mercoledì, agosto 13, 2025

Paul Roland and his Rockin Teenage Combo live a Nibbiano (Piacenza) 12/08/2025

Paul Roland è cantautore, poeta, scrittore, saggista, consulente per la BBC sui fenomeni paranormali.
Ha alle spalle una discografia sterminata ed è in procinto di pubblicare un nuovo album.

Sulle colline piacentine, nella piazza di Nibbiano, ha dato sfoggio di grande e innata classe, accompagnato dal suo Rockin Teenage Combo (Annie Barbazza, Alex Canella, Christian Castelletti, questi ultimi due membri dei Tal Neunder che hanno aperto la serata, in sostituzione dei previsti Not Moving, con un personalissimo rock dalle forti tinte prog e un'anima pop).

Paul Roland si addentra in meandri rock, talvolta aspri, altre volte dai colori più fruibili, spazia in mille sfumature, dal pop, al prog, a influenze anni 70 e gotiche.
Il pubblico è numeroso e apprezza, il culto di un personaggio rimasto volutamente sempre in una dimensione molto personale, quasi "dietro le quinte", cresce ancora di più.

martedì, agosto 12, 2025

Slane Castle

L'amico MICHELE SAVINI prosegue la ricerca di elementi interessanti e particolari dell'Irlanda meno conosciuta.
Gli altri racconti sono qui:

https://tonyface.blogspot.com/search/label/The%20Auld%20Triangle%3A%20narrazioni%20dalla%20Repubblica%20d%27Irlanda

Oggi viaggiamo fino alla suggestiva County Meath, cuore pulsante della campagna irlandese, per scoprire uno dei luoghi più iconici e leggendari della musica dal vivo in Irlanda: Slane Castle. Situato nel villaggio di Slane, a poco più di un’ora da Dublino, ed elegantemente arroccato sulla cima di una collina sopra il fiume Boyne, questo castello (in gaelico Caisleán Bhaile Shláine) fu costruito alla fine del XVIII secolo dalla famiglia anglo-irlandese dei Conyngham, insediatasi in Irlanda poco più di un secolo prima.

La recente scomparsa di Lord Henry Conyngham, l’uomo che ha trasformato questa storica tenuta in un vero santuario della musica, offre l’occasione per celebrare la sua straordinaria visione e riflettere sull’eredità che ha lasciato.
Dopo una lunga battaglia contro un tumore polmonare, Lord Henry si è spento all’età di 74 anni, lasciando un’impronta indelebile nel panorama culturale e musicale irlandese. Principalmente conosciuto con il nome di Lord Mount Charles, assunse la gestione della tenuta di Slane nel 1976, a soli 25 anni, dopo essere tornato da Londra, dove lavorava per la casa editrice Faber & Faber.
In quel periodo ricevette una telefonata dal padre, Frederick, che gli comunicò che, a causa delle pesanti imposte fiscali, sarebbe stato costretto a lasciare Slane e vendere tutto, a meno che non fosse tornato per occuparsene. Decise così di rientrare in patria per salvare il patrimonio di famiglia, cercando nuovi modi per rendere la tenuta sostenibile.
Henry trasformò le stalle e gli annessi della tenuta in un ristorante e in un nightclub, prima di rivolgere la sua attenzione al grande campo adiacente al castello.
Notò infatti il dolce declivio del pendio verso il fiume Boyne e si rese conto che formava un vero e proprio anfiteatro naturale ideale per spettacoli all’aperto.
L’inclinazione del terreno permetteva non solo di creare posti a sedere senza bisogno di opere di sterro, ma anche di offrire una bellezza paesaggistica unica e un’acustica sorprendentemente efficace.
L’erba e la pendenza dolce assorbono e riflettono il suono in modo simile agli antichi anfiteatri di pietra, riducendo l’eco e garantendo una proiezione chiara fino alle ultime file
. Quando si rese conto che il luogo poteva ospitare circa 80.000 persone, il resto venne da sé.
(Philip Lynott dei Thin Lizzy sul palco di Slane nel 1981)

Il debutto fu il 16 agosto 1981, con la band dei Thin Lizzy come headliner e dei giovanissimi U2 come band di supporto.
L’esordio di Slane Castle come sede di concerti avvenne in un periodo turbolento, durante gli scioperi della fame nel pieno dei Troubles, quando le tenute anglo-irlandesi erano spesso nel mirino, e organizzare concerti rock in Irlanda implicava rischi non indifferenti.
Nel pieno dello sciopero della fame del 1981, Lord Henry ricevette minacce personali affinché annullasse l’evento, ma non fece marcia indietro, dichiarando con determinazione: «Costi quel che costi, lo spettacolo si farà».

Nonostante tutto, il concerto fu un successo.
Circa 18.000 persone parteciparono all’evento, contribuendo in modo decisivo al successo dell’iniziativa e alla salvaguardia del castello grazie ai proventi raccolti.

La definitiva consacrazione arrivò l’anno seguente, il 24 luglio 1982, quando i Rolling Stones trascinarono 70.000 persone nella Boyne Valley per la loro esibizione, trasformando Slane Castle in una tappa imprescindibile dei grandi tour internazionali.
Sul palco salirono infatti Bob Dylan (1984), Bruce Springsteen (che si dice abbia portato circa 100.000 spettatori nel 1985), Queen (1986) e David Bowie (1987), prima di fermarsi per qualche anno a causa di un incendio scoppiato nel 1991 che danneggiò gran parte della tenuta.
(Una folla di 70.000 persone al concerto dei Rolling Stones a Slane, luglio 1982)

Dopo un’assenza di cinque anni, la più lunga dall’inizio dell’evento nel 1981, Slane tornò nel 1992.
I cinque concerti degli anni ’90 ebbero come headliner Guns N’ Roses, Neil Young, R.E.M. (con gli Oasis come band di supporto), The Verve e Robbie Williams.
Negli anni 2000 Slane Castle consolidò la sua fama internazionale grazie a performance memorabili di grandi artisti, come i Red Hot Chili Peppers, che nel 2003 registrarono il celebre concerto poi pubblicato nell’edizione video Live at Slane Castle, e gli U2, tornati nel 2001 con un’esibizione iconica immortalata nel live U2 Go Home – Live from Slane Castle.
Proprio la band di Bono e The Edge è tra le più legate a Slane Castle: oltre alle esibizioni dal vivo, nel maggio del 1984 gli U2 vi si stabilirono per alcune settimane per registrare l’album The Unforgettable Fire. Per l’occasione, il salotto del castello fu trasformato in studio di registrazione e la sala da ballo venne utilizzata per girare alcune scene del videoclip di Pride.
(Bono durante l’esibizione degli U2 a Slane nel 2001)

Numerosi sono gli aneddoti leggendari che si raccontano sulle iconiche performance nella valle del Boyne.
Nel 1992, si dice che Axl Rose fosse ubriaco in un pub di Dublino e irrintracciabile, a pochi minuti dall’inizio del concerto, tanto che Lord Henry dovette organizzare un elicottero speciale per portarlo a Slane Castle, mentre Slash e gli altri membri della band si rilassavano pescando nel fiume dietro il palco.
David Bowie, nella sua unica esibizione a Slane nel 1987, arrivò sul palco con la disarmante tranquillità che lo caratterizzava.
Lo stesso Lord Henry raccontò in un’intervista a Hot Press
“Quando Bowie è salito sul palco a Slane, è stato come se tutto si fosse fermato per un attimo. Aveva quella presenza magnetica che ti cattura subito. Ricordo che eravamo nel backstage, seduti vicino al fiume Boyne chiacchierando, quando lui ha guardato l’orologio e mi ha detto: “Oh Henry, penso sia ora che io salga sul palco.” Si è alzato, ha attraversato con calma il ponticello sul fiume e con nonchalance è salito sul palco. Ho pensato solo: “È incredibile riuscire a essere così tranquilli e sicuri di sé.” Ma, d’altra parte, lui era un personaggio straordinario.»

(David Bowie, Slane Castle 1987)

Per chi fosse interessato, tutte le line-up complete dei concerti tenutisi a Slane Castle dal 1981 al 2019, inclusi gli eventuali gruppi di supporto, sono disponibili sul sito ufficiale del castello:
https://www.slanecastle.ie/concerts/1981-2019/

Oltre alla musica, Slane Castle ha ampliato la sua offerta culturale e imprenditoriale: nel 2015 la famiglia Conyngham ha aperto all’interno della tenuta la distilleria di whisky irlandese “Slane Irish Whiskey”, contribuendo a valorizzare la storia e il patrimonio della tenuta.
Con la scomparsa di Lord Henry, il futuro di Slane Castle, uno dei luoghi più emblematici della musica dal vivo irlandese, passa nelle mani del figlio Alex Conyngham, deciso a proseguire l’eredità del padre. Il nuovo padrone di casa ha confermato di essere al lavoro su un evento di grande portata per il 2026 e in contatto con diversi promoter e artisti, con l’obiettivo di far tornare la storica location all’aperto della contea di Meath al centro della scena rock internazionale.
La mia esperienza personale a Slane risale al 20 giugno 2009, quando sul leggendario palco della County Meath si esibirono gli Oasis, con l’album Dig Out Your Soul ancora fresco di stampa. Ad accompagnarli c’erano Prodigy e Kasabian.
(Il sottoscritto e il mio amico Emanuele a Slane 2009)

Quel giorno eravamo 90.000, come riportarono i giornali nei giorni successivi.
Ho ricordi frammentati dell’evento, momenti unici e irripetibili che custodisco gelosamente.
Ricordo il viaggio d’andata su autobus gremiti di fan (ognuno dei quali sembrava una copia di Liam Gallagher), la dolce camminata all’interno della tenuta, una buona mezz’ora di saliscendi tra le colline della Boyne Valley, prima che si aprisse davanti a noi lo spettacolo dell’anfiteatro naturale affacciato sul fiume.
La potenza travolgente dei Kasabian.
Gli occhi fuori dalle orbite di Keith Flint davanti a una folla ruggente.
Una giornata di sole fantastica e tutt’altro che scontata.
Le note di Fucking in the Bushes che annunciano l’ingresso degli Oasis, l’esplosione del pubblico, un concerto che diventa una maratona.
Le distorsioni ipnotiche di I Am The Walrus a chiudere il tutto con la folla completamente in estasi e la lunga attesa durata fino alle 6 del mattino in cerca del primo autobus per tornare a Dublino.
Quello che ignoravamo era che quella sarebbe stata l’ultima volta che avremmo visto gli Oasis dal vivo.
Solo 69 giorni dopo infatti, il 28 agosto 2009, Noel avrebbe ufficialmente annunciato la fine della band.
(La folla di Slane Castle durante il concerto degli Oasis, 20 Giugno 2009)

Lo stesso Noel Gallagher, in un’intervista alla rivista Hot Press, ha descritto così l’esperienza di suonare a Slane:
«L’adrenalina che ti dà quando esci su quel palco è incredibile. Hai davanti un anfiteatro di persone che impazziscono, un fiume alle tue spalle e una residenza signorile in stile Downton Abbey sulla cima della collina. Come fai a non dare il massimo quando ti trovi davanti a tutto questo?»

lunedì, agosto 11, 2025

Robyn Hitchcock - 1967. Come ci sono arrivato e perché non me ne sono più andato

Riprendo la recensione del libro di Robyn Hitchcock che ho recsnito nelle pagine de "Il Manifesto" lo scorso sabato.

L’artista inglese è sempre stato un discepolo fedele della breve epica e attitudine sonora di Syd Barrett che ha permeato la sua prima avventura con i Soft Boys e la successiva incarnazione solista.
Non stupisce quindi che questa sua autobiografia “1967” (edita da Hellnation Libri, tradotta da Carlo Bordone) ruoti pressoché esclusivamente intorno al fatidico 1967 e ai suoi quattordici anni, quando scoprì e si innamorò di Bob Dylan, la Incredible String Band e, inevitabilmente dei Beatles, in una sorta di sgangherato quanto fascinoso romanzo di formazione psichedelico.

I flash pre adolescenziali sono abbaglianti fotografie che abbiamo un po’ tutti vissuto:
“Non vedo l’ora che la mia voce si abbassi, che mi cresca una peluria rispettabile e di abbandonare finalmente lo scricchiolante reame della fanciullezza.”

Arrivano anche David Bowie e Jimi Hendrix:
“Sono un adolescente in fiamme, Cristo santo questa è musica che ti fa levitare”.
I vestiti diventano più audaci, i capelli si allungano. “Sto imparando che il barbiere è il nemico naturale della libertà”.

Anche se il periodo di transizione è ancora lungo e complesso “Una cultura in cui sono tutti maschi e le donne sono un’altra specie, esistono solo dietro a un vetro, come una Monna Lisa. Ci sono le persone e poi ci sono le femmine”.

Improvvisamente arrivano un giradischi e una chitarra e nulla sarà mai più come prima “Ho la mia chitarra e mio cugino, sia benedetto, mi presta uno di quegli oggetti che ti cambiano la vita: un giradischi a pile.”

Cambia anche il tanto agognato aspetto fisico “Sono alto un metro e ottanta e con un caschetto alla Beatles” ma anche una constatazione postuma illuminante, che in molti possono condividere: “Sono un adolescente e lo rimarrò per il resto della vita”.

Incomincia a suonare sopra ai tanto amati dischi dei nuovi idoli:
“Il mio istinto è suonare la chitarra molto prima di avere imparato a suonarla”.

Alla fine Robyn vivrà con la sua musica, girerà il mondo, inciderà eccellenti dischi, rilascerà interviste a quelle riviste che spulciava freneticamente da adolescente, seguendo quello “spirito del 1967” da cui è partito.

A parte tutto sono grato che l’orologio fermo del 1967 rintocchi ancora dentro di me. Mi ha dato un mestiere per la vita”.

Robyn Hitchcock
1967. Come ci sono arrivato e perché non me ne sono più andato.
Red Star Press/Hellnation libri
216 pagine
19 euro

venerdì, agosto 08, 2025

Giovanni Berengo Gardin


Ci ha lasciati a 94 anni il fotografo Giovanni Berengo Gardin.
Riprendo qui un post di 5 anni fa.


Uno dei più importanti fotografi italiani, nato nel 1930, ha collaborato con le maggiori testate nazionali e internazionali.
Paesaggi, vita quotidiana, attimi fuggenti, sono tra le principali caratteristiche di ciò che il suo occhio fotografico sa cogliere.

Berengo Gardin ha esposto in centinaia di mostre e pubblicato 250 libri fotografici.

Dovrei avere circa un milione e ottocento scatti.

Decine di mostre hanno celebrato il suo lavoro e la sua creatività in diverse parti del mondo, dal Museum of Modern Art di New York, alla George Eastman House di Rochester, alla Biblioteca Nazionale di Parigi.

Una foto modificata non è più una fotografia, è un’immagine. Photoshop andrebbe abolito per legge

L’importanza della fotografia è il documento, il racconto di un’immagine, di qualcosa che abbia un significato.
Non è fare un mazzo di fiori scimmiottando la pittura.
Io mi sento artigiano, mi piace lavorare con le mani.
La capacità del fotografo è quella di registrare il momento giusto.
Ed è qui che ci vuole un po’ di fortuna.

giovedì, agosto 07, 2025

Carol Kaye

Riprendo l'articolo che ho dedicato lo scorso sabato alla grandissima Carol Kaye nelle pagine di "Alias" de "Il Manifesto".

Il ruolo del session man è tra i più ingrati e oscuri nella storia della musica moderna.
Pur se spesso protagonisti e indispensabile tassello per dare a un brano o a un album il giusto e migliore profilo, il loro nome rimane il più delle volte nascosto nei crediti del disco.
E se negli ultimi anni è una figura che ha finalmente trovato dignità e maggiore visibilità, precedentemente era pressoché ignorato.

Non stupisce perciò che la figura della favolosa Carol Kaye sia rimasta così a lungo nel dimenticatoio. Ha compiuto da poco 90 anni e con il curriculum che si ritrova è doveroso tributarle il giusto omaggio. In una vecchia intervista sottolineava il ruolo comprimario dei session (wo)men:
A quei tempi ci accontentavamo di fare i turnisti.
Ci volevano coraggio, dolore e lacrime per diventare una star: all'epoca molti venivano trattati come carne da macello e ci vuole un talento speciale per salire sul palco ed essere degli intrattenitori. All'epoca non ci importava molto, semplicemente riscuotevamo i nostri soldi e tornavamo a casa dalle nostre famiglie, questo era ciò che contava per noi. Intorno al 1973, le case discografiche furono obbligate a mettere i nomi dei musicisti (soprattutto della sezione ritmica) sul retro degli album. A volte non otteniamo i meriti (e nemmeno i proventi derivanti dal riutilizzo) per le nostre opere, fa un po' male sapere che il pubblico viene ingannato e che il nostro lavoro viene semplicemente accantonato come "musicisti", cosa che succede da secoli.


Da quando ha incominciato la sua attività, nel 1957, ha suonato il basso e la chitarra in più di 10.000 dischi e con molte delle leggende del pop rock, spaziando tranquillamente da Frank Zappa (in “Freak Out”) a Frank Sinatra, dai Beach Boys ai Monkees, dalle colonne sonore di Quincy Jones, Henry Mancini e Lalo Schifrin fino a Stevie Wonder, Barbra Streisand, The Supremes, Simon & Garfunkel e in un'infinità di canzoni famosissime (These Boots Are For Walking di Nancy Sinatra a Time Is On My Side di Irma Thomas, Tainted Love di Gloria Jones, Do I Love You (Indeed I Do) di Frankie Wilson, l'inno Northern Soul per antonomasia, il famoso tema della serie televisiva Batman).
Non è un caso che perfino Paul McCartney ne abbia sottolineato l'influenza nel suo modo di suonare: “Pet Sounds” dei Beach Boys è stata la mia ispirazione per creare “Sgt. Pepper”. C'è un basso molto interessante, è sempre quasi fuori tempo. Se hai una canzone in Do maggiore, la prima nota di basso sarà normalmente un Do maggiore. Ma Carol Kaye suonava un Sol maggiore. Era comunque adatto, ma dava una sensazione completamente nuova.

E' sufficiente ascoltare il lavoro di Kaye nel classico “Good Vibrations” per capire quanto Sir Paul ne sia stato condizionato.
Carol ha sempre lavorato con un impeccabile aplomb, un distacco impensabile se consideriamo con chi ha suonato e interagito.
Non ho mai pensato a me stessa come una musicista donna ma semplicemente come una bassista e una chitarrista. Una nota non ha nulla a che fare con il sesso di chi la suona. O la suoni bene o non la suoni. Alcune persone non lo sopportano, soprattutto gli uomini. Vogliono vedere il basso come qualcosa di maschile, ma quando senti un basso suonato con le palle... quella sono io!

Con molta freddezza e lucidità riassume in poche parole il momento culminante della sua carriera (anni Sessanta e Settanta):
A un certo punto, negli anni Sessanta, le case discografiche provarono a usare direttamente i gruppi per registrare le loro canzoni.
Ma ci mettevano settimane per ottenere una buona registrazione e alla fine in molti non ci riuscivano. Le case discografiche ritrattarono e ci ricontattarono immediatamente. Di solito riuscivamo a incidere un album di successo in due sessioni (sei ore). Ho visto il nostro giro arricchirsi di musicisti che fumavano erba.
All'inizio, intorno al 1968-69, la cosa non ci preoccupava, ma negli anni '70 si vedeva la cocaina negli studi e ci volevano giorni per incidere le hit, persino i produttori facevano uso di droghe e insistevano che i musicisti in studio facessero lo stesso, durante le session, cosa che ci inorridiva. A quel tempo la maggior parte di noi se ne stava tranquillamente a registrare per film e programmi TV, non c'era droga in quegli studi.
Poi arrivarono i sintetizzatori verso la metà degli anni '70 e iniziarono a rubare il lavoro. Molti di noi tornarono a suonare dal vivo, ma ci mancano sicuramente gli anni '60.


La carriera di Carol Kaye inizia a 13 anni con l'acquisto di una chitarra acustica a cui si applica subito con grande dedizione, tanto che in breve tempo è già nel giro delle big band jazz sui palchi di Los Angeles. Quando incomincia a frequentare gli studi di registrazione intuisce che è meno faticoso e più remunerativo il ruolo di session woman piuttosto che quello di musicista live. Suona la chitarra in alcuni successi dell'epoca, tra cui il mitico “La Bamba” di Richie Valens. Nel 1963 passa casualmente al basso e ne diventa una maestra, incominciando ad alternarsi alla chitarra.

Entra nella cosiddetta Wrecking Crew il gruppo di turnisti più ricercato negli anni Sessanta e da questo momento non si contano le sue apparizioni in dischi di tutti i tipi.
Il nostro gruppo aveva un suono distintivo, suonavamo molto intensamente. Le nostre vite, quelle dei nostri figli e delle nostre famiglie dipendevano tutte da quel suono. Lo chiamavamo il suono "affamato" (hungry sound). Avevamo tutta la creatività, soprattutto i musicisti della sezione ritmica jazz, per creare arrangiamenti istantanei e strutture di canzoni per dischi di successo con riff, pattern, ogni sorta di idee che ci rimbalzavano in testa, sapevamo dove posizionare le parti, i cambi di tonalità, i break, i fill e i monotoni ritornelli di media frequenza, tutte cose che si fanno costantemente nel jazz, che è improvvisazione spontanea e costante.

Il rock incominciò ad evolversi velocemente a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, le band intrapresero altre strade, diventando artefici delle loro registrazioni e rendendo il lavoro del turnista sempre meno richiesto.
Con grande saggezza e spirito imprenditoriale Carol si dedicò allora alle colonne sonore, affiancando soprattutto Quincy Jones. Un incidente stradale nel 1976 la allontanò pressoché definitivamente dalla musica attiva, pur se continuò sporadicamente a incidere.
Avevo già iniziato a smettere agli inizi degli anni '70. Avevo già smesso quattro o cinque volte perché ero esausta dalle registrazioni. Poi ho iniziato a suonare jazz e ho sentito che mi piaceva di nuovo la musica. Se registravi, verso la fine degli anni '60, parte della musica non era granché e il tuo spirito iniziava a morire se non suonavi buona musica. Quando ho smesso, ho pensato di non volere più toccare lo strumento per il resto della mia vita! Successivamente ha fondato una casa editrice e incominciato a insegnare basso e chitarra via internet.

Il suo stile, spesso suonando le linee di basso in modo sincopato, usando il plettro invece delle dita, in modo da dare più potenza al suono, è diventato un marchio di fabbrica ben riconoscibile, portando in evidenza uno strumento per antonomasia ritmico e destinato al sottofondo.
Recentemente in un'intervista ha sottolineato quanto sia sorpresa del fatto che qualcuno si ricordi ancora di lei e che le abbiano tributato così tanto interesse, rimarcando:
Ammettiamolo: oggi non c'è molta buona musica. Abbiamo bisogno di più musica oggi. Sarebbe sicuramente d'aiuto per le condizioni del mondo!

mercoledì, agosto 06, 2025

Uncut - September 2025

Uscito il nuovo "UNCUT" con contenuti di grande interesse per gli amanti della "nostra" musica preferita.

Lunga intervista a PAUL WELLER in relazione al nuovo album (e un ricordo commosso di Rick Buckler) e un estratto dalla sua autobiografia "Paul Weller.Dancing Through The Fire (The Authorised Oral History)" in uscita l'11 settembre.
Altrettanto interessante quella a KEVIN ROWLAND (di cui è uscita l'autobio "Bless Me Father").
E ancora spazio a Brian Wilson, Oasis, Roy Harper.

Allegato un CD di Paul Weller, "Movin On". B Sides, Rarities and Deep Cuts" con 10 brani, tra strumentali, "Ballad of Jimmy McCabe" (tratta dalla colonna sonora del film "Jawbone"), la stupenda "Lawdy Rolla" dal nuovo album, qualche B side e remix.
Un regalo carino.

martedì, agosto 05, 2025

Karen Carpenter

Riprendo l'articolo che ho scritto sabato scorso per "Alias" inserto settimanale de "Il Manifesto", dedicato a KAREN CARPENTER.

E' una storia dimenticata, tragica, drammatica, soprattutto molto triste.
Che nasce durante un periodo di enorme successo e prosperità economica. I fratelli Richard e Karen Carpenter sono i Carpenters, duo che dal 1969 al 1983 sbanca le classifiche, americane soprattutto, vendendo cento milioni di dischi, grazie a canzoni zuccherose e perbeniste in netto e antitetico contrasto con un mondo musicale che stava invece cambiando drasticamente, sperimentando, allargando orizzonti artistici, spostandosi verso limiti inimmaginabili.
Loro restavano invece ancorati a un pop leggero e innocuo, rassicurante e tranquillizzante (basti ascoltare la loro mielosa versione corale e angelica di Ticket To Ride dei Beatles). Furono invitati a cantare per Richard Nixon alla Casa Bianca, nel 1972, e definiti “la giovane America al suo meglio”.
Non quella che scendeva in piazza per protestare contro la guerra in Vietnam e nemmeno quell'altra che si batteva per acquisire i sacrosanti diritti di parità razziale.

Richard Carpenter era un bambino prodigio, un asso del pianoforte, a cui fu indirizzato fin da piccolo dai genitori che fecero di tutto per sostenerlo.
Divenne la star della casa, mettendo sostanzialmente in secondo piano il ruolo della sorella Karen (di tre anni più giovane). La famiglia decide di spostarsi dal Connecticut alla California per dare più opportunità a Richard di emergere.
"Molti amici dicevano che Karen si sentiva la seconda scelta in casa, che non riusciva a essere all'altezza di quello che faceva suo fratello."

La stessa Karen, per dargli una mano, decide di imparare a suonare la batteria, strumento decisamente inusuale per una donna ai tempi. E lo fa con tutta la passione adolescenziale, diventando una strumentista provetta, piena di gusto, tecnica ed energia (ci sono vari filmati su YouTube che ne testimoniano le indubbie capacità tecniche, con uno stile potente ma legato al drumming jazz alla gene Krupa ).

Il fratello fonda il Richard Carpenter Trio con cui suona pop jazz allegro e fruibile, invitando occasionalmente anche la sorella a cantare. Nel 1966 la porta con sé a un'audizione, Karen (non ancora sedicenne) (in)canta il proprietario dell'etichetta discografica, Joe Osborn, che la mette sotto contratto. La madre, incredula, costringe il produttore (riluttante e scocciato) a ingaggiare anche Richard.
L'etichetta durerà poco ma sarà l'embrione del successo imminente.
Il Trio, con Karen fissa alla voce, macina vittorie in vari concorsi ma viene abbandonato dal bassista, lasciando la band in due.

Cambiano nome in Carpenters, firmano per la major A&M e incidono il primo album Offering. I due suonano quasi tutti gli strumenti e pur muovendosi in un contesto esclusivamente pop assorbono anche numerose influenze jazz, folk e vocalmente liriche, assumendo fin da subito una personalità piuttosto distintiva. E' in questo periodo che si manifestano i primi disturbi psicologici di Karen.
Alta 1.62 e di 67 kili di peso decide di mettersi a dieta ferrea, perdendone in poco tempo dieci. Si accorge di loro niente meno che Burt Bacharach, che decide di iniziare a collaborare con il duo che per il secondo album Close To You sceglie tre sue composizioni, tra cui la title track che balzerà in testa alle classifiche americane.
E' l'inizio del grande successo.
E dell'acuirsi dei problemi di Karen, più a suo agio dietro la batteria che come protagonista vocale in primo piano. Non era sicura di essere abbastanza snella e gradevole, di essere adatta di fronte a tutto quel pubblico, sempre più adorante.
Intensifica le diete, riduce l'assunzione di cibo. La madre Agnes è sempre più invadente, decisa a far valere il ruolo del figlio Richard, ormai offuscato dalla presenza di Karen che riceve sempre più attenzione.

Questo venefico connubio tra un successo che la mette a disagio e una presenza ossessiva nella sua vita, aumenta la pressione psicologica sulla cantante che si butta a capofitto nella riduzione di peso, suscitando la progressiva preoccupazione di Richard e degli amici.
In poco tempo arriva a pesare solo 50 kili.
Fu solo a seguito della pubblicazione di un libro di medicina che affrontava per la prima volta la patologia della “anoressia nervosa” che si incominciò a parlarne e ad associarla all'aspetto di Karen, sempre più deperito e preoccupante.
Anche il fratello non se la passava bene. L'assunzione di tranquillanti per potere riposare meglio durante i tour si trasformò in grave dipendenza.
Saltavano i concerti e nel frattempo calavano le vendite e l'interesse per il gruppo. Erano arrivati gli anni di punk e new wave e per un duo così sdolcinato lo spazio era sempre minore.
Richard decise di prendersi un anno di pausa e ripulirsi, Karen provo la strada solista ma il disco alla fine fu rifiutato dalla casa discografica, evento che la fece precipitare ancora più nell'abisso. Anche a causa di un affrettato matrimonio con Tom Burris, dieci anni più vecchio di lei e già sposato, con conseguente frettoloso divorzio per potere salire all'altare.
Poco prima del matrimonio scoprì che il futuro marito si era sottoposto a vasectomia e che di conseguenza il suo grande desiderio di potere avere figli non poteva essere appagato. Né ormai si poteva annullare la cerimonia.
La coppia durò non più di un anno: il marito, presentatosi ricco, era in realtà finanziariamente messo male, irascibile, lontano da tutto ciò che Karen aveva desiderato e immaginato.

I Carpenters ritornano insieme nel 1981 ma la cantante è ormai arrivata un punto di non ritorno.
Pesa 35 kili, non si regge in piedi, ha continui giramenti di testa. Non basta un ricovero in ospedale che la rimette un po' in sesto, anche il suo cuore è compromesso.

Il 4 febbraio 1983 la madre la scopre morta in casa.

Ufficialmente per "cardiotossicità da emetina dovuta o conseguenza di anoressia nervosa". Karen aveva solo 32 anni. Il biografo della band Randy Schmidt ha fotografato al meglio la dinamica della sua triste storia:
“Conoscevo la famiglia quando Karen era ancora viva. Nessuno voleva ammettere che potesse trattarsi di un problema psicologico. Sembrava che la famiglia lo vedesse semplicemente come una dieta ostinata. La soluzione, nella loro mente, era che avesse solo bisogno di mangiare. Non volevano andare oltre e indagare su quale potesse essere la causa di fondo di alcuni dei suoi problemi. Anche quando si impegnò in terapia nel 1982, l'anno prima di morire, non le furono di grande supporto. Non davano molta importanza alla psichiatria, il che è un peccato perché era lei che si sforzava di guarire.”

La band rimase sempre nell'immaginario del pubblico e della critica come espressione della banalità pop e rappresentazione dell'America più tradizionale e pulita, diventando un simbolo da sbeffeggiare e non considerare artisticamente.

Richard Carpenter dopo la morte di Karen ha inciso pochissimo e continuato solo saltuariamente nel mondo musicale.
Nel 1994 una serie di band del giro alternativo americano realizzò un album tributo ai Carpenters con la partecipazione di nomi come Sonic Youth (che già quattro anni prima in “Goo” avevano dedicato alla cantante il brano Tunic,song for Karen), Cranberries, Red Kross, Sheryl Crow. Un progetto che ha fatto parte di una progressiva rivalutazione della figura di Karen e della band come ha ben riassunto sempre il biografo Schmidt:
"Che apprezzino o meno la musica dei Carpenters o che siano appassionati del loro sound c'è stata una riscoperta del talento di Karen.
Il fatto che cantasse canzoni d'amore degli anni '70 è eclissato dalla constatazione che sia stata una delle più grandi voci di tutti i tempi. Credo che la gente stia iniziando a riconoscere che aveva una di quelle voci alla pari di Ella Fitzgerald, Frank Sinatra e Judy Garland, quelle voci immediatamente riconoscibili che la gente sente alla radio per due secondi e si capisce subito di chi si tratta. È legata a un ricordo o a un evento della vita di qualcuno.
È semplicemente una di quelle voci che capitano una volta nella vita.


Assolo di batteria (e splendida voce solista) in "Dancing in the street" (1968).
https://www.youtube.com/watch?v=o82d9T4D-8I

lunedì, agosto 04, 2025

Cose varie

Qualche cosa sparsa:

Parlo di "Find El Dorado" di Paul Weller in GoodMorning Genova
https://www.facebook.com/goodmorninggenova/videos/1094539122631664

e RadioCoop
https://www.facebook.com/RadiocoopTV/videos/1238009167639494

Nelle pagine di PiacenzaSera un reportage sul festival "La Piva Folk" a Pradovera di Farini (Piacenza)
https://www.piacenzasera.it/2025/08/i-confini-musicali-si-abbattono-la-piva-folk-notte-magica-a-pradovera/604914/

giovedì, luglio 31, 2025

Luglio 2025. Il meglio.

Passata la a metà del 2025: tra i migliori album quelli di Little Simz, Bob Mould, Big Special, Kae Tempest, Sam Akpro, Freedom Affair, Southern Avenue, Little Barrie & Malcolm Catto, Paul Weller, Ty Segall, Suzanne Vega, The Loft, Sunny War, The War and Treaty, Ringo Starr, Iggy Pop, Cymande, Lambrini Girls, De Wolff, PP Arnold, Altons, Delines, Gyasi, M Ross Perkins.
Ottime cose dall'Italia con Casino Royale, Simona Norato, Neoprimitivi, Calibro 35, Cesare Basile, The Lings, Putan Club, Cristiano Godano, I Cani, Billy Boy e la sua Band, Megain Is Missing, Laura Agnusdei, Elisa Zoot, Roberta Gulisano, Angela Baraldi, Flavia Ferretti, Rosalba Guastella.

PAUL WELLER - Find El Dorado
"Sono canzoni che porto con me da anni. Hanno assunto nuove forme nel tempo. E ora mi è sembrato il momento di condividerle."
(Paul Weller)
Paul Weller ha sempre avuto una particolare predilezione per le cover di cui ha infarcito il suo repertorio, molto spesso nelle B sides dei 45 giri o nelle bonus tracks dei dischi.
Abitualmente le sue reinterpretazioni (tra Jam, Style Council, carriera solista, collaborazioni esterne) sono sempre state piuttosto fedeli agli originali.
Aveva già dedicato l'album "Studio 150" a una serie di brani preferiti, nel 20024, ma con risultati non esaltanti.
Ci riprova ora con 15 canzoni particolarmente oscure, spesso sorprendenti, fin da far sembrare l'album come un lavoro di inediti.
Il mood generale è acustico, con predilezione per folk inglese e irlandese con qualche digressione blues e soul.
Anche in questo caso le reinterpretazioni sono abbastanza fedeli, eseguite sempre con estrema passione e intensità.
Si parte con la ballata blues Handsout In The Rain di Richie Havens, tratta dal suo album del 2002 "Wishing Well", in una versione piuttosto simile.
Più veloce e ritmata dell'originale, con una sezione fiati finale che rende questa altra ballata semiacustica più funk è "Small Talk Town" del cantautore americano Bobby Charles, composta con Rick Danko della band e uscito nel 1972. Molto gradevole.
Ancora una ballata acustica con una leggera orchestrazione e piccoli tocchi in fase di arrangiamento.
Alla chitarra c'è Noel Gallagher per rifare "El Dorado" di Eamon Friel scritta originariamente per il film del 1986 ‘The Best Man’ di Joe Mahon con Seamus Ball.
La rielaborazione è più complessa della ballata scarna e minimale dell'autore Nord Irlandese.
Si torna al 1971 con un country rock dal ritmo sostenuto, dal terzo album dei Flying Burrito Brothers dell'ex Byrds Chris Hillman.
"White Line Fever" è un brano composto e inciso nel 1969 dal re del country Merle Haggard. Il brano suona molto bene, pure inusuale nel repertorio di Weller, molto ispirato nel riproporlo.
'One Last Cold Kiss' scritto da Gail Collins e l'ex Mountain Felix Pappalardi era nell'album "Traveller" del 1999 di Christy Moore in chiave folk con insert elettronici e un'atmosfera molto cupa. Qui prende le sembianze di un traditional folk irlandese, affiancato dalla voce della cantautrice Amelia Coburn.
Molto bello.
Poco significativa "When You are a King" del 1971, dei White Plains, piuttosto melliflua e superflua, con archi e chitarra acustica.
Perfettamente nelle corde Welleriane la successiva "Pinball" del musicista e attore Brian Protheroe, singolo del 1974 che potrebbe tranquillamente trovarsi su un qualsiasi album di Paul del primo periodo solista.
Willie Griffin, soul man Texano ha lasciato, nel 1984, il singolo "Where There’s Smoke, There’s Fire" , brano piuttosto debole nella versione origianale, a cui Weller restituisce verve, ritmo, energia, un pulsante groove quasi Northern Soul. Operazione riuscita.
La ballata mielosa "I Started a Joke" dei Bee Gees, tratta dal loro album "Idea" del 1968, viene inondata ancora di più da una cascata di melassa con archi, piano e chitarra acustica. Evitabile. Tanto quanto la successiva "Never The Same" di Lal and Mike Waterson. Debole nell'originale, poco significativa in questo nuovo arrangiamento.
Arriva per fortuna il top dell'album, una favolosa e spettacolare versione di "Lawdy Rolla" pubblicata dai francesi Guerrillas (che si avvalsero della collaborazione del sax di Manu Dibango).
"Nobody's Fool" è firmata da Ray Davies ma non fu mai incisa dai Kinks. una serie della ITV. Sigla della seconda stagione di una serie televisiva venne accreditato ai Cold Turkey. Si sente la mano di Ray e quanto Weller sia in grado di prenderne l'eredità. Uno dei vertici dell'album.
"Journey" è un buon brano di folk rock di Duncan Browne del 1970, reso in chiave più sostenuta e souleggiante. Non male.
Il brano più recente è di cinque anni fa, inciso da P.P.Arnold, "Daltry Street", scritto da Jake Flecther che fu anche chitarrista con gli Specials. Carina l'interpretazione Welleriana ma nulla di indimenticabile.
Scritta dal membro dell'Incredible String Band, Clive Palmer per il folk singer scozzese Hamish Imlach "Clive's Song" chiude al meglio l'album, in duetto con Robert Plant. Folk blues della migliore qualità.
Come ci ha abituati da molto tempo, gli ultimi suoi album non lasciano tracce indelebili (soprattutto in questo contesto di sole cover) ma sono sempre di ottima qualità. Non resterà nei vertici della sua produzione.

BIG SPECIAL - National Average
Il duo inglese fa di nuovo centro con un secondo album muscolare in cui il post punk si mischia a hip hop alla Sleaford Mods e Beastie Boys, blues, un gospel bastardizzato, funk, assalti punk, drammatiche ballate dai toni apocalittici. Notevole, grande band.

KAE TEMPEST - Self Titled
KAE TEMPEST ha concluso la sua transizione ed è diventatO ciò che ha sempre desiderato.
Si racconta e ne parla nel nuovo "Self Titled", che vaga tra elettronica, hip hop, rap ma con anche una buona e fresca dose di pop "contaminato".
A dare una mano, di spessore, Neil Tennant, Young Fathers, Connie Constance, Tawiah.
"Statue in the square" rimane il punto più alto, "Hyperdistillation" si ammanta di funk, "Sunshine on catford" di volute nu soul.
Una presenza indispensabile nella musica odierna.

BONNIE DOBSON & the HANGING STARS - Dreams
Gli Hanging Stars sono una band inglese innamorata di certa psichedelia di gusto Byrdsiano e dintorni (molto genericamente), Bonnie Dobson è l'autrice di "Morning Dew", classico folk-rock dei Sixties.
La cosa stupefacente è che lei ha 85 anni, una voce ancora pulitissima, suadente, lirica, che ricorda Grace Slick).
Un disco che riconcilia con la bellezza della vita, under difficult circumstances...
Bello ma tanto.

PULP - More
I Pulp fanno i Pulp e ci riescono bene in questo nuovo lavoro a 24 anni dal precedente. Niente di eclatante ma un buon album con i consueti echi di Bowie, post wave, soul disco, Roxy Music.

THE CANDYDATES - Vol.1
Il secondo ep della band livornese è un eccellente, purtroppo breve, viaggio in atmosfere di sapore psichedelico Byrdsiano ("Favourite Day" in particolare) che non disdegna sguardi al rock blues acido tardi anni Sessanta e al folk rock inglese. Tre brani che ricordano i loro quasi conterranei Steeplejack di Maurizio Curadi e che ci riempiono di aspettative per un album che si prevede di superba qualità.

THE FIRECRACKER - Not Your City
La band bolognese firma il terzo album, caratterizzato dal consueto amore per il rock 'n' roll più ruvido che affonda le radici nei primi vagiti di quello che di lì a poco sarà detto punk ovvero Stooges, Mc5, New York Dolls. Ma ci sono anche quel tiro speciale e le contaminazioni che hanno dato al genere band come Hellacopters o Hives. I sette brani funzionano alla perfezione, serrati, distorti, aggressivi, suonati benissimo e con la corretta attitudine.

P.P. ARNOLD - The Immediate Sessions
Una voce strepitosa che avrebbe meritato maggiore successo e considerazione. Esce ora questa raccolta di demo inediti(prodotti da Mick Jagger e Mike Hurst), registrati nel 1966. Qualità altissima, soul, gospel, brani perfetti per un dancefloor northern soul e un gusto beat ad avvolgere il tutto. L'ex Ikette splende per qualità vocale e interpretativa. Album bello e prezioso.

SLY AND THE FAMILY STONE - The First Family= Live At The Winchester Cathedral 1967
Formata da poco, fu la resident band dal 16 dicembre 1966 al 28 aprile 1967 al "The Winchester Cathedral" a Redwood City, California.
(E' così che si impara a suonare...non con un concerto al mese).
E' la prima incarnazione del collettivo, che suona tutte cover, a parte "I Ain't Got Nobody", di soul, blues e rhythm and blues ma in cui si intravede già chiara la futura direzione artistica, verso la contaminazione (soprattutto ritmica) e l'ecletticità.
L'embrione di quella che sarà una magnifica, inarrivabile e mai superata creatura, un paio di anni prima la definitiva esplosione.
Qualità della registrazione appena sufficiente ma per i cultori di Sly va più che bene.

AA. VV. - Love Train – The Gamble & Huff Songbook
Kenny Gamble e Leon Huff, dopo un inizio come artisti, si dedicarono a scrivere e a produrre brani per altri, lavorando per la Columbia, l'Atlantic e fondando nel 1971 la Philadelphia International Records con cui arrivarono a parecchi successi con brani per gli O'Jays, per Harold Melvin and the Blue Notes e Billy Paul, introducendo elementi come ricchi arrangiamenti di archi e ritmiche pulsanti e ballabili che ne fecero brani dalle caratteristiche proto disco music.
Agli inizi degli anni Settanta molte loro canzoni si riempirono di tematiche socialmente impegnate a favore dei diritti degli afroamericani.
La coppia ha scritto nella carriera oltre 3.000 canzoni.
In questa compilation ci sono 24 splendidi brani tra cui "Love In Them There Hills" come dei The Vibrations, "Expressway To Your Heart" by Margo Thunder, "Lost" di Jerry Butler,, "Hey Western Union Man" by Bobby Rush, "Love Train" delle Supremes, "Together" di Gladys Knight & The Pips, "Ain't No Doubt About It" di Wilson Pickett, "Don't Leave Me This Way" di Harold Melvin & The Blue Notes.
Colonna sonora PERFETTA!

AA.VV. - Ritmo Italiano – Unspoken Sounds Of Italian Tamburo
Interessante compilation curata dal polistrumentista, percussionista e produttore sardo Gabriele Poso, dedicata a una selezione di brani in cui il ruolo del percussionista è in primo piano, attraversando vari generi musicali dagli anni '60 ai primi anni '90. Suoni mediterranei che attingono anche dalla tradizione mediorientale e da quella latino americana. Si parla spesso un linguaggio fusion jazz funk con personaggi di primo piano come Tony Esposito, Tullio De Piscopo, Agostino Marangolo, si scava in quella più afro con Naco e Tony Cercola, nel modern funk di Gegè Munari e il gustosissimo samba napoletano di Don Marino Barreto Junior con "Napolitano d'o Brazil". Molto godibile.

https://gabrieleposo.bandcamp.com/album/gabriele-poso-presents-ritmo-italiano-unspoken-sounds-of-italian-tamburo

ASCOLTATO ANCHE:
GEORGIE SWEET (mellow soul avvolgente molto carino pu se risaputo e prevedibile), THE JADE (discreta soul disco da sottofondo), BLONDE REDHEAD (remix orchestrale di brani del precedente album. Operazione riuscita), WET LEG (pop alt rock anonimo),

LETTO

Lou Reed - Il mio Tai Chi
LOU REED è stato uno dei più grandi artisti del Novecento in ambito "pop/rock".
Ha sperimentato, osato, esplorato.
Dai Velvet Underground alla carriera solista ha lasciato un'ingente serie di capolavori e opere comunque abbondantemente al di sopra della media qualitativa.
Approfondire la sua figura è sempre interessante, anche quando si affronta un contesto poco noto della sua vita, come l'adesione alla pratica del TAI CHI, che lo ha aiutato fisicamente e spiritualmente, per molto tempo, fino agli ultimi istanti della sua vita.
Questo libro è curioso e particolare, entra nell'intimo del grande artista, sempre molto riservato e scontroso.
Che parte dall'idea di Lou di scrivere un libro sull'arte marziale, interrotta dalla malattia e dalla sua umiltà:
"Chi sono io per scrivere un libro sul Tai Chi"?
Ci sono decine di testimonianze.
Oltre alla moglie Laurie Anderson, intervengono amici, collaboratori, Iggy Pop, Bob Ezrin, Anohni, i suoi maestri della disciplina, Mick Rock, la seconda moglie Sylvia Reed e tanti altri.
L'intervento più emozionante e inaspettato è di Jonathan Richman:
"Avrò visto i Velvet Underground tra le sessanta e le cento volte.
Avevo sedici anni e per me era una questione di vita o di morte.
Erano tutti gentili con me.
Dopo un po' Lou mi permise perfino di suonare le sue chitarre elettriche durante le prove e ascoltare i suoni.
Guardavo le loro mani. Li guardavo suonare la chitarra durante le prove. Li guardavo sul palco.
Ho imparato a improvvisare da loro.
Li guardavo comporre canzoni.
Li guardavo nei soundcheck. Nel 1968 fare un soundcheck significava che la band si assicurava che tutto funzionasse, più o meno."
Un testo che i fan di Lou Reed apprezzeranno per aggiungere un ulteriore tassello all'approfondimento dell'uomo, al di là dell'artista ma molt ogradevole anche per i lettori "occasionali".
E particolarmente propedeutico per indirizzare alla pratica del Tai Chi.

Roberto Calabrò - Eighties Colours. Garage beat e psichedelia nell’Italia degli anni Ottanta
Originariamente pubblicate nel 2010 in confezione lussuosa e curatissima per Coniglio Editore, le 1.200 copie di "Eighties Colours" andarono velocemente esaurite, anche grazie a una serie di presentazioni ed eventi affollatissimi e di prestigio.
Un libro che parla(va) con dovizia di particolari e stupende foto, dell'esplosione di colori garage/beat/psichedelici nell'Italia di metà anni Ottanta.
Da allora è praticamente irreperibile se non a prezzi sostenuti.
Ben venga dunque la ristampa, seppure in formato più "povero" ed essenziale, con l'aggiunta di un prezioso capitolo che rendiconta ciò che è successo a molti dei gruppi protagonisti nel nuovo secolo, molti dei quali hanno ripreso vita con lo stesso marchio di fabbrica o con nuove iniziative.
E infine la discografia aggiornata.
Per chi ha amato Not Moving, Sick Rose, Party Kidz, Out Of Time, Effervescent Elephants, Avvoltoi, Sciacalli, Ugly Things ma anche Statuto, Four By Art, Peter Sellers & the Hollywood Party, Allison Run, Technicolour Dream etc e non ha in libreria la prima edizione, un acquisto fondamentale e necessario.

Aldo Pedron / Angelo De Negri - LIVE AID. Il juke-box globale compie 40 anni
A quarant'anni dal mitico evento, questo libro ne traccia con maniacale precisione tutti gli aspetti.
Molto interessante la contestualizzazione del periodo storico, sociale, artistico e il riassunto a tutti i precedenti grandi festival.
Poi è un profluvio di dettagli, aspetti poco conosciuti, l'azzardo di Bob Gedolf quando annuncia una serie di nomi partecipanti senza nemmeno averli contattati, paul Mccartney che da tempo non suona, dopo la morte di John, accetta solo per la pressione dei figli, il lancio che aveva dato il singolo collettivo "Do They Know It's Christmas Time", seguito da "Usa for Africa" e da una lunga serie di altri brani, al fine di raccogliere fondi per la carestia nel Corno d'Africa.
L'evento si svolse in alternanza tra Londra a Wembley e lo stadio JFK a Philadelphia, in mondovisione.
Infine il dettaglio di tutte le esibizioni, con scaletta, commenti, dichiarazioni dei protagonisti.
Nomi, tra i tanti, come David Bowie, U2, Style Council, Queen, Dire Straits, Who (riuniti per l'occasione), Elton John, Paul McCartney (con solo "Let it be") accompagnato alla voce da Pete Townshend, David Bowie, Bob Gedolf, Alison Moyet.
Dagli States rispondono con Run DMC, Black Sabbath, Joan Baez, Crosby, Stills and Nash, Beach Boys, Pretenders, Simple Minds, Santana, Madonna, Neil Young, Eric Clapton, Phil Collins (Dieci ore dopo essersi esibito al Wembley Stadium di Londra, arriva negli Stati Uniti con l’aereo supersonico Concorde si esibisce al JFK Stadium di Filadelfia, lo stesso giorno), Plant, Page, Jones con Phil Collins (in un'esibizione imbarazzante), Crosby, Stills, Nash & Young (dopo essersi già esibiti separatamente), Mick Jagger solo e con Tina Turner, Bob Dylan con Keith Richards e Ron Wood.
Il libro si completa con una lunga serie di ulteriori approfondimenti, aneddoti, dati e date.
Difficile trovare qualcosa di più esaustivo.

Roger Marriott - East of Acton
Tradotto in italiano dalla Associazione Culturale Tumulto, stampato in 100 copie, arriva il romanzo di Roger Marriott, ambientato nella scena mod londinese dei primni anni 80, a fianco della quale si svolge una vicenda in cui il protagonista si muove tra storie estreme di violenza, droga e alcolismo, mantenendo però un look impeccabile e l'amore sconfinato per la musica preferita (dai Jam ai Purple Hearts).
Libro divertente e frizzante, si legge tutto in un fiato, ricco di riferimenti colti e azzeccati all'ambiente dei tempi.
Lettura estiva ideale.

CONCERTI

The Who a Milano - Parco della Musica 22 luglio 2025
Grazie al provvidenziale accredito arrivato in extremis da CLASSIC ROCK, la rivista a cui mi pregio di collaborare fin dal primo numero (ora siamo alle soglie dei 150...), posso rivedere gli amati WHO, in quel di Milano (a cui avevo rinunciato per questioni di caro biglietto, dai 103 ai 126 euro i più accessibili e per la decisione di evitare come la peste i "grandi concerti").
La recensione del concerto la leggerete nel numero di settembre.
Qui riporto una cronaca meno "tecnica" e più emozionale.

Il Parco della Musica a Novegro è facilmente raggiungibile, parcheggio a fianco del palco (5 minuti a piedi, anche meno) a 10 euro, parco alberato, atrmosfera easy, struttura buona per concerti di questo livello (nonostante ogni due minuti ti passi sopra un aereo decollato dall'aeroporto di Linate).

I prezzi del ristoro sono al solito indecenti ma ogni dubbio se morire assetato (ieri faceva quell'adorabile caldo padano di fine luglio) o cedere ai 7.60 euro di una media e ai 12 di un panino striminzito viene fugato dalla impossibilità di pagare in contanti ma solo con una carta di credito (che per scelta non uso).
Rimedio attraversando la strada e dissetandoni con una Moretti ghiacciata presa da un paki a 4.50.

Mi aspettavo la Fiera della Terza Età (che ovviamente non manca) e invece tanti giovani, da adolescenti fino ai 40 anni.
Un bel numero di stranieri (da svizzeri e francesi, molti inglesi e giapponesi).
Le shirts, a parte, ovviamente, quelle degli Who, di ogni foggia e provenienza, sono di matrice "hard" e classic Rock: Led Zeppelin, Stones, Guns n Roses, Black Sabbath, Pink Floyd.
Avvistate anche due Jethro Tull, un Van Der Graaf Generator, un Glenn Hughes (bassista di Deep Purple e Black Sabbath) e un Pino Scotto.

Il merchandising è orrendo (una maglietta degli Who con vari simboli dell'Italia, inguardabile, poster e manifesti a 30/40 euro).

All'imbrunire nugoli di zanzare fanno strage del plasma del discretamente folto pubblico e solo un provvidenziale venticello ci risparmia dal dissanguamento.
Si incontrano varie facce e amicizie, il clima è tranquillo e piacevole.

Alle 22 partono gli WHO.
Doveroso omaggio a Ozzy all'inizio.
Li ascolto letteralmente da 50 anni.
Sono stati i primi ad aprire il mio cuore rock, insieme ai Beatles.
Poi i Fab Four sono decollati in un'altra galassia e gli Who sono diventati il mio gruppo preferito di sempre (i Beatles non sono un gruppo musicale ma un'entità artistica tra le più importanti, dal Novecento in poi).
Per cui ogni brano, qualunque sia, è un pezzo di anima, di carne, di sangue, di cuore.
A ogni loro canzone associo un momento della mia vita, dall'adolescenza all'età matura.
Non mi sembra nemmeno una band, ma vecchi amici o padri che mi dicono le stesse cose da 50 anni.
Non riesco davvero a vederli come una rock band.
Tanto più quando incespicano in qualche brano, sbagliano un'entrata o un cambio di accordi.
E' tutto così reale e "nostro".

Ancora in rodaggio (le date italiane sono il preludio al tour Usa) suonano sporchi e duri, il nuovo batterista Scott Devours, sostituto dell'appena licenziato Zak Starkey è eccellente, perfetto per la band.
Roger ha ancora una voce spaventosa, sempre più blues, Pete usa la chitarra sia in modo irruente e devastante che, quando occorre, in chiave jazzata.

I venti brani scorrono velocemente, lungo due ore, passando dai 60's di "Can't explain" e "Substitute" alla triade "Tommy", "Who's Next", "Quadrophenia" che si prende oltre la metà del repertorio e qualche hit come "Who Are You" e "You Better You Bet" o brano "dimenticato" come "Love Ain't For Keeping" e "Eminence Front".
Niente dagli ultimi "Endless Wire" e "Who", neanche da "By Numbers", "Sell Out", "A Quick One".
In conclusione: semplicemente stupendi.
La prossima volta (perché, checché ne dicano, sono sicuro che ci sarà una prossima volta) torno a vederli.

Oasis live a Manchester, Heaton Park 19 luglio 2025
L'amico FEDERICO MARTELLI (autore del libro "Beatles Everyday") ci porta al concerto del 19 luglio degli OASIS a Manchester.
Data la mia età forse sarò un po' di parte, è inevitabile.
Ma quello che ho avuto l'occasione e la fortuna di vedere dal vivo sabato 19 Luglio 2025 è stato senza dubbio uno dei concerti migliori della mia vita, sicuramente finora ma probabilmente anche considerando tutti quelli che verranno.
Gli Oasis sono da sempre la mia seconda band preferita (dietro ai Beatles, i quali però sarebbero quasi da considerare fuori classifica), e considerando che si sciolsero quando io avevo tre anni, fino all'annuncio di questa reunion avevo solo potuto sognare come sarebbe stato assistere ad un loro concerto live.
Annuncio che, quando è arrivato, sembrava ormai anche parecchio difficile da considerare realtà.
Invece non solo era tutto vero, ma lottando un po' nella prevendita riuscii anche a comprare quattro biglietti per il sottoscritto e tre miei amici, che undici mesi dopo ci avrebbero regalato una serata sensazionale.
La location, Heaton Park di Manchester (uno dei parchi più grandi d'Europa, magistralmente organizzato ed attrezzato per l'occasione) ha aggiunto un'atmosfera splendida al tutto: i numerosi fumogeni all'aria aperta, l'alternanza luce-tramonto-buio e lo spettacolo pirotecnico a concerto terminato sono stati tutti elementi da non sottovalutare.
Vederli a casa loro, inoltre, ci ha permesso di unirci ad un pubblico che sul palco non vedeva solo degli idoli, ma prima di tutto dei concittadini provenienti (prevalentemente) dalla stessa classe sociale, degli amici che ce l'avevano fatta.
Non c'è stata una canzone che non abbia ricevuto un significativo aiuto ed un'amplificazione di entusiasmo da parte degli 80.000 fortunati presenti.
Il nostro biglietto era per così dire il più "povero", quello della General Admission.
Tuttavia, entrando presto (verso le 14:30, quasi sei ore prima che iniziasse il concerto vero e proprio) siamo riusciti a posizionarci piuttosto vicini e a godere di una visuale perfetta. L'enorme palco, tra l'altro, è stato messo nella parte leggermente più bassa del parco, permettendo alle piccole colline di fungere sostanzialmente da spalti per garantire a tutti una visibilità per quanto possibile buona, nonostante la profondissima marea di persone che si era già creata a un'oretta dal nostro arrivo.
Altra menzione va fatta a vantaggio dei "Guest".
I Cast li avevo già visti nel 2022 a Liverpool, davanti a circa 5.000 persone, giusto un po' meno rispetto a stavolta.
Nulla di troppo eccezionale, ma hanno riscaldato per bene l'atmosfera con circa mezz'ora di sound puntando molto sui loro brani migliori, come Walkaway e Alright.
Favoloso poi, praticamente subito dopo, Richard Ashcroft.
Quaranta abbondanti minuti di classe e carica emotiva perfetti per introdurre un macro-evento del genere.
Tra Sonnet, Lucky Man e Bitter Sweet Symphony già si scorgevano delle lacrime in mezzo al pubblico, non sarebbe un azzardo così grave dire che valesse già lui almeno un quarto del biglietto.
E poi, a grandi linee dalle 20:15 alle 22:40, è toccato ai protagonisti della serata: gli Oasis.
Come ho inizialmente detto sarò un po' di parte, ma sono completamente sincero e convinto quando affermo che non c'è stata una canzone delle 23 in scaletta a non avermi fatto venire la pelle d'oca. Dalla favolosa coreografia d'apertura con il sottofondo di Fuckin' In The Bushes e la cinematografica dicitura "This is not a drill" che si è estesa su tutti e tre i megaschermi presenti, lo scoppiettante inizio con Hello, Acquiesce e Morning Glory una dopo l'altra, passando per l'acustico "momento Noel" con Half The World Away, Talk Tonight e Little By Little, per poi concludere con le più poetiche Don't Look Back In Anger, Wonderwall e Champagne Supernova, i fratelli Gallagher hanno donato a tutti i presenti un'incredibile montagna russa di emozioni.
In mezzo al pubblico, tra sconosciuti, si urlava, si piangeva, ci si abbracciava, ci si esaltava insieme realizzando per la prima volta davvero ciò che era stato annunciato quasi un anno prima.
Il giorno dopo sembrava quasi un sogno, invece è stata proprio una notte indimenticabile.
È stato il primo concerto a cui ho assistito dove conoscevo i testi di tutte le canzoni della scaletta a memoria; il primo che sono andato a vedere senza adulti, per di più in un altro paese; e sono anche sicuro che averlo visto alla mia età, appena un mese dopo essermi diplomato, ha reso il tutto ancora più perfetto, quasi da film.
Di sicuro sugli Oasis si possono dire tante cose e i gusti musicali di molti si scontreranno con la loro offerta, ma sono dell'idea che l'importanza, per molti, di un evento del genere, costruito su un'attesa e delle promesse come quelle che ci sono state, sia indipendentemente da riconoscere.
Quanto a me, sono certo che ne passerà di tempo prima di avere la possibilità di rivivere delle emozioni simili ad un concerto.
Biblical.

Sharp Class + Temponauts live al Festival Beat, Salsomaggiore (Parma) 05/7/2025
Il Festival Beat è da ormai molto tempo essenzialmente il pretesto per ritrovare persone con cui abitualmente non si conversa faccia a faccia da almeno un anno.
Così è stato, almeno personalmente, anche questa volta.
La discussa modalità di due serate a disposizione in contemporanea ha comportato una scelta "dolorosa" ma per la quale avevo pochi dubbi: Sharp Class + Temponauts.
Più che una nota dolente, una constatazione ormai ricorrente da anni è che l'età media dei partecipanti è ormai più che alta ed è difficile scorgere tra il pubblico qualcuno/a sotto i 50 anni.
Aprono i TEMPONAUTS con il loro collaudato jingle jangle sound alla Byrds (di cui rifanno "Eight Miles High") con qualche asperità chitarristica in più.
Ospite l'amico Matt Purcell per alcuni brani, applausi e apprezzamenti.
Gli SHARP CLASS sono giovanissimi, freschi, arrembanti.
Con i primi Jam a fare da diretta ispirazione (ma abbracciando anche power pop, rock 'n' roll, soul, i primi Joe Jackson e Elvis Costello e i mai dimenticati Ordinary Boys), sparano un'ora tiratissima, precisi, conivolgenti, lasciando spazio anche a momenti di improvvisazione e una riuscitissima versione di "Gimme Some Lovin" arrangiata benissimo.
Ottimi musicisti, la voce del chitarrista Oliver Orton potente ed espressiva, il basso di Billy Woodfield metronomico, la batteria di Declan Mills esplosiva.
Perfetto mod look con gran finale con una "My Generation" travolgente.
Niente di nuovo?
E chi se ne importa?
Avercene 10, 100, 1000 di band così!

Enrico Ruggeri live a Castelsangiovanni (Piacenza) 8 luglio 2025
In una fredda sera d'estate ENRICO RUGGERI ha entusiasmato il folto pubblico della piazza principale di Castelsangiovanni (Piacenza), all'interno del ValTidone Festival.
Il repertorio non gli manca, lui stesso parla di una quarantina di album. Nemmeno una lunga serie di brani di primissima qualità assurti a classici della canzone d'autore italiana.
Nell'attesa del concerto un'ottima scelta musicale in sottofondo (da David Bowie a Elvis Costello).
Band solida, rodata, precisa e ricca d'intesa, anche quando si lascia andare a improvvisazioni varie.
Ruggeri con voce roca ma sempre all'altezza, nelle quasi due ore di concerto.
Passano veloci "Il portiere di notte", "Il poeta", "Primavera a Sarajevo", "Quello che le donne non dicono", il capolavoro "Il mare d'inverno", aperto dall'intro di "Firth of Fifth" dei Genesis. C'è anche un breve cenno a "Space Oddity".
Gran finale con un bis aperto dalla nuova, bellissima "Il cielo di Milano" dal nuovo, egregio, "La caverna di Platone" a cui segue una pompatisisma "Mistero" e una versione di "Contessa" in chiave Balkan/ska/(ba)rock, molto divertente.
Ruggeri parla molto, sottolineando, un po' troppo spesso, la sua "diversità" dal resto dei colleghi, la sua continuamente ribadita alterità ma va bene lo stesso.

Violante Placido - Castelmantova di Campremoldo Sotto (Piacenza) 23 luglio 2025
Sfortunato concerto per VIOLANTE PLACIDO ieri sera a Castelmantova di Campremoldo Sotto (Piacenza) nell'ambito del Val Tidone Festival.
La pioggia ha dapprima ritardato l'inizio e ha interrotto dopo poco più di una mezzoretta l'esibizione della cantante/attrice.
Il concept è interessante, ripercorrere le strade artistiche di alcune "Femmes Fatales", da Nico a Marianne Faithfull, Francoise Hardy, Yoko Ono, tramite la narrazione delle loro spesso difficili vite e l'esecuzione di alcuni loro classici.
Unica perplessità è il porsi in mezzo a un guado, tra chi è a completo digiuno (molti dei presenti) del profilo artistico delle protagoniste (e che conseguentemente, ad esempio, ha difficoltà a collegare e contestualizzare Velvet Underground, Warhol, Factory, Lou Reed a Nico) e chi queste cose le conosce a menadito.
Però il progetto è buono, Violante Placido è una perfetta narratrice e una buona cantante.
Alla prossima, senza pioggia.

UK SUBS (19.062025) / BLACK FLAG (21.06.2025) Castle & Falcon, Balsall Heath, Birmingham
Un altro prezioso regalo dal nostro inviato speciale in quel di BIRMINGHAM, il grandissimo RAMBLIN' ERIKK (che poco tempo fa già ci aveva deliziato con la recensione del concerto dei Cocksparrer.
Questa volta doppio appuntamento con Uk Subs e Black Flag.
Il pub Castle & Falcon di Balsall Heath a Birmingham rappresenta, da molti anni, un avamposto storico per il Punk e la musica indipendente in generale. Uno di quei locali che, visti i tempi che corrono e la gentrificazione galoppante, occorre tenersi ben stretti.
Entri, ed é come se il calendario si fosse fermato al 1983 : al tempo stesso, ci trovi anche ragazzi che a malapena hanno l' etá legale per ordinare una pinta al bancone, in un melting-pot generazionale, culturale e razziale inclusivo al massimo e dal fascino estremamente contagioso.
Questa settimana, due nomi eminenti nella storia del Punk hanno calcato il palco dell' iconico joint (peraltro, dotato di uno dei migliori impianti tecnici per la musica live in cittá): i sempiterni UK Subs di Charlie Harper e gli iniziatori dell' Hardcore di marca Hermosa Beach, nientemeno che i Black Flag del Deus-ex-Machina Greg Ginn.
Weekend caldo, climaticamente e non solo e, poco ma sicuro, due appuntamenti che non mi sarei perso a nessun costo.
Si parte il Giovedí sera con i leggendari Subs, per quella che é stata promossa come la loro "ultima apparizione a Birmingham".
Da circa tre anni, il gruppo ha infatti annunciato un progressivo rallentamento delle attivitá: l' ottimo album "Reverse Engineering" del 2022 fu annunciato come loro ultimo atto in studio e, comparsate in festival e concerti occasionali a parte, la band avrebbe cessato di andare in tour.
Alla veneranda etá di 81 anni, Charlie Harper puó anche permettersi di iniziare a meditare la pensione, per quanto, la sensazione che ancora non abbia intenzione di appendere microfono e armonica al chiodo sia forte.
Come nel Wrestling, altra mia grande passione, é estremamente raro che artisti ormai abituati a una vita on-the-road scendano a piú miti consigli, abbandonando il richiamo irresistibile delle luci della ribalta.
E, basta dare un' occhiata a Charlie per capire che questa é la sua vita e non ha intenzione, né reale motivo di cambiarla troppo.
É al banco del merchandise, disponibilissimo e affabile come sempre, intercambiabile lattina di birra a portata di mano, ad accogliere fan di ogni etá e firmare autografi. Sembra felice e vorrei ben vedere!
Alla mia domanda se davvero questo sarebbe stato il loro ultimo show in assoluto nella "Second City", ha riso e risposto "A me lo chiedi? Era un' idea del promoter!".
Ok Chas, capita l' antifona.
Attivi da ormai quasi mezzo secolo, gli UK Sub(versive)s sono uno dei gruppi piú importanti e popolari partoriti dalla scena Punk Britannica. Approdati alla scena del Roxy nel tardo 1977, immediatamente dopo l' iniziale Big Bang del Punk Londinese, la band dell' allora giá attempato Charlie Harper (che giá vantava un solido background nella scena Rhythm 'N Blues locale dalla fine dei '60) ha approfittato dell' energia della "nuova" scena affermandosi in breve tempo come favoriti della cosiddetta "second wave", portavoci di un sound grezzo, veloce e imcompromissorio che nulla concedeva al lato piú artistoide del "Bromley Contingent" promuovendo invece un' attitidine piú stradaiola e schietta, in molti sensi anticipatrice di quello "Street-Punk" che, nel giro di pochi anni, sarebbe sfociato nel movimento "Oi".
I Subs che si presentano stasera, oltre al prim'attore Charlie, hanno in organico il bassista, co-autore storico e, a tutti gli effetti, direttore artistico Alvin Gibbs, con la band dal 1980, pur con numerosi intervalli, Stefan Häublein alla batteria e, vera sorpresa del concerto, il nuovo chitarrista Abe Inglis, una belva dal vivo che ricorda, sia nella tecnica che nelle prodezze atletiche, il suo illustre predecessore Nicky Garratt.
Partono subito in quarta con una versione assassina di "Rockers" dal primo LP " Another Kind Of Blues" (1979) ed é "instant chaos" in un locale sudatissimo e stipato oltre i legittimi limiti di capienza. Seguono, in rapida successione, "Kicks", "Police State" e "Emotional Blackmail", sparate come proiettili affilati da una band che é ormai un' entitá rodata e a prova di bomba. Arriva anche la famosa "Down On The Farm", che tanto ha contribuito a ripinguare i conti in banca degli autori Gibbs/Harper grazie all' improbabile cover (con tanto di falso accento cockney) incisa dai Guns 'N Roses per il loro album "The Spaghetti Incident?" del 1993.
Nell' arco di 22 brani, bis completi, i Subs distillano la loro storia, veraci cartoline dal grande Pianeta Punk Britannico come la festaiola "Party In Paris", il loro primo singolo "Stranglehold", la brutale "Scum Of the Earth" ed episodi (relativamente) piú recenti come "Riot" e "Disease".
"Warhead" suona tristemente attuale, ora piú che mai, con l' America che ha appena dichiarato guerra all' Iran e una minaccia Atomica molto reale e tangibile.
E, per amaramente ironica coincidenza, gli UK Subs, a quanto pare, non sono tra i gruppi preferiti di Donald Trump, il pazzo criminale (o, in termini piú pragmatici, capitalista) artefice di questo inutile spargimento di sangue.
É infatti noto, anche a chi non frequenta il circuito Punk, che il 21 Marzo di quest' anno, a 3 quarti della band é stato negato l'accesso negli Stati Uniti (il solo Charlie Harper, grazie a chissá quale magheggio o, semplicemente, il suo innato potere persuasivo, é riuscito ad entrare e suonare a Los Angeles, come previsto, accompagnato da una band assemblata all' ultim' ora per l' occasione).
Alvin Gibbs ha descritto in dettaglio sulla sua pagina Facebook l' incubo Kafkiano di cui si é trovato protagonista (25 ore di detenzione e non una spiegazione ufficiale per il rifiuto al visto) disavventura che gli ha, comprensibilmente lasciato l' amaro in bocca inducendolo a sospettare che i suoi recenti commenti, per nulla favorevoli all' attuale presidente degli States, possano essere alle radici della debacle.
Mi sarebbe piaciuto poter scambiare una parola con Alvin in merito al fattaccio, ma non sono riuscito a incrociarlo.
In men che non si dica e con a malapena il tempo di riprendere fiato, siamo giá agli encores, "C.I.D.", "I Live In A Car", "You Don't Belong" e l' anthem "Endangered Species", ("Specie in via d' estinzione") titolo che ben esemplifica la vicenda di una band autentica, proletaria, di strada, che pur tra alti e bassi (nonché innumerevoli cambi di formazione) ha attraversato intere generazioni, portavoce del piú verace spirito Rock & Roll e tutt' oggi punto fermo e incrollabile.
In piú di un' occasione, mi preme rimarcarlo, precorrendo persino i tempi in forza di una musicianship sempre dinamica e musicisti piú raffinati di quanto non possa apparire, promuovendo un' attitudine aperta al cross-over, andando a lambire i territori piú disparati come Hardcore, Hard Rock, persino Metal, New Wave e sicuramente Rhythm N Blues, senza mai smentire il tradizionale marchio di fabbrica.
Un trionfo e uno dei migliori concerti dell' anno, fin' ora: lunga vita ai Subs!
Di altra pasta e provenienza, ma comunque accomunabile ad uno spirito affine, la proposta musicale prevista per Sabato sera. Nientemeno che la leggendaria sigla "Black Flag", come dicevo all' inizio, scomodata dal leader incontrastato, "padre-padrone" Greg Ginn per un estensivo tour di Europa e Inghilterra che presenta una formazione interamente nuova attorno al suddetto capoccia.
Notizia arrivata completamente a sorpresa, a tour giá annunciato (l' occasione sarebbe quella di celebrare l' iconica compilation "The First Four Years" uscita per la SST dello stesso Ginn nel 1983) quando chi giá aveva sborsato parte dei propri guadagni per un biglietto si aspettava l' ultima, rodatissima formazione con il rude Skater Mike Vallely alla voce.
Subito, sono scoppiate le polemiche, corroborate dalla diffusione su social media di una foto raffigurante l' ultimissima incarnazione della "Bandiera Nera" : tre imberbi pischelli che, occhio e croce, non arrivano ai Venti anni d' etá e, udite udite, una RAGAZZA nel ruolo di cantante e frontwoman.
Apriti cielo!!!
Frizzi e lazzi, laddove non proprio critiche pungenti e di dubbio gusto, da partedi uno zoccolo duro che, a ben vedere, contravviene al piú autentico spirito Punk, un genere e una mentalitá in teoria istigati da gente giovane e volti ad abbattere non solo la supremazia del piú pomposo Rock da stadio ma, anche di ogni qualsivoglia barriera pregiudiziale di sesso, razza e religione.
Senza, peraltro, aver ascoltato una singola nota di questo inedito ensemble e, puramente, giudicando un libro sulla mera base della copertina.
Insomma, volendo citare una fonte eccellente e a me molto cara, "A te il Punk non t' ha insegnato un cazzo"?
Personalmente, il mio innato "Bullshit Detector" mi ha subito indotto a presagire qualcosa di, se non altro, interessante, cosí ho deciso di approcciare il concerto a mente aperta.
Sia chiaro, volendo fare l' avvocato del Diavolo, viene naturale supporre che l' idea di ingaggiare musicisti giovanissimi e letteralmente alle prime armi fin troppo bene si adatti a un noto accentratore come Greg Ginn che, da sempre ha la documentata abitudine di allontanare collaboratori non al 100% in linea con le direttive da lui stabilite, specialmente una volta consolidato un certo cachet personale da parte di questi ultimi.
Ma, si tratta solo di considerazioni e, alla luce del giorno, come sono questi "nuovi" Black Flag?
Sinceramente, belli potenti e convincenti, pur rimanendo ancora un' entitá acerba e bisognosa di ulteriore amalgama e coesione, cose che arriveranno nel tempo, se l' avventura si evolverá.
Per il momento, ció che arriva dritto in faccia é il suono inconfondibile, distopico e allucinato della chitarra di Greg Ginn, immutato nei decenni e davvero pauroso da ascoltarsi dal vivo.
Zero distorsione e niente pedali o effetti, semplicemente tutto settato a 11! Devastante e ancora temibile, oggi come nel 1980.
Coadiuvato da una formazione francamente piú che convincente e sul pezzo, a partire da Max Zanelly, la giovanissima "Firebrand" che si rivela da subito credibilissima come interprete dei classici storici della band.
Due set, 24 pezzi in totale, non un' impresa da nulla per un manipolo di pivelli ma, a onor del vero, loro se la cavano alla grande e, con buona pace di chi si aspettava un frontman super-macho, sudato e a torso nudo sul modello di Rollins o anche Vallely, questi sono i Black Flag nel 2025, "take it or leave it".
E, a mio modesto parere, funzionano.
Non solo il vasto set pesca in "The First Four Years" (invero, non rappresentato nella sua totalitá) ma i quattro vanno a coprire l' intera discografia storica, riproponendo non solo il classico, primo LP "Damaged" per buona metá, ma anche pescando a piene mani tra i ben piú complessi arrangiamenti di "My War" e "Slip It In".
C'é veramente tutto, da un' allucinata, iniziale "Can't Decide" (preceduta da una lunga, nervosa intro per tre minuti buoni) seguita da una "Nervous Breakdown" ferale a sufficienza da non temere il confronto con l' originale del 1978 e, in rapidissima e brutale successione, "No Values", "Wasted" e "I've Had It".
Forse, stasera sono particolarmente di buon' umore, ma il feeling é lo stesso della prima volta in cui ascoltao questi brani su "The First Four Years" e, per assurdo, anche il pubblico reagisce in maniera piú "Americana" compattandosi in paurose sezioni che si spostano orizzontalmente in un oceano di slam-dance che ricorda molto da vicino le mitizzate immagini del film "Decline Of Western Civilization" di Penelope Spheeris (1980).
"Black Coffee", nervosa come suggerito dal titolo, introduce gli umori piú contaminati del LP "Slip It In" (1985) mentre "Forever Time", "The Swinging Man" e "Nothing Left Inside" documentano la svolta fangosa e Sabbathiana dell' album "My War" (1983).
"Six-Pack", per assurdo una satira dell' alto consumo alcolico dell' Americano medio, é accolta da un tripudio di mani che alzano pinte di birra mentre la tellurica "My War" apre il secondo set.
E, davvero nulla da dire: in tutta onestá, questa band rende perfettamente giustizia a un repertorio immortale e, per quanto mi riguarda, é bello averli in giro a suonare queste canzoni dal vivo, peraltro in una configurazione inedita e al di fuori di ogni aspettativa.
Vorrei ricordare che, fondamentalmente, ogni formazione dei Black Flag è sempre stata rappresentata da un cast mutevole attorno al leader Greg Ginn : da qui, traete voi le vostre conclusioni. "Revenge", "Fix Me" e "Gimmie Gimmie Gimmie" sono cantate a gran voce da un pubblico accorato e incurante di ogni qualsivoglia gap generazionale, prima dello show-stopper di "Rise Above" e la sarcastica versione di "Louie Louie".
É tutto e il gruppo si ritira: non c'é un banco dove poter acquistare t-shirt, CD, LP o nient' altro o strappare un autografo e un saluto rapido alla band.
Nessun bis o concessione ulteriore a quanto giá abbondantemente dato : come nei primissimi anni '80, i Black Flag sono giá "In The Van", diretti alla prossima meta.
Per quanto mi riguarda, un' incarnazione che si é rivelata perfettamente in linea con la filosofia e il sound storici della band e che vi invito a controllare di prima persona, dovessero capitare dalle vostre parti.

Black Keys + Jet + Lemon Twigs – Live at AMA Music Festival (VI) – 15 Luglio 2025
Recensione/racconto dell'amico SOULFUL JULES, come sempre interessante e intrigante.
Quando ho visto che sul sito dell’Ama Festival i biglietti per il Pit erano esauriti, ci son rimasto male.
Perché l’anno scorso ero stato all’AMA per i Pistols con Frank Carter e se stai fuori dal Pit il palco è lontano, fai fatica a distinguere i musicisti, sembrano pedine alte due centimetri, e anche se il sound è buono manca la pacca che ti prende lo stomaco e ti solleva da terra.
Però rinunciare ai Black Keys a neanche un’ora di strada da casa pareva brutto, magari poi là si combina, ho pensato, vai a sapere.

Partenza martedì 15 luglio a metà pomeriggio, tra una cosa e l’altra arriviamo al Parco di Villa Negri che i Lemon Twigs hanno quasi terminato il loro set e ‘sta cosa mi rode perché era un pezzo che li volevo vedere e il suono che arriva mentre siamo lì in coda, nel vialetto ombreggiato, è una meraviglia di armonie e arrangiamenti.
Dolcissimo il falsetto di Brian D’Addario su Corner Of My Eye, con gli acuti che riportano al cantato malinconico di un altro Brian, da poco riunitosi con Carl e Dennis sul palco dell’eternità.

I cani per i controlli antidroga ricordano che siamo a metà strada tra Treviso e Vicenza e un cartello in cassa avvisa che c’è ancora qualche posto disponibile.
I ragazzi della biglietteria sono simpatici e gentili ma demoliscono subito le mie speranze di fare una permuta con uno dei cinque pass rimasti per il Pit.
“E allora come faccio?”
“Potresti vendere il tuo biglietto a qualcuno che non ce l’ha e acquistare un Pit qua.”
Che in effetti non è una cosa difficile, soprattutto se uno di mestiere fa il venditore da più di venti anni.
Ma un conto è vendere per lavoro, un altro conto è vendere per necessità, e poi qua non è più la questione di vedere bene il concerto, di assorbire fino all’ultimo tutti i MegaHertz che fluttuano nella notte di Romano d’Ezzelino, questa è diventata una faccenda seria, esistenziale.
Quanto bravo sei a convincere un tizio mai visto a sborsarti cinquanta sacchi per una fotocopia A4 con sopra il tuo nome e un QR code? Ti fideresti di uno come te, con la tua faccia, la tua voce?
La verità è che non lo sai e ti tocca scoprirlo stasera.
Aspetto tre minuti appoggiato al bancone della biglietteria e finalmente arriva un tipo sui quaranta, baffetto spavaldo e sandalo eco, vuole un biglietto ma non uno qualsiasi, gli serve il Pit a tutti i costi, me lo dice con la cantilena irritante di uno che gongola perché alla fine lui ce l’ha e tu no, gne gne gne.
Altri due minuti e si presenta uno coi capelli lunghi e grigi, maglia sbiadita dei Litfiba, l’aria un po’ spaesata.
È il mio uomo.

Formulo l’offerta in maniera chiara e perentoria: cinquanta sacchi invece che i sessanta che chiedono in cassa. Accetta subito. Si rigira il foglio A4 tra le mani, dà un’occhiata distratta alla riga con il nominativo e alla fine sfila il biglietto rosa dal taccuino senza esitazione.
Ok, questo era facile, potevo anche piazzargli un abbonamento a Tele+ col decoder e la presa Scart, ma il fatto che adesso posso godermi il live senza restrizioni mi fa salire una botta improvvisa di euforia, neanche mi fossi ingollato un cocktail di dopamina, ossitocina e una spruzzata di endorfine a mo’ di selz.

All’interno l’area è grande e organizzata, poca calca nonostante i 9.000 fan, un po’ di coda qua e là ma niente di che e in ogni caso col braccialetto rosso al polso mi sento invincibile, se ne accorge anche il tizio delle polpette, che si sbriga a servirmi prima che inizino i Jet.
Guardo il concerto da metà campo, vicino al tendone del mixer, il sound arriva pulito ma i volumi sono bassetti e sul palco ci vorrebbero degli schermi, per aiutare quelli fuori dal Pit a sentirsi connessi con la band.
Saranno vent’anni che non ascolto i Jet, mai stato un fan ma il primo album, Get Born, è un disco di tutto rispetto, e sono curioso di vedere come sono messi, se la voce di Nic Cester graffia ancora come nel 2003 o se nel frattempo ha perso qualcosa e devo dire che tra una polpetta di carne e una alle verdure il live scorre senza intoppi, la scaletta incentrata sui brani del disco d’esordio tra cui la ballata Look What I’ve Done con quel feeling un po’ british, tipo i Beatles rifatti dagli Oasis.
It’s a Long Way To The Top degli AC/DC è un omaggio all’Aussie Rock, il sound energico a base di riff potenti e melodie orecchiabili che definisce in buona parte il loro stile.
Durante le pause Nic scambia qualche battuta in italiano col pubblico, ostenta le sue origini trevigiane, annuncia le canzoni. Are You Gonna Be My Girl è come la vorresti sentire, la voce tirata e il giusto grado di intensità, neanche l’avessero già suonata almeno trecento volte dal vivo.
Rollover Dj mantiene alta la tensione, il pubblico che canta con la band e i Lemon Twigs a bordo palco che si godono lo show.
In chiusura una bella cover di Un’avventura di Battisti, nella versione di Wilson Pickett, una strofa in italiano e una in inglese, la gente attorno a noi saltella con il bicchiere in mano mentre sul prato si allungano le ombre del tramonto.

Mi ciuccio un’altra birretta prima di salutare gli amici ed entrare nel Pit.
Il settore è grande, pieno forse a metà ma manca ancora un po’ all’inizio del concerto, così mi siedo su una staffa delle transenne che sembra uno sgabello dal design industriale, mi metto comodo e osservo la gente che arriva.
Età media sui quaranta, tante ragazze, tatuaggi, uomini con i capelli, t-shirt nere, canotte, short larghi, berretti da baseball, ai piedi novanta percento di sneaker e qualche sandalo francescano per gli amanti della traspirazione. Non male la playlist prima del live, brani un po’ slegati ma piacevoli: 25 Miles di Edwin Starr, Satisfaction cantata da Otis, qualche pezzo recente, Bob Seeger System, classici degli Stones e dei T Rex.

Ormai il sole è calato, manca poco, è il momento di inserirsi tra la folla alla ricerca del posto perfetto, quel brandello di suolo - venti, trenta centimetri quadrati al massimo - che per 80 minuti deve garantirti una buona visibilità del palco e, soprattutto, un sound bilanciato, carico e appagante.
Mi piazzo leggermente sulla destra, a trenta metri dagli ampli di Dan Auerbach, e sono lì, assorto nelle mie riflessioni, che mi sento battere sulla spalla destra, mi giro e c’è un ragazzo sui venticinque che mi saluta con entusiasmo, e per quanto i suoi occhi limpidi, di un colore che potrebbe essere azzurro o verde marino, mi smuovono qualcosa, un ricordo, una foto un po’ sfocata, proprio non riesco a collocarlo questo giovane ed è evidente che col passare dei secondi, un velo di amarezza, forse delusione, si stende sul suo volto e un po’ mi vergogno perché il suo sorriso irradia qualcosa che oscilla tra la stima e l’affetto, mi spiace smorzare quel sentimento, e ormai sono lì lì per confessare che non mi ricordo mica, pronto a incolpare le birre, le tipe con le spalle scoperte, la boria vanagloriosa per il biglietto piazzato, ma a quel punto il campo visivo si allarga su un altro giovane, alto e smilzo, che sta al suo fianco, ed è guardandoli insieme, uno accanto all’altro, che finalmente riconosco Ricky e Lorenzo, i figli di Giorgio e Carla. Saranno almeno quindici anni che non ci vediamo di persona, l’ultima volta a Marostica, o a Bassano, ci eravamo trovati per ricordare Giorgio, ed era stata una bella festa, piena di musica e di amici, la malinconia e il dolore accantonati per una sera.
E adesso Giorgio è qui, lo rivedo negli sguardi e nei sorrisi dei suoi figli, li ho lasciati bambini, che suonavano la chitarra e la batteria e ora ce li ho accanto che sono giovani uomini, sempre innamorati della musica e di che altro vuoi parlare se non di gruppi, turnisti, etichette e studi di registrazione.

Dopo una manciata di minuti Pat Carney e Dan Auerbach salgono sul palco e attaccano con una medley di brani dai primi due album.
Thickfreakness, con la melodia lamentosa di You Don’t Love Me, sfuma in The Breaks, incentrata sul groove pesante e ripetitivo della batteria, che si fa più dinamico in I’ll Be Your Man.
Sul finale della canzone arriva il resto della band che si sistema alle spalle di Carney e Auerbach: percussioni, basso, chitarra ritmica e organo. Your Touch è una fiammata di suono che travolge il parco di Villa Negri, il fuzz della Harmony ficcante e abrasivo, le stilettate di organo aggiungono un tocco di colore e armonia, le congas e le maracas aumentano la profondità.
Pochi cellulari e tante braccia alzate, su Gold On The Ceiling Auerbach si gode il pubblico che salta e canta sulle note piegate della sua SG color panna.

Si sale ancora di intensità con Wild Child, un mix esaltante di lick possenti e ritornelli che ti ballano in testa per ore. Lorenzo alla mia destra mi dice che la chitarra è una Guild, il suono più metallico e pungente, e sarà che ho accanto i fratelli Mari, sarà che la scaletta è ben pensata, in un crescendo strutturato e curato nei dettagli, ma devo dire che la serata adesso è partita, complice il suono pulitissimo e variopinto, ogni chitarra uno stato emotivo differente, ogni brano simile e diverso dal precedente.

La disposizione dei musicisti sul palco, due davanti e quattro dietro, a mo’ di coro, l’uso dei fasci di luci che si intersecano e dividono la scena in blocchi imponenti, rendono lo spazio maestoso, massiccio, monumentale.
L’unico aspetto che non mi convince, a voler essere pignolo, è la distanza tra basso e batteria, vero che l’interplay principale è tra Carney e Auerbach ma qua secondo me perdono un po’ di groove con la sezione ritmica così dilatata, i due fondamenti a quasi tre metri di distanza l’uno dall’altro. Quando glielo dico, Lorenzo annuisce e mi fa notare che chitarra e batteria sono leggermente più alte nel mix rispetto al resto.
Ma sono dettagli, appunto, perché Everlasting Light è dolce come un sogno e marca un cambio di passo, il sound ora è più soulful, ricco di sfumature e di tocchi attenuati, il cantato in falsetto è delizioso di suo, prepara l’equipaggio al decollo emotivo e anche se mi sento pronto, con le cinture allacciate, quando parte il solo di chitarra mi ritrovo inerme, avvolto da un sentimento indescrivibile che riverbera dal cervelletto, sale e scende lungo la schiena e si propaga attraverso ogni centimetro di pelle, uno stato di grazia che solo la musica riesce a favorire e a ricreare ogni volta in un modo che è unico, inaspettato e strabiliante.
Ormai ho deciso che la posizione sulla quale ondeggio da più di mezz’ora non mi soddisfa più, vero che il cicalio delle maracas mi arriva nitido e setoso ma ho l’impressione che come acustica manchi ancora qualcosa per cui decido di spostarmi al centro e per quanto mi spiaccia perdere la compagnia, trovo un impatto incredibile, come se il suono si fosse ulteriormente arricchito e compattato di fronte a me, basta alzare una mano e ti pare di toccare ogni nota, di accarezzarla per poi stringerla, tutto perfetto, onirico, idilliaco, se non fosse per la tipa magra e nervosa che si dimena di fronte a me.
Solleva le braccia e le abbassa con un movimento ondulato, a mo’ di serpentina, scuote la testa a destra e a sinistra e si contorce come la terribile dea Kali.
Il problema è che dietro di me non ho vie di fuga, c’è un energumeno con una scopa di saggina sotto al mento che filma tutto con il cellulare e in ogni caso non ho voglia di spostarmi di nuovo, qua si sente davvero bene, forse basta portare pazienza e infatti, tempo un paio di strofe di Psychotic Girl, la tipa si sposta e si mette a slinguazzare un ragazzo alla mia destra con il cranio lucido e la barbetta folta e curata, leggermente appuntita.
E tutto è bene quel che finisce bene, l’amore vince sempre ma è un’illusione effimera perché lo scambio di fluidi salivari sembra attizzare il tipo, e non è un’eccitazione immediatamente fisica, corporea e nemmeno verbale: è il richiamo della giungla, dei segni ancestrali, l’istinto primordiale che ti spinge a ficcarti due dita in bocca e a cacciare un fischio che di colpo sembra zittire la band sul palco e causare un principio di acufene a chi ti sta accanto.
Porca puttana.
Crapa pelata è più rumoroso dei Black Keys e tu non ci puoi fare niente, sei a un concerto rock, mica in parrocchia, non puoi riprendere uno perché si diverte a fare il mandriano, tanto più che il tipo sembra averci preso gusto, ancora quel cazzo di sibilo bastardo e assordante, due, tre, cinque, otto volte finché a un certo punto dico basta. Giuro, vorrei continuare a farmi i cazzi miei ma è una cosa dolorosa e poi ho come l’impressione di non essere l’unico a soffrire gli acuti del tizio e allora faccio un respiro profondo, gli appoggio un braccio lungo le spalle e gliela butto là in tono amichevole, quasi fossimo in confidenza.
“Scusa, riesci ad abbassare un po’ l’intensità?”
Il tipo sembra riaffiorare dall’ebbrezza dei suoi squilli con un certo fastidio, si scosta dalla mia presa, inarca le sopracciglia come per mettermi a fuoco e mi domanda sarcastico: “Cioè, dovrei abbassare il volume?”
“Eh sì per piacere, se ci riesci.” gli rispondo con deferenza ma è evidente che se l’è presa, offeso nell’amor proprio per quella inaccettabile limitazione alla sua libertà di fischiare a cazzo a un volume ampiamente sopra la soglia del dolore. È una trattativa complessa questa, che richiede notevole abilità di persuasione, e la prima regola nella negoziazione è di concedere spazio alla controparte, dare l’impressione che è l’altro a condurre il gioco e l’unica cosa che mi viene in mente è provare ad allisciarlo.
“No guarda, hai un fischio incredibile. Davvero. Ma dopo un po’ è impegnativo.” gli dico ridacchiando e in quello interviene la tipa sciammannata a darmi man forte: “È per il fischio vero?”
Al mio cenno di assenso il barbetta concede: “Non è la prima volta che me lo dicono.” e prende a saltellare su una gamba sola, si mantiene in equilibrio con la mano sinistra, si ficca nuovamente in bocca la destra e si mette a fischiettare con rinnovato vigore, come se stesse suonando un’armonica per accompagnare la melodia di Tighten Up. “Ecco bravo, prova ad armonizzare.” gli suggerisco strizzando l’occhiolino e quello in tutta risposta caccia un altro paio di miagolii ma ormai è poca roba, quasi impercettibile, sommersa dal tremolo della Supro bianca di Dan Auerbach.

Altro cambio di chitarra su Man On A Mission, dal nuovo ellpì No Rain, No Flowers, questa volta è il turno di una bella Goldtop e chissà che stress per il tecnico di Dan Auerbach, la responsabilità di passargli lo strumento giusto con le corde ben tese, che ogni pennata è un riverbero massiccio che si scuote a lungo, prima di perdere intensità, e proprio l’uso dello spazio, dell’aria tra una nota e l’altra, delle pause, è una cosa che non tutti sono in grado di rendere, è una questione di feel, la sensibilità che prevale sulla tecnica, che nel caso di Auerbach è incredibile perché oltre a essere un grande musicista è anche un grandissimo cantante, con una voce calda e ruvida, carica di una sincerità emotiva che non ha bisogno di trucchetti per colpire, anche quando ritorna al falsetto, nella cover di On The Road Again dei Canned Heat.
La resa è impeccabile, la grana melliflua e carezzevole pur nell’urgenza originaria, adesso è tutto perfetto, ci siamo solo io e il suono, nessuno davanti e mi spiace per quelli che mi stanno dietro perché mi sento alto tre metri o poco più ed è una stecca fortissima, tutta mia e di qualche altro migliaio di persone che mi sono accanto, anche loro impegnate a fare all’amore con la musica.
I coretti di Howlin For You, intersecati dai guizzi acidi della Supro Martinique, echeggiano per tutta la valle del Grappa.
Prima della pausa She’s Long Gone, un minuto di stacco e la band è di nuovo sul palco per il penultimo brano: Little Black Submarines.
Chitarra acustica in apertura e tutto il pubblico, soprattutto le ragazze, a cantare ogni parola e ho come l’impressione che per una certa fascia di età, per quelli che adesso si affacciano ai quaranta, questa sia una specie di Stairway To Heaven, se non altro per come si fanno cullare dalla melodia per poi lasciarsi andare nel finale incendiario.

L’ultimo brano della serata parte con quella smarmittata in caduta libera che nel 2011 entrò nelle classifiche di mezzo mondo e per la prima volta tutti, ma proprio tutti, prendono a saltare.
Noncuranti del caldo, del sudore o della polvere, ritornano per tre minuti sul dancefloor di un indie club qualsiasi dove Lonely Boy veniva regolarmente passata prima o dopo i Jet e gli Arctic Monkeys.
E non è un caso che il singolo che ha definitivamente lanciato i Black Keys nel circuito mainstream mondiale, l’inno di una generazione che allora menava esistenze da studenti fuori sede e adesso fa i conti con la rata del mutuo o i pannolini da cambiare, l’anthem che suona potente e cazzuto ancora adesso, debba in parte la sua popolarità a un video con un nero in maniche di camicia che balla il twist, lo shake e l’hully gully, un clip uscito in un periodo in cui le immagini erano ancora importanti per definire lo stile di un brano, un corto che ad oggi, solo su YouTube, ha superato i duecento milioni di visualizzazioni.

Caro lettore, lo so che ti ho chiesto molto con questa recensione, che poi è una via di mezzo tra un racconto e una seduta di psicanalisi e infatti non ti tedierò ancora a lungo, non ti parlerò dell’attesa a fine concerto per prendere una birra, in coda dietro a un tizio che maneggia una tavoletta di token e fatica a contarli per via delle lenti fumè, alla Gianfranco Funari, e vorrei chiederglielo se lo conosce Gianfranco Funari, se per caso è a conoscenza del ruolo dirompente che il conduttore romano ha avuto nella storia della televisione italiana, il primo a chiamare la telecamera e a sfondare la quarta parete, la barriera immaginaria col pubblico che diventa punto di contatto, ma ormai non c’è più tempo, neanche per chiudere con una nota zuccherata e la dozzina di lecca-lecca richiesti in dono a non so quale fornitore di energia elettrica, ma alla fine lasciami dire che l’unica cosa che mi resta mentre ripercorro con i miei amici il tratto che dal parco ci riporta alla macchina, e non so se sia una suggestione o un effetto reale, ma la cosa che ancora mi gira nelle orecchie, dopo tre band e quasi tre ore di concerti, è il fischio del barbetta che sibila beffardo nella notte umida e silenziosa di Romano d’Ezzelino.

Punk Rock Raduno - Bergamo 17-20 luglio 2025
La testimonianza vivida, diretta e spontanea dell'amico GIORGIO sulla nuova edizione del Punk Rock Raduno di Bergamo.

Pericolo dipendenza estrema.
Se provi il Punk Rock Raduno una volta non puoi piu farne a meno!!!

Anche quest’anno purtroppo e’ passato.
Il festival piu bello mai organizzato in Italia?
Credo di si, e qualche concerto l’ho visto.
Non mi e’ mai piaciuto spendere 50/60/70/100 euro per un concerto punk, non credo sia punk...magari in un qualche festival o ”locale rock” dove non ti fanno neanche passare l’acqua in bottiglia perche’ devono vendertela loro.
Naaaaaaa quello non e’ punk !!

E poi c’e’ il Punk Rock Raduno di Bergamo nato dalle menti malate di Franz Barcella e Andrea Manges che in pieno spirito punk DIY organizzano da 8 anni questa gemma...il prezzo?
Come direbbe il Conte Oliver un affarone perche’ ebbene si, e’ gratis e che line up da sogno in questi 8 anni, in pratica sono passati tutti I gruppi piu’ culto della scena punk, nomi leggendari !!!

Anche quest’anno al festival abbiamo ballato, cantato, sudato, pogato (per quel che riusciamo ancora a fare alle nostre venerande eta’), chiacchierato, bevuto 4,5 birre di troppo, conosciuto persone da tutto il mondo che ogni anno tornano qui attratti da questa magia.
Tutto in spirito DIY con un immenso staff fatto da volontari sempre tutti sorridenti, volontari che per 5 giorni hanno sfamano, abbeverano, gestito centinaia di punk rockers.
Ma niente security, niente bodyguard, niente perquisizioni perche’ ovviamente siamo punk rockers maturi e ci gestiamo benissimo da soli.

Come sempre un sacco di bambini, e noi che ormai abbiamo messo su famiglia (e chi lo avrebbe detto che anche noi ci siamo riusciti, le pecore nere delle famiglie) abbiamo trovato un festival dove I bambini sono I benvenuti.
Un sacco di iniziative collaterali, un mercatino a cui non mi sono neanche avvicinato perche’ troooooppppiii dischi da scartabellare e in tutto quel ben di dio ci avrei lasciato giu la tredicesima…

E la musica!!! Due palchi perfettamente coordinati, appena finisce un gruppo ne parte un’altro, sinistro destro diretto in faccia !!!non si fa in tenpo a smaltire un concerto che one-two-tree-four sotto con il sucessivo.

Menzione speciale per i Kingons, arrivati dal Giappone per letteralmente mettere a soqquadro Bergamo, hanno raso al suolo tutto!!!!
Un concerto da ricordare per anni e annni, o fino alla prossima edizione, ma i concerti sono stati tutti fantastici, abbiamo finito sotto la pioggia servita a spegnere l’incendio scatenato dai Peawees !!! e adesso non resta che sopravvivere alla depressione i prossimi 359 giorni, fino alla prossima edizione.

E ovviamente il motto del festival non possiamo tralasciarlo.

NO RACISM
NO SEXISM
NO HOMOPHOBIA
NO VIOLENCE
ALL AGES
#TOOTOUGHTODIE

e bandiere palestinesi e della comunita' LGBT che sventolano perche' punk non e' spendere 100 euro per un concerto ma questa magia tutta italiana.

Le Orme in concerto a Ferriere (Piacenza) Roan Club. 27 luglio 2025
Le avvisaglie del maltempo hanno costretto lo spostamento del concerto, all'interno del Festival Fol In Fest, dalla piazza principale del borgo montano piacentino alla storica discoteca "Roan" che ben si affiancava al clima "anni Settanta" della serata.
Protagonisti LE ORME, storica prog band italiana con il membro fondatore Michi Dei Rossi alla batteria, Michele Bon, membro effettivo dal 1990, alle tastiere a cui si unisce la voce, chitarra e basso di Luca Sparagna (bravissimo, soprattutto nel raccontare la storia della band e del prog italiano) e, sempre alle tastiere, Aligi Pasqualetto.
Non la folla delle grandi occasioni ma tutti attenti e competenti.
Concerto di quasi due ore con i grandi momenti della band, soprattutto tratti da "Felona e Sorona", "Collage", "Uomo di pezza" e "Smogmagica", con l'aggiunta del singolo "L'estate che torna" del 1968 e due omaggi ai colleghi del Banco ("Non mi rompete") e alla PFM ("Impressioni di settembre").
Ci sono anche il classico "Gioco di bimba" e "Vedi Amsterdam" da "Verità nascoste" del 1976. Grande chiusura con "Collage".
Concerto godibilissimo, band rilassata, a suo agio, simpatica ma soprattutto tecnicamente spaziale.

COSE VARIE
° Ogni giorno mie recensioni italiane su www.radiocoop.it (per cui curo ogni settimana un TG video musicale - vedi pagina FB https://www.facebook.com/RadiocoopTV/).
° Ogni mese varie su CLASSIC ROCK.
° Ogni sabato un video con aggiornamenti musicali sul portale https://www.facebook.com/goodmorninggenova
° Ogni lunedì la mia rubrica "La musica che gira intorno" nelle pagine di www.piacenzasera.it
° Sulle riviste/zines "GIMME DANGER" e "GARAGELAND"
° Periodicamente su "Il Manifesto" e "Vinile".

NOT MOVING, unica data estiva.
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