Primo mese dell'anno e abbiamo già qualcosa da segnalare.
Dall'estero Tibbs, Mo Troper e Popincourt
Tra gli italiani Rudy Bolo, Enri Zavalloni, Any Other e Paolo Benvegnù.
RUDY BOLO - Mezzanotte al soul bar / Mollo tutto
Spettacolare singolo in prezioso vinile in cui Rudy Bolo, veterano della scena streetpunk italiana (con i grandi Ghetto 84), riprende due brani della tradizione punk nostrana in chiave soul/northern soul. "Mezzanotte al soul bar" era dei Ghetto 84, "Mollo tutto" dei Bomber 80. I brani sono energici, splendidamente arrangiati, voce abrasiva, conservano lo spirito originario ma si ammantano di sapori Sessanta, riportano alla mente in particolare i mai dimenticati e sempre rimpianti Redskins e i nostri Statuto. Eccellente e indispensabile per ogni Young (o anche old) soul rebel!
Per averlo: https://www.facebook.com/roberto.gagliardi.9828
THE TIBBS - Keep it yourself
Al terzo album la band olandese si conferma una solida realtà della scena vintage soul con dodici brani frizzanti, allegri, solari, pieni di 60's groove, ballabilissimi. Stampa la nostra Record Kicks e l'album è davvero di grande livello.
SHED SEVEN - A matter of time
Il nuovo album li ha portati per la prima volta al numero uno delle classifiche inglesi.
Non è mai stata una band indimenticabile, nemmeno nell'era Britpop.
"A matter of time" è un lavoro dignitoso, con ottimi spunti e tante buone cose ma difficilmente rimarrà negli annali.
Per gli appassionati sarà comunque un piacere ascoltarlo.
SPRINTS - Letter to self
Ottimo debutto per la band dublinese che si muove nell'ormai consueto ambito "post-rock" di ispirazione Fontaines DC e dintorni ma inserisce una buona dose di personalità, carica punk, melodie accattivanti, potenta e urgenza. Non male.
SLEATER KINNEY - Little Rope
Un album incentrato sul dolore e la perdita, il secondo senza più la batterista dimissionaria Janet Weiss. Un disco un po' maltrattato dalla critica ma che invece conferma l'innata personalità e riconoscibilità del duo, in costante bilico tra un sound nervoso e ostile e linee melodiche ammalianti. Non un capolavoro ma un'ennesima conferma del marchio di fabbrica tanto amato negli anni.
MO TROPER - Troper sings Brion
Troper arriva da Portland, suona un gustosissimo mix di power pop e psichedelia (talvolta non lontano dagli XTC) per coverizzare una serie di brani inediti di Jon Brion (valente compositore di colonne sonore e produttore di Of Montreal, Eels, Fiona Apple, Elliott Smith, Robyn Hitchcock, Rhett Miller, Kanye West. Gli amanti di queste atmosfere retrò apprezzeranno tantissimo.
BORY - WHo's a good boy
BORY è Brenden Ramirez, che fine a quando ha incontrato Mo Troper (vedi recesione sopra) poco sapeva di atmosfere 60's/power pop.
Con la sua produzione ha abbracciato il mondo jingle jangle/Byrds/ Buffalo Springfield/Wilco e affini e in "Who’s a Good Boy" tira fuori undici brani irresistibili che arrivano dalle succitate atmosfere di cui ben sappiamo.
Date un ascolto, oh voi amanti di cotal delizia:
https://bory.bandcamp.com/album/whos-a-good-boy
THE SMILE - Wall of eyes
La band di Thom Yorke e Jonny Greenwood dei Radiohead, accompagnati dal batterista dei Sons of Kemet, Tom Skinner, firma il secondo album, avvolgente, atmosfere sospese, tocchi di moderna psichedelia ("Read the room"), avanguardia. Il passo è talvolta pesante ma il lavoro interessante con momenti di grande ispirazione.
POPINCOURT - We were bound to meet
Il nuovo album del cantautore francese ci (ri)porta nel magico mondo semiacustico dei Prefab Sprout, Aztec Camera, Smiths, Style Council, Everything But The Girl tra melodie e atmosfere Beatlesiane e 80's.
Belle canzoni, atmosfere fascinose e avvolgenti, un piccolo gioiello godibilissimo.
ENRI ZAVALLONI - Organ express
Le parole magiche sono Meters (in particolare), Booker T & the Mg's, Jimmy Smith, Jimmy McGriff. Quella scuola di musicisti straordinari che ha mischiato jazz, funk, blues, suoni latini, soul, creando un genere unico (ben ripreso poi dal James Taylor Quartet,), pulsante, immediatamente riconoscibile.
E' da lì che attinge il settimo album del grande Hammondista romagnolo. Otto brani autografi, un groove pazzesco, suoni di pura eccellenza, un disco bellissimo e potentissimo (suonato da musicisti eccellenti). A cui si aggiunge una particolarità rara, ormai: per ascoltarlo è necessario acquistarlo in vinile, qui: info@atomicstudio.it
RETARDED - Same As The First
La devozione al sound dei Ramones è diventato negli anni un vero e proprio "genere" all'interno del punk rock. I Retarded ne furono tra i migliori esponenti, prima di spostarsi verso sonorità più glam hard punk. Con il quarto album ritornano alle origini con tredici brani brevi, diretti, rock 'n' roll punk, pennellate pop, Ramones fino al midollo, mai troppo veloci, mai lenti, il classico tempo medio di Joey e soci. Ben fatto e irresistibile.
SUBSONICA - Realtà aumentata
Torna la band piemontese dopo un lungo periodo di silenzio e sbandamento creativo. Il nuovo lavoro è convincente, attuale, ispirato, mantenendo inalterato il loro classico marchio di fabbrica, con aggiunte di house, hip hop, funk, dub. Il risultato è ottimo, le canzoni sempre ad alto livello, soprattutto a livello di suono e produzione. Risalgono nei posti alti della musica italiana con la personalità che li ha sempre caratterizzati e che sembrava aver perso vigore.
PAOLO BENVEGNU’ – E’ inutile parlare d’amore
Il nono album di uno dei più raffinati e interessanti cantautori italiani ne conferma tutti i pregi di una scrittura da sempre di altissimo livello. Benvegnù muove lo sguardo verso atmosfere più fruibili ma non scende a nessun compromesso lirico (con numerosi riferimenti socio politici) e sonoro e spiazza con un gioiello come “Marlene Dietrich”, dolente ballata romanticamente malinconica. “Canzoni brutte” è un brano che guarda con disincanto al mondo della musica, con note palesemente autobiografiche e dalla ritmica arrembante. “Tecnica e simbolica” apre il lavoro con cambi di ritmo e di atmosfere dal sapore quasi prog. Sono le tre vette di un album maturo, personale, convincente, intenso, realizzato tecnicamente alla perfezione (con arrangiamenti sempre eleganti e azzeccati).
ANY OTHER – Stillness, stop: you have a right to remember
Any Other è una delle cantautrici (oltre che produttrice e polistrumentista) più talentuose della scena italiana. Lo conferma il nuovo album, un delicato lavoro di cesello tra atmosfere folk, un retrogusto jazzy, canzoni di maturità eccelsa, una voce suadente, ferma, capace di librarsi sicura tra le note mai banali delle composizioni. Eleganza e raffinatezza, ammantate da una vena malinconica e romantica. Si candida a uno dei migliori album nostrani dell’anno, già da ora.
MALCRIA - Fantasías Histéricas
Violenza sonora isterica inconsulta. Otto brani tra hardcore tiratissimo e death metal in 15 minuti. Arrivano da Città del Messico e le caratteristiche artistiche fotografano alla perfezione la situazione del paese. Notevoli!
GIUDI e QUANI – Out of my way
Secondo album per il duo (southern) rock/blues/soul/funk, formato da Giuditta Cestari e Francesco Quanilli. Un disco aspro, duro, intensamente elettrico che evoca Black Keys, Jack White, Bellrays. Otto brani immediati, urgenti, potenti, sfacciati e pulsanti, pieni di groove e di approccio punk. Ritmo sempre alto, suoni sempre ben calibrati, grande voce, tante idee.
PURPLE HEARTS - Extraordinary Sensations Studio And Live 1979-1986
Triplo CD che raccoglie l'opera omnia dei PURPLE HEARTS una delle migliori (e più ruvide) Mod Band della scena del 1979.
Nel box i due album incisi, lo spettacolare ‘Beat That!’ del 1980 il meno riuscito, più pop, ‘Pop-Ish Frenzy’ del 1986, tutti i singoli, tredici brani live e diversi demo tra cui i sei prodotti da Jimmy Pursey degli Sham 69 nel 1979 e i due curati da Paul Weller nel 1981, destinati a un'uscita per la sua Respond records, mai avvenuta, in cui si avverte una predilezione per il soul a scapito della consueta carica elettrica per cui erano conosciuti.
In totale 76 brani che ci mostrano una band che partiva da basi essenzialie minimali, figlie del punk meno rude (avevano esordito in quel giro con il nome di Sockets, con cui suonarono solo 7 concerti, tra cui un supporto ai Buzzcocks nella natìa Romford e un'audizione al mitico "Roxy" londinese).
Ebbero scarso successo commerciale: i singoli "Millions Like Us" e "Jimmy" si affacciarono a stento nei primi 60 delle charts inglesi, l'album "Beat that!" passò abbastanza inosservato. Dopo un periodo di stop, tornarono in circolazione con il live "Head on a collision time" del 1984 e l'album "Pop-ish" frenzy" due anni dopo, anche in questo non coronato da particolare successo.
Si sono successivamente riuniti per qualche tour e apparizioni in festival mod.
ASCOLTATO ANCHE:
GREEN DAY (sono bravi ad accontentare il proprio pubblico ma alla fine è un album insapore), JOHN ELLISON (buon album pur se molto accademico di rhythm and blues, rock blues, funk, perfino reggae), SY SMITH (smooth soul molto gradevole), DOJO CUTS (ep strumentale di quattro brani a base di un funk soul molto mellow), DANIELLE NICOLE (buon rock blues)
LETTO
Colson Whitehead - Il ritmo di Harlem
Ho adorato Colson Whitehead con il capolavoro "La ferrovia sotterranea", confermato dall' ottimo "I ragazzi della Nickel".
"Il ritmo di Harlem" / "Harlem Shuffle" è il primo capitolo (datato 2021) di una trilogia (poi proseguita con "Manifesto criminale") dedicata alle vicende di Ray Carney, negoziante di mobili in costante bilico tra legalità e malavita.
E' un libro SOUL FUNK, ambientato nella Harlem tra i Cinquanta e Sessanta, tra gangster, corruzione, razzismo, rivolte per i diritti dei neri, rivendicazioni sociali, politica e bassifondi.
Whitehead è sempre superbo nella scrittura, pur se su uno scalino più basso rispetto a "La ferrovia sotteranea", il groove della narrazione ha il ritmo perfetto della "Harlem Shuffle" di Bob & Earl (splendidamente ripresa dagli Stones).
Alla fine ti ritrovi immerso nel mondo che descrive, tra pork pie hat, oscuri bar, sottofondi jazz, qualche classico rhythm and blues.
Uno degli scrittori contemporanei più dotati e pulsanti.
Marilena Umuhoza Delli - Pizza Mussolini
Un romanzo acre e spietato che viaggia su due binari tanto lontani quanto affini, raccontando le storie (con abbondanza di aspetti autobiografici) di due ragazze, l'una, afrodiscendente con la pelle scura, che vive a Bergamo, l'altra, con la pelle molto chiara per i canoni locali, in Malawi.
Entrambe vittime di razzismo, pregiudizi, soprusi, violenze.
Le vicende si intersecano, abbondano di momenti drammatici e crudeli, arrivano a una conclusione sorprendente, in cui ritrovano entrambe radici e identità.
Tematiche non facili da affrontare ma grazie a una scrittura schietta e diretta, la lettura è più che consigliata.
Marilena Umuhoza Delli, madre dal Rwanda, padre di Bergamo, ha firmato tre libri sul razzismo in Italia e conduce un programma radiofonico nazionale dedicato alle eccellenze "Afrodiscendenti" su Radio Radicale.
Fotografa e regista, ha lavorato col produttore Ian Brennan a oltre 40 album di artisti da tutto il mondo, ottenendo riconoscimenti internazionali tra cui un Grammy e risvegliando l’attenzione dei mass media sul tema del razzismo e dell’inclusione nel mondo della musica e della letteratura.
I suoi lavori sono stati pubblicati su testate e emittenti internazionali come il New York Times, The Guardian, Al Jazeera, CNN e BBC.
Umberto Negri - Io e i CCCP – Storia fotografica e orale
Umberto Negri è stato il bassista dei CCCP nella prima fase della loro storia, lasciando la band poco prima della pubblicazione dell'album d'esordio “Affinità-divergenze fra il compagno Togliatti e noi”.
Esce ora, in concomitanza con le varie celebrazioni del 40ennale della band (mostra, ristampe, docufilm, concerti), la ristampa aggiornata della sua testimonianza di quel periodo, in particolare attraverso una lunga serie di foto, tra Emilia e Berlino, che ritrae l'embrione di quella che poi è stata l'avventura della band reggiana.
Il tutto corredato da una serie di aneddoti, storie, documenti, talvolta con considerazioni piuttosto amare e aspre sulla fine del rapporto con la band (con tanto di problematiche legate a diritti d'autore e rivendicazioni artistiche su brani concepiti insieme e mai attribuiti a lui, peraltro rigorosamente escluso dalle suddette celebrazioni).
Il libro documenta bene quegli anni furibondi e "affamati", rievoca tante cose da testimone sul campo e le foto sono la perfetta integrazione, urgente e diretta, di un periodo, senza alcun afflato nostalgico, irripetibile.
Riccardo Pedrini - Ordigni
Pubblicato originariamente nel 1998 esce ora un'edizione aggiornata con nuova copertina a cura di Hellnation Libri.
Un testo essenziale per la comprensione del primo punk (bolognese in questo caso ma dalla storia affine a tutto quello che accadde in Italia a cavallo tra i 70 e gli 80).
Non la classica cronologia di nomi, eventi, date (che ovviamente non mancano) ma un'analisi approfondita di ciò che pulsò, in maniera caotica e approssimativa, in quei giorni.
" Si tentava un'altra forma di vita, a suo modo irriducibile, o non riconducibile, se avessimo letto Bataille avremmo detto che quella passione sorgeva dalla negatività senza utilizzo a cui ci sentivamo predestinati...i Ramones ti facevano sentire felice mentre calpestavi i sobborghi in cerca di una piccola gioia subito. I Pistols erano rabbia lucida e insegnavano l'attitudine al confronto. I Clash erano la voce della metropoli globale, comprensibili da Brixton alla Bolognina".
Pedrini (ex bassista dei Nabat e tra i primi skinhead bolognesi e italiani, successivamente membro del collettivo Wu Ming) entra nell'anima e nel cuore della vicenda, ne ricuce attitudini, vicende e situazioni, con lucidità, talvolta spietata, altre volte amara o affettuosa.
"L'importanza di quella fase, per la storia del nostro paese è largamente sottovalutata.
TUTTA la storia recente del nostro paese è largamente sottovalutata, inesplorata, resa estranea a quegli stessi che l'hanno vissuta.
Perché in realtà si crede di ricordare e non si è in grado, generalmente, di tenere un discorso coerente né sugli anni Settanta, né, forse in maniera ancora maggiore, sugli anni Ottanta...è difficile oggi rendersi conto della portata rivoluzionaria all'epoca, insita nel semplice fatto di radersi i capelli, mettersi un paio di pantaloni a tubo, andarsene in giro con i vestiti trafitti da un bel po' di spille da balia.
Significava rifiutare in blocco, incosapevolmente o meno, anni e anni di controcultura, rifiutare la liberazione del corpo come mille altre utopie, significava invertire scientemente un'immagine giovanile allora dominante.
Tutti avevano i capelli lunghi. Tutti portavano i jeans a campana. Tutti si occupavano di politica."
Pedrini parte dai primi passi del punk bolognese (da cui esclude tutto il giro Skiantos etc), facendolo iniziare da quando Raf Punk e vari accoliti (tra cui anche i primi Nabat) incominciarono a farsi vedere e sentire, molto rumorosamente, analizza il passaggio di molti allo stile skinhead, per chiudere nel 1983, quando proprio questa scena collassa con il "famoso" raduno Oi! di Certaldo che distrugge definitivamente anni di convivenza con la divisione tra neofascisti, apolitici, "rossi", punk etc etc.
Per chi vuole aggiungere un tassello in più alla conoscenza di questo (ancora) contorto ambito, questo libro servirà a dare un aiuto determinante.
Federico Traversa - One love. Bob Marley
Scrittore, giornalista, cofondatore della casa editrice Chinaski, conduttore radiofonico per Radio Popolare Network, Federico Traversa tributa omaggio a un suo riferimento umano e musicale: BOB MARLEY.
Lo fa attraverso una biografia romanzata ma precisa ed efficace, scorrevole e coinvolgente, intersecandola con (tragiche) vicende personali, in una sorta di doppio racconto commovente e intenso.
La storia del piccolo Bob che lentamente, molto lentamente, esce, grazie alla musica, alla sua intraprendenza e talento, dal ghetto di TrenchTown, quartiere di Kingston, Giamaica e diventa un idolo, un profeta, tra vizi (tanti) e virtù (di più), figli sparsi, marijuana (senza limiti), Rastafarianesimo, impegno sociale e politico, vicende incredibili e la prematura scomparsa nel 1981, a 36 anni, per un male incurabile (e trascurato).
Anche per chi poco apprezza o conosce il grande Bob, il libro è piacevolissimo e veloce da leggere e inevitabilmente vi porterà a (ri)dare un ascolto a "Exodus", "Uprising", "Soul rebels".
Guido Michelone - Il dizionario del jazz
Il mondo JAZZ è un universo ormai ampio e inestricabile tante sono le tendenze e contaminazioni, tanti sono i generi, dischi, gruppi, solisti etc.
Guido Michelone, esperto e conoscitore della materia, propone una guida in cui, attraverso brevi prefazioni, ci introduce a liste di brani che rappresentano al meglio il contesto.
Dall'hard bop al soul jazz, dal latin al free.
Ma ci sono anche una breve storia culturale/artistica/sociale, una filmografia jazz, i 100 album "che bisogna avere", i libri, i negozi, il look e tanto altro.
Un "Bignami" per mettere un piede nel mondo jazz e non scivolare ma andare spediti verso la sua essenza.
VISTO
Io, noi e Gaber di Riccardo Milani
Un doveroso e riuscito omaggio a uno dei migliori rappresentanti della canzone d'autore italiana di sempre, di cui si rivive tutta la carriera, dagli esordi jazz/rock 'n'roll, al pop (mai banale) degli anni Sessanta e il successivo passaggio alla formula teatro/canzone e all'impegno politico ideologico che lo accompagnò fino alla scomparsa.
GIORGIO GABER era un fine intellettuale, precursore e premonitore di una società che intuiva già avviarsi verso l'attuale sfacelo.
La formula è il classico alternarsi di immagini originali e testimonianze di amici, collaboratori (magnifico Sandro Luporini), figli e "colleghi" di varia estrazione, la cui scelta è talvolta parecchio discutibile e la presenza francamente inutile, forzata se non irritante.
Il tono è agiografico e celebrativo ma il doc è riuscito e intenso, anche se tagliando un po' di commenti e aggiungendo altre immagini originali ne avremmo avuto maggiore giovamento.
COSE VARIE
° Ogni giorno mie recensioni italiane su www.radiocoop.it (per cui curo ogni settimana un TG video musicale - vedi pagina FB https://www.facebook.com/RadiocoopTV/).
° Ogni domenica "La musica ribelle", una pagina sul quotidiano "Libertà"
° Ogni mese varie su CLASSIC ROCK.
° Ogni sabato un video con aggiornamenti musicali sul portale https://www.facebook.com/goodmorninggenova
° Sulle riviste/zines "GIMME DANGER" e "GARAGELAND"
° Periodicamente su "Il Manifesto" e "Vinile".
mercoledì, gennaio 31, 2024
martedì, gennaio 30, 2024
Mitch Ryder
Ogni mese la rubrica GET BACK ripropone alcuni dischi persi nel tempo e meritevoli di una riscoperta.
Le altre riscoperte sono qui:
http://tonyface.blogspot.it/search/label/Get%20Back
Speciale MITCH RYDER
Mitch Ryder and the Detroit Wheels
Take a ride - 1966
Breakout! - 1966
Sock It To Me - 1967
I tre album con i Detroit Wheels sono un concentrato di selvaggio rhythm and blues, "sound dei giovani poveri di Detroit", Rock 'n' roll, Rolling Stones, Pretty Things, Stax, con la voce di Mitch ruvidissima e cruda. In prevalenza troviamo cover di classici e di brani oscuri ma c'è energia da vendere e le reinterpretazioni sono semplicemente travolgenti. "All Mitch Ryder Hits!" raccoglie il meglio e il favoloso singolo "The devil with a blues dress on".
High-energy Motor City rock & roll.
Mitch Ryder – The Detroit / Memphis Experiment - 1969
Produce Steve Cropper, suonano i Booker T & the Mg's, canta una delle migliori voci soul. Il risultato è un torrido album rhythm and soul, buona parte del repertorio è composto dai We Three (Bettye Crutcher, Homer Banks, Raymond Jackson già compositori della hit diu Johnnie Taylor "Who’s Making Love”), le canzoni sono ritmate e dirette, con qualche vaga influenza psichedelica.
Detroit - Detroit - 1971
Ciò che rimane dei Detroit Wheels ovvero il solo batterista Johnny Badanjek torna, con la voce di Mitch Ryder con un album potentissimo tra rhythm and blues, blues, boogie, hard rock. Alla chitarra Steve Hunter (poi con Alice Cooper, Peter Gabriel e nel live di Lou Reed "Rock n roll animal"), W. Ron Cooke al basso (poi con i Sonic's Rendezvous di Fred Sonic Smith e Scott Asheton). C'è anche una cover molto particolare di "Rock n roll" dei Velvet Underground e tantissima energia.
Mitch Ryder - How I spent my vacation - 1978
Potentissimo, travolgente, diretto con brani pub rock, funk, rock blues, il quasi punk dell'introduttiva "Tough kid" ma anche momenti più delicati e introspettivi. Lavoro misconosciuto ma di alta qualità.
Take a ride - 1966
Breakout! - 1966
Sock It To Me - 1967
I tre album con i Detroit Wheels sono un concentrato di selvaggio rhythm and blues, "sound dei giovani poveri di Detroit", Rock 'n' roll, Rolling Stones, Pretty Things, Stax, con la voce di Mitch ruvidissima e cruda. In prevalenza troviamo cover di classici e di brani oscuri ma c'è energia da vendere e le reinterpretazioni sono semplicemente travolgenti. "All Mitch Ryder Hits!" raccoglie il meglio e il favoloso singolo "The devil with a blues dress on".
High-energy Motor City rock & roll.
Mitch Ryder – The Detroit / Memphis Experiment - 1969
Produce Steve Cropper, suonano i Booker T & the Mg's, canta una delle migliori voci soul. Il risultato è un torrido album rhythm and soul, buona parte del repertorio è composto dai We Three (Bettye Crutcher, Homer Banks, Raymond Jackson già compositori della hit diu Johnnie Taylor "Who’s Making Love”), le canzoni sono ritmate e dirette, con qualche vaga influenza psichedelica.
Detroit - Detroit - 1971
Ciò che rimane dei Detroit Wheels ovvero il solo batterista Johnny Badanjek torna, con la voce di Mitch Ryder con un album potentissimo tra rhythm and blues, blues, boogie, hard rock. Alla chitarra Steve Hunter (poi con Alice Cooper, Peter Gabriel e nel live di Lou Reed "Rock n roll animal"), W. Ron Cooke al basso (poi con i Sonic's Rendezvous di Fred Sonic Smith e Scott Asheton). C'è anche una cover molto particolare di "Rock n roll" dei Velvet Underground e tantissima energia.
Mitch Ryder - How I spent my vacation - 1978
Potentissimo, travolgente, diretto con brani pub rock, funk, rock blues, il quasi punk dell'introduttiva "Tough kid" ma anche momenti più delicati e introspettivi. Lavoro misconosciuto ma di alta qualità.
lunedì, gennaio 29, 2024
Blaxploitation
Riprendo l'articolo uscito ieri per "Libertà", quotidiano di Piacenza, dedicato alla BLAXPLOITATION
La Blaxploitation fu un genere cinematografico, a cui si agganciò anche l’aspetto musicale, che fungeva da perfetta colonna sonora, nato nei primi anni Settanta negli Stati Uniti. Epoca in cui le istanze per l’acquisizione di pari diritti da parte degli afroamericani erano all’ordine del giorno, non di rado sottolineate da sanguinose rivolte, dalle minacce delle Black Panthers a passare a vie di fatto, scontri istituzionali, in un’America ancora pesantemente coinvolta nel massacro del Vietnam.
Per la prima volta la figura cinematografica delle persone di colore passava da un ruolo comprimario, spesso macchiettistico o che in qualche modo aspirava a un’integrazione nel consesso “bianco” – vedi il Sidney Poitier di “Indovina chi viene a cena”, accettato perché di classe benestante – a quello di protagonista. Non più personaggi sconfitti, relegati a spalla di attori bianchi, aiutanti di secondo piano, simpaticoni inconcludenti ma detective vincitori che in un ambito quasi esclusivamente poliziesco, se la cavano alla grande contro la malavita, risolvono casi, sbaragliano band di pericolosi criminali. E, soprattutto, grazie alla loro forza e avvenenza, si circondano di donne disponibili e compiacenti. Dice Mattia Chiarella nel suo recente libro “Blaxploitation. Una storia americana”:
Il Cinema d' Exploitation non è un genere, è un'industria con con un metodo di produzione specifico. I film d'exploitation sono prodotti a buon mercato destinati a un facile profitto."Facili' perché offrono al pubblico ciò che non può ottenere altrove: sesso, violenza e argomenti tabù. 'Facili' perché prendono di mira il più grande gruppo demografico di spettatori: la fascia che va dai quindici ai venticinque anni'.
La qualità dei film prodotti non è mai stata eccelsa, con alcune eccezioni.
La più celebre è “Shaft il detective” di Gordon Parks, uscito nel 1971, interpretato da Richard Roundtree, che indaga nella New York cruda e dura dell’epoca, sconfiggendo i nemici senza alcun timore.
Il successo indusse gli autori a dargli due seguiti, “Shaft colpisce ancora “del 1972 e “Shaft e i mercanti di schiavi” del 1973, ma che, come tutti i sequel, non ebbero la medesima fortuna.
Neanche una serie TV, tra il 73 e 74, e un nuovo “Shaft”, nel 2000 con Samuel L.Jackson nei panni del nipote dello Shaft originario trovarono il gusto del pubblico e della critica.
Anche se ufficialmente l’inizio della Blaxploitation data qualche mese prima con l’uscita di “Sweet Sweetback’s Baadasssss Song” di Melvin Van Peebles in cui il gigolò Sweetback (interpretato dallo stesso Van Peebles), inseguito da poliziotti bianchi, inizia una lunga fuga tentando di raggiungere il Messico.
Il regista dichiarò esplicitamente che voleva fare un film vittorioso, in cui i neri potessero uscire a testa alta. Nessuno degli attori è un professionista ma è proprio la spontaneità e l’urgenza della pellicola a farne un film di culto.
Le stesse Pantere Nere, abitualmente molto rigide e settarie, lo ritennero un film rivoluzionario, la cui visione era consigliata a tutta la comunità afroamericana. Il successo di quello che era diventato già un “genere” fece osare anche in direzioni impensabili come con “Blacula”, storia di un vampiro di colore (in Italia intitolato – ancora lontani i tempi del politically correct “Blacula, il vampiro negro”) dopo aver incontrato Dracula mentre lotta contro la tratta di schiavi e che risorge nella Los Angeles degli anni Settanta con prevedibili conseguenze.
Anche la figura femminile ne usciva in chiave vincente e dominatrice come in “Foxy Brown” con la splendida e giunonica Pam Grier, poi rivalutata da Quentin Tarantino in “Jackie Brown”. Pam Grier ricorda i tempi della Blaxploitation: Ai produttori non piaceva quel termine che indica "sfruttamento" e che non sarebbe stato appropriato per i personaggi femminili afro-americani. Loro avrebbero voluto far circolare il messaggio che le donne dovevano essere protette. Io invece mi proteggevo già da sola, non avevo bisogno di un uomo per farlo. E dicevo loro che avrei usato la mia femminilità e i miei modi per avere la meglio su una situazione. In un certo senso ho suggerito io l'etichetta di blaxploitation per quello specifico genere cinematografico. Ero sicura che questo titolo sarebbe rimasto nel corso degli anni. E che i film saranno ricordati anche quando non ci sarò più.
Sempre Chiarella nel suo libro sottolinea un passaggio importante:
La musica e il cinema afroamericani hanno avuto un'evoluzione molto differente l'uno dall'altro: se nella prima la collaborazione tra bianchi e neri ha portato nell'arco di pochi decenni alla nascita di nuovi generi musicali e collaborazioni di altissimo livello, nel mondo del grande schermo la visibilità afroamericana si trova ad affrontare ancora oggi, grandissimi ostacoli.
Un altro titolo epocale è “Superfly” è del 1972, per mano dello sfortunato regista (morirà giovane poco tempo dopo) Gordon Parks Jr che non risparmia sesso, droga e violenza e che diventerà controverso all’interno della comunità nera che lo accuserà di proiettare un’immagine distorta e non conforme alla realtà di Harlem (dove era ambientato). Ma come dice il protagonista Youngblood:
«So che è un gioco sporco, ma è l’unico che ci lasciano fare».
L’aspetto più interessante e saliente del film (e dell’intero filone cinematografico) è la colonna sonora, affidata a un asso della black music come Curtis Mayfield che sfodera musiche mozzafiato, tra funk, soul, gospel, rock in quello che diventerà il sound denominato specificatamente “Blaxploitation”.
Anche un grande come Isaac Hayes aveva nobilitato le scene di “Shaft” con un album entrato nella storia della black music.
Troveremo altri grandi artisti dell’ambito soul e funk tra gli autori di colonne sonore del genere, come James Brown per “Black Caesar”, Marvin Gaye in “Trouble man” e ancora Barry White, Roy Ayers, Willie Hutch.
In poco tempo il tutto si sgonfia, perde appeal e seguito. Da una parte perché le trame diventano prevedibili e ripetitive ma soprattutto perché è proprio dall’interno della comunità afroamericana che incominciano a sorgere problemi:
Il National Association for the Advancement of Colored People Associazione nazionale per il progresso della gente di colore), appoggiato da alcune associazioni religiose, registi e sceneggiatori accuseranno il contesto di avere raggiunto un eccesso di contenuti violenti e sessualmente espliciti tali da ridurre il popolo afroamericano a una macchietta soggetta a derisione. J. Griffin da "Hollywood and the Black community", scritto del 1973: Dobbiamo dire ai produttori sia bianchi che neri che non tollereremo la continua deformazione delle menti dei nostri bambini neri con la sporcizia, la violenza e le bugie culturali che sono onnipervadenti nelle attuali produzioni dei cosiddetti film neri. Dobbiamo dire ai produttori cinematografici bianchi e neri che non tollereremo che la trasformazione dallo stereotipato Spepin Fetchit in supernegro sullo schermo è solo un'altra forma di genocidio pubblico.
Dobbiamo dire ai produttori cinematografici bianchi e neri che non tollereremo la continua rappresentazione di donne di colore sullo schermo come domestiche o donne dalla morale discutibile che saltano da un letto all'altro senza alcun coinvolgimento emotivo. Dobbiamo insistere sul fatto che i nostri figli non siano costantemente esposti a una dieta di cosiddetti film neri che glorificano i maschi neri come magnaccia, spacciatori di droga, gangster e supermaschi co grandi abilità fisiche ma senza capacità cognitive.
La Blaxploitation finisce come filone a metà degli anni Settanta ma continua a influenzare le generazioni successive.
Da Quentin Tarantino a Spike Lee saranno in molti a riprenderne modalità espressive, citazioni, inquadrature, ispirazione e in molti film non mancheranno volute citazioni ai capolavori del genere. Rivisti oggi sono, nella maggior parte, anacronistici e addirittura fumettistici ma è effettivamente passato mezzo secolo.
Peccato che per gli afromericani le problematiche non siano cambiate più di tanto.
La Blaxploitation fu un genere cinematografico, a cui si agganciò anche l’aspetto musicale, che fungeva da perfetta colonna sonora, nato nei primi anni Settanta negli Stati Uniti. Epoca in cui le istanze per l’acquisizione di pari diritti da parte degli afroamericani erano all’ordine del giorno, non di rado sottolineate da sanguinose rivolte, dalle minacce delle Black Panthers a passare a vie di fatto, scontri istituzionali, in un’America ancora pesantemente coinvolta nel massacro del Vietnam.
Per la prima volta la figura cinematografica delle persone di colore passava da un ruolo comprimario, spesso macchiettistico o che in qualche modo aspirava a un’integrazione nel consesso “bianco” – vedi il Sidney Poitier di “Indovina chi viene a cena”, accettato perché di classe benestante – a quello di protagonista. Non più personaggi sconfitti, relegati a spalla di attori bianchi, aiutanti di secondo piano, simpaticoni inconcludenti ma detective vincitori che in un ambito quasi esclusivamente poliziesco, se la cavano alla grande contro la malavita, risolvono casi, sbaragliano band di pericolosi criminali. E, soprattutto, grazie alla loro forza e avvenenza, si circondano di donne disponibili e compiacenti. Dice Mattia Chiarella nel suo recente libro “Blaxploitation. Una storia americana”:
Il Cinema d' Exploitation non è un genere, è un'industria con con un metodo di produzione specifico. I film d'exploitation sono prodotti a buon mercato destinati a un facile profitto."Facili' perché offrono al pubblico ciò che non può ottenere altrove: sesso, violenza e argomenti tabù. 'Facili' perché prendono di mira il più grande gruppo demografico di spettatori: la fascia che va dai quindici ai venticinque anni'.
La qualità dei film prodotti non è mai stata eccelsa, con alcune eccezioni.
La più celebre è “Shaft il detective” di Gordon Parks, uscito nel 1971, interpretato da Richard Roundtree, che indaga nella New York cruda e dura dell’epoca, sconfiggendo i nemici senza alcun timore.
Il successo indusse gli autori a dargli due seguiti, “Shaft colpisce ancora “del 1972 e “Shaft e i mercanti di schiavi” del 1973, ma che, come tutti i sequel, non ebbero la medesima fortuna.
Neanche una serie TV, tra il 73 e 74, e un nuovo “Shaft”, nel 2000 con Samuel L.Jackson nei panni del nipote dello Shaft originario trovarono il gusto del pubblico e della critica.
Anche se ufficialmente l’inizio della Blaxploitation data qualche mese prima con l’uscita di “Sweet Sweetback’s Baadasssss Song” di Melvin Van Peebles in cui il gigolò Sweetback (interpretato dallo stesso Van Peebles), inseguito da poliziotti bianchi, inizia una lunga fuga tentando di raggiungere il Messico.
Il regista dichiarò esplicitamente che voleva fare un film vittorioso, in cui i neri potessero uscire a testa alta. Nessuno degli attori è un professionista ma è proprio la spontaneità e l’urgenza della pellicola a farne un film di culto.
Le stesse Pantere Nere, abitualmente molto rigide e settarie, lo ritennero un film rivoluzionario, la cui visione era consigliata a tutta la comunità afroamericana. Il successo di quello che era diventato già un “genere” fece osare anche in direzioni impensabili come con “Blacula”, storia di un vampiro di colore (in Italia intitolato – ancora lontani i tempi del politically correct “Blacula, il vampiro negro”) dopo aver incontrato Dracula mentre lotta contro la tratta di schiavi e che risorge nella Los Angeles degli anni Settanta con prevedibili conseguenze.
Anche la figura femminile ne usciva in chiave vincente e dominatrice come in “Foxy Brown” con la splendida e giunonica Pam Grier, poi rivalutata da Quentin Tarantino in “Jackie Brown”. Pam Grier ricorda i tempi della Blaxploitation: Ai produttori non piaceva quel termine che indica "sfruttamento" e che non sarebbe stato appropriato per i personaggi femminili afro-americani. Loro avrebbero voluto far circolare il messaggio che le donne dovevano essere protette. Io invece mi proteggevo già da sola, non avevo bisogno di un uomo per farlo. E dicevo loro che avrei usato la mia femminilità e i miei modi per avere la meglio su una situazione. In un certo senso ho suggerito io l'etichetta di blaxploitation per quello specifico genere cinematografico. Ero sicura che questo titolo sarebbe rimasto nel corso degli anni. E che i film saranno ricordati anche quando non ci sarò più.
Sempre Chiarella nel suo libro sottolinea un passaggio importante:
La musica e il cinema afroamericani hanno avuto un'evoluzione molto differente l'uno dall'altro: se nella prima la collaborazione tra bianchi e neri ha portato nell'arco di pochi decenni alla nascita di nuovi generi musicali e collaborazioni di altissimo livello, nel mondo del grande schermo la visibilità afroamericana si trova ad affrontare ancora oggi, grandissimi ostacoli.
Un altro titolo epocale è “Superfly” è del 1972, per mano dello sfortunato regista (morirà giovane poco tempo dopo) Gordon Parks Jr che non risparmia sesso, droga e violenza e che diventerà controverso all’interno della comunità nera che lo accuserà di proiettare un’immagine distorta e non conforme alla realtà di Harlem (dove era ambientato). Ma come dice il protagonista Youngblood:
«So che è un gioco sporco, ma è l’unico che ci lasciano fare».
L’aspetto più interessante e saliente del film (e dell’intero filone cinematografico) è la colonna sonora, affidata a un asso della black music come Curtis Mayfield che sfodera musiche mozzafiato, tra funk, soul, gospel, rock in quello che diventerà il sound denominato specificatamente “Blaxploitation”.
Anche un grande come Isaac Hayes aveva nobilitato le scene di “Shaft” con un album entrato nella storia della black music.
Troveremo altri grandi artisti dell’ambito soul e funk tra gli autori di colonne sonore del genere, come James Brown per “Black Caesar”, Marvin Gaye in “Trouble man” e ancora Barry White, Roy Ayers, Willie Hutch.
In poco tempo il tutto si sgonfia, perde appeal e seguito. Da una parte perché le trame diventano prevedibili e ripetitive ma soprattutto perché è proprio dall’interno della comunità afroamericana che incominciano a sorgere problemi:
Il National Association for the Advancement of Colored People Associazione nazionale per il progresso della gente di colore), appoggiato da alcune associazioni religiose, registi e sceneggiatori accuseranno il contesto di avere raggiunto un eccesso di contenuti violenti e sessualmente espliciti tali da ridurre il popolo afroamericano a una macchietta soggetta a derisione. J. Griffin da "Hollywood and the Black community", scritto del 1973: Dobbiamo dire ai produttori sia bianchi che neri che non tollereremo la continua deformazione delle menti dei nostri bambini neri con la sporcizia, la violenza e le bugie culturali che sono onnipervadenti nelle attuali produzioni dei cosiddetti film neri. Dobbiamo dire ai produttori cinematografici bianchi e neri che non tollereremo che la trasformazione dallo stereotipato Spepin Fetchit in supernegro sullo schermo è solo un'altra forma di genocidio pubblico.
Dobbiamo dire ai produttori cinematografici bianchi e neri che non tollereremo la continua rappresentazione di donne di colore sullo schermo come domestiche o donne dalla morale discutibile che saltano da un letto all'altro senza alcun coinvolgimento emotivo. Dobbiamo insistere sul fatto che i nostri figli non siano costantemente esposti a una dieta di cosiddetti film neri che glorificano i maschi neri come magnaccia, spacciatori di droga, gangster e supermaschi co grandi abilità fisiche ma senza capacità cognitive.
La Blaxploitation finisce come filone a metà degli anni Settanta ma continua a influenzare le generazioni successive.
Da Quentin Tarantino a Spike Lee saranno in molti a riprenderne modalità espressive, citazioni, inquadrature, ispirazione e in molti film non mancheranno volute citazioni ai capolavori del genere. Rivisti oggi sono, nella maggior parte, anacronistici e addirittura fumettistici ma è effettivamente passato mezzo secolo.
Peccato che per gli afromericani le problematiche non siano cambiate più di tanto.
sabato, gennaio 27, 2024
Il Manifesto e Classic Rock
Nel nuovo numero di CLASSIC ROCK recensisco gli album di Madness, Lol Tolhurst, Budgie & Jacknife Lee, Giorgio Canali, Bachi da Pietra, Umberto Maria Giardini, I Segreti di Hansel, Ananda Mida, James Jonathan Clancy, Massimiliano Larocca, sonny Vincent, la compilation "Pushin Too Hard American garage punk 1964/1967".
Nelle pagine de Il Manifesto nell'inserto "Alias" di oggi dedico un articolo a Lou Reed e alla sua biografia "Lou Reed. Il re di New York" di Will Hermes
Nelle pagine de Il Manifesto nell'inserto "Alias" di oggi dedico un articolo a Lou Reed e alla sua biografia "Lou Reed. Il re di New York" di Will Hermes
venerdì, gennaio 26, 2024
Cliff Bennett and the Rebel Rousers
Nella prima metà degli anni Sessanta i giovani MOD ascoltavano prevalentemente jazz, blues, rhythm and blues (ma anche sonorità caraibiche come ska/bluebeat, appena arrivate con gli immigrati giamaicani).
Prima dell'arrivo delle band destinate a monopolizzare i loro interessi concertistici, come Who, Small Faces, Kinks, Action, si affidavano alle esibizioni di Georgie Fame and the Blue Flames, Alexis Korner, CLIFF BENNETT AND THE REBEL ROUSERS.
Formatisi nel 1957 incominciano ad incidere nel luglio del 1961 (ben prima dei Beatles).
I primi quattro 45 giri sono di impostazione rock 'n' roll/rockabilly.
E' solo nel 1964 che cambiano direzione, con l'arrivo al management di Brian Epstein.
Nel novembre 1964 incidono "You Really Got a Hold on Me" di Smokey Robinson (già rifatta dai Beatles l'anno precedente su "With the Beatles") con "Alright", un arrembante rhythm and blues. Si ripetono con una travolgente versione di "Got my mojo working" nel marzo 1964 con l'ottimo shake di "Beautiful dreamer" come B side.
Grande la versione di "One way love" dei Drifters (rifatta poi dai Dexys Midnight Runners) nel settembre 1964 con una versione rhythm and blues del classico "Slow down" (ripresa dai Jam nel primo album tra i tanti altri).
L'album omonimo (che contiene alcuni dei brani sopracitati) del 1965 è un perfetto condensato del loro sound tra soul, beat, grande uso della sezione fiati, ritmi molto alti, tanto groove.
Nel 1966 esce il secondo LP, "Drivin you wild" sulle consuete coordinate ma con un taglio più jazzato e arrangiamenti maggiormente curati e raffinati e con la voce sempre più "black" di Cliff Bennett perfettamente adeguata al sound (grande cover di "Ill be doggone" di Marvin Gaye.
E' l'anno in cui hanno l'opportunità di aprire le date europee dei Beatles e di incidere una cover di "Got to get you into my life", prodotta dallo stesso Paul McCartney (autore del brano) che arriva al sesto posto delle classifiche inglesi (molto bella anche la B Side "Baby each day").
Entrambi i brani finiranno nell'ultimo album della band, del 1967, "Got to Get You into Our Life", altro ottimo lavoro profondamente "black", grandi arrangiamenti di fiati.
Bellissima la versione di "6345-789" di Wilson Pickett, ottime "Stop Her On Sight (S.O.S.)" "Barefootin" e "CC Rider".
La musica si sposta verso altri orizzonti artistici, la band non riesce più ad avere il seguito di prima, Cliff Bennett lascia il gruppo per formare una (mediocre) formazione di proto hard con futuri membri di Uriah heep e Jethro Tull e diventare poi un boss nel campo delle spedizioni.
Gli altri membri proseguiranno per un po', si spargeranno in mille altri rivoli artistici (il tastierista Chas Hodges formerà il duo Chas & Dave, tra rock e cabaret) ottendendo qualche piccolo successo e una discreta notorietà in UK.
Cliff Bennett & The Rebel Rousers - Got To Get You Into My Life
https://www.youtube.com/watch?v=CSL73EupKHQ
Cliff Bennett & Rebel Rousers - One Way Love
https://www.youtube.com/watch?v=w_3I3xoYeug
Cliff Bennett & The Rebel Rousers - I Take What I Want
https://www.youtube.com/watch?v=HCihTnvb3eg
Cliff Bennett & The Rebel Rousers - Hold On Im Coming
https://www.youtube.com/watch?v=LoIIx17usak
Cliff Bennett and The Rebel Rousers - Munich, 1966
Ain't Love Good, Ain't Love Proud / You Can't Love 'Em All / C.C. Rider
https://www.youtube.com/watch?v=flxS8DMmWsA
Prima dell'arrivo delle band destinate a monopolizzare i loro interessi concertistici, come Who, Small Faces, Kinks, Action, si affidavano alle esibizioni di Georgie Fame and the Blue Flames, Alexis Korner, CLIFF BENNETT AND THE REBEL ROUSERS.
Formatisi nel 1957 incominciano ad incidere nel luglio del 1961 (ben prima dei Beatles).
I primi quattro 45 giri sono di impostazione rock 'n' roll/rockabilly.
E' solo nel 1964 che cambiano direzione, con l'arrivo al management di Brian Epstein.
Nel novembre 1964 incidono "You Really Got a Hold on Me" di Smokey Robinson (già rifatta dai Beatles l'anno precedente su "With the Beatles") con "Alright", un arrembante rhythm and blues. Si ripetono con una travolgente versione di "Got my mojo working" nel marzo 1964 con l'ottimo shake di "Beautiful dreamer" come B side.
Grande la versione di "One way love" dei Drifters (rifatta poi dai Dexys Midnight Runners) nel settembre 1964 con una versione rhythm and blues del classico "Slow down" (ripresa dai Jam nel primo album tra i tanti altri).
L'album omonimo (che contiene alcuni dei brani sopracitati) del 1965 è un perfetto condensato del loro sound tra soul, beat, grande uso della sezione fiati, ritmi molto alti, tanto groove.
Nel 1966 esce il secondo LP, "Drivin you wild" sulle consuete coordinate ma con un taglio più jazzato e arrangiamenti maggiormente curati e raffinati e con la voce sempre più "black" di Cliff Bennett perfettamente adeguata al sound (grande cover di "Ill be doggone" di Marvin Gaye.
E' l'anno in cui hanno l'opportunità di aprire le date europee dei Beatles e di incidere una cover di "Got to get you into my life", prodotta dallo stesso Paul McCartney (autore del brano) che arriva al sesto posto delle classifiche inglesi (molto bella anche la B Side "Baby each day").
Entrambi i brani finiranno nell'ultimo album della band, del 1967, "Got to Get You into Our Life", altro ottimo lavoro profondamente "black", grandi arrangiamenti di fiati.
Bellissima la versione di "6345-789" di Wilson Pickett, ottime "Stop Her On Sight (S.O.S.)" "Barefootin" e "CC Rider".
La musica si sposta verso altri orizzonti artistici, la band non riesce più ad avere il seguito di prima, Cliff Bennett lascia il gruppo per formare una (mediocre) formazione di proto hard con futuri membri di Uriah heep e Jethro Tull e diventare poi un boss nel campo delle spedizioni.
Gli altri membri proseguiranno per un po', si spargeranno in mille altri rivoli artistici (il tastierista Chas Hodges formerà il duo Chas & Dave, tra rock e cabaret) ottendendo qualche piccolo successo e una discreta notorietà in UK.
Cliff Bennett & The Rebel Rousers - Got To Get You Into My Life
https://www.youtube.com/watch?v=CSL73EupKHQ
Cliff Bennett & Rebel Rousers - One Way Love
https://www.youtube.com/watch?v=w_3I3xoYeug
Cliff Bennett & The Rebel Rousers - I Take What I Want
https://www.youtube.com/watch?v=HCihTnvb3eg
Cliff Bennett & The Rebel Rousers - Hold On Im Coming
https://www.youtube.com/watch?v=LoIIx17usak
Cliff Bennett and The Rebel Rousers - Munich, 1966
Ain't Love Good, Ain't Love Proud / You Can't Love 'Em All / C.C. Rider
https://www.youtube.com/watch?v=flxS8DMmWsA
giovedì, gennaio 25, 2024
Gil Scott Heron - The subject was faggots
Gil Scott Heron - The subject was faggots
https://www.youtube.com/watch?v=h2KZ7jaTb68
Probabilmente il brano e il testo più controversi della carriera di GIL SCOTT HERON.
Tratto dall'album d'esordio del 1970, Small Talk at 125th and Lenox, è un attacco sprezzante e omofobo alla comunità queer e omosessuale.
Da una parte potrebbe essere derubricato a una interpretazione non personale di un comune discorso di chi disprezza le differenze sessuali.
In questo senso alcuni critici lo considerano come una voluta provocazione per indurre alla riflessione sul tema.
Ma pare invece evidente che Gil affronti il tema in prima persona, ironizzando pesantemente sui “froci” (come li definisce), partendo dal presupposto diffuso nella comunità nera dell'epoca, soprattutto nell'ala più politica, che l'omosessualità fosse un' “attitudine controrivoluzionaria” che indeboliva la lotta per la conquista dei propri diritti e del potere.
Il maschilismo (parliamo del 1970) era ovunque nel mondo la normalità e le conquiste per le comunità gay ancora difficili, ardue e pericolose (anche e soprattutto fisicamente). L'omosessualità e la discriminazione nei suoi confronti non aveva ancora una dimensione politica ma era confinata alla definizione di “anomalia” sociale se non come malattia.
Giova ricordare anche che l'autore aveva 21 anni e ancora in fase di formazione e costruzione politico/ideologica.
D'altra parte Gil Scott Heron è sempre stato adamantino sui suoi errori: "Se devi pagare per tutte le cose brutte che hai fatto... mi aspetta un conto salato."
Il testo racconta in modo molto sgradevole ciò che ha visto all'ingresso di un locale gay dove si ballava.
Solo il cartello all'ingresso lo dissuade dall'entrare.
Il brano, voce e percussioni si chiude con un discutibilmente ironico:
"Se non ci fosse stato il cartello sulla porta con scritto 'Faggot Ball', forse sarei entrato, e Dio solo sa cosa sarebbe successo".
Garry Mullholland su “Uncut” suggerisce un'ulteriore approfondimento:
“Come molti radicali neri dell'epoca, il giovane Heron non era un liberale, e l'abisso tra il suo sé più e quello meno illuminato suggerisce una psiche fratturata con cui si è rivelato difficile convivere.”
Un'ultima osservazione mutuata da un forum sul web (non firmata):
“Faggot era un epiteto fin troppo comune, anche (e soprattutto nei) gruppi della Nuova Sinistra.
L’attivismo e l’avanguardia negli anni Sessanta erano convenzionalmente macho e il linguaggio omofobico e sessista era la norma. Sarebbe stato eccezionale se Gil non avesse usato quelle parole, anche se, come ho sottolineato all'inizio, uno dei pochissimi attivisti della Nuova Sinistra/Potere Nero (che non era associato alla Liberazione delle Donne, per dire) ad affermare la Liberazione Gay, era Huey Newton- che pure deve aver fatto parte dell'ispirazione artistica di Heron.
Tuttavia, ascoltandolo meglio, avverto un senso di stupore e meraviglia nella sua inflessione. Sento sicuramente qualcosa di beffardo, ma anche qualcosa di affascinato. Evoca un erotismo che a volte è alla base dell'omofobia: la paura della seduzione. Tuttavia, non è spaventato e sembra troppo sfumato per essere disgustato.
La risata (che si sente di Gil) sembra più imbarazzata che beffarda, e la sua introduzione nervosa e ridente ha questo tipo di vulnerabilità che può essere descritta solo come vergogna.
Il discorso è molto più diretto, ma poi li descrive in modo quasi amorevole. Sembra qualcosa che potrebbe provenire da un artista gay con una profonda conoscenza dei meccanismi interni della vita gay.”
The subject was faggots
We'd like to do a poem, if I can find it
Called, called "The subject was faggots"
Wait a minute. Yeah, yeah, Charlie's arms can hold out we're gonna do it
Because it came up one night
When I caught myself going to a dance
Going to a dance that was being held on 34th street 8th avenue
I'm sure you're all aware, what famous, what famous dance houses they have there
And I was standing outside, not being cool huh
Trying to find out who was going to go in, you know, that I'd figure I'd be able to talk to
And they were holding a faggot ball in the next half of the building
So I got kinda confused and I had to sit down and write this poem
The subject was faggots
And the quote was
Ain't nothing happening but
Faggots and dope
Faggots and dope
Faggots and faggots and faggots
Who lying
Dot, dot, dot, dot, dot
Like that
34th street and 8th avenue
Giggling and grinning and prancing and shit
Trying their best to see the
Misses and miseries and miscellaneous misfits
Who were just about to attend the faggot ball
Faggots who had come to ball
Faggots who had come to ball
Faggots who were balling
Because they could not get their balls inside the faggot hall
Balling, balling, ball-less, faggots
Cutie, cootie and snootie faggots
I mean you just had to dig it
To dig itThe crowning attraction being the arrival
Of Miss Brooklyn
Looking like a half-act in a miniskirt
With swan feathers covering his or her, uh, its pectorals and balls
As she, uh, he, uh, it
Prepared to enter the faggot ball
But sitting on the corner, digging all that I did
As I did
Long, long, black limousines
And long, flowing evening gowns
Had there been no sign on the door saying
"Faggot ball"
I might have entered
And God only knows just what would have happenedThe subject was faggots
I'm glad you made it, Charlie, I'm glad you made it
https://www.youtube.com/watch?v=h2KZ7jaTb68
Probabilmente il brano e il testo più controversi della carriera di GIL SCOTT HERON.
Tratto dall'album d'esordio del 1970, Small Talk at 125th and Lenox, è un attacco sprezzante e omofobo alla comunità queer e omosessuale.
Da una parte potrebbe essere derubricato a una interpretazione non personale di un comune discorso di chi disprezza le differenze sessuali.
In questo senso alcuni critici lo considerano come una voluta provocazione per indurre alla riflessione sul tema.
Ma pare invece evidente che Gil affronti il tema in prima persona, ironizzando pesantemente sui “froci” (come li definisce), partendo dal presupposto diffuso nella comunità nera dell'epoca, soprattutto nell'ala più politica, che l'omosessualità fosse un' “attitudine controrivoluzionaria” che indeboliva la lotta per la conquista dei propri diritti e del potere.
Il maschilismo (parliamo del 1970) era ovunque nel mondo la normalità e le conquiste per le comunità gay ancora difficili, ardue e pericolose (anche e soprattutto fisicamente). L'omosessualità e la discriminazione nei suoi confronti non aveva ancora una dimensione politica ma era confinata alla definizione di “anomalia” sociale se non come malattia.
Giova ricordare anche che l'autore aveva 21 anni e ancora in fase di formazione e costruzione politico/ideologica.
D'altra parte Gil Scott Heron è sempre stato adamantino sui suoi errori: "Se devi pagare per tutte le cose brutte che hai fatto... mi aspetta un conto salato."
Il testo racconta in modo molto sgradevole ciò che ha visto all'ingresso di un locale gay dove si ballava.
Solo il cartello all'ingresso lo dissuade dall'entrare.
Il brano, voce e percussioni si chiude con un discutibilmente ironico:
"Se non ci fosse stato il cartello sulla porta con scritto 'Faggot Ball', forse sarei entrato, e Dio solo sa cosa sarebbe successo".
Garry Mullholland su “Uncut” suggerisce un'ulteriore approfondimento:
“Come molti radicali neri dell'epoca, il giovane Heron non era un liberale, e l'abisso tra il suo sé più e quello meno illuminato suggerisce una psiche fratturata con cui si è rivelato difficile convivere.”
Un'ultima osservazione mutuata da un forum sul web (non firmata):
“Faggot era un epiteto fin troppo comune, anche (e soprattutto nei) gruppi della Nuova Sinistra.
L’attivismo e l’avanguardia negli anni Sessanta erano convenzionalmente macho e il linguaggio omofobico e sessista era la norma. Sarebbe stato eccezionale se Gil non avesse usato quelle parole, anche se, come ho sottolineato all'inizio, uno dei pochissimi attivisti della Nuova Sinistra/Potere Nero (che non era associato alla Liberazione delle Donne, per dire) ad affermare la Liberazione Gay, era Huey Newton- che pure deve aver fatto parte dell'ispirazione artistica di Heron.
Tuttavia, ascoltandolo meglio, avverto un senso di stupore e meraviglia nella sua inflessione. Sento sicuramente qualcosa di beffardo, ma anche qualcosa di affascinato. Evoca un erotismo che a volte è alla base dell'omofobia: la paura della seduzione. Tuttavia, non è spaventato e sembra troppo sfumato per essere disgustato.
La risata (che si sente di Gil) sembra più imbarazzata che beffarda, e la sua introduzione nervosa e ridente ha questo tipo di vulnerabilità che può essere descritta solo come vergogna.
Il discorso è molto più diretto, ma poi li descrive in modo quasi amorevole. Sembra qualcosa che potrebbe provenire da un artista gay con una profonda conoscenza dei meccanismi interni della vita gay.”
The subject was faggots
We'd like to do a poem, if I can find it
Called, called "The subject was faggots"
Wait a minute. Yeah, yeah, Charlie's arms can hold out we're gonna do it
Because it came up one night
When I caught myself going to a dance
Going to a dance that was being held on 34th street 8th avenue
I'm sure you're all aware, what famous, what famous dance houses they have there
And I was standing outside, not being cool huh
Trying to find out who was going to go in, you know, that I'd figure I'd be able to talk to
And they were holding a faggot ball in the next half of the building
So I got kinda confused and I had to sit down and write this poem
The subject was faggots
And the quote was
Ain't nothing happening but
Faggots and dope
Faggots and dope
Faggots and faggots and faggots
Who lying
Dot, dot, dot, dot, dot
Like that
34th street and 8th avenue
Giggling and grinning and prancing and shit
Trying their best to see the
Misses and miseries and miscellaneous misfits
Who were just about to attend the faggot ball
Faggots who had come to ball
Faggots who had come to ball
Faggots who were balling
Because they could not get their balls inside the faggot hall
Balling, balling, ball-less, faggots
Cutie, cootie and snootie faggots
I mean you just had to dig it
To dig itThe crowning attraction being the arrival
Of Miss Brooklyn
Looking like a half-act in a miniskirt
With swan feathers covering his or her, uh, its pectorals and balls
As she, uh, he, uh, it
Prepared to enter the faggot ball
But sitting on the corner, digging all that I did
As I did
Long, long, black limousines
And long, flowing evening gowns
Had there been no sign on the door saying
"Faggot ball"
I might have entered
And God only knows just what would have happenedThe subject was faggots
I'm glad you made it, Charlie, I'm glad you made it
mercoledì, gennaio 24, 2024
Federico Traversa - One love. Bob Marley
Scrittore, giornalista, cofondatore della casa editrice Chinaski, conduttore radiofonico per Radio Popolare Network, Federico Traversa tributa omaggio a un suo riferimento umano e musicale: BOB MARLEY.
Lo fa attraverso una biografia romanzata ma precisa ed efficace, scorrevole e coinvolgente, intersecandola con (tragiche) vicende personali, in una sorta di doppio racconto commovente e intenso.
La storia del piccolo Bob che lentamente, molto lentamente, esce, grazie alla musica, alla sua intraprendenza e talento, dal ghetto di TrenchTown, quartiere di Kingston, Giamaica e diventa un idolo, un profeta, tra vizi (tanti) e virtù (di più), figli sparsi, marijuana (senza limiti), Rastafarianesimo, impegno sociale e politico, vicende incredibili e la prematura scomparsa nel 1981, a 36 anni, per un male incurabile (e trascurato).
Anche per chi poco apprezza o conosce il grande Bob, il libro è piacevolissimo e veloce da leggere e inevitabilmente vi porterà a (ri)dare un ascolto a "Exodus", "Uprising", "Soul rebels".
Federico Traversa
One love. Bob Marley
Il Castello
300 pagine
19 euro
Lo fa attraverso una biografia romanzata ma precisa ed efficace, scorrevole e coinvolgente, intersecandola con (tragiche) vicende personali, in una sorta di doppio racconto commovente e intenso.
La storia del piccolo Bob che lentamente, molto lentamente, esce, grazie alla musica, alla sua intraprendenza e talento, dal ghetto di TrenchTown, quartiere di Kingston, Giamaica e diventa un idolo, un profeta, tra vizi (tanti) e virtù (di più), figli sparsi, marijuana (senza limiti), Rastafarianesimo, impegno sociale e politico, vicende incredibili e la prematura scomparsa nel 1981, a 36 anni, per un male incurabile (e trascurato).
Anche per chi poco apprezza o conosce il grande Bob, il libro è piacevolissimo e veloce da leggere e inevitabilmente vi porterà a (ri)dare un ascolto a "Exodus", "Uprising", "Soul rebels".
Federico Traversa
One love. Bob Marley
Il Castello
300 pagine
19 euro
lunedì, gennaio 22, 2024
Gigi Riva
Nel 1970 avevo nove anni e incominciai a tifare CAGLIARI
Mia mamma mi cucì la maglia della squadra, mio padre mi comprò il gagliardetto.
Li conservo ancora, come la fede per la squadra.
Grazie GIGI RIVA, maestro di vita.
Ti conserverò per sempre nel cuore.
Mia mamma mi cucì la maglia della squadra, mio padre mi comprò il gagliardetto.
Li conservo ancora, come la fede per la squadra.
Grazie GIGI RIVA, maestro di vita.
Ti conserverò per sempre nel cuore.
I dischi più venduti in Italia nel 2023
Sono state pubblicate le classifiche relative agli album, singoli e vinili più venduti in Italia nel 2023.
Il criterio con cui vengono compilate somma il formato fisico al download e allo streaming premium (ovvero l’ascolto dalle piattaforme digitali per il quale è stato sottoscritto un abbonamento a pagamento).
I risultati seguono le tendenze degli anni recenti ovvero un dominio pressoché totale da parte degli artisti nostrani a scapito di nomi stranieri (l’ottanta per cento delle classifiche), l’assenza ormai congenita del rock (pur nell’accezione più ampia), il prevalere massiccio di nomi legati all’ambito rap/trap.
Se scorriamo la lista degli album, i più venduti sono stati nell’ordine Geolier, Lazza, Tedua, Pinguini Tattici Nucleari, Marco Mengoni, Sfera Ebbasta, Shiva, Tananai, Guè e Ultimo. Tra i singoli poco cambia: Lazza, Mengoni, Mr.Rain, Finesse, Tananai, Ava Anna CapoPlaza, Annalisa, The Kolors, Bizzarap e Quaevedo, Geolier.
Ci sono artisti che appaiono più volte in varie posizioni come Marracash, Pinguini Tattici Nucleari, Taylor Swift, Sferaebbasta. L'album più venduto di un'artista femminile è "Ok. Respira" di Elodie (ventesima nella classifica generale).
Ci sono poi Madame, Rose Villain, Annalisa, Taylor Swift, Angelina Mango, Laura Pausini, Miley Cyrus, Emma, Rosalia. Si diceva del rock, ormai assente se non in posizioni di retrovie (se si esclude il fenomeno pop dei Maneskin che con “Rush” sono all’undicesimo posto tra gli album). Troviamo al ventitreesimo posto l’immarcescibile “Dark side of the moon” dei Pink Floyd (di cui è stata stampata una nuova versione nel cinquantesimo anniversario dalla pubblicazione), ormai oggetto di decorazione casalingo più che materiale da ascolto.
Al cinquantesimo posto un’altra edizione di un disco datato, “AM” degli Arctic Monkeys del 2013, probabilmente spinto dall’edizione per il decennale e dalle date italiane dello scorso anno.
Ci sarebbero anche i Depeche Mode al cinquantanovesimo e Ligabue al sessantacinquesimo, se proprio li vogliamo inserire.
Per il resto, nebbia.
Perfino la compilation dello Zecchino d’Oro è davanti al nuovo dei Rolling Stones (che di per sé sarebbe un evento mediatico non da poco, pur se soffre la data d’uscita, a fine ottobre, ma che in relazione al nome storico non avrebbe dovuto mancare l’accesso nei primi cento).
Va meglio nei vinili, evidentemente ad appannaggio di un pubblico più maturo, ancora affezionato al formato della propria gioventù (anche se pure qui non mancano Lazza, Salmo & Noiz Narcos, Sferaebbasta, Calcutta, Guè tra i primi posti).
“Dark side of the moon” dei Pink Floyd è al primo posto, Arctic Monkeys ottavi, Stones al nono posto, ancora i Pink Floyd con “Wish you were here” al ventesimo. Nomi classici, legati a un passato remoto.
Probabilmente, almeno in Italia, è la cartina al tornasole di una disaffezione totale nei confronti di un contesto artistico che non attira più particolare interesse.
Aspetto che confligge con i sold-out che regolarmente vediamo nei concerti (anche a prezzi esorbitanti e talvolta difficili da affrontare. Bruce Springsteen, Who, Blur, tra i tanti, hanno riempito stadi e ampi spazi).
La possibilità di fruire gratuitamente della musica ovunque sul web ha allontanato le persone dall’acquisto del supporto fisico o digitale che sia, spostando l’attenzione sull’evento affollato, a cui partecipi in prima persona e che condividi con tante altre. Gli stessi musicisti hanno, talvolta per necessità, dovuto rivedere le modalità lavorative, in considerazione della diminuzione drastica delle vendite dei dischi e delle scarse retribuzioni che arrivano dalle piattaforme digitali, riprendendo a suonare dal vivo più frequentemente.
Valga ad esempio proprio la classifica italiana. Emanuele Palumbo, in arte Geolier con “Il coraggio dei bambini” ha avuto l’album più venduto dell’anno con 250 mila copie.
Non troppi anni fa si arrivava intorno al milione di copie.
D’altronde, per citare di nuovo i dati, nel 2023 lo streaming domina incontrastato i consumi italiani, con oltre 71 miliardi di stream, comprensivi di premium e free (ovvero non a pagamento), e una crescita del 15.9% rispetto all'anno precedente.
Inoltre, a superare la soglia dei 10 milioni di streaming (premium + free) sono stati 793 album: ovvero + 235 titoli rispetto al 2022. Dunque quali conclusioni si possono trarre da questa fotografia del gusto degli italiani?
Innanzitutto spesso si ricordano i “bei tempi” con nostalgia, reputandoli migliori ma se andiamo ad analizzare meglio quelle classifiche, certo, troviamo molti più nomi “dignitosi” piazzati in alto.
Almeno fino agli anni Ottanta, in cui trovavamo Dire Straits, Police, U2, cantautori di grande valore, da Dalla a De Andrè. Successivamente, saltando di anno in anno, in vetta ci sono Pausini, Celentano, Julio Iglesias, Shakira che, con tutto il rispetto, non hanno mai regalato capolavori indimenticabili.
Le cose cambiano nei primi anni Duemila, quando i vecchi del rock e della canzone d’autore declinano, anche artisticamente, non trovano validi sostituti, lasciando campo libero al pop più disimpegnato e da sei/sette anni all’arrivo del rap italiano e della trap.
Che cosa è successo? Forse la domanda, apparentemente provocatoria, è: e se fosse questa la nuova canzone d’autore italiana?
A fianco degli eccessi verbali di alcuni esponenti della trap (a cui si fa costante riferimento quando si parla del genere, dimenticando decine o centinaia di testi di grandi artisti rock, nostri beniamini, che lasciavano poco all’immaginazione sia in ambito sessuale – sessista molto spesso – che sull’uso di sostanza di ogni tipo, dall’alcol all’eroina), ci sono anche prodotti liricamente più elaborati, che trattano tematiche vicine al sentire dei più giovani.
Testi che parlano della difficoltà dell’integrazione dei nuovi italiani, delle problematiche delle periferie, della mancanza di prospettive in una società turbo capitalista in cui il binomio denaro/successo (anche se effimero) è l’unico faro acceso. Temi di cui la politica non parla più, di cui nessuno si fa carico e che, anzi, scarica sulle persone che dovrebbero essere invece aiutate e tutelate.
Tedua con l’ambizioso “La Divina Commedia”, tra i più venduti, ha fatto un passo avanti poeticamente:
“Per me si deve tentare di inserire del contenuto anche nelle hit mainstream. Sennò la musica si riduce a una corsa alla superficialità e al consumismo. Sono un ragazzo che ha fatto l’alberghiero, non un professore. Non voglio fare il finto intellettuale con citazioni che non mi appartengono.”
O come sostiene Ghali: “Siamo divisi tra popolo e potere, tra persone e potere, c’è un distaccamento che non c’è mai stato. C’entra anche il mio nuovo approccio con il rap: io sto rappando perché mi sento parte di qualcosa, tornare a rappare è tornare in mezzo alle persone. Tra potenti (economici, di informazione) e persone non c’è una via di mezzo, si sta o da una parte o dall’altra, in mezzo è solo un campo di battaglia. Come era successo alla mia generazione, a questi ragazzi più giovani non frega nulla di quello che c’era prima, sono solo sicuri che il pubblico fuori sta aspettando loro e nient’altro.”
Geolier racconta la sua Napoli:
“Voglio raccontare il mio quartiere per com'è, non voglio essere semplicemente un megafono che racconta una situazione, io sono quella situazione. Voglio far parlare la mia gente, la mia terra, rappresentarla, e lo faccio in napoletano perché la mia gente si lamenta in napoletano, ama in napoletano, si incazza in napoletano. Devo raccontare la mia vita come la raccontano loro”.
Lazza, anni di Conservatorio alle spalle, cultura classica: “Ancora oggi arriva lo scemo di turno e mi dice: “Tu non sei di strada perché hai fatto il Conservatorio”. Ma cosa c’entra? Io sono stato solo più furbo. La strada l’ho vissuta da piccolo e continuo a vederla anche oggi.”
Personalmente coltivo altre direzioni artistiche, altri gusti, altre modalità di fruizione e proposizione della musica.
Ma se questo ambito è cresciuto, sta cambiando e maturando, togliendosi, in buona parte, le scorie di un inizio scomposto, provocatorio, talvolta sterile e poco significativo, forse è perché ci sono fondamenta valide e che possono essere sviluppate.
Dagli artisti per il loro pubblico.
Perché in fondo chi sceglie è sempre il pubblico.
E noi vecchi tromboni con il dito alzato a giudicare le scelte dei giovani, spazzati via dai nuovi venti freschi.
Ci piaccia o meno.
Il criterio con cui vengono compilate somma il formato fisico al download e allo streaming premium (ovvero l’ascolto dalle piattaforme digitali per il quale è stato sottoscritto un abbonamento a pagamento).
I risultati seguono le tendenze degli anni recenti ovvero un dominio pressoché totale da parte degli artisti nostrani a scapito di nomi stranieri (l’ottanta per cento delle classifiche), l’assenza ormai congenita del rock (pur nell’accezione più ampia), il prevalere massiccio di nomi legati all’ambito rap/trap.
Se scorriamo la lista degli album, i più venduti sono stati nell’ordine Geolier, Lazza, Tedua, Pinguini Tattici Nucleari, Marco Mengoni, Sfera Ebbasta, Shiva, Tananai, Guè e Ultimo. Tra i singoli poco cambia: Lazza, Mengoni, Mr.Rain, Finesse, Tananai, Ava Anna CapoPlaza, Annalisa, The Kolors, Bizzarap e Quaevedo, Geolier.
Ci sono artisti che appaiono più volte in varie posizioni come Marracash, Pinguini Tattici Nucleari, Taylor Swift, Sferaebbasta. L'album più venduto di un'artista femminile è "Ok. Respira" di Elodie (ventesima nella classifica generale).
Ci sono poi Madame, Rose Villain, Annalisa, Taylor Swift, Angelina Mango, Laura Pausini, Miley Cyrus, Emma, Rosalia. Si diceva del rock, ormai assente se non in posizioni di retrovie (se si esclude il fenomeno pop dei Maneskin che con “Rush” sono all’undicesimo posto tra gli album). Troviamo al ventitreesimo posto l’immarcescibile “Dark side of the moon” dei Pink Floyd (di cui è stata stampata una nuova versione nel cinquantesimo anniversario dalla pubblicazione), ormai oggetto di decorazione casalingo più che materiale da ascolto.
Al cinquantesimo posto un’altra edizione di un disco datato, “AM” degli Arctic Monkeys del 2013, probabilmente spinto dall’edizione per il decennale e dalle date italiane dello scorso anno.
Ci sarebbero anche i Depeche Mode al cinquantanovesimo e Ligabue al sessantacinquesimo, se proprio li vogliamo inserire.
Per il resto, nebbia.
Perfino la compilation dello Zecchino d’Oro è davanti al nuovo dei Rolling Stones (che di per sé sarebbe un evento mediatico non da poco, pur se soffre la data d’uscita, a fine ottobre, ma che in relazione al nome storico non avrebbe dovuto mancare l’accesso nei primi cento).
Va meglio nei vinili, evidentemente ad appannaggio di un pubblico più maturo, ancora affezionato al formato della propria gioventù (anche se pure qui non mancano Lazza, Salmo & Noiz Narcos, Sferaebbasta, Calcutta, Guè tra i primi posti).
“Dark side of the moon” dei Pink Floyd è al primo posto, Arctic Monkeys ottavi, Stones al nono posto, ancora i Pink Floyd con “Wish you were here” al ventesimo. Nomi classici, legati a un passato remoto.
Probabilmente, almeno in Italia, è la cartina al tornasole di una disaffezione totale nei confronti di un contesto artistico che non attira più particolare interesse.
Aspetto che confligge con i sold-out che regolarmente vediamo nei concerti (anche a prezzi esorbitanti e talvolta difficili da affrontare. Bruce Springsteen, Who, Blur, tra i tanti, hanno riempito stadi e ampi spazi).
La possibilità di fruire gratuitamente della musica ovunque sul web ha allontanato le persone dall’acquisto del supporto fisico o digitale che sia, spostando l’attenzione sull’evento affollato, a cui partecipi in prima persona e che condividi con tante altre. Gli stessi musicisti hanno, talvolta per necessità, dovuto rivedere le modalità lavorative, in considerazione della diminuzione drastica delle vendite dei dischi e delle scarse retribuzioni che arrivano dalle piattaforme digitali, riprendendo a suonare dal vivo più frequentemente.
Valga ad esempio proprio la classifica italiana. Emanuele Palumbo, in arte Geolier con “Il coraggio dei bambini” ha avuto l’album più venduto dell’anno con 250 mila copie.
Non troppi anni fa si arrivava intorno al milione di copie.
D’altronde, per citare di nuovo i dati, nel 2023 lo streaming domina incontrastato i consumi italiani, con oltre 71 miliardi di stream, comprensivi di premium e free (ovvero non a pagamento), e una crescita del 15.9% rispetto all'anno precedente.
Inoltre, a superare la soglia dei 10 milioni di streaming (premium + free) sono stati 793 album: ovvero + 235 titoli rispetto al 2022. Dunque quali conclusioni si possono trarre da questa fotografia del gusto degli italiani?
Innanzitutto spesso si ricordano i “bei tempi” con nostalgia, reputandoli migliori ma se andiamo ad analizzare meglio quelle classifiche, certo, troviamo molti più nomi “dignitosi” piazzati in alto.
Almeno fino agli anni Ottanta, in cui trovavamo Dire Straits, Police, U2, cantautori di grande valore, da Dalla a De Andrè. Successivamente, saltando di anno in anno, in vetta ci sono Pausini, Celentano, Julio Iglesias, Shakira che, con tutto il rispetto, non hanno mai regalato capolavori indimenticabili.
Le cose cambiano nei primi anni Duemila, quando i vecchi del rock e della canzone d’autore declinano, anche artisticamente, non trovano validi sostituti, lasciando campo libero al pop più disimpegnato e da sei/sette anni all’arrivo del rap italiano e della trap.
Che cosa è successo? Forse la domanda, apparentemente provocatoria, è: e se fosse questa la nuova canzone d’autore italiana?
A fianco degli eccessi verbali di alcuni esponenti della trap (a cui si fa costante riferimento quando si parla del genere, dimenticando decine o centinaia di testi di grandi artisti rock, nostri beniamini, che lasciavano poco all’immaginazione sia in ambito sessuale – sessista molto spesso – che sull’uso di sostanza di ogni tipo, dall’alcol all’eroina), ci sono anche prodotti liricamente più elaborati, che trattano tematiche vicine al sentire dei più giovani.
Testi che parlano della difficoltà dell’integrazione dei nuovi italiani, delle problematiche delle periferie, della mancanza di prospettive in una società turbo capitalista in cui il binomio denaro/successo (anche se effimero) è l’unico faro acceso. Temi di cui la politica non parla più, di cui nessuno si fa carico e che, anzi, scarica sulle persone che dovrebbero essere invece aiutate e tutelate.
Tedua con l’ambizioso “La Divina Commedia”, tra i più venduti, ha fatto un passo avanti poeticamente:
“Per me si deve tentare di inserire del contenuto anche nelle hit mainstream. Sennò la musica si riduce a una corsa alla superficialità e al consumismo. Sono un ragazzo che ha fatto l’alberghiero, non un professore. Non voglio fare il finto intellettuale con citazioni che non mi appartengono.”
O come sostiene Ghali: “Siamo divisi tra popolo e potere, tra persone e potere, c’è un distaccamento che non c’è mai stato. C’entra anche il mio nuovo approccio con il rap: io sto rappando perché mi sento parte di qualcosa, tornare a rappare è tornare in mezzo alle persone. Tra potenti (economici, di informazione) e persone non c’è una via di mezzo, si sta o da una parte o dall’altra, in mezzo è solo un campo di battaglia. Come era successo alla mia generazione, a questi ragazzi più giovani non frega nulla di quello che c’era prima, sono solo sicuri che il pubblico fuori sta aspettando loro e nient’altro.”
Geolier racconta la sua Napoli:
“Voglio raccontare il mio quartiere per com'è, non voglio essere semplicemente un megafono che racconta una situazione, io sono quella situazione. Voglio far parlare la mia gente, la mia terra, rappresentarla, e lo faccio in napoletano perché la mia gente si lamenta in napoletano, ama in napoletano, si incazza in napoletano. Devo raccontare la mia vita come la raccontano loro”.
Lazza, anni di Conservatorio alle spalle, cultura classica: “Ancora oggi arriva lo scemo di turno e mi dice: “Tu non sei di strada perché hai fatto il Conservatorio”. Ma cosa c’entra? Io sono stato solo più furbo. La strada l’ho vissuta da piccolo e continuo a vederla anche oggi.”
Personalmente coltivo altre direzioni artistiche, altri gusti, altre modalità di fruizione e proposizione della musica.
Ma se questo ambito è cresciuto, sta cambiando e maturando, togliendosi, in buona parte, le scorie di un inizio scomposto, provocatorio, talvolta sterile e poco significativo, forse è perché ci sono fondamenta valide e che possono essere sviluppate.
Dagli artisti per il loro pubblico.
Perché in fondo chi sceglie è sempre il pubblico.
E noi vecchi tromboni con il dito alzato a giudicare le scelte dei giovani, spazzati via dai nuovi venti freschi.
Ci piaccia o meno.
venerdì, gennaio 19, 2024
Purple Hearts - Extraordinary Sensations Studio And Live 1979-1986
Esce oggi per la Cherry Red Records un triplo CD che raccoglie l'opera omnia dei PURPLE HEARTS una delle migliori (e più ruvide) Mod Band della scena del 1979.
Nel box i due album incisi, lo spettacolare ‘Beat That!’ del 1980 il meno riuscito, più pop, ‘Pop-Ish Frenzy’ del 1986, tutti i singoli, tredici brani live e diversi demo tra cui i sei prodotti da Jimmy Pursey degli Sham 69 nel 1979 e i due curati da Paul Weller nel 1981, destinati a un'uscita per la sua Respond records, mai avvenuta, in cui si avverte una predilezione per il soul a scapito della consueta carica elettrica per cui erano conosciuti.
In totale 76 brani che ci mostrano una band che partiva da basi essenzialie minimali, figlie del punk meno rude (avevano esordito in quel giro con il nome di Sockets, con cui suonarono solo 7 concerti, tra cui un supporto ai Buzzcocks nella natìa Romford e un'audizione al mitico "Roxy" londinese).
Ebbero scarso successo commerciale: i singoli "Millions Like Us" e "Jimmy" si affacciarono a stento nei primi 60 delle charts inglesi, l'album "Beat that!" passò abbastanza inosservato. Dopo un periodo di stop, tornarono in circolazione con il live "Head on a collision time" del 1984 e l'album "Pop-ish" frenzy" due anni dopo, anche in questo non coronato da particolare successo.
Si sono successivamente riuniti per qualche tour e apparizioni in festival mod.
Tutti i dettagli qui:
https://www.cherryred.co.uk/product/purple-hearts-extraordinary-sensations-studio-and-live-1979-1986-3cd/
Nel box i due album incisi, lo spettacolare ‘Beat That!’ del 1980 il meno riuscito, più pop, ‘Pop-Ish Frenzy’ del 1986, tutti i singoli, tredici brani live e diversi demo tra cui i sei prodotti da Jimmy Pursey degli Sham 69 nel 1979 e i due curati da Paul Weller nel 1981, destinati a un'uscita per la sua Respond records, mai avvenuta, in cui si avverte una predilezione per il soul a scapito della consueta carica elettrica per cui erano conosciuti.
In totale 76 brani che ci mostrano una band che partiva da basi essenzialie minimali, figlie del punk meno rude (avevano esordito in quel giro con il nome di Sockets, con cui suonarono solo 7 concerti, tra cui un supporto ai Buzzcocks nella natìa Romford e un'audizione al mitico "Roxy" londinese).
Ebbero scarso successo commerciale: i singoli "Millions Like Us" e "Jimmy" si affacciarono a stento nei primi 60 delle charts inglesi, l'album "Beat that!" passò abbastanza inosservato. Dopo un periodo di stop, tornarono in circolazione con il live "Head on a collision time" del 1984 e l'album "Pop-ish" frenzy" due anni dopo, anche in questo non coronato da particolare successo.
Si sono successivamente riuniti per qualche tour e apparizioni in festival mod.
Tutti i dettagli qui:
https://www.cherryred.co.uk/product/purple-hearts-extraordinary-sensations-studio-and-live-1979-1986-3cd/
giovedì, gennaio 18, 2024
Guido Michelone - Il dizionario del jazz
Il mondo JAZZ è un universo ormai ampio e inestricabile tante sono le tendenze e contaminazioni, tanti sono i generi, dischi, gruppi, solisti etc.
Guido Michelone, esperto e conoscitore della materia, propone una guida in cui, attraverso brevi prefazioni, ci introduce a liste di brani che rappresentano al meglio il contesto.
Dall'hard bop al soul jazz, dal latin al free.
Ma ci sono anche una breve storia culturale/artistica/sociale, una filmografia jazz, i 100 album "che bisogna avere", i libri, i negozi, il look e tanto altro.
Un "Bignami" per mettere un piede nel mondo jazz e non scivolare ma andare spediti verso la sua essenza.
Guido Michelone
Il dizionario del jazz
Diarkos
334 pagine
18 euro
Guido Michelone, esperto e conoscitore della materia, propone una guida in cui, attraverso brevi prefazioni, ci introduce a liste di brani che rappresentano al meglio il contesto.
Dall'hard bop al soul jazz, dal latin al free.
Ma ci sono anche una breve storia culturale/artistica/sociale, una filmografia jazz, i 100 album "che bisogna avere", i libri, i negozi, il look e tanto altro.
Un "Bignami" per mettere un piede nel mondo jazz e non scivolare ma andare spediti verso la sua essenza.
Guido Michelone
Il dizionario del jazz
Diarkos
334 pagine
18 euro
martedì, gennaio 16, 2024
Pete Best - The Best of the Beatles
L'inatteso licenziamento dell'agosto 1962 per fare posto a Ringo Starr nei Beatles, giusto un mese prima dell'incisione del singolo d'esordio "Love me do" (il resto della storia è più che noto), lasciò il povero PETE BEST nello sconforto più totale.
Brian Epstein trovò il modo di accasarlo con Lee Curtis & the All Stars, diventati Pete Best All Stars.
Successivamente Pete fondò il Pete Best Four prima e poi il Pete Best Combo.
Qualche 45 giri, un tour americano, scarso successo.
Nel 1965 con un piccolo colpo di genio venne pubblicato l'album "Best of the Beatles" con tanto di foto con John, Paul, George e il povero Stu Sutcliffe nei giorni di Amburgo, in cui Pete viene evidenziato con un cerchio intorno alla faccia.
Ovviamente chiunque rimase ingannato dal titolo pensando a una raccolta con il meglio dei Beatles.
In realtà si tratta di un modesto album di cover di brani tra rock 'n' roll e classico Mersey Beat, alcuni dei quali nel repertorio dei primi Beatles.
Venne intentata una causa per frode ma non fu portata avanti in quanto effettivamente quanto riportato sulla copertina era lecito:
era (Pete) Best (già) dei Beatles.
La band si sciolse poco tempo dopo.
Due membri del Pete Best Combo, Wayne Bickerton e Tony Waddington, ebbero poi successo come compositori di canzoni per le Flirtations e i Rubettes.
Pete Best abbandonò la musica, tornando in scena occasionalmente come ospite a vari raduni Beatlesiani.
Non fu interpellato per il progetto "Anthology" da cui però ricavò un sostanzioso "risarcimento" in royalties sulle vendite (nel Volume Uno appare in una decina di brani come batterista), tra il milione e i quattro milioni di sterline.
lunedì, gennaio 15, 2024
CCCP - Fedeli alla Linea
Riprendo l'articolo dedicato ai CCCP che ho scritto per "Il Manifesto" sabato scorso.
Si conclude l'ampio spazio dedicato al ritorno della band attraverso vari eventi e pubblicazioni.
Ho parlato:
del libro di Umberto Negri "Io e i CCCP" qui:
https://tonyface.blogspot.com/2024/01/umberto-negri-io-e-i-cccp-storia.html
della mostra in corso a Reggio Emilia qui:
https://tonyface.blogspot.com/2024/01/felicitazioni-cccp-fedeli-alla-linea.html
del catologo della mostra qui: https://tonyface.blogspot.com/2023/10/giovanni-lindo-ferretti-massimo-zamboni.html
del film "Kissing Gorbaciov" qui:
https://tonyface.blogspot.com/2024/01/kissing-gorbaciov-di-di-andrea-paco.html
Il rock, nella sua accezione più ampia (punk e affini inclusi) è un ambito sempre più musealizzato, incorniciato in un'aura epica, esaltata da un rincorrersi di ristampe, libri, biografie, mostre, cataloghi, cofanetti commemorativi, film, documentari.
La fine (sempre più evidente e a quanto pare, irreversibile) spinge inevitabilmente a guardare al passato, cercando di trarne il più possibile le antiche essenze.
Da una parte (in buona percentuale) per ragioni meramente economiche, cercando di monetizzare memorie e cataloghi editoriali, dall'altra in quanto rimane interessante ed essenziale conservarne la memoria storica nel modo più autentico e affine alla realtà (prima che qualcuno riscriva la storia e le storie in modo impreciso e non coerente).
In questo senso il ritorno mediatico ma non solo dei CCCP- Fedeli alla Linea ha travolto, per rilevanza storica e impatto artistico negli anni Ottanta, soprattutto per l'imprevedibilità dell'evento, l'interesse degli operatori del settore musicale nostrano e un'ampia fetta di pubblico, con un attacco “a tenaglia” che ha riportato, tramite ristampe, una mostra, un film documentario, un paio di libri, premi, interviste, l'annuncio di nuovi concerti, il nome della band in primissimo piano, diventando l'evento musicale per eccellenza del 2023 e prevedibilmente dell'anno appena iniziato.
A partire dalla mostra “Felicitazioni! CCCP Fedeli alla Linea 1984-2024” allestita (fino all'11 febbraio) ai Chiostri di San Pietro, a Reggio Emilia.
Messa a punto alla perfezione, asseconda con particolare abilità il mondo e l'immaginario che la loro attività evocò, sfruttando un simbolismo, ai tempi tanto affascinante quanto temibile (Urss, DDR, Cortina di Ferro), ora assurto a innocuo modernariato. Scorrono, nelle vuote, algide e spoglie stanze del palazzo, vestiti, abiti di scena, manifesti, filmati, articoli, volantini, fotografie, suoni, ritratti (le splendide foto di Luigi Ghirri), reliquie varie, i Vopos in metallo stilizzati nella copertina del 45 d'esordio “Ortodossia” e una Trabant circondata da reticolati e cavalli di frisia accolgono il pubblico per poi catapultarlo in un mare di suggestioni, ricordi, stimoli.
L'aspetto interessante è che più che un omaggio “esterno” e agiografico, sono gli stessi CCCP a celebrare sé stessi in una sorta di nuova opera che sublima il loro percorso.
Talvolta c'è un po' dispersione e l'impressione che un neofita che non abbia vissuto quei tempi non sia in grado di afferrare, attraverso la mostra, la sostanza di quello che è stata la band ma solo la forma.
Poco male, l'evento ha avuto grande successo, il voluminoso catalogo (edito da Interno4) è andato immediatamente esaurito e più volte ristampato e il box set che comprende due vinili 180 grammi, un CD, un libretto di 20 pagine con i bozzetti originali della mostra e foto live, 5 spillette da collezione, 5 cartoline con immagini inedite e le stampe di 5 ritratti di Guido Harari scattati a Palazzo Masdoni, storica sede del Pci di Reggio Emilia, sta andando alla grande. I possessori delle copie originali hanno visto lievitare i prezzi nel mercato dei collezionisti.
Contemporaneamente esce il film “Kissing Gorbaciov” di Andrea Paco Mariani e Luigi D'Alife che documenta il concerto del 1988 in Puglia di Litfiba e CCCP affiancati da realtà locali e da gruppi sovietici, per la prima volta in tour in Occidente.
I sovietici ricambiarono e Litfiba, CCCP con l'aggiunta di Rats e Miss and the Misses, volarono a Mosca e Leningrado per due concerti indimenticabili.
I CCCP eseguirono a Mosca la loro versione distorta dell'inno sovietico e i soldati dell'Armata Rossa tra il pubblico si alzarono compunti con la mano sul cuore.
L'Urss stava per implodere e la band si ritrovò nell'immaginario tanto evocato proprio nel momento dell'imminente dissoluzione.
Il mito dei CCCP-Fedeli Alla Linea è tornato ad esplodere.
Complice anche la volontà di ricominciare ad esibirsi dal vivo con tre concerti all'Astra Kulturhaus di Berlino (da subito sold out) che preludono a un probabile ricalcare anche i palchi italiani (come ormai pare appurato da insistenti voci di corridoio).
Non da ultimo anche il recente Premio Ciampi alla carriera (condiviso con Marlene Kuntz e Not Moving) con tanto di intervista e un brano acustico eseguito al Teatro Goldoni di Livorno a sublimare ulteriormente il momento magico. A (spina nel) fianco è stato ristampato da Shake Edizioni “Io e i CCCP. Una storia fotografica e orale” di Umberto Negri che della band fu il bassista per lasciarla poco prima del grande successo. Libro che documenta con rigorose foto in bianco e nero gli esordi della band, tra Reggio Emilia e Berlino, lanciando anche alcuni amari strali sulla fine del rapporto, tra rivendicazioni artistiche e diritti d'autore. Pubblicazione affascinante ma che getta qualche ombra su alcuni aspetti interni alla band.
I CCCP sono stati uno dei gruppi più innovativi, particolari e originali nella storia della musica pop(olare) italiana.
Piacciano o meno. Appunto necessario in considerazione del loro carattere divisivo, sin dagli esordi. Il declamato e provocatorio “filosovietismo” cozzava drasticamente con il diffuso anarchismo della scena punk italiana che, paradossalmente, diede loro la possibilità dell'esordio discografico attraverso l'Attack Punk Records dei Raf Punk, band bolognese portabandiera dell'anarchia più estrema, in linea con quanto professato dagli inglesi Crass. Allo stesso tempo è significativo annotare come i membri della band arrivassero da identità lontane dal punk, a cui si avvicinarono come modalità espressiva e attitudinale ma con il quale le distanze erano spesso notevoli (come da loro stessa ammissione).
I loro concerti diventano sempre più affollati, l'immagine controversa ma affascinante (corredata dalla teatralità degli spettacoli dal vivo) li porta alla ribalta nazionale e spesso accende gli animi di sostenitori e detrattori.
La formula è originale, inedita, intrigante, tra secchi riff chitarristici di sapore punk, una batteria elettronica, la voce secca e cantilenante di Ferretti che declama testi talvolta dadaisti, altre volte apparentemente politici, evoca l'Unione Sovietica ma anche il MedioOriente, l'Islam, inserendo l'immaginario emiliano, ancora sinceramente comunista nell'anima, indefesso lavoratore stakanovista, immerso nella pianura nebbiosa. Lasciano la dimensione indipendente subito dopo l'acclamato esordio a 33 giri, “Affinità-divergenze fra il compagno Togliatti e noi” e si accasano alla Virgin per cui pubblicano altri tre album che ne decretano il successo anche a livello “mainstream” (celebre il 45 giri condiviso con Amanda Lear con cui duettano sulla sua “Tomorrow”).
La band si scioglie il 3 ottobre del 1990, lo stesso giorno della riunificazione tedesca. Le esperienze successive saranno fortunate con il nome di CSI prima e PGR (Per Grazia Ricevuta) poi.
Le strade di Zamboni e Ferretti si divideranno per lungo tempo, per ritrovarsi ora, con Annarella Giudici e Fatur, a condividere la nuova esperienza.
Inutile dire che pure a distanza di tanto tempo, soprattutto in epoca di social, le divisioni del pubblico sulla band si sono acuite tra le immancabili accuse di “tradimento” e “svendita” (a chi? a cosa?) e il costantemente rinfacciato avvicinamento di Ferretti a cattolicesimo e alla destra, nel solito massacro mediatico ormai tanto prevedibile quanto innocuo e intangibile.
Si presume che ci siano abituati da tempi immemorabili, che sia una consapevole parte del “gioco”. Non ci resta che attendere gli sviluppi.
Si conclude l'ampio spazio dedicato al ritorno della band attraverso vari eventi e pubblicazioni.
Ho parlato:
del libro di Umberto Negri "Io e i CCCP" qui:
https://tonyface.blogspot.com/2024/01/umberto-negri-io-e-i-cccp-storia.html
della mostra in corso a Reggio Emilia qui:
https://tonyface.blogspot.com/2024/01/felicitazioni-cccp-fedeli-alla-linea.html
del catologo della mostra qui: https://tonyface.blogspot.com/2023/10/giovanni-lindo-ferretti-massimo-zamboni.html
del film "Kissing Gorbaciov" qui:
https://tonyface.blogspot.com/2024/01/kissing-gorbaciov-di-di-andrea-paco.html
Il rock, nella sua accezione più ampia (punk e affini inclusi) è un ambito sempre più musealizzato, incorniciato in un'aura epica, esaltata da un rincorrersi di ristampe, libri, biografie, mostre, cataloghi, cofanetti commemorativi, film, documentari.
La fine (sempre più evidente e a quanto pare, irreversibile) spinge inevitabilmente a guardare al passato, cercando di trarne il più possibile le antiche essenze.
Da una parte (in buona percentuale) per ragioni meramente economiche, cercando di monetizzare memorie e cataloghi editoriali, dall'altra in quanto rimane interessante ed essenziale conservarne la memoria storica nel modo più autentico e affine alla realtà (prima che qualcuno riscriva la storia e le storie in modo impreciso e non coerente).
In questo senso il ritorno mediatico ma non solo dei CCCP- Fedeli alla Linea ha travolto, per rilevanza storica e impatto artistico negli anni Ottanta, soprattutto per l'imprevedibilità dell'evento, l'interesse degli operatori del settore musicale nostrano e un'ampia fetta di pubblico, con un attacco “a tenaglia” che ha riportato, tramite ristampe, una mostra, un film documentario, un paio di libri, premi, interviste, l'annuncio di nuovi concerti, il nome della band in primissimo piano, diventando l'evento musicale per eccellenza del 2023 e prevedibilmente dell'anno appena iniziato.
A partire dalla mostra “Felicitazioni! CCCP Fedeli alla Linea 1984-2024” allestita (fino all'11 febbraio) ai Chiostri di San Pietro, a Reggio Emilia.
Messa a punto alla perfezione, asseconda con particolare abilità il mondo e l'immaginario che la loro attività evocò, sfruttando un simbolismo, ai tempi tanto affascinante quanto temibile (Urss, DDR, Cortina di Ferro), ora assurto a innocuo modernariato. Scorrono, nelle vuote, algide e spoglie stanze del palazzo, vestiti, abiti di scena, manifesti, filmati, articoli, volantini, fotografie, suoni, ritratti (le splendide foto di Luigi Ghirri), reliquie varie, i Vopos in metallo stilizzati nella copertina del 45 d'esordio “Ortodossia” e una Trabant circondata da reticolati e cavalli di frisia accolgono il pubblico per poi catapultarlo in un mare di suggestioni, ricordi, stimoli.
L'aspetto interessante è che più che un omaggio “esterno” e agiografico, sono gli stessi CCCP a celebrare sé stessi in una sorta di nuova opera che sublima il loro percorso.
Talvolta c'è un po' dispersione e l'impressione che un neofita che non abbia vissuto quei tempi non sia in grado di afferrare, attraverso la mostra, la sostanza di quello che è stata la band ma solo la forma.
Poco male, l'evento ha avuto grande successo, il voluminoso catalogo (edito da Interno4) è andato immediatamente esaurito e più volte ristampato e il box set che comprende due vinili 180 grammi, un CD, un libretto di 20 pagine con i bozzetti originali della mostra e foto live, 5 spillette da collezione, 5 cartoline con immagini inedite e le stampe di 5 ritratti di Guido Harari scattati a Palazzo Masdoni, storica sede del Pci di Reggio Emilia, sta andando alla grande. I possessori delle copie originali hanno visto lievitare i prezzi nel mercato dei collezionisti.
Contemporaneamente esce il film “Kissing Gorbaciov” di Andrea Paco Mariani e Luigi D'Alife che documenta il concerto del 1988 in Puglia di Litfiba e CCCP affiancati da realtà locali e da gruppi sovietici, per la prima volta in tour in Occidente.
I sovietici ricambiarono e Litfiba, CCCP con l'aggiunta di Rats e Miss and the Misses, volarono a Mosca e Leningrado per due concerti indimenticabili.
I CCCP eseguirono a Mosca la loro versione distorta dell'inno sovietico e i soldati dell'Armata Rossa tra il pubblico si alzarono compunti con la mano sul cuore.
L'Urss stava per implodere e la band si ritrovò nell'immaginario tanto evocato proprio nel momento dell'imminente dissoluzione.
Il mito dei CCCP-Fedeli Alla Linea è tornato ad esplodere.
Complice anche la volontà di ricominciare ad esibirsi dal vivo con tre concerti all'Astra Kulturhaus di Berlino (da subito sold out) che preludono a un probabile ricalcare anche i palchi italiani (come ormai pare appurato da insistenti voci di corridoio).
Non da ultimo anche il recente Premio Ciampi alla carriera (condiviso con Marlene Kuntz e Not Moving) con tanto di intervista e un brano acustico eseguito al Teatro Goldoni di Livorno a sublimare ulteriormente il momento magico. A (spina nel) fianco è stato ristampato da Shake Edizioni “Io e i CCCP. Una storia fotografica e orale” di Umberto Negri che della band fu il bassista per lasciarla poco prima del grande successo. Libro che documenta con rigorose foto in bianco e nero gli esordi della band, tra Reggio Emilia e Berlino, lanciando anche alcuni amari strali sulla fine del rapporto, tra rivendicazioni artistiche e diritti d'autore. Pubblicazione affascinante ma che getta qualche ombra su alcuni aspetti interni alla band.
I CCCP sono stati uno dei gruppi più innovativi, particolari e originali nella storia della musica pop(olare) italiana.
Piacciano o meno. Appunto necessario in considerazione del loro carattere divisivo, sin dagli esordi. Il declamato e provocatorio “filosovietismo” cozzava drasticamente con il diffuso anarchismo della scena punk italiana che, paradossalmente, diede loro la possibilità dell'esordio discografico attraverso l'Attack Punk Records dei Raf Punk, band bolognese portabandiera dell'anarchia più estrema, in linea con quanto professato dagli inglesi Crass. Allo stesso tempo è significativo annotare come i membri della band arrivassero da identità lontane dal punk, a cui si avvicinarono come modalità espressiva e attitudinale ma con il quale le distanze erano spesso notevoli (come da loro stessa ammissione).
I loro concerti diventano sempre più affollati, l'immagine controversa ma affascinante (corredata dalla teatralità degli spettacoli dal vivo) li porta alla ribalta nazionale e spesso accende gli animi di sostenitori e detrattori.
La formula è originale, inedita, intrigante, tra secchi riff chitarristici di sapore punk, una batteria elettronica, la voce secca e cantilenante di Ferretti che declama testi talvolta dadaisti, altre volte apparentemente politici, evoca l'Unione Sovietica ma anche il MedioOriente, l'Islam, inserendo l'immaginario emiliano, ancora sinceramente comunista nell'anima, indefesso lavoratore stakanovista, immerso nella pianura nebbiosa. Lasciano la dimensione indipendente subito dopo l'acclamato esordio a 33 giri, “Affinità-divergenze fra il compagno Togliatti e noi” e si accasano alla Virgin per cui pubblicano altri tre album che ne decretano il successo anche a livello “mainstream” (celebre il 45 giri condiviso con Amanda Lear con cui duettano sulla sua “Tomorrow”).
La band si scioglie il 3 ottobre del 1990, lo stesso giorno della riunificazione tedesca. Le esperienze successive saranno fortunate con il nome di CSI prima e PGR (Per Grazia Ricevuta) poi.
Le strade di Zamboni e Ferretti si divideranno per lungo tempo, per ritrovarsi ora, con Annarella Giudici e Fatur, a condividere la nuova esperienza.
Inutile dire che pure a distanza di tanto tempo, soprattutto in epoca di social, le divisioni del pubblico sulla band si sono acuite tra le immancabili accuse di “tradimento” e “svendita” (a chi? a cosa?) e il costantemente rinfacciato avvicinamento di Ferretti a cattolicesimo e alla destra, nel solito massacro mediatico ormai tanto prevedibile quanto innocuo e intangibile.
Si presume che ci siano abituati da tempi immemorabili, che sia una consapevole parte del “gioco”. Non ci resta che attendere gli sviluppi.
domenica, gennaio 14, 2024
Presentazioni Quadrophenia
A breve un paio di presentazioni (tra le pochissime programmate) del libro che ho scritto su "QUADROPHENIA" per Interno4.
A Bologna al "Gallery 19" (via Nazario Sauro 16) venerdì 19 gennaio ore 20.30
https://www.facebook.com/events/1077569183536152
A Pedersano (Trento) all'"Osteria 1960" domenica 4 febbraio ore 14
https://www.facebook.com/events/1023156308985612
A Bologna al "Gallery 19" (via Nazario Sauro 16) venerdì 19 gennaio ore 20.30
https://www.facebook.com/events/1077569183536152
A Pedersano (Trento) all'"Osteria 1960" domenica 4 febbraio ore 14
https://www.facebook.com/events/1023156308985612
sabato, gennaio 13, 2024
Not Moving LTD
I NOT MOVING LTD iniziarono, inconsapevolmente, la loro avventura il 30 marzo 2018.
Poco tempo prima il giornalista Stefano Gilardino chiamò il sottoscritto e Rita Lilith Oberti a parlare dei anni 80 e dintorni alla Biblioteca Comunale di Carpi (Modena).
Pensammo che poteva essere utile anche un intervento di Dome La Muerte, occasione per rivederci dopo parecchio tempo.
Nacque anche l'idea di suonare qualcosa.
Provammo una volta e alla fine dell'incontro eseguimmo in acustico tre brani dei Not Moving ("Eternal door", "Lost bay" e "Spider"), "Sinnerman" di Nina Simone, "Venus in furs" dei Velvet Underground,"I need somebody" degli Stooges, "Rockaway beach" dei Ramones.
Fu una serata affollata, divertente, applaudita.
A metà maggio io e Rita facemmo un'improvvisata a Dome che festeggiava il sessantesimo compleanno in un piccolo circolo toscano.
C'erano alcuni strumenti e ripetemmo il repertorio.
Tra il pubblico Iride Volpi che suonava con i Diggers di Dome.
Ci conoscemmo e piacemmo reciprocamente.
Qualche mese dopo eravamo in sala prove per allestire un repertorio e affrontare una serie di date nel frattempo programmate.
Pensammo all'acronimo LTD (Lilith,Tony Dome ma anche Limited per differenziarci dall'esperienza precedente).
Riarrangiammo i vecchi brani in una nuova chiave che prevedeva/prevede due chitarre, batteria (con due timpani che fanno la funzione del basso, assente. Ho dovuto reinventarmi il modo di suonare), voce/voci e ripartimmo dal Go Down Festival dell'8 dicembre al "Novak" di Scorzé (Venezia).
Da allora decine di date, il singolo "Lady Wine", l'album "Love Beat", il Premio Ciampi alla Carriera del 2023.
Il nostro primo piano quinquennale è stato portato a termine.
Ora meditiamo.
Citando San Girolamo:
Il saggio, per parlare, deve prima molto meditare.
Poco tempo prima il giornalista Stefano Gilardino chiamò il sottoscritto e Rita Lilith Oberti a parlare dei anni 80 e dintorni alla Biblioteca Comunale di Carpi (Modena).
Pensammo che poteva essere utile anche un intervento di Dome La Muerte, occasione per rivederci dopo parecchio tempo.
Nacque anche l'idea di suonare qualcosa.
Provammo una volta e alla fine dell'incontro eseguimmo in acustico tre brani dei Not Moving ("Eternal door", "Lost bay" e "Spider"), "Sinnerman" di Nina Simone, "Venus in furs" dei Velvet Underground,"I need somebody" degli Stooges, "Rockaway beach" dei Ramones.
Fu una serata affollata, divertente, applaudita.
A metà maggio io e Rita facemmo un'improvvisata a Dome che festeggiava il sessantesimo compleanno in un piccolo circolo toscano.
C'erano alcuni strumenti e ripetemmo il repertorio.
Tra il pubblico Iride Volpi che suonava con i Diggers di Dome.
Ci conoscemmo e piacemmo reciprocamente.
Qualche mese dopo eravamo in sala prove per allestire un repertorio e affrontare una serie di date nel frattempo programmate.
Pensammo all'acronimo LTD (Lilith,Tony Dome ma anche Limited per differenziarci dall'esperienza precedente).
Riarrangiammo i vecchi brani in una nuova chiave che prevedeva/prevede due chitarre, batteria (con due timpani che fanno la funzione del basso, assente. Ho dovuto reinventarmi il modo di suonare), voce/voci e ripartimmo dal Go Down Festival dell'8 dicembre al "Novak" di Scorzé (Venezia).
Da allora decine di date, il singolo "Lady Wine", l'album "Love Beat", il Premio Ciampi alla Carriera del 2023.
Il nostro primo piano quinquennale è stato portato a termine.
Ora meditiamo.
Citando San Girolamo:
Il saggio, per parlare, deve prima molto meditare.
venerdì, gennaio 12, 2024
Colson Whitehead - Il ritmo di Harlem
Ho adorato Colson Whitehead con il capolavoro "La ferrovia sotterranea", confermato dall' ottimo "I ragazzi della Nickel".
"Il ritmo di Harlem" / "Harlem Shuffle" è il primo capitolo (datato 2021) di una trilogia (poi proseguita con "Manifesto criminale") dedicata alle vicende di Ray Carney, negoziante di mobili in costante bilico tra legalità e malavita.
E' un libro SOUL FUNK, ambientato nella Harlem tra i Cinquanta e Sessanta, tra gangster, corruzione, razzismo, rivolte per i diritti dei neri, rivendicazioni sociali, politica e bassifondi.
Whitehead è sempre superbo nella scrittura, pur se su uno scalino più basso rispetto a "La ferrovia sotteranea", il groove della narrazione ha il ritmo perfetto della "Harlem Shuffle" di Bob & Earl (splendidamente ripresa dagli Stones).
Alla fine ti ritrovi immerso nel mondo che descrive, tra pork pie hat, oscuri bar, sottofondi jazz, qualche classico rhythm and blues.
Uno degli scrittori contemporanei più dotati e pulsanti.
Molti delinquenti erano grandi lavoratori, e molti grandi lavoratori violavano la legge.
Il buon vecchio know-how americano in bella mostra: compiamo meraviglie, compiamo ingiustizie, e non siamo mai stati con le mani in mano.
A volte New York era così, giravi l'angolo e ti ritrovavi in una città completamente diversa, come per magia. 140th Street era buia e silenziosa, e Hamilton Place era una festa. Due porte più in là c'era un bar con la fila davanti - uno di quei locali bebop, a giudicare dal suono - e accanto al bar alcuni ispanici bevevano vino e giocavano a domino alla luce di un negozio di barbiere.
Colson Whitehead
Il ritmo di Harlem
Mondadori
360 pagine
20 euro
"Il ritmo di Harlem" / "Harlem Shuffle" è il primo capitolo (datato 2021) di una trilogia (poi proseguita con "Manifesto criminale") dedicata alle vicende di Ray Carney, negoziante di mobili in costante bilico tra legalità e malavita.
E' un libro SOUL FUNK, ambientato nella Harlem tra i Cinquanta e Sessanta, tra gangster, corruzione, razzismo, rivolte per i diritti dei neri, rivendicazioni sociali, politica e bassifondi.
Whitehead è sempre superbo nella scrittura, pur se su uno scalino più basso rispetto a "La ferrovia sotteranea", il groove della narrazione ha il ritmo perfetto della "Harlem Shuffle" di Bob & Earl (splendidamente ripresa dagli Stones).
Alla fine ti ritrovi immerso nel mondo che descrive, tra pork pie hat, oscuri bar, sottofondi jazz, qualche classico rhythm and blues.
Uno degli scrittori contemporanei più dotati e pulsanti.
Molti delinquenti erano grandi lavoratori, e molti grandi lavoratori violavano la legge.
Il buon vecchio know-how americano in bella mostra: compiamo meraviglie, compiamo ingiustizie, e non siamo mai stati con le mani in mano.
A volte New York era così, giravi l'angolo e ti ritrovavi in una città completamente diversa, come per magia. 140th Street era buia e silenziosa, e Hamilton Place era una festa. Due porte più in là c'era un bar con la fila davanti - uno di quei locali bebop, a giudicare dal suono - e accanto al bar alcuni ispanici bevevano vino e giocavano a domino alla luce di un negozio di barbiere.
Colson Whitehead
Il ritmo di Harlem
Mondadori
360 pagine
20 euro
giovedì, gennaio 11, 2024
Marilena Umuhoza Delli - Pizza Mussolini
Un romanzo acre e spietato che viaggia su due binari tanto lontani quanto affini, raccontando le storie (con abbondanza di aspetti autobiografici) di due ragazze, l'una, afrodiscendente con la pelle scura, che vive a Bergamo, l'altra, con la pelle molto chiara per i canoni locali, in Malawi.
Entrambe vittime di razzismo, pregiudizi, soprusi, violenze.
Le vicende si intersecano, abbondano di momenti drammatici e crudeli, arrivano a una conclusione sorprendente, in cui ritrovano entrambe radici e identità.
Tematiche non facili da affrontare ma grazie a una scrittura schietta e diretta, la lettura è più che consigliata.
Marilena Umuhoza Delli, madre dal Rwanda, padre di Bergamo, ha firmato tre libri sul razzismo in Italia e conduce un programma radiofonico nazionale dedicato alle eccellenze "Afrodiscendenti" su Radio Radicale.
Fotografa e regista, ha lavorato col produttore Ian Brennan a oltre 40 album di artisti da tutto il mondo, ottenendo riconoscimenti internazionali tra cui un Grammy e risvegliando l’attenzione dei mass media sul tema del razzismo e dell’inclusione nel mondo della musica e della letteratura.
I suoi lavori sono stati pubblicati su testate e emittenti internazionali come il New York Times, The Guardian, Al Jazeera, CNN e BBC.
Marilena Umuhoza Delli
Pizza Mussolini
Red Star Press
224 pagine
16 euro
Entrambe vittime di razzismo, pregiudizi, soprusi, violenze.
Le vicende si intersecano, abbondano di momenti drammatici e crudeli, arrivano a una conclusione sorprendente, in cui ritrovano entrambe radici e identità.
Tematiche non facili da affrontare ma grazie a una scrittura schietta e diretta, la lettura è più che consigliata.
Marilena Umuhoza Delli, madre dal Rwanda, padre di Bergamo, ha firmato tre libri sul razzismo in Italia e conduce un programma radiofonico nazionale dedicato alle eccellenze "Afrodiscendenti" su Radio Radicale.
Fotografa e regista, ha lavorato col produttore Ian Brennan a oltre 40 album di artisti da tutto il mondo, ottenendo riconoscimenti internazionali tra cui un Grammy e risvegliando l’attenzione dei mass media sul tema del razzismo e dell’inclusione nel mondo della musica e della letteratura.
I suoi lavori sono stati pubblicati su testate e emittenti internazionali come il New York Times, The Guardian, Al Jazeera, CNN e BBC.
Marilena Umuhoza Delli
Pizza Mussolini
Red Star Press
224 pagine
16 euro