giovedì, febbraio 12, 2015

Giambattista Vico



Torna ancora, come sempre benvenuto, ANDREA FORNASARI e il suo spazio a sfondo filosofico.

Una critica parecchio radicale rivolta all'indirizzo razionalistico della sua epoca, fu quella operata dal filosofo italiano (nato a Napoli) Giambattista Vico (1668 - 1744).
Già Leibniz, seppur implicitamente, constatava e suggeriva come solo Dio potesse attingere alla scienza perfetta; questa concezione era in genere accettata da ogni buon cristiano. Vico si preoccupò dunque di costruire un nuovo principio epistemologico sulla base di questa asserzione: Dio possiede una conoscenza perfetta del mondo perché lo ha fatto. L'uomo, dunque, essendo creato, può conoscere il mondo solo imperfettamente.
Per Vico la condizione necessaria alla conoscenza è quindi il verum factum. La formulazione può essere semplice e possiamo anche dire che la verità coincide con il fatto, purché quest'ultimo termine venga inteso nel suo significato originario.

Vico era figlio di un piccolo libraio e divenne professore di retorica presso l'università della sua città natale: conservò questa posizione piuttosto modesta fino a quando si ritirò, pochi anni prima di morire. Per mantenere sé stesso e la sua famiglia doveva integrare lo scarso stipendio impartendo lezioni private e scrivendo alcune schiocchezze letterarie che fossero gradite alla nobiltà.
In tutta la sua vita non ebbe mai modo d'incontrare o anche solo di corrispondere con qualche pensatore della sua statura: la sua opera rimase lungamente oscura, ma non di meno ha finito con l'influenzare, nel tempo, molti pensatori importanti.

La teoria che verità è fatto porta con sé numerose conseguenze. Prima di tutto ci dice che le verità matematiche sono conosciute con certezza perché l'uomo stesso ha elaborato le regole della matematica in maniera astratta e arbitraria. Al tempo stesso, Vico pensa che la matematica non può portarci alla conoscenza della natura come credevano i razionalisti - egli reputa la matematica come cosa astratta, non distillata dall'esperienza, ma distinta dalla natura e quindi la ritiene in qualche modo una costruzione arbitraria della mente umana. Se l'uomo desidera apprendere qualcosa circa la natura, non deve adottare un procedimento matematico, bensì un sistema empirico basato sull'esperimento e l'osservazione: in questo Vico mostra maggiore simpatia per Bacone che non per Cartesio.

Bisogna dire che Vico trascura un po' troppo il ruolo della matematica e del metodo deduttivo per quanto riguarda la ricerca scientifica, però è corretto il suo monito contro la spigliata speculazione matematica che a volte tenta di passare per ricerca empirica.
Ormai sappiamo come la scienza operi sia in maniera induttiva che deduttiva.
La teoria secondo cui la matematica trae la propria certezza dal fatto di essere stata costruita, ha influenzato molti filosofi successivi a Vico, anche se quasi tutti non concordano con lui quando afferma dell'arbitrarietà della matematica.
Possiamo ricordare lo scrittore marxista Sorel, nonché Goblot e Meyerson. Possiamo dire lo stesso per le interpretazioni utilitaristiche e pragmatistiche. In genere il concetto di arbitrarietà è piaciuto ai formalisti, i quali trattano la matematica come un gioco più o meno complicato. Sappiamo che Marx aveva studiato Vico, ma il suo influsso non è del tutto palese.
Vi è però un'altra importante conseguenza che si può trarre dal principio generale di Vico: è la sua teoria della Storia.
Quando egli sosteneva che la matematica era perfettamente conoscibile in quanto realizzata dall'uomo, affermava anche che la matematica non si riferiva alla realtà, mentre la natura non era perfettamente conoscibile in quanto creata da Dio, ma si riferiva al reale.
Questo paradosso resta ancora aperto (se si considera la matematica pura una mera costruzione). Vico individuò una "scienza nuova" che fosse conoscibile e reale: la Storia. In quanto è nella Storia che Dio e l'uomo collaborano: un sorprendente rovesciamento, questo, dell'opinione tradizionale.
Sombart, Weber e Dilthey riprenderanno questa prospettiva.

Ad ogni modo, "La scienza nuova", rimane un libro molto interessante anche per un lettore moderno, sebbene Vico spesso scivoli dal problema empirico alle questioni storiche e ai temi filosofici in maniera un po' confusa.
Il suo punto cruciale, identificare la verità con la cosa fatta, è un principio che impone una attenta indagine di alcuni corollari saldissimi del problema epistemologico.
L'esecuzione intelligente di un'azione può facilitare la sua comprensione, questo è vero. Mentre il razionalismo rifugge dall'immaginazione come fonte di confusione, Vico al contrario insiste sulla sua funzione nel processo di scoperta. Egli dice: prima di giungere ai concetti pensiamo in termini di situazioni vaghe e mal definite, e questo non può essere del tutto privo di contenuto concettuale.
Vico non sostiene che la Storia possa essere prevista in maniera meccanica (un errore in cui incapperanno prima Hegel e poi Marx), ma che sia conoscibile secondo linee generali. Questo modo di affrontare il problema storico si adatta a uno studio empirico meglio delle teorie razionalistiche.
Vico concepisce l'organizzazione sociale come un processo naturale e graduale.
Nonostante le teorizzazioni eterodosse in campo sociologico, Vico restò tuttavia un devoto cattolico. O almeno tentò di far rientrare nel suo sistema la religione ricevuta. Se fosse possibile farlo senza cadere nell'incoerenza è un'altra questione.
Ma la coerenza non è uno dei pregi di Vico. L'importanza di Vico risiede piuttosto nella quasi miracolosa anticipazione del diciannovesimo secolo e delle relative conquiste filosofiche.
Va ricordato dunque come un pensatore estremamente originale, che per la prima volta fornisce una vera e propria teoria della civiltà umana. Tutto ciò è intimamente connesso con il suo concetto guida centrale: ossia il verum factum.

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