mercoledì, settembre 28, 2022

Tashkent – Uzbekistan - Giugno 2022 #1


L'amico SOULFUL JULES, abituale frequentatore, per motivi di lavoro, dell'ex Urss, ci introduce nel clima di alcune zone, tristemente famose in questi giorni.
Ci aiuta a capire e ad approfondire, al di fuori di divisioni ideologiche, polarizzazioni, supposizioni.

Le precedenti puntate sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/Tales%20from%20Ex%20Urss

Tashkent – Giugno 2022

PRIMA PARTE A inizio anno avevo programmato una serie di viaggi nell’Asia centrale, nei vari stan dell’ex Urss dove parlano russo.
Già mi vedevo accovacciato su un tavolino nella lounge dell’aeroporto di Šeremetevo a rimpinzarmi di salsicce e uova idrogenate prima dell’imbarco per Almaty, Taškent o Baku.
E poi, a cinque minuti dalla chiusura del gate, superare con passo agile gli altri passeggeri in fila e sventolare la tessera di frequent traveller a chi avesse qualcosa da obiettare.
Ogni tanto ci sarebbe scappato un upgrade per la business class, dove le hostess sorridono in modo diverso che in economy, come fossero davvero felici di prendersi cura di te.
Appena ti siedi ti servono un calice di solfiti effervescenti che chiamano šampanskoe e per una o due ore ti illudi che Ksenja stia sorridendo a te e non al tuo biglietto.

Poi niente, a fine febbraio Aeroflot ha interrotto i servizi verso questi paesi.
Per andare in Uzbekistan devo passare per la Turchia.
Biglietti carissimi, zero privilegi.

Nel volo Venezia – Istanbul, la signora accanto a me fa una decina di telefonate prima del decollo.
Tutte uguali.
Parla in veneto, urla come quelli attanagliati dal dubbio che dall’altra parte non li sentano bene.
“No go dormio gnint. A me so svejada che jera l’una e ventiquattro. Ghe jera dei tosi coi cani, i faseva un rumooor. No so più stada bona de dormir.”

Per sopportare queste situazioni, anni fa ho comprato un paio di cuffie col noise cancelling, la riduzione del rumore esterno.
Riduzione che non blocca lo scambio tra la mia vicina e la signora seduta al suo fianco, verso il corridoio, una donna con la carnagione olivastra e i capelli ricci, lunghi e grigi.
Ha un accento straniero marcato e indefinito, arrotonda le r fino ad addolcirle. Parla bene in italiano ma la mia vicina decide che non è così e le si rivolge scandendo le parole ad alta voce, lentamente. Semplifica le frasi in maniera grottesca, come se parlasse ad un marziano che ha appena iniziato a studiare la nostra lingua, con quei corsi online di italiano per extraterrestri.
Assisto a una conversazione surreale tra un’italiana che si esprime come un troglodita e una straniera che parla sciolta.

“Io andare Istanbul… una settimana. Tenere mio nipote. Io baby-sitter.” Gesticola, le mani sincronizzate che pare una coreografia di Heather Parisi, le dita che schizzano da tutte le parti come cicale impazzite.
“Ah bene. Io sto tornando a casa mia, in Iran. Vedo mia mamma, i miei fratelli, cugini e tutti i parenti. Erano tre anni che non andavo per il covid...”

Il modo di viaggiare è peggiorato dopo la pandemia. Spazi più stretti tra una fila e l’altra così ci ficcano qualche passeggero in più.
Per me non è un problema ma certi bistecconi non ci stanno proprio sui sedili.
Non se la passano meglio quelli sopra il metro e ottantacinque, che devono viaggiare rannicchiati, le ginocchia appoggiate al mento.
Molti vettori non offrono più pasti o snack per tratte brevi e le hostess e gli steward sono più scazzati e sbrigativi di prima, il tragitto scandito dalla voce del maître de cabine che pubblicizza panini e bevande a pagamento.

Dopo i primi lock-down, le compagnie aeree hanno ridotto fino al 50% il personale di terra, licenziamenti che si traducono in controlli più lenti ai varchi di sicurezza, decolli e atterraggi sfasati, bagagli non consegnati. Tariffe più alte, voli cancellati, gente sclerata.

Atterro a Istanbul con un po’ di ritardo, dopo qualche ora riparto per Taškent.
La mia vicina ha gli occhi a mandorla, parla con la ragazza seduta davanti a lei.
Grida, si agita, fa dei video e ascolta la musica senza cuffie dal telefonino.
Non c’è noise cancelling che tenga e non so mica se resisto quattro ore in parte a questa.
Non parla né inglese né russo.
Solo uzbeko o turco, che sono simili.
Le chiedo se posso cambiare posto con la ragazza davanti.
Per comunicare usa un’applicazione di traduzione simultanea di Google, sul cellulare.
È un progetto che ha sviluppato un ingegnere italiano della Silicon Valley.
Mio fratello.
Quando me ne ha parlato la prima volta ho pensato fosse una minaccia per il mio lavoro.
Uno studia cinque anni, va in posti assurdi per imparare una lingua, comunicare e vendere.
Tutto ok per un decennio o poco più e poi un giorno arriva tuo fratello col suo team di ingegneri indiani o francesi e ti mette in competizione con un telefonino.
Per testare il programma ho fatto tradurre dall’italiano al russo una frase del tipo “Sono tre giorni che ti aspetto.”
La traduzione era sbagliata e questa cosa mi ha rincuorato.
Poi non ci ho più pensato ma a distanza di qualche anno è chiaro che il team di nerd indo-francesi ha sistemato l’applicazione perché la mia vicina accetta di cambiare posto e io volo tranquillo.

Atterro a Taškent che sono le due del mattino.
Dopo il controllo passaporti, ritiro la valigia, segnalata all’anti-terrorismo con un nastro adesivo arancione, subito riconosciuto da un funzionario di dogana che esamina accigliato campioni di ferramenta e camicie stirate.
Dopo qualche minuto mi trovo nella zona degli arrivi e incrocio lo sguardo dell’autista mandato dall’hotel, un ometto assonnato con la pelle olivastra e gli occhi un po’ allungati che mi aspetta con un foglietto di carta stropicciato tra le mani, il mio nome stampato in caratteri latini.

Fatto il check-in, il ragazzino alla reception esce da dietro il bancone per raccontarmi la storia dell’albergo.
Devo alzarmi tra poco e vorrei evitare ma il giovane fa tenerezza, non ha neanche diciotto anni.
Magrissimo, la peluria e la voce incerta dell’adolescente.
“Ci vogliono solo cinque minuti” mi rassicura in russo, con un accento marcato.
Incomincia dal portone d’ingresso, un arco triangolare in metallo e legno scuro decorato con foglie e fiori intarsiati.
Una moltitudine di dettagli raccolti dentro una cornice intrecciata di motivi geometrici.
“È tutto fatto a mano da artigiani locali.”
Sbuffo dalle narici, perché si muova.
Entriamo nel cortile interno, che porta alle stanze, disposte su piccoli edifici separati.
Parla velocemente.
“Sulle mura all’ingresso ci sono dei bassorilievi.” si tira la manica della camicia sopra il polso sinistro, a disagio per la mia insofferenza “Sono mercanti cinesi, indiani, persiani e africani, sopra un cammello. Attraversano la via della seta. Queste sono le mura di un caravanserraj.”
“Cos’è un caravanserraj?”
“È… è un caravanserraj.” risponde sorpreso, quasi gli avessi chiesto cos’è il sole.
Mi ricorda Caravan, lo standard jazz di Duke Ellington.
Si apre con l’incedere sinuoso dei timpani, poi entra il fraseggio sognante e malinconico del trombone, il contrappunto un po’ sfacciato della tromba con la sordina e quell’effetto ua-ua che ti pare di vederli i cammelli, in fila nel deserto.
I mercanti, le teste fasciate che dondolano al ritmo ipnotico del convoglio.
Il problema è che neanche Duke Ellington ti spiega cos’è un caravanserraj.
Il ragazzino continua a parlare di pietre antiche, del muro o del pavimento, ho smesso di ascoltarlo.
Tiro fuori il telefonino dalla tasca, cerco su Wikipedia e leggo che in italiano si dice caravanserraglio.
Ha origini antiche, era un’area di sosta, una specie di autogrill nel deserto che offriva ristoro a viandanti e animali lungo la via della seta, l’itinerario che dalla Cina portava a Roma.
L’articolo non specifica se anche nel Medio Evo vendessero il Camogli o la Rustichella a peso d’oro ma spesso, in queste strutture d’accoglienza, erano presenti delle biblioteche che contribuivano a diffondere conoscenze tra viaggiatori di culture e latitudini differenti.

Alzo la testa dallo schermo, il portiere mi indica un basso rilievo con uno degli edifici simbolo di Samarcanda, un portale in pietra con l’apertura ad arco, due colonne ai lati, cupola sullo sfondo. Afferro il manico della mia valigia e il giovinetto capisce che è il momento di chiudere la visita guidata al chiaro di luna.
Allarga le braccia e fa un mezzo giro per abbracciare tutto il complesso.
“Il proprietario ha curato tutto il progetto personalmente. È un esperto di storia e architettura.”

Anche un po’ egocentrico, se ha istruito il ragazzino a magnificarne la persona con gli ospiti sfiniti da una giornata di viaggio.
Salgo gli scalini per raggiungere la mia stanza al secondo piano.
Con tutta l’attenzione per la cultura locale e i bassorilievi, si son dimenticati degli ascensori.
La camera è piccola e spartana, il pavimento rivestito da una moquette blue elettrico. Mi lavo i denti e crollo sul letto ad una piazza appoggiato al muro.

Alle nove sono già in piedi per la colazione, allestita in una sala con le pareti rivestite di specchi, pacchiani ma ingrandiscono l’ambiente.
Non c’è nessuno, la temperatura fuori supera già i trenta gradi e chiedo alla cuoca, una signora pienotta con occhi a mandorla e fazzoletto sui capelli, se può accendere il condizionatore.
Annuisce e si ritira in cucina.
Nello stesso istante, senza fare rumore, compare sulla porta un uomo vestito di bianco, indossa una specie di tunica sopra i pantaloni, il capo coperto da un cappello intrecciato.
Se non fosse un musulmano direi che è una papalina.
Avrà settanta anni, la carnagione olivastra e i tratti mediorientali.
Armeggia col telecomando e regola la temperatura.

“Prima di lei c’erano degli anziani. Sa com’è, quelli hanno sempre freddo.”
Parla in russo con un forte accento.
Si chiama Murat, si presenta con un mezzo inchino e la mano destra sopra il cuore.
Ha un modo di fare ospitale e autorevole da padrone di casa, esperto di storia e architettura.
È convinto che io sia russo e si eccita quando dico che sono italiano, gli si illumina il volto.
“Nella Roma gioca un calciatore uzbeko! El’dor Šomurodov.” dice con orgoglio.
“Io…”
“Lei è un calciatore?!?” mi interroga con gli occhi sbarrati, incredulo di fronte alla seconda rivelazione in pochi istanti.
“Non seguo il calcio, ma adesso ci farò attenzione.”
Murat sorride compiaciuto.
Si avvicina mentre mi servo dal buffet e riempio il piatto con mandorle e albicocche essiccate, un uovo sodo e dei pezzetti di una sfoglia con miele e noci, dolce presente in mille variazioni nella cucina nordafricana, araba e centro-asiatica.

“Guardi qua, quanta roba buona.” accompagna le parole con un gesto della mano
“C’è anche la kaša. Nessuno mangia la kaša. Chissa perché?” domanda con aria di rimprovero.
Col caldo che fa, sai che voglia il porridge fumante.
“A me piace la kaša, fa bene.” commenta mentre si riempie una ciotola con la pappetta di riso bianco “Non le dà mica fastidio se mi siedo con lei?”
Ho dormito poco e col fuso sono indietro di tre ore, c’è una sala vuota e questo si vuole piazzare accanto a me nell’unico momento di solitudine della giornata.
“Lei è una persona interessante, con cui si può parlare.”
Murat legge nel pensiero “Io sono un pensionato, mi annoio. Lasci che le faccia compagnia.”
Gioca la carta della compassione con dolcezza.
Impossibile rifiutare, anche perché si è già accomodato di fronte a me.
Raccoglie la kaša col cucchiaio e ci soffia sopra, il suo alito caldo mi arriva in faccia.
Poi aspira rumorosamente per raffreddare il pastone incandescente, quel risucchio vibrato per cui ti sgridavano da bambino “Mangia senza far rumore!”

Ci tiene a raccontarmi la storia della città, che ha origini antiche.
Inizialmente parte di un’area più vasta denominata Turkestan, viene poi conquistata dagli arabi nell’ottavo secolo dopo Cristo.
Occupata e distrutta da Gengis Khan all’inizio del 1200, nel 1865 è annessa all’Impero russo per diventare la capitale della Repubblica Socialista Sovietica dell’Uzbekistan nel 1924.
Quando gli dico che questa è la terza volta che vengo a Taškent si alza in piedi e fa tre inchini di ringraziamento, credo.

“Lei cosa ha studiato?” mi chiede con la bocca mezza piena mentre sguscia un uovo sodo.
“Lingue.”
“È qua per insegnare italiano?”
“No, sono un venditore.”
“Ah business!” commenta ispirato.
“Anch’io sono un businessman. Non avrei mai pensato di occuparmi di affari e invece Allah…” mi confida alzando gli occhi verso il lampadario, la mano destra sul cuore.
Per molti anni è stato professore di storia all’Università, dopo il crollo dell’Urss è diventato consulente del governo per il turismo.
Continua con la lectio magistralis, l’algebra e i numeri vengono dall’Uzbekistan.
Sono erroneamente attribuiti alla cultura araba perché i testi sono scritti in arabo ma in realtà sono frutto dell’ingegno di matematici uzbeki.
Mi tira un pippone sull’importanza degli scienziati locali che mi ricorda Evgenij, il cliente di Odessa che osserva il mondo dalla lente di ingrandimento della cultura ucraina, anche se si sente russo.
Attiro sempre questo tipo di persone.
Provo a cambiare argomento.

“Sotto l’Urss potevate pregare?”
“Ufficialmente sì. C’erano due moschee anche se in realtà era scoraggiato, troppe difficoltà.” muove in cerchio la mano con amarezza “Adesso è meglio, a Taškent stanno costruendo una moschea grandissima, verranno da tutta l’Asia centrale per pregare.”

Fine Prima Parte

1 commento:

  1. interessantissimo come tutti i racconti di Giulio, mi piacerebbe andare in quei posti.

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