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Nel 1980 il New Musical Express pubblicò un articolo diventato particolarmente famoso di PAUL WELLER (ripreso anche nel libro "Cool cats, 25 years of rock n roll styles") dal titolo "TOTAL LOOK" in cui precisa la sua visione del MODERNISMO.
L'articolo venne tradotto e pubblicato sulla mia fanzine "Faces" poco tempo dopo.
Credo sia interessante rileggerlo (pur se lungo e talvolta opinabile) e coglierne lo spirito giovanilista, provocatorio e cogliervi l'urgenza di quegli anni.
Generalmente è difficile assegnare una scala di valori a una cosa così personale come lo stile.
Forse il motivo sta tutto nel suo appeal.
E’ come quando
un milione di persone dice che Picasso era un genio; bene, io penso che fosse spazzatura e che la copertina di un Ep francese degli Small Faces possa pisciare tranquillamente su tutti i suoi quadri.
Insomma, per capire quanto sia profondo il mio coinvolgimento con gli anni Sessanta, tutto va riferito al concetto di “stile”, e che non può essere giudicato confrontandolo con niente altro.
Un’influenza totale su di me, ma non cieca.
Il mio interesse riguarda gli anni del cosiddetto
TOTAL LOOK, dal 1963 al 1967.
E’ un periodo che copre un'ampia gamma di fasi, dai primi modernisti ai giovani dandy della Swinging London fino agli edonisti hippy.
E' puramente estetico e abbastanza superficiale; raramente riguarda gli abiti, la musica, i film e i libri del passato.
La politica resti ai politici, per quel che mi riguarda loro sono sempre la stessa immondizia.
Non sono interessato alla politica o all’economia degli anni Sessanta, eccetto forse le rivolte studentesche del 1968, quando sembrava che l’intero mondo (giovane) avesse preso fuoco.
Le intenzioni e gli estremismi erano lodevoli, ma non posso fare a meno di pensare che anche quella fosse un’altra fonte di ricchezza nelle mani della middle class.
Molti di quei giovani radicali oggi hanno chiuso le porte ai giovani della working class.
Credo di parlare soprattutto del mondo della musica, della televisione e dei media in generale; il collo di bottiglia ai danni delle nuove generazioni lo hanno creato proprio questi vecchi bastardi che non vogliono cedere il passo.
In tutti i casi, non ce l’ho così tanto con loro: dubito solo di nutrire dei sentimenti pacifisti nei loro confronti.
La prima volta che mi sono interessato ai Mod dei primi anni Sessanta fu nel 1974.
Non ricordo bene come e perché.
Probabilmente fu dopo aver visto la foto di un gruppo, o dopo aver letto un paio di lettere inviate da alcuni
original mods al “New Musical Express”, in cui veniva descritto il loro stile di vita a quei tempi.
Il mio interesse era comunque profondo e cercai subito di conoscere meglio il fenomeno.
L’aspetto più importante era la musica degli anni Settanta: la odiavo in blocco, fino a quando non arrivarono nel 1974 i gloriosi e liberatori Sex Pistols.
Prima di loro c’erano le inconcludenti coglionate dei glam, il nonsense della musica soft, come il “Philly soul” e la terribile Mor radiofonica.
Bowie e Bolan erano ok, ma avevo perso interesse anche in loro dopo in terzo o quarto LP.
Al contrario, tornai indietro ad ascoltare i primi dischi di rock ‘n’ roll, rhythm & blues e soul, oltre a quelli dei Beatles, dei quali sono sempre stato un fan.
Penso che la mancanza di stile e la blanda assenza di volti negli anni Settanta abbiano indotto la mia ossessione per i Sixties.
Non c’era nulla di cui far parte, nulla su cui basarsi (almeno nel periodo pre-punk).
In quei giorni noi Jam suonavamo ancora le canzoni di Chuck Berry e gli obbligatori standard rock ‘n’ roll che ormai ci annoiavano.
Iniziai a capire che
essere un mod voleva dire partire da una buona base, avere nuove prospettive e ispirazioni per scrivere, pur restando, come gruppo, un’identità unica.
E così accadde.
Andammo a comprarci dei completi neri e iniziammo a suonare le cover delle label Motown, Stax e Atlantic.
Mi comprai una chitarra Rickenbacker, una Lambretta Gp 150 e provai un’acconciatura simile a quella di Steve Mariott nel ’66.
Mi faceva sentire così individualista e arrogante.
Era come se avessi costruito un mondo personale, la gente mi fissava e pensava che ero un tipo strano.
Lo stesso effetto lo ebbero su di me e i miei amici i Sex Pistols, quando li andammo a vedere nel 1976.
Che arroganza il giorno dopo al pub:
“Non li avete mai visti? Non avete mai visto i Sex Pistols o Johnny Rotten?”.
Loro erano nostri, il nostro piccolo gruppo privato che tutta la gente uncool non aveva mai ascoltato!
Bene, in un certo senso io provai le stesse sensazioni di fronte ai mods.
Molti kids della mia età non avevano mai sentito parlare dei mods o, al massimo, li ricordavano solo come se fossero delle “bestie mitologiche” provenienti da “età oscure”.
Era diventata la mia crociata personale!
Se cercate fatti o cambiamenti cronologici nel campo della moda, allora basta un’occhiata alle foto, che dicono tutto sugli anni sessanta:
un’immagine d Steve Mariott o un Pete Townshend diciannovenne dicono proprio tutto! Tali immagini mi parlavano (e lo fanno ancora), mentre io cercavo di adeguare il mio look a quello dei mods.
Li vedevo puliti, eleganti, working class, arroganti e antiautoritari, senza alcun rispetto fondato sull’età.
L’intera immagine è C-O-O-L: fare le ore piccole ballando, schioccare le dita al suono di James Brown And The Famous Flames, o ancora fumare al ritmo del blue beat.
Fare shopping il sabato mattina a Carnaby Street o guardare Pete Townshend mentre distrugge tutto quell’equipaggiamento di valore
. E’ questo tipo di immagini che mi attrae, lo stesso tipo che, contemporaneamente, ha reso anacronistico il mod revival nel 1979.
Idioti del calibro di Ian Page (Secret Affair), un’ex-stella del punk decaduta che in seguito ha cercato fortuna come mod, hanno raccontato ai ragazzi che il punk era morto o che comunque non era andato oltre le proprie aspettative, mentre cercavano di convincerli a stringere un patto con i bastardi al potere. Cosa? Era la completa antitesi dello spirito originale del movimento mod degli anni Sessanta.
Loro, i mods, non volevano alcun patto fottuto, hanno sempre seguito le regole che loro stessi hanno inventato; se non ti piacevano queste idee, potevi sempre sparire (“f-f-f-fade away”).
Il revival del ’79 era anche un po’ triste e meschino per i kids coinvolti, o almeno disperato, con tutti questi ragazzi della working class che cercavano di mantenere pulito il loro stile estetico, mentre il mondo gli crollava addosso.
In questo però erano fedeli alle origini: dopo tutto, non era stato proprio il primo cantore mod e primo manager degli Who, Pete Meaden, a descrivere il modernismo come il “vivere puliti in circostanze difficili”?
Mi indicano sempre le differnze tra mod e “punk” ma è qualcosa che non ho mai notato. I modernisti hanno creato la loro scena personale proprio come hanno fatto i punk (anche senza aver beneficiato, nel campo dei media, dell’intraprendenza di un personaggio come Malcolm McLaren).
Entrambi sono movimenti di kids e non si appoggiano a nessun altro (in particolare il modernismo). Hanno creato un proprio stile di vita, con la loro musica, i loro club e i loro negozi di abiti.
A tale proposito, la prima volta che entrai al 100 Club di Oxford Street a Londra, mi sembrava di camminare sul set di un film degli anni Sessanta.
Attaccati al muro delle scale c’erano i dischi dei Troggs e degli Small Faces, mentre i Clash suonavano dei riff imparentati con quelli dei Kinks. Capelli corti! Kids con un look individuale! Il giro garage dei Pistols e la giovane arroganza indotta dalle anfetamine di Rotten. Io amavo tutte queste cose. Era qualcosa di giovane, eccitante e, certamente, non c’erano pantaloni a zampa d’elefante, una delle creazioni della moda più negative.
E’ fantastico quando i kids creano la loro scena, anche se tutto finisce con la popolarità o quando, più significativamente, se ne occuperanno i media.
E’ il momento dell’addio.
La massificazione rivoltante dei media ha ucciso lo spirito giovanile.
La stessa cosa è avvenuta al movimento mod delle origini, con tutti i supplementi domenicali sulla scena dei club che attraevano la gioventù “bene” di Chelsea (d’altronde, chi altro leggeva i supplementi della Domenica?).
E la stessa cosa è accaduta anche al movimento punk, soprattutto al Roxy Club di Covent Garden.
Tutti questi non più giovani segaioli della middle class, con i loro pantaloni in pelle da 30 sterline. Ma come sono oltraggiosi, mostrando una parte del capezzolo appena lavato…Ma guarda un po’, due ragazze che si baciano!
L’altra parte dei media, quella cosiddetta proletaria, attraeva a sua volta l’area modernista più attaccabrighe, nel tentativo di eliminare qualsiasi scena giovanile promettente. Proprio quest’area diede luogo alle noiose riots tra mod e rockers sulle spiagge inglesi negli anni Sessanta. Niente a che vedere con i veri modernisti o stylist, che voltavano le spalle alle volgarità di chi credeva di “aver conquistato l’intera nazione”.
Ma in fondo era l’establishment che illudeva i giovani, facendogli credere di essere a un passo da qualche conquista sociale, per poi modificare la situazione all’ultimo momento. O forse eravamo noi ad esserci annoiati definitivamente?
Forse l’ultima reale testimonianza della sopravvivenza dei mod originali rimane nella magnifica scena northern soul.
Ricordo ancora quando un paio di amici patiti di northern mi portarono ad un allnighter.
Questi ragazzi non erano lì per mettersi in mostra o per fare a pugni: i loro unici scopi erano ballare e divertirsi.
Anche se edonisti, i seguaci del northern soul ricordano da vicino lo spirito modernista originale. Ancora ascoltano e suonano sia il soul degli inizi che quello più oscuro degli anni Settanta. I vestiti sono diversi, ma da qualche parte si vedono ancora degli scooter ben accessoriati. Girate, saltate e fate pure a lungo le vostre acrobazie al suono di Dean Parrish!
Nel 1965 il movimento mod stava scomparendo un po’ ovunque, a parte alcune città di provincia nel nord del Paese. A Londra, la città dov’era nato, il modernismo era scomparso ai danni della nuova gioventù del jet-set. L’Inghilterra entrava adesso nei cosiddetti Swinging Sixties.
Gli ultimi veri mod marciavano ancora coraggiosamente come degli zombie silenziosi verso la Mecca (così si chiamava anche una celebre ballroom northern soul di Blackpool), che nei bank holidays aveva le sembianze di Brighton o Margate.mi torna in mente una triste canzone che non ho mai finito di scrivere, dal titolo The Last Of The Scooter Boys.
Mentre la scena mod si assottigliava e il fenomeno si commercializzava nelle mani di alcuni astuti approfittatori, il periodo compreso tra il ’65 e il ’66 rimane comunque quello della migliore produzione musicale e del più valido stile estetico.
Il modernismo aveva già avuto un forte impatto sulle band di allora, che copiavano il look dei kids (e non viceversa).
Dove sarebbero gli Who adesso se non avessero avuto contatto con i mods ?
Townshend ha sempre parlato a lungo delle sue influenze mod, mentre gli Small Faces, Rod Stewart, David Bowie e Marc Bolan provengono tutti dalla scena modernista.
Già nel 1965 però il business della moda controllava di nuovo i kids, mentre le bands diventavano a poco a poco più oltraggiose, usando lo stile estetico come un modo per attirare l’attenzione.
Gli Who adottavano lo stile pop-art, mentre i Creation, che li copiavano, portavano i loro quadri di canvas sul palco. Nel 1966 i Move di Birmingham adottavano un look stile gangster e la New Vaudeville Band sceglieva lo stile estetico e musicale degli anni Venti. E oggi (1981) a cosa assistiamo ancora?
Ogni band che si presenta allo show televisivo settimanale della Bbc “Top of the Pops” adotta la cosiddetta “immagine totale”. Stray Cats, Spandau Ballet, Adam And The Ants: nulla di tutto ciò è nuovo, ma è stato fatto infinite volte in precedenza.
Dopotutto, cos’è il revivalismo?
Per me non è altro che l’ennesimo tentativo di trovare un filone comune da seguire, una via, anche stretta, da intraprendere in massa. La stessa cosa in fondo si può dire del periodo tra il ’65 e il ’66, con la sua moda, i suoi vestiti…
Laddove i mods erano originali, l’era degli Swinging Sixties racchiudeva alla rinfusa un’accozzaglia di stili, ricordando il vecchio detto inglese “Se getti abbastanza merda sul muro… qualche pezzo alla fin e vi si attacca”.
In tutti i casi, questo periodo particolare fece dell’Inghilterra il centro della cultura giovanile, accessoriata con tanto di orologi, calzini, vassoi e magliette in stile Union Jack. “I’m backing Britain”, c’era scritto sulle spillette, ma senza un vero spirito patriottico o nazionalista.
Tutto era riferito a una grande sensazione di frivolezza, in cui personaggi come Harold Wilson incoraggiavano l’azione dei giovani e i Fab Four diventavano baronetti.
Ma non sono poi così sicuro che questa sia l’immagine corretta degli anni Sessanta e non quella suggerita da uno dei miei film preferiti, Blow Up, girato nel 1966.
Comunque le spillette e i titoli nobiliari esistevano davvero. La cosa positiva di quel periodo era il fatto che i giovani avevano un controllo maggiore in campi specifici, come il teatro, il cinema, la musica e la letteratura.
E inoltre, anche se ciò può sembrare eccessivo, per la prima volta i giovani Dj avevano una forte influenza sulla radiofonia inglese. Quando nel 1967 le radio private vennero abolite, il governo dovette creare la prima emittente ufficiale rivolta ai giovani, Radio One, arruolando doversi Dj tra quelli delle radio private. George Melly ha descritto con dovizia di dettagli la situazione della fine degli anni Cinquanta e dei primi Sessanta nella sua retrospettiva
Revolt Into Style. E’ un libro utile per osservare più da vicino la scena dei club della Swinging London, anche se, come nel caso di un altro volume sulla cultura giovanile degli anni Sessanta, Generation X, si rivela troppo cinico e distante. Resta comunque il fatto che per la prima volta si cercava di analizzare in maniera seria l’universo giovanile.
Nel 1966, dopo un paio d’anni necessari ad assimilare l’invasione musicale inglese – lanciata dai Beatles e seguita con facilità da molti altri grazie allo scoppio della beatlemania -, l’America iniziò a esportare i suoi gruppi e la sua scena in Gran Bretagna.
Insieme ai Byrds, ai Greatful Dead, ai Mother Of Invention, ai Jefferson Airplane e alle altre bands, arrivarono anche gli acidi, il misticismo, il free-thinking e il bohemianism. Amore e pace erano (e lo sono ancora) de sentimenti da ammirare… ma per essere indotti a farlo , che bisogno fottuto c’era delle droghe?
A paragone ai gruppi del fenomeno underground inglese, le bands americane facevano schifo. Non era altro che blues velocizzato e allungato con noiosi assoli di chitarra. Ad ogni modo, il centro della nuova cultura giovanile si spostò dallla londinese Carnaby Street alla Haight-Ashbury Area di San Francisco, in California, che, ancora oggi, è piena di freak degenerati che ti dicono “Peace and Love” e poi ti chiedono un paio di dollari per le loro ormai innocue abitudini allucinogene.
L’avvento della scena hippy, cresciuta nell’underground sin dal 1965, tendeva a polarizzare la moda e gli stili musicali; sembrava che esistessero soltanto il pop e la musica “seria”.
Nei giorni migliori i mods avevano già mostrato aspirazioni simili all’etilismo e il loro odio verso la commercializzazione, ma non in maniera così dogmatica come è accaduto alla scena underground, che ha addirittura voltato le spalle alla musica soul.
Un altro paragone può essere fatto a proposito delle campagne sensazionaliste della stampa che, come era già accaduto per i mods, descriveva come “luride” le abitudini sessuali degli hippy, scagliandosi contro il loro stile di vita. Il 1967 dopotutto segnava la prima Summer Of Love e tutto ciò che la circondava.
Il nucleo del movimento underground inglese, organizzato principalmente intorno agli studenti degli art college e ai semiattivisti della middle class, comprendeva bands come i primi Pink Floyd, i Soft Machine, la Jimi Hendrix Experience e i Cream. Hendrix ispirò e diede credibilità alle acconciature in stile “afro” (meriterà mai il perdono?). Gli eccessi e le stranezze del nuovo stile trovavano un mentore nel brillante Syd Barrett, chitarrista originale dei Pink Floyd e uomo dal look e dalla personalità bizzarra.
Un altro gruppo che testimoniava la superficialità ed insieme l’instabilità del periodo hippy era quello dei John’s Children, allora con Marc Bolan. I loro dischi parlavano di fiori, ragazze giovani e sesso: tutto molto decadente.
Io ho sempre visto lo stile del 1967 in parallelo con quello degli anni Venti: la nuova società edonista si muoveva in fretta. In effetti, sembra che tutti gli anni Sessanta fossero vissuti all’insegna di una velocità furiosa, con gli stili e i gusti musicali soggetti a cambiamenti rapidissimi.
Insomma, il mio interesse finisce qui.
Come mi d
issero una volta, ti serve solo osservare le foto dei Beatles dal ’63 al ’69 per prender nota di tutti i cambiamenti.
Nel ’63 i volti erano freschi, da giovani ottimisti. Nel ’67 le mentisi espandevano, da giovani uomini in cerca di conoscenza. Alla fine del decennio le espressioni erano più dure, da vecchi uomini disillusi. Io non provo pietà e neanche rispetto: ognuno fa la sua scelta.
Solo che oggi la condizione dei giovani sembra essere tornata al periodo precedente a quello del ’56, quando i kids erano “spazzati sotto lo zerbino”.
In realtà lo zerbino non c’era negli anni Sessanta, l’avevano solo mandato in lavanderia per un po’.
Parte della traduzione è presa dal sito http://getsmartroma.wordpress.com .