venerdì, marzo 17, 2023

Mosca e San Pietroburgo. Settembre 2022 - Parte #5



L'amico SOULFUL JULES, abituale frequentatore, per motivi di lavoro, dell'ex Urss, ci introduce nel clima di alcune zone, tristemente famose in questi giorni.
Ci aiuta a capire e ad approfondire, al di fuori di divisioni ideologiche, polarizzazioni, supposizioni.


Mosca e San Pietroburgo. Settembre 2022 - Quinta parte.

La prima parte qui:
https://tonyface.blogspot.com/2023/02/mosca-e-san-pietroburgo-settembre-2022.html

La seconda parte qui:
https://tonyface.blogspot.com/2023/02/mosca-e-san-pietroburgo-settembre-2022-2.html

La terza parte qui:
https://tonyface.blogspot.com/2023/03/mosca-e-san-pietroburgo-settembre-2022.html

La quarte parte è qui: https://tonyface.blogspot.com/2023/03/mosca-e-san-pietroburgo-settembre-2022_0953283786.html

Le precedenti puntate di "Tales from ex Urss" sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/Tales%20from%20Ex%20Urss

In questi giorni non ho mai indossato la mascherina, qualche mese fa me la sfilavo solo per mangiare, prima di rientrare dovevo fare il tampone e c’era il rischio di rimanere bloccato qua, in chissà quali condizioni.
Era scomodo e avvilente, ero praticamente l’unico a girare con bocca e naso coperti, adesso è molto più rilassante e soprattutto più agevole per parlare, senza impedimenti.
Quando arrivo in ufficio Svetlana, una signora corpulenta con i capelli cortissimi tinti di platino, mi avverte subito che in questo periodo “sono tutti ammalati, è pericoloso andare in giro dai clienti.”
Vuole pararsi un po’ il culo perché non è riuscita ad organizzare abbastanza incontri da aziende degne di nota ma mi mette addosso una para nera, forse quel pizzicorino alla gola…

Saluto Svetlana e le sue belle notizie e monto in auto con Nataša, il manager per lo sviluppo, in Russia tutti gli impiegati sono manager, poi bisogna vedere se semplice, staršij o veduščij, senior o quadro, ci sono sempre mille ruoli e millemila gradazioni che valgono solo nei biglietti da visita.

Nataša mi dice che ha concordato l’incontro presso una fabbrica di cucine con il designer principale, “gli ho detto che avrei portato un tecnico esperto” mi confida soddisfatta.
Sarei io, il tecnico esperto.
Quasi venti anni che faccio questo lavoro, me la cavo a gestire persone, incontri e presentazioni, conosco le caratteristiche della zama o dell’acciaio, il valore aggiunto, le quote di foratura sul pannello per montare una giunzione, l’interasse dei perni me li ricordo senza aprire il catalogo, ma ho sempre paura di essere scoperto, che mi capiti di trovarmi di fronte uno di quelli che le forature sul pannello le fa per davvero, a mano, con la polvere che gli ricopre l’avanbraccio e bastano due domande perché scopra che non sono un tecnico, perché il bluff venga smascherato, come un verginello che pontifica di Kamasutra finché si trova a parlare con un attore porno.
Mi siedo a un tavolo con Sergej, che disegna le cucine per uno dei più grossi brand del paese, devo spiegargli come appendere un pensile al muro, come fissarlo in modo sicuro.
Non ci credo quando mi dice che pensava di usare due reggicristalli, dettagli grandi poco più di un’unghia che servono a bloccare i ripiani di vetro nei mobili, mi chiede se possono sostenere una struttura da centocinquanta chili. Esco dall’incontro che mi sento, a livello tecnico, Rocco Siffredi.

In macchina cerco di fare due chiacchiere con Natalja, certe volte sarebbe meglio guardare il telefonino, come ho fatto per anni, ma il roaming costa caro e sui siti di informazione ci sono solo brutte notizie.
“Hai un fidanzato?”
“Sì, ci siamo messi insieme a gennaio.”
“Dove vi siete conosciuti?” domando con curiosità, perché mi interessano le dinamiche di rimorchio in una metropoli come San Pietroburgo.
“Sui social.”
“Ah! Facebook?”
“Tinder.”
“Cosa fa il tuo ragazzo?” continuo con l’interrogatorio, perché Natalja non parla, non fa domande, nemmeno quelle più banali.
“Fa alpinismo industriale.”
“Eh?”
“Lava i vetri dei grattacieli e dei centri commerciali, si appende con l’imbragatura da scalatore.”
“Esci mai da San Pietroburgo per lavoro?”
“Dipende, se c’è di mezzo un dealer, l’incontro va concordato con la direzione, e se effettivamente è una komandirovka, un viaggio di lavoro, bisogna vedere se mi riconoscono l’indennità di trasferta e quanto mi danno.
Se non è tanto o se è troppo complesso è meglio lasciar perdere.”

Dal dealer non ci va nessuno perché al venditore non pagano i panini e la benzina o non gli danno la diaria, oppure è uno sbattimento tirare fuori i talloncini da firmare e timbrare.
Si potrebbe vendere di più e crescere, basterebbe muoversi, farsi due o trecento chilometri per presentare gli articoli, ricordare al distributore che esisti e che deve spingere i tuoi prodotti ma c’è sempre questa difficoltà a prendere l’iniziativa, assumersi delle responsabilità.
E ancora, dopo tanti anni, mi colpisce il divario tra chi è dotato di un’intelligenza acuta, quasi geniale e chi è impantanato in uno stagno di ottusità, incapace di alzarsi e andare oltre.
Se da noi è tutto più uniforme, livellato, qua no, sempre picchi ed eccessi.

L’incontro successivo è organizzato in una fabbrichetta in centro, all’interno di un edificio di mattoni rossi che ancora resiste alla gentrificazione dei quartieri urbani. Fanno mobili, complementi, porte, scale, pannellature.
Mi girano le palle, perché se fanno tutto vuol dire che producono pochi mobili e che senso ha che io venga apposta dall’Italia per seguire un cliente che alla fine dell’anno avrà comprato cento euro di roba.
Cerco di farmi scivolare l’incazzatura mentre aspettiamo qualche istante davanti alla reception, in una sala ampia e illuminata.
Sulle pareti lucide sono appesi dei campioni di cornici e altri elementi di decoro intarsiati, roba che va poi sugli infissi o a ridosso dei corrimani, li tengono bene in vista così il cliente finale può scegliere direttamente. Una ragazza fasciata in un vestitino nero ci accompagna nell’ufficio dei tecnici.
Attraversiamo lo stanzone con i macchinari per il taglio e la bordatura dei pannelli; vicino alle finestre sono disposti dei banchi di lavoro per le operazioni manuali, forature speciali, rifiniture di dettagli con la carta vetrata e il pennellino.
C’è polvere dappertutto, il pulviscolo sospeso nell’aria nonostante le bocche di aspirazione, i tubi metallici che corrono lungo i muri, l’ambiente saturo dell’odore pungente di colle e solventi che ti prende lo stomaco e ti blocca la gola.
Il pavimento è quasi bianco dagli scarti di lavorazione.
Producono roba da oligarchi, intarsiata, tutto nero laccato e oro, a metà tra una bara e un pianoforte a coda.
L’ufficio è abbastanza spazioso ma disordinato, sopra le nostre teste fiumi di cavi e il neon che sfarfalla.
Bisogna parlare ad alta voce per il suono metallico delle frese che ragliano oltre la parete scrostata.
Fa caldissimo.
Inghiotto una mestolata di saliva amara come il rafano, cerco di non pensarci e inizio a presentare gli articoli. Sono l’unico che parla, nessuno che intervenga o faccia una richiesta di chiarimento.
Natalja, vicino a me, è assorbita dallo schermo dell’Iphone.
Mi guardano con le palpebre socchiuse, qualcuno fatica a restare sveglio.
Fanno di sì con la testa per rispetto, hanno anche liberato un tavolo perché ci appoggi sopra la mia roba, uno sta registrando quello che dico col telefonino, chissà quante volte se l’ascolteranno questa presentazione.
Li fisso dritto negli occhi, perché non si addormentino, questi non capiscono niente e fanno mobili, è il loro mestiere e ne so più io.

L’ultimo incontro va meglio, i clienti ci ricevono in uno show-room atmosferico, uno spazio curato, con le luci soffuse.
Ci accomodiamo attorno a un tavolo da riunioni con il top in finto cemento, le ragazze sono carine, con le unghie levigate e smaltate, ogni volta ti domandi come facciano a lavorare con quella manicure.
Mi collego col pc ad uno schermo appeso alla parete, proietto immagini di interni dall’ultima fiera di Milano.
Parlo ininterrottamente per due ore, li prendo per mano e li accompagno in un viaggio alla scoperta delle ultime tendenze del design mondiale.
Un percorso che tocca i punti cardinali dell’estetica e della funzionalità e si snoda tra basi sospese, profili in alluminio, sfumature di rosa e mattone, ante a ribalta in tinte pastello e finiture opacizzate.
La destinazione finale è il dettaglio, l’elemento strutturale, quasi invisibile, che tiene assieme la costruzione e dona al mobile un valore aggiunto, caratterizzante.
Il focus sui reggiripiani in nickel nero, i pistoncini slim per un’apertura ammortizzata, il meccanismo a filo che unisce minimalismo e dinamicità.
Ogni tanto alzo lo sguardo e le osservo, hanno gli occhi fissi sullo schermo, sembrano davvero rapite dalle immagini e dall’eloquenza della mia voce, calda, coinvolgente, ispirata.
Alla fine mi dedicano un applauso spontaneo, non gli è mai capitato un incontro del genere.
Tanto non serve a niente, anche questo è un piccolo produttore, quantità ridotte e poche possibilità di crescita.
Natalja mi guarda impassibile, il telefono in mano.

Alla sera mi trovo con Igor’, l’amico che avevo incontrato anche a luglio, quando faceva caldo e il sole era alto fino a tardi.
Adesso l’azzurro è sparito ma c’è un bel movimento lungo il Nevskij, ragazzi con le cuffiette, turisti impacciati, impiegati appena usciti dal lavoro che si dirigono verso la metro.
Ci sistemiamo in un pub che si affaccia su un canale, un vecchio magazzino infighettato dove servono più di cinquanta tipi di birra, parliamo del nuovo lavoro di Igor’.
“Ho mollato l’altra azienda dopo dieci anni, i nostri fornitori erano quasi tutti italiani, compravamo turbine per l’estrazione del gas ma adesso è merce sanzionata.
Me ne sono andato prima che mi licenziassero.”
“Il nuovo posto com’è?”
“È un mese che sono lì e le ultime due settimane sono stato in ferie, a Yerevan, in Armenia.”
“Piaciuto?”
“Sì bellissimo, trenta gradi. Unica cosa, troppi russi. Impossibile trovare un tavolo al ristorante senza prenotazione, anche i cafè col wi-fi gratuito erano sempre occupati da gente che lavorava e che faceva video-call.”
Gli chiedo come faccia ad accedere a Facebook e mi insegna come scaricare un VPN, una specie di portale che ti permette di visitare i siti come se ti trovassi in un altro paese. Provo e funziona, Netflix e Disney si aprono, la pubblicità è in olandese.
Cerchiamo di non parlare della guerra, Igor’ dice che a casa ha litigato con suo padre.

“È il classico russo che crede a tutte le stronzate che sente in tv, ce ne sono milioni come lui.
Non ti dico che discussioni. Io e la mamma stiamo all’opposizione.” dice ridendo, scopre i denti bianchi, regolari che qua in Russia non è una cosa tanto comune.

Ma per quanto uno ci provi a pensare ad altro, le notizie degli ultimi giorni sono preoccupanti, pare che il Cremlino voglia organizzare dei referendum nelle regioni contese all’Ucraina, per annetterle alla Russia.
E questo non porta niente di buono, se quei territori vanno sotto Mosca e poi ci casca sopra anche un petardo, la Russia sarebbe legittimata dallo statuto ad utilizzare armi nucleari per difendere il proprio territorio.

“Speriamo che non succeda niente, che trovino un accordo.” si augura Igor’ un po’ sovrappensiero, lo sguardo incollato sulla fajita di pollo che gli hanno appena portato.

Lungo i marciapiedi camminano dei ragazzi in tuta, lo zaino sulle spalle, i fili degli auricolari che escono dalle orecchie e scendono lungo il collo, procedono calpestando sul selciato le foglie ingiallite delle betulle e mi domando se sanno già, se toccherà anche a loro.
Costeggiamo il Golfo di Finlandia, un raggio di sole buca le nuvole e attraversa lo scheletro metallico del ponte, sorretto da una ragnatela di tiranti, le silhouette di palazzi moderni illuminate sullo sfondo.
Dura un attimo, poi il cielo torna a chiudersi.

L’incontro è in uno showroom in stile loft, acciaio e cemento e linee pulite all’interno di un vecchio edificio in mattoni rossi, restaurato da poco.
Ci sono una decina di persone nella stanza, le ragazze sono bellissime, zigomi pronunciati, occhi grandi e azzurri che proiettano sguardi algidi, distanti ma basta una parola, un mezzo sorriso perché rivelino un calore inaspettato, come la leva che apre un passaggio segreto.
I tecnici invece hanno l’aria scazzata, tipo “che perdita di tempo”, “chi si crede di essere questo?”.
Dopo le prime battute si rilassano e fanno qualche intervento, alla fine sono tutti sorridenti, anche quelli in età da mobilitazione.

Business as usual.

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