e che il nostro lavoro viene semplicemente accantonato come "musicisti", cosa che succede da secoli.
Da quando ha incominciato la sua attività, nel 1957, ha suonato il basso e la chitarra in più di 10.000 dischi e con molte delle leggende del pop rock, spaziando tranquillamente da Frank Zappa (in “Freak Out”) a Frank Sinatra, dai Beach Boys ai Monkees, dalle colonne sonore di Quincy Jones, Henry Mancini e Lalo Schifrin fino a Stevie Wonder, Barbra Streisand, The Supremes, Simon & Garfunkel e in un'infinità di canzoni famosissime (These Boots Are For Walking di Nancy Sinatra a Time Is On My Side di Irma Thomas, Tainted Love di Gloria Jones, Do I Love You (Indeed I Do) di Frankie Wilson, l'inno Northern Soul per antonomasia, il famoso tema della serie televisiva Batman).
Non è un caso che perfino Paul McCartney ne abbia sottolineato l'influenza nel suo modo di suonare: “Pet Sounds” dei Beach Boys è stata la mia ispirazione per creare “Sgt. Pepper”. C'è un basso molto interessante, è sempre quasi fuori tempo. Se hai una canzone in Do maggiore, la prima nota di basso sarà normalmente un Do maggiore. Ma Carol Kaye suonava un Sol maggiore. Era comunque adatto, ma dava una sensazione completamente nuova.
E' sufficiente ascoltare il lavoro di Kaye nel classico “Good Vibrations” per capire quanto Sir Paul ne sia stato condizionato.
Carol ha sempre lavorato con un impeccabile aplomb, un distacco impensabile se consideriamo con chi ha suonato e interagito.
Non ho mai pensato a me stessa come una musicista donna ma semplicemente come una bassista e una chitarrista. Una nota non ha nulla a che fare con il sesso di chi la suona. O la suoni bene o non la suoni. Alcune persone non lo sopportano, soprattutto gli uomini. Vogliono vedere il basso come qualcosa di maschile, ma quando senti un basso suonato con le palle... quella sono io!
Con molta freddezza e lucidità riassume in poche parole il momento culminante della sua carriera (anni Sessanta e Settanta):
A un certo punto, negli anni Sessanta, le case discografiche provarono a usare direttamente i gruppi per registrare le loro canzoni.
Ma ci mettevano settimane per ottenere una buona registrazione e alla fine in molti non ci riuscivano. Le case discografiche ritrattarono e ci ricontattarono immediatamente. Di solito riuscivamo a incidere un album di successo in due sessioni (sei ore). Ho visto il nostro giro arricchirsi di musicisti che fumavano erba.
All'inizio, intorno al 1968-69, la cosa non ci preoccupava, ma negli anni '70 si vedeva la cocaina negli studi e ci volevano giorni per incidere le hit, persino i produttori facevano uso di droghe e insistevano che i musicisti in studio facessero lo stesso, durante le session, cosa che ci inorridiva. A quel tempo la maggior parte di noi se ne stava tranquillamente a registrare per film e programmi TV, non c'era droga in quegli studi.
Poi arrivarono i sintetizzatori verso la metà degli anni '70 e iniziarono a rubare il lavoro. Molti di noi tornarono a suonare dal vivo, ma ci mancano sicuramente gli anni '60.
La carriera di Carol Kaye inizia a 13 anni con l'acquisto di una chitarra acustica a cui si applica subito con grande dedizione, tanto che in breve tempo è già nel giro delle big band jazz sui palchi di Los Angeles. Quando incomincia a frequentare gli studi di registrazione intuisce che è meno faticoso e più remunerativo il ruolo di session woman piuttosto che quello di musicista live. Suona la chitarra in alcuni successi dell'epoca, tra cui il mitico “La Bamba” di Richie Valens. Nel 1963 passa casualmente al basso e ne diventa una maestra, incominciando ad alternarsi alla chitarra.
Entra nella cosiddetta Wrecking Crew il gruppo di turnisti più ricercato negli anni Sessanta e da questo momento non si contano le sue apparizioni in dischi di tutti i tipi.
Il nostro gruppo aveva un suono distintivo, suonavamo molto intensamente. Le nostre vite, quelle dei nostri figli e delle nostre famiglie dipendevano tutte da quel suono. Lo chiamavamo il suono "affamato" (hungry sound). Avevamo tutta la creatività, soprattutto i musicisti della sezione ritmica jazz, per creare arrangiamenti istantanei e strutture di canzoni per dischi di successo con riff, pattern, ogni sorta di idee che ci rimbalzavano in testa, sapevamo dove posizionare le parti, i cambi di tonalità, i break, i fill e i monotoni ritornelli di media frequenza, tutte cose che si fanno costantemente nel jazz, che è improvvisazione spontanea e costante.
Il rock incominciò ad evolversi velocemente a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, le band intrapresero altre strade, diventando artefici delle loro registrazioni e rendendo il lavoro del turnista sempre meno richiesto.
Con grande saggezza e spirito imprenditoriale Carol si dedicò allora alle colonne sonore, affiancando soprattutto Quincy Jones. Un incidente stradale nel 1976 la allontanò pressoché definitivamente dalla musica attiva, pur se continuò sporadicamente a incidere.
Avevo già iniziato a smettere agli inizi degli anni '70. Avevo già smesso quattro o cinque volte perché ero esausta dalle registrazioni. Poi ho iniziato a suonare jazz e ho sentito che mi piaceva di nuovo la musica. Se registravi, verso la fine degli anni '60, parte della musica non era granché e il tuo spirito iniziava a morire se non suonavi buona musica. Quando ho smesso, ho pensato di non volere più toccare lo strumento per il resto della mia vita! Successivamente ha fondato una casa editrice e incominciato a insegnare basso e chitarra via internet.
Il suo stile, spesso suonando le linee di basso in modo sincopato, usando il plettro invece delle dita, in modo da dare più potenza al suono, è diventato un marchio di fabbrica ben riconoscibile, portando in evidenza uno strumento per antonomasia ritmico e destinato al sottofondo.
Recentemente in un'intervista ha sottolineato quanto sia sorpresa del fatto che qualcuno si ricordi ancora di lei e che le abbiano tributato così tanto interesse, rimarcando:
Ammettiamolo: oggi non c'è molta buona musica. Abbiamo bisogno di più musica oggi. Sarebbe sicuramente d'aiuto per le condizioni del mondo!
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