lunedì, agosto 31, 2020
Agosto 2020. Il meglio
Si va nell'ultima parte dell'anno con ottimi dischi come quelli di Fontaines DC, Toots and the Maytals, Paul Weller, Fantastic Negrito, Pretenders, Sault, Igorrr, X, The Ranch, Bob Dylan, Liam Gallagher, Jayhawks, Lux Hotel, Real Estate, Gerry Cinnamon, Christian McBride, Lightning Orchestra, Gil Scott Heron/Makaya McCraven, Devonns, Soul Motivators, Isobel Campbell, Monophnics, Black casino and the Ghost, Martha High and the Italian Royal Family, Crowd Company, Ben Watt. Moses Boyd, Shabaka and the Ancestors, Jazz Sabbath, Field Music.
Per l'Italia Calibro 35, Ritmo Tribale, Lilac Will, Mother Island, Rosalba Guastella, Dining Rooms, Dalton, Puglia, Era Serenase, Ok Bellezza, Caltiki, Cristiano Godano, Aspic Boulevard e Handshake.
FANTASTIC NEGRITO - Have you lost your mind yet
Chiamato a una conferma artistica che avvalorasse lo spessore dei primi due album, l'artista americano risponde con fermezza e in modo più che convincente. I primi passi sono stati una grande sorpresa: Fantastic Negrito ha sparigliato le carte della black music moderna, assemblando funk, soul, blues, rap, gospel, rock e un'attitudine punk che, soprattutto dal vivo, ha fatto ricordare il fuoco che ardeva nei concerti di James Brown, Prince, Sly and the Family Stone. Al terzo album si é ovviamente perso l'effetto sorpresa e sappiamo bene cosa attenderci da Fantastic Negrito ma ciò non attenua il valore di un lavoro che si candida facilmente al top dei migliori dell'anno in corso. Una garanzia!
FONTAINES DC - A hero's death
Secondo album per la band irlandese e un passo avanti deciso, maturo, consapevole per scrivere un nuovo capitolo di grande valore e spessore. Il loro post punk miscela con grande sapienza Velvet Underground e Fall, irruenza e dolce disperazione.
Suoni scarni e taglienti, cupi e perfino apocalittici.
Una band che conta.
TOOTS AND THE MAYTALS - Got to be tough
Torna all'incisione, dopo dieci anni di silenzio, Frederick Toots Hibbert, vera e propria leggenda della musica giamaicana, autore di grandi classici come 54-46 that's my number, o Pressure Drop (ripreso anche dai Clash) e l'altrettanto conosciuta Monkey man (cavallo di battaglia degli Specials ma anche nel repertorio di Amy Winehouse).
Visse in diretta il passaggio dal rocksteady/ska al reggae, alla fine dei 60 ma la sua musica è sempre stata però un mix di influenze, inclusi soul, gospel, rock, non disdegnando nei testi tematiche socio politiche.
Una formula che ripropone con autorevolezza e creatività anche nel nuovo album, che stupisce per varietà, immediatezza, freschezza e grande modernità. Non di sola pertinenza per gli amanti della musica in levare ma un album completo e fruibile per tutti i palati.
THE JAYHAWKS - XOXO
Attività trentennale all'insegna di un alt country molto personale e una svolta ora verso un sound accattivante e intrigante che guarda alla West Coast dei 60's, melodie Beatlesiane, stupende ballate, brani di qualità eccelsa.
Disco commovente, avvolgente, delizioso.
THE LEMON TWIGS - Songs for the General Public
Terzo album per i due fratelli newyorkesi e consueto viaggio retrò nei 70 più pacchiani tra pop glam, Bowie, Queen, Supertramp, Abba, Wings e affini.
Il risultato è sempre gradevole anche se ormai prevedibile e senza più l'effetto sorpresa.
THE PSYCHEDELIC FURS - Made of rain
A quasi 30 anni dal precedente lavoro uno dei miti del post punk new wave degli anni 80 torna con un buon disco. Sonorità cupe e decadenti, la voce di Richard Butler ancora grande protagonista, discrete canzoni anche se alla fine un po' di noia e monotonia prendono il sopravvento.
THE STOOGES - Live at Goose Lake. August 8th 1970
La Third Man di jack White pubblica la registrazione dell'ultimo live degli Stooges con la formazione originale. Subito dopo il bassista Dave Alexander venne licenziato per essere salito sul palco talmente stonato da non essere riuscito a suonare. In realtà si sente sbagliare spesso, allo stesso modo di Iggy che manca qualche entrata. Caos, metallo urlante, pura violenza sonora con il finale delirante di 8 minuti di "LA Blues".
999 - Bish bash bosh
La storica punk band del 77 prosegue una carriera in sordina, suonando spesso nei raduni punk ricolmi di vecchie glorie.
Il nuovo album è dignitoso tra punk rock, street punk, energia e una produzione che ne esalta il tiro. Da ascoltare.
D.O.A. - Treason
I veterani della scena hardcore canadese con quello che è ormai il ventesimo album della carriera. Nulla di nuovo: punk rock, virate hardcore, una cover punkizzata di "Hey Hey My My" di Neil Young.
Tuttavia sufficiente.
DEEP PURPLE – Whoosh!
Non è lecito attendersi particolari rivoluzioni sonore da una band con 50 anni di attività alle spalle. Il nuovo lavoro è infatti un’onesta conferma delle conosciute capacità tecniche, raccoglie qualche ottimo brano tra un hard rock di facile fruizione, fughe nel rock ‘n’ roll più classico, spazio ad aperture di sapore prog, un omaggio a Jon Lord con la ripresa di un suo brano strumentale inciso nel 1968. Lavoro più che dignitoso che non mancherà di essere apprezzato dai fan di lunga data.
BRIAN AUGER - Instropection
Triplo cd antologico con 35 brani dell'immenso tastierista con una prevalenza di materiale legato al periodo jazz fusion ma con anche sprazzi di rhythm and blues, una "Inner city blues" funk jazz e una bellissima "Light my fire" jazz blues.
AA.VV. - Super Sonics
Una serie di compilation ha recentemente riportato alla luce episodi dimenticatissimi del glam rock degli anni 70, il cosiddetto “junk shop glam” (quei dischi che si trovavano ormai a pochi spiccioli nei junk shop, i mercatini dell'usato inglesi).
La stessa operazione viene ora ripetuta, per gli anni 90 del Brit Pop, dal DJ Martin Green che raccoglie in due volumi un'abbondante dose di quei gruppi sconosciuti. Che mischiavano art pop, freakbeat, influenze 60/psichedeliche ma anche elettronica e bizzarie varie. 40 brani curiosi, talvolta geniali, perduti per sempre.
AA.VV- 2 Tone: The Albums CD box set
Un box commemorativo che raccoglie i primi otto album con i tre classici degli Specials e gli introvabili lavori mai pubblicati su CD come la compilation “Dance Craze” (colonna sonora dell'omonimo film), “This are Two Tone” con il vero meglio di quell'attimo fuggente e i due album di Rico Rodriguez, trombonista degli Specials, con il suo puro rocksteady beat, con tanto di consueto esaustivo booklet.
IDRIS ACKAMOOR & The PYRAMIDS - Shaman!
Ottimo lavoro di spiritual jazz che on di rado guarda a funk, blues e occhieggia a Gil Scott Heron. Molto interessante.
NUBYA GARCIA - Source
Brillante esordio per la saxofonista, punta di diamante della scena Nu Jazz britannica.
Si passa dal jazz tradizionale, all'improvvisazione, a suggestioni reggae/dub, alla cumbia.
Sulla stessa onda di Kamasi Washington.
OSCAR JEROME - Breathe deep
Dalla scena nu jazz inglese l'esordio del chitarrista e cantante londinese (già con Yussef Dayes, Shabaka Hutchings e Moses Boyd, Kokoroko, ora aiutato dagli amici degli Ezra Collective) con un ottimo album in cui convergono le consuete influenze jazz, fun, elettroniche, spiritual, hip hop e un substrato sociale politico con i versi del poeta e rapper Brother Portrait. Una scena sempre viva e che regala grandi soddisfazioni artistiche.
CITRUS SUN - Expansions And Visions
Bluey degli INCOGNITO alle prese con il suo side project a base di ottimo funk, latin soul, fusion, molto patinato ma gradevolmente estivo e di grande classe.
Inclusa una spettacolare versione di "California soul" cantata da Noel McKoy (già con il James Taylor Quartet).
JOYELLO - Ofidiofobia
Joyello Triolo è tra i più longevi, versatili e interessanti artisti italiani, in grado di spaziare, nel corso degli anni, da new wave a beat rock (Madri della psicanalisi), dalla sperimentazione alla lounge, fino a quell'entità multicolore e geniale della Peluqueria Hernandez, tra pulsioni Tarantiniane, suoni mariachi, Morricone e tanto altro. Il nuovo lavoro solista, che parte dalla sua personale fobia per i rettili, è un onirico viaggio sonoro elettronico e strumentale che abbraccia ambient, avanguardia, Laurie Anderson ed echi dei Japan. Personale, intenso, claustrofobico, a tratti minaccioso. Come ogni fobìa.
PAOLO DOESN'T PLAY WITH US - Muffled Heart Sounds
Eccellente lavoro per il trio bolognese, magnifico interprete di un folk che intreccia un approccio classico con armonie dream pop, accenni country e uno sguardo alla tradizione dei Fairport Convention. Senza dimenticare un affascinante costante richiamo al lato folk dei Led Zeppelin e di certe opere soliste di Robert Plant. Perfettamente arrangiato e suonato, compositivamente sempre di alto livello. Grande disco.
THE KIARA ELLES - Odio
La band di Leeds, guidata dalla nostra Chiara Lucchini, con un album immediato, cool, che mischia alla perfezione pop e post punk. Una sorta di Cardigans incrociati agli X Ray Spex. Brani costruiti sempre molto bene, melodicamente perfetti, Ottimi.
ASCOLTATO ANCHE:
YO LA TENGO (sperimentalmente inutile), ZARA MC FARLANE (nu soul raffinato e intenso), BULLY (grunge pop con buoni spunti), BRENDA NICOLE MOORER (jazz soul pop elegante ma insipido), GREG FOAT (fusion, nu jazz, funk, un buon ascolto).
LETTO
PAUL REES- The Ox
Il giornalista Paul Rees (con l'aiuto e l'approvazione della prima moglie Alison e del figlio Cristopher) scrive la parola definitiva sulla storia del più grande bassista rock di sempre, JOHN ENTWISTLE.
E' un racconto brutale che non risparmia particolari scabrosi, su una vita spesa a dilapidare una fortuna dietro l'altra, tra eccessi e abusi di ogni tipo.
Se la prima parte descrive le imprese goliardiche con il suo "partner in crime" Keith Moon (a cui John teneva tranquillamente testa in quanto a eccessi), dopo la tragica scomparsa del batterista (anche a causa di questo), John sprofonda sempre più negli abusi.
Compra auto, bassi, chitarre, vestiti, in modo compulsivo ma anche case e quantità abnormi di oggetti inutili con cui arredarle.
Va più volte in malora (nonostante certi tour con gli WHO gli fruttino cifre intorno ai 3 milioni di dollari!), viene "salvato" dalle lucrose reunion della band, divorzia due volte e finisce, insieme all'ultima compagna, Lisa, nel delirio più totale, fino alla morte nel 2002.
Amici, collaboratori, ex compagne, concordano sul fatto che avesse almeno due personalità (se non di più).
Quella da rockstar, a cui non sapeva rinunciare e da cui non voleva allontanarsi (arrivando anche a pagarsi tour fallimentari, pagati con i suoi soldi, con la John Entwistle Band), per non sprofondare nel suo personale "black hole".
Quello in cui vagava nei periodi di pausa, nelle sue tenute, tra un party e l'altro e uno smisurato abuso di alcolici, superlacolici, donne, droghe.
Il 27 giugno 2002, ormai distrutto, il suo fisico cederà.
FEDERICO GUGLIELMI - No control. Storie di hardcore punk californiano 1980-2000
FEDERICO GUGLIELMI non ha bisogno di presentazioni.
Se per qualcuno fosse un nome sconosciuto probabilmente ha sbagliato blog.
In ogni caso, sintetizzando: giornalista per Mucchio, Rumore, Rockstar, Bassa Fedeltà, fondatore di Velvet, attualmente con Classic Rock, Blow Up, Audio Review, Vinile.
Ha lavorato in Rai, è stato produttore di parecchi dischi (Not Moving inclusi), scritto una trentina di libri.
Nello specifico ci interessa sottolineare che è stato uno dei primissimi in Italia a parlare e scrivere di PUNK e, in particolare, HARDCORE, quando ancora in pochissimi ne avevano l'esatta percezione della portata storica.
In questo libro raccoglie quanto scritto sull'hardcore californiano dal 1980 al 2000.
Articoli, recensioni, interviste (da Brett Gurevitz a Mike Ness, Rancid, Kevin Wasserman degli Offspring, East Bay Ray dei Dead Kennedys e tanti altri).
Interessanti gli articoli in tempo reale, primi anni 80, su quanto avveniva da quelle parti, con la percezione ancora "naif" di noi italiani (che in realtà eravamo tra quelli "più avanti" nel recepire il nuovo sound).
Soprattutto la mancanza di reverenza esterofila (non mancano sonore e feroci stroncature) e la visione di un futuro ormai prossimo già nel 1982: "Inutile negarlo: il movimento hardcore è diventato ormai un businnes di proporzioni relativamente vaste, grazie a quale è fin troppo facile realizzare e vendere porcherie sfruttando ipocritamente presunti desideri di ribellione" - a proposito della "discutibile" compilation della Alternative Tentacles "No so quiet on the Western Front".
Come sottolineato nella prefazione, non è né enciclopedia né saggio ma un testo importante per gli appassionati del genere, da consultare, alla ricerca di un sacco di "musica perduta".
THOSE IMPORTANT YEARS.
EDDY CILIA - Venerato Maestro Oppure
Eddy Cilia è tra i migliori e più autorevoli giornalisti musicali italiani.
La lunga militanza nel "Mucchio", fondatore di "Velvet", attualmente con "Audio Review" e "Blow Up", autore di numerosi libri, consulente a RadioRai3 e presente sul web con il sempre interessantissimo blog.
Il nuovo libro raccoglie quasi 400 pagine di suoi scritti dal 1994 al 2015 ed è un sussidiario perfetto, un abecedario ideale, l'epitome suprema di come si dovrebbe scrivere di musica: in maniera chiara, colta, sempre documentatissima, un pizzico di ironia e la capacità di spaziare da Miles Davis ai Replacements, da Paul Weller a Lee Scratch Perry o ai Beastie Boys. C'è da imparare, divertirsi, prendere nota.
Essenziale.
MAURIZIO BLATTO - Sto ascoltando dei dischi
Maurizio Blatto è una storica firma di "Rumore" nonché proprietario di un altrettanto monumento come il negozio di dischi "Backdoor" di Torino.
E, soprattutto, UNO DI NOI.
Quelli che non riescono (da tempo immemorabile) a scindere la vita reale con quella della musica ascoltata, vissuta nel quotidiano come una componente essenziale della propria esistenza.
Non sono follia o ossessione ma una semplice componente del realtà che viviamo.
In cui ogni gesto, visione, frase, parola, vengono automaticamente associate a una canzone, un gruppo, un concerto, una sensazione legate alla nostra "bolla sonora".
I racconti di Blatto fanno morire dal ridere, esasperando con grandissima ironia le nostre grottesche idiosincrasie in merito. Svela drammaticamente però la nostra malattia, in cui è dolce cullarsi e da cui mai vorremmo guarire...anzi..
BRUNO MORELLI / ANTONIO G. D'ERRICO - Alunni del Sole
C'è un'ampia porzione della musica pop italiana dimenticata o inesplorata ma che ha lasciato segni tangibili e riconoscibili nella storia nostrana.
Gli Alunni del Sole sono sempre stati piuttosto lontani dalle mie preferenze, non di meno la loro storia è interessante e intrigante.
Sostanzialmente creatura del compositore e cantante Paolo Morelli, anima e mente del gruppo (diventata una sorta di sigla della sua opera creativa), personaggio introverso, poetico, particolare, profondo, a metà tra musica leggera, pop, canzone d'autore e con una vena prog agli inizi, scomparso nel 2013.
In questo libro il fratello e braccio destro nella band, Bruno Morelli, affiancato da Antonio G.D'Errico, ne raccontano la storia artistica (ricca di successi e notorietà tra i 70 e gli 80) e l'intimo poetico, aprendo anche uno sguardo molto interessante sulle vicende della discografia italiana, sull'amicizia con Fabrizio De Andrè, sulle manovre che stanno dietro alla gestione di un gruppo e tanto altro.
C'è un'ampia porzione della musica pop italiana dimenticata o inesplorata ma che ha lasciato segni tangibili e riconoscibili nella storia nostrana.
COSE VARIE
Ogni giorno mie recensioni italiane su www.radiocoop.it, ogni domenica "La musica ribelle", una pagina sul quotidiano "Libertà", ogni mese varie su CLASSIC ROCK.
Periodicamente su "Il Manifesto" e "Vinile".
IN CANTIERE
“Sugarhill”, versatile viaggio nell’underground musicale, presenta Not Moving LTD
Dalle 19.
Concerto alle 21 in punto.
Frida nel Parco.
Parco della Montagnola
Bologna
Entro l'anno un paio di nuovi LIBRI (tra cui una sorpresa molto particolare), uno a cui ho collaborato attivamente, una ristampa, un altro alla fine del 2021.
Si lavora intanto a un nuovo disco.
domenica, agosto 30, 2020
Not Moving LTD 3 settembre a Bologna
“Sugarhill”, versatile viaggio nell’underground musicale, presenta Not Moving LTD
Dalle 19.
Concerto alle 21 in punto.
FRida nel Parco.
Parco della Montagnola
Bologna
https://www.facebook.com/events/993286954475391/
sabato, agosto 29, 2020
Classic Rock
Nel nuovo numero di CLASSIC ROCK intervisto MATTEO GUARNACCIA, parlo della compilation "2Tone: The albums" all'interno di uno speciale sulla 2TONE e recensisco gli album di Toots and the Maytals, il triplo CD compilation di Brian Auger "Introspection", Conventionals, Claudio Conti, Cazale, Mad Sin, Sharptooth, Sam Onso & the Kiters, il libro "Attitudine riottosa" di Giulio D'Errico.
Si parla inoltre di David Bowie, musica e psichedelia turca, Mark Lanegan, Ennio Morricone, intervista a Thurston Moore etc etc
venerdì, agosto 28, 2020
Get Back. Dischi da (ri)scoprire
Ogni mese la rubrica GET BACK ripropone alcuni dischi persi nel tempo e meritevoli di una riscoperta.
Le altre riscoperte sono qui:
http://tonyface.blogspot.it/search/label/Get%20Back
Speciale MARIA MONTI.
MARIA MONTI - Recital
Uscito nel 1961 è una sorta di concept, in cui le canzoni (in buona parte composte dai suoi testi e dalla musica di Giorgio Gaber, suo compagno ai tempi) sono unite da brevi parole introduttive della stessa Monti.
Canzoni con arrangiamenti minimali (suonano Giorgio Gaber alla chitarra e Pallino Salonia al contrabbasso) che mettono in primo piano il ruolo di una donna moderna che affrontava tematiche contingenti come lo sfruttamento sul lavoro ("La filanda") o inusuali per la canzone italiana ("Il funerale"), oltre alla più nota e spensierata "Zitella Cha Cha Cha" (dal testo apparentemente leggero ma in realtà molto amaro). C'è anche la splendida "Sono le nove", firmato per la prima volta dal duo, poi indivisibile, Gaber e Luporini, struggente ritratto di Milano. Infine il piccolo classico "Non arrossire" ripreso poi da Renato Zero, Bobby Solo, Claudio Baglioni, Renzo Arbore,Mal, Morgan. Un gioiello di disco.
MARIA MONTI - Maria Monti e i contrautori
Donna di sinistra si affianca alla tradizione delle cantautrici impegnate come Giovanna Marini o Giovanna Daffini con un album, del 1972, voce e chitarra acustica in cui interpreta brani di vari "Contro-Autori" come Ivan Della Mea, Paolo Pietrangeli o Phil Ochs di cui riprende, in italiano, "There but for fortune".
MARIA MONTI - Il Bestiario
Un album particolarissimo, sperimentale, originale, uscito nel 1974, il vertice musicale di Maria Monti, fino ad allora conosciuta per canzoni popolari e cabarettistiche (soprattutto nel connubio con Giorgio Gaber). Affiancata da Alvin Curran, del collettivo di improvvisazione MEV (Musica Elettronica Viva), Roberto Laneri e il sassofonista Steve Lacy (che lavorò con Monk, Charlie Mingus, Duke Ellington e da noi con Enrico Rava e gli Area), si immerge in atmosfere elettroniche minimali, talvolta folk, jazz, sperimentali.
Lavoro affascinante e interessantissimo.
MARIA MONTI - Le muraglie
Pubblicato nel 1977 è la prosecuzione concettuale de "Il bestiario", più fruibile musicalmente (pur se molti brani sono molto teatrali e cabarettistici, parlati con basi semi cacofoniche), molto più radicale liricamente, con le tematiche, anche in questo caso in forma di concept, apertamente femministe, anti violenza e prevaricazione di genere, militanti, imperniate sulla condizione della donna in quegli anni.
Le altre riscoperte sono qui:
http://tonyface.blogspot.it/search/label/Get%20Back
Speciale MARIA MONTI.
MARIA MONTI - Recital
Uscito nel 1961 è una sorta di concept, in cui le canzoni (in buona parte composte dai suoi testi e dalla musica di Giorgio Gaber, suo compagno ai tempi) sono unite da brevi parole introduttive della stessa Monti.
Canzoni con arrangiamenti minimali (suonano Giorgio Gaber alla chitarra e Pallino Salonia al contrabbasso) che mettono in primo piano il ruolo di una donna moderna che affrontava tematiche contingenti come lo sfruttamento sul lavoro ("La filanda") o inusuali per la canzone italiana ("Il funerale"), oltre alla più nota e spensierata "Zitella Cha Cha Cha" (dal testo apparentemente leggero ma in realtà molto amaro). C'è anche la splendida "Sono le nove", firmato per la prima volta dal duo, poi indivisibile, Gaber e Luporini, struggente ritratto di Milano. Infine il piccolo classico "Non arrossire" ripreso poi da Renato Zero, Bobby Solo, Claudio Baglioni, Renzo Arbore,Mal, Morgan. Un gioiello di disco.
MARIA MONTI - Maria Monti e i contrautori
Donna di sinistra si affianca alla tradizione delle cantautrici impegnate come Giovanna Marini o Giovanna Daffini con un album, del 1972, voce e chitarra acustica in cui interpreta brani di vari "Contro-Autori" come Ivan Della Mea, Paolo Pietrangeli o Phil Ochs di cui riprende, in italiano, "There but for fortune".
MARIA MONTI - Il Bestiario
Un album particolarissimo, sperimentale, originale, uscito nel 1974, il vertice musicale di Maria Monti, fino ad allora conosciuta per canzoni popolari e cabarettistiche (soprattutto nel connubio con Giorgio Gaber). Affiancata da Alvin Curran, del collettivo di improvvisazione MEV (Musica Elettronica Viva), Roberto Laneri e il sassofonista Steve Lacy (che lavorò con Monk, Charlie Mingus, Duke Ellington e da noi con Enrico Rava e gli Area), si immerge in atmosfere elettroniche minimali, talvolta folk, jazz, sperimentali.
Lavoro affascinante e interessantissimo.
MARIA MONTI - Le muraglie
Pubblicato nel 1977 è la prosecuzione concettuale de "Il bestiario", più fruibile musicalmente (pur se molti brani sono molto teatrali e cabarettistici, parlati con basi semi cacofoniche), molto più radicale liricamente, con le tematiche, anche in questo caso in forma di concept, apertamente femministe, anti violenza e prevaricazione di genere, militanti, imperniate sulla condizione della donna in quegli anni.
giovedì, agosto 27, 2020
Paul Rees - The Ox
Il giornalista Paul Rees (con l'aiuto e l'approvazione della prima moglie Alison e del figlio Cristopher) scrive la parola definitiva sulla storia del più grande bassista rock di sempre, JOHN ENTWISTLE.
E' un racconto brutale che non risparmia particolari scabrosi, su una vita spesa a dilapidare una fortuna dietro l'altra, tra eccessi e abusi di ogni tipo.
Se la prima parte descrive le imprese goliardiche con il suo "partner in crime" Keith Moon (a cui John teneva tranquillamente testa in quanto a eccessi), dopo la tragica scomparsa del batterista (anche a causa di questo), John sprofonda sempre più negli abusi e in una progressiva, quasi totale, sordità.
Compra auto, bassi, chitarre, vestiti, in modo compulsivo ma anche case e quantità abnormi di oggetti inutili con cui arredarle.
Va più volte in malora (nonostante certi tour con gli WHO gli fruttino cifre intorno ai 3 milioni di dollari!), viene "salvato" dalle lucrose reunion della band, divorzia due volte e finisce, insieme all'ultima compagna, Lisa, nel delirio più totale, fino alla morte nel 2002.
Amici, collaboratori, ex compagne, concordano sul fatto che avesse almeno due personalità (se non di più).
Quella da rockstar, a cui non sapeva rinunciare e da cui non voleva allontanarsi (arrivando anche a pagarsi tour fallimentari, pagati con i suoi soldi, con la John Entwistle Band), per non sprofondare nel suo personale "black hole".
Quello in cui vagava nei periodi di pausa, nelle sue tenute, tra un party e l'altro e uno smisurato abuso di alcolici, superlacolici, donne, droghe.
Il 27 giugno 2002, ormai distrutto, il suo fisico cederà.
Tra gli aneddoti il più gustoso riguarda i Beatles. Nel 1964 gli Who a Blackpool aprirono per loro e dal retropalco si accorsero che i Fab Four nel frastuono generale del pubblico urlante cantavano oscenità nei testi tipo 'It’s been a hard day’s cock' o 'I wanna hold your cunt'...
Le famose borracce che affiancavano il suo microfono nei concerti erano "caricate" l'una a brandy, l'altra a cognac...
mercoledì, agosto 26, 2020
Federico Guglielmi
No control. Storie di hardcore punk californiano 1980-2000
FEDERICO GUGLIELMI non ha bisogno di presentazioni.
Se per qualcuno fosse un nome sconosciuto probabilmente ha sbagliato blog.
In ogni caso, sintetizzando: giornalista per Mucchio, Rumore, Rockstar, Bassa Fedeltà, fondatore di Velvet, attualmente con Classic Rock, Blow Up, Audio Review, Vinile.
Ha lavorato in Rai, è stato produttore di parecchi dischi (Not Moving inclusi), scritto una trentina di libri.
Nello specifico ci interessa sottolineare che è stato uno dei primissimi in Italia a parlare e scrivere di PUNK e, in particolare, HARDCORE, quando ancora in pochissimi ne avevano l'esatta percezione della portata storica.
In questo libro raccoglie quanto scritto sull'hardcore californiano dal 1980 al 2000.
Articoli, recensioni, interviste (da Brett Gurevitz a Mike Ness, Rancid, Kevin Wasserman degli Offspring, East Bay Ray dei Dead Kennedys e tanti altri).
Interessanti gli articoli in tempo reale, primi anni 80, su quanto avveniva da quelle parti, con la percezione ancora "naif" di noi italiani (che in realtà eravamo tra quelli "più avanti" nel recepire il nuovo sound).
Soprattutto la mancanza di reverenza esterofila (non mancano sonore e feroci stroncature) e la visione di un futuro ormai prossimo già nel 1982: "Inutile negarlo: il movimento hardcore è diventato ormai un businnes di proporzioni relativamente vaste, grazie a quale è fin troppo facile realizzare e vendere porcherie sfruttando ipocritamente presunti desideri di ribellione" - a proposito della "discutibile" compilation della Alternative Tentacles "No so quiet on the Western Front".
Come sottolineato nella prefazione, non è né enciclopedia né saggio ma un testo importante per gli appassionati del genere, da consultare, alla ricerca di un sacco di "musica perduta".
THOSE IMPORTANT YEARS.
Federico Guglielmi
No control. Storie di hardcore punk californiano 1980-2000
Tsunami Edizioni
22 euro.
395 pagine.
martedì, agosto 25, 2020
Francesco Mellina
FRANCESCO MELLINA è un fotografo, di origine calabrese, che si trasferì a Liverpool negli anni 70.
E che ha documentato alcuni grandi concerti (dai Jam ai Clash ai Talking Heads) ma, soprattutto l'ULTIMA SERATA al "WIGAN CASINO", nel 1981, tempio del NORTHERN SOUL.
Quel giorno viaggiò da Liverpool a Wigan su una traballante Simca e riuscì a catturare le ultime immagini di una leggenda.
Dovrebbe uscire presto un libro che le raccoglie.
www.redbookart.com
https://www.facebook.com/francescomellinaphotography/
lunedì, agosto 24, 2020
Le donne blues
Riprendo l'articolo che ho scritto per IL MANIFESTO sabato scorso 22 agosto nell'inserto "Ultrasuoni".
"Le cantanti blues erano associate al diavolo perché celebravano quella dimensione dell'esistenza umana considerata immorale e malefica, secondo i tenenti della chiesa. Erano delle peccatrici perché cantavano di amore e sesso" (Angela Davis).
Erano donne, nere, figlie o nipoti di schiavi, che, negli oscuri anni 20 americani, in cui il razzismo imperava ovunque e il segregazionismo era legge, imbracciarono le chitarre o usarono la loro forte voce per tracciare un nuovo cammino verso la libertà e l'autodeterminazione.
Non solo razziale, non solo basata sulla conquista di elementari diritti civili ma soprattutto come donne.
Ultimo gradino della società, discriminate non solo per il colore della pelle ma in quanto donne.
Allo stesso modo all'interno della comunità nera, dove venivano sfruttate, picchiate, abusate, abbandonate dai mariti e compagni.
Contraddittoriamente, spesso perdonati e amati ugualmente.
Ma i testi parlano chiaro, denunciano violenza e sopraffazioni.
Quelle stesse modalità quotidiane ben note a tutti ma che non si possono dire e portare alla luce.
Per la prima volta, si alzò la voce contro qualcosa che non era più tollerabile e sopportabile.
Ma Rainey ne canta in “Sweet rough Man”:
“Mi sono svegliata stamattina che la mia testa mi faceva male come se ribollisse. Il mio uomo stanotte mi ha picchiata con un pezzo di rame”.
Ma conclude che “il modo in cui mi ama mi fa dimenticare tutto alla svelta”.
Le parole delle canzoni di queste donne sono una testimonianza di un'epoca, fotografano l'inizio di un nuovo approccio intellettuale e politico.
La donna non più in ombra, non più madre/moglie/amante ma protagonista.
Che denuncia l'oppressione e la violenza del maschio. Anche se con il “perdono” per l'uomo violento si evidenzia una triste e drammatica realtà.
Lottie Kimbrough, una vita, artistica e non solo, poco documentata canta in “Going away blues” delle pessime maniere del suo uomo che le fanno male e che la costringono ad andarsene, pronta però a riprendere un treno per tornare da lui perché gli manca tanto.
Anche la propria sessualità è cantata, esibita, spesso in modo provocatoriamente sguaiato ed esplicito.
Ne parla Elisa De Munari (conosciuta in ambito alternative blues come Elli De Mon, una delle più rinomate e apprezzate blues women italiane) nel suo nuovo libro "Countin' the blues"(sofisticato doppio senso tipicamente blues, dove “cunt” indica volgarmente l'organo femminile, titolo di un brano di Ma Raney del 1924), uno stupendo saggio socio politico antropologico sulle donne di cui stiamo parlando che in quegli anni anticiparono di decenni il concetto di femminismo.
A tal proposito De Munari sottolinea:
"In ogni tempo e in ogni società l'ago della bilancia per quanto riguarda le questioni morali é sempre stato il corpo delle donne, costantemente trattato come qualcosa da nascondere e controllare, perché ritenuto pericoloso e ricco di tentazioni.
Le donne iniziarono per prime a usare il blues come un vero e proprio spazio dove avere un pieno controllo sulla propria sessualità.
Si definirono pubblicamente come esseri sessuali dando spazio al loro desiderio carnale, senza remore o falsi pudori. Riprendere la propria sessualità significò allora combattere il potere oppressivo prima e la morale borghese poi.".
La sopracitata Ma Rainey fu maestra di Bessie Smith e si fece le ossa con i Rabbit Foot Ministrels, uno dei più importanti “Black Ministrels Show”, uno spettacolo originariamente creato da bianchi in cui i neri mostravano una forma caricaturale e ridicola delle caratteristiche degli afroamericani.
Successivamente alcune compagnie di neri rivisitarono la formula, proponendo una serie di esibizioni in cui si mischiavano musica, comicità, giocoleria, teatro.
Una sorta di circo itinerante che non sempre aveva vita facile di fronte a un pubblico misto (rigorosamente separato) non particolarmente accondiscente.
Ma Rainey fu tra le prime a introdurre canzoni blues e a portare sul palco la sua figura imponente, sexy e selvaggia. Proponendo brani che affermavano esplicitamente una sessualità libera e spregiudicata, in cui l'amore poteva essere riservato sia a uomini che donne.
In tempi in cui l'omosessualità era ben più di un inconfessabile tabù. “Prove it on me blues” parla di un rapporto sentimentale tra due donne senza alcuna remora.
Ancora dal libro di De Munari:
Le donne del blues vennero demonizzate, ecco perché la musica del diavolo.
I benpensanti non potevano sopportare la visione di donne vive che sapevano ascoltare i propri bisogni più profondi, compresi quelli più carnali: l'amore, il desiderio, la sessualità, il piacere. Il blues non fece distinzione tra sacro e profano, mantenne una prospettiva unica e continua.
Tutto della vita è sacro, tutte le dimensioni dell'esistenza interagiscono, tutto è uno: in questo c'é l'eredità africana.
Lucille Bogan si spinse oltre.
I suoi testi non ammiccavano né andavano per doppi sensi ma parlavano un linguaggio il più diretto possibile, al limite della volgarità.
Si parlava di prostituzione, sesso, alcol, godimento della vita, nel senso più ampio del termine.
Il boogie “Shave em dry”, inciso nel 1935 inizia nel modo più esplicito possibile:
“Ho i capezzoli delle mie tette grandi come la fine del mio pollice, ho qualcosa tra le gambe che farebbe venire anche un moribondo” e prosegue senza troppa enfasi con versi come “ti scoperei fino a farti piangere” proseguendo con grevi oscenità di ogni tipo.
Una sessualità esplicita, spinta oltre ogni limite del tollerabile che fece di personaggi come Lucille qualcosa di pericoloso e minaccioso per la morale benpensante.
A cui si aggiungevano concerti in cui ogni parola “proibita” era sottolineata da allusioni gestuali con la mimica facciale e i movimenti del corpo, retaggio delle radici delle danze africane ancora così vicine.
Il messaggio era quello di chi evidenziava la volontà e la necessità di esibire e definire i propri bisogni sessuali, tollerati e legittimi se espressi da un maschio, indicibili se arrivavano da una donna.
Donne che parlavano in questi termini, suonavano in locali notturni, “alzavano la testa”, non erano non solo poco gradite dal sistema dominante ma invise anche all'interno della comunità afro americana, soprattutto quella strettamente legata alla rigida cultura cattolica del tempo.
Ovviamente gli schiavi che arrivavano dall'Africa in catene non avevano nulla a che fare con la religione cristiana.
Che venne imposta da solerti missionari, incuranti dello stato di costrizione delle persone ma spaventati dal peccato in cui versavano le loro povere anime.
La chiesa divenne un fulcro nella vita degli schiavi, unico momento di aggregazione consentito e rispettato dal padrone bianco, un'attività che si poteva vivere senza il timore della frusta e dell'oppressione.
La musica, parte integrante della cultura africana, divenne un aspetto di prima importanza all'interno delle funzioni.
L'anima blues venne ripulita dalle asperità lessicali (pur mantenendo spesso doppi sensi e significati incomprensibili ai bianchi), diventò mezzo per inneggiare al Signore, si codificò in quello che conosciamo come gospel e spiritual.
Lentamente la chiesa impose dogmi alla sua stessa comunità, cercando di farsi accettare da quella bianca, nel tentativo di assurgere ad una sorta di parità civica e civile.
Bessie Smith, allieva di Ma Raney e una delle più importanti cantanti blues di sempre, non si fece abbagliare e sentenziò, sicura e tranchant “ La chiesa vi ha trasformato in piagnucolosi ipocriti”.
Bessie Smith, l'Imperatrice del Blues, una di quelle artiste a 360 gradi, che sapeva anche ballare, fare la mima e la comica, come nella grande tradizione dell'entertainment americano, a sua volta musa ispiratrice di Billie Holiday o Ella Fitzgerald.
Divenne una star, uno dei suoi primi successi “Down hearted blues” arrivò quasi al milione di copie e in poco tempo fu l'artista di colore più pagata al mondo (nel 1925 si comprò addirittura una carrozza ferroviaria per spostarsi più facilmente da una città all'altra con la sua band), grazie a spettacoli in cui ostentava tutta la sua versatilità, vestendosi con abiti sgargianti, piume di struzzo, suonando con jazzisti di primissimo livello, sorpassando il blues “rurale” più grezzo della sua ispiratrice Ma Raney, a favore di un sound “metropolitano”, più raffinato e personale.
Che le darà anche l'appoggio inaspettato del pubblico bianco, abitualmente disinteressato e restio ad occuparsi delle “Race records”, i dischi cantati e suonati da artisti di colore e riservati ad un pubblico nero (tra l'altro registrazioni che non venivano mischiate a quelle dei bianchi e a cui erano riservate classifiche a parte, nel timore che potessero superare nelle vendite quelle della “razza superiore”).
Era generosa e affabile ma poteva diventare estrema oltre ogni livello, volgare, manesca, violenta, soprattutto quando, spesso, indulgeva in lunghe serate a base di alcol e sesso senza limiti.
Morirà nel 1937 dopo un incidente stradale.
Avvenuto purtroppo nello stato del Mississippi dove il primo ospedale in cui fu portata dai soccorritori era solo per bianchi e, pare, si sia rifiutato di prestarle le cure necessarie in quanto nera.
Ci volle molto altro tempo per trovarne uno per afroamericani ma era ormai troppo tardi.
Memphis Minnie divenne famosa in ambito rock quando i Led Zeppelin ripresero il suo classico “When the levee breaks” (nel quarto album del 1971), un drammatico brano, registrato nel 1929, che documentava una delle grandi alluvioni del Mississippi da cui quasi esclusivamente i neri traevano danno, essendo mandati a lavorare sugli argini e che venivano lasciati a vivere nei pressi del fiume mentre i bianchi venivano portati in salvo in zone sicure e risarciti di eventuali danni mentre alla popolazione di colore non spettava nulla.
Memphis Minnie non era solo una valida compositrice ma una chitarrista di assoluta eccellenza che, per prima, rivaleggiò e superò i bluesmen maschi (tra cui nomi iconici come Big Bill Bronzy) in drammatici confronti all'ultima nota (e all'ultimo whisky).
Anche lei non brillava per buone maniere, sapeva essere brusca e risoluta ma soprattutto fu tra le prime blues woman (abitualmente interpreti di canzoni scritte da altri, uomini soprattutto) a comporre testi e musiche da sé e con frequenti e diretti riferimenti autobiografici.v Sul palco vestiva elegante e raffinata ma non aveva problemi a diventare aggressiva quando qualcuno pensava di poterla molestare.
“Chitarra, coltello o pistola. Se qualcuno osava prenderla in giro, non avrebbe esitato ad usarli per rimetterlo al suo posto”.
Pare che avesse quasi sempre in bocca una foglia di tabacco da masticare e una tazza in cui sputare, anche sul palco.
Particolarissima la storia di Elizabeth Cotten, autrice del classico “Freight train”, che scrisse all'età di 12 anni e che poi fu ripreso negli anni da Joan Baez. Taj Mahal, Jerry Garcia e tanti altri.
Ma lo incise solo a 62 anni.
Un brano sull'importanza del simbolo “treno” quello che ti portava dalle terre schiaviste al nord più libero e libertario, dove c'era lavoro con cui potevi guadagnare finalmente soldi per te e la tua famiglia, non solo per il padrone. Lei suonava in modo divino, una delle poche blues women chitarriste ma, da mancina, utilizzava lo strumento alla rovescia senza cambiare la disposizione delle corde, inventando di fatto uno stile inimitabile e originalissimo (e altrettanto complicato) di fingerpicking.
La vita la costrinse ad appendere presto la chitarra al chiodo a trasferirsi a Washington e finire per diventare cameriera di Ruth Porter Crawford e Charles Louis Seeger, due dei più appassionati ricercatori di folk americano.
Che per lungo tempo non sospettarono minimamente di avere al loro servizio un puro e unico talento. Fino al giorno in cui non la “sorpresero” a suonare “Freight train” con una delle loro chitarre.
Supplicò di non essere licenziata per avere osato tanto.
I due, a bocca aperta, la pregarono di continuare.
Poco dopo incise il suo primo album e all'età di 67 anni fece il suo primo concerto, suonò con Muddy Waters e John Lee Hooker, girò l'America, apparve in tv ma non raggiunse mai la fama meritata né usufruì dei diritti d'autore sui suoi brani (ad appannaggio di produttori e casa discografica).
Victoria Spivey esplorò invece un tratto misterioso e mai sufficientemente approfondito della cultura africana deportata nelle Americhe.
Ovvero quegli aspetti più oscuri della religione e del culto animista che si trasformò nelle inquietanti pratiche Voodoo.
Spesso spettacolarizzate e decontestualizzate ad uso ludico ma in realtà vissute e seguite da frange di schiavi e loro eredi come legame atavico con le origini. Victoria già a 12 anni suonava nei locali e nei bordelli di Dallas e Houston, dove droga, alcol, prostituzione e tanto altro erano la regola.
Ne cantò, ne parlò esplicitamente, inserendo costantemente elementi “dark” (violenza, suicidi, avvelenamenti, demoni) nei suoi testi e terminologie che facevano riferimenti alle pratiche Voodoo.
Nel 1962 fondò la Spivey Records per cui incisero Muddy Waters, Louis Armstrong, Memphis Slim, Otis Spann e Big Joe Williams (che ospitò in un brano un giovane e ancora poco conosciuto Bob Dylan).
Alberta Hunter pelò a lungo patate durante il giorno per tirare su due soldi e permettersi di suonare la sera nei locali di Chicago.
Alla fine vinse la sua battaglia, andò in tour in Europa, compose il classico “Downhearted blues” che vendette nelle sue varie versioni quasi 2 milioni di copie ma per il quale ricevette poco più di 300 dollari a causa di uno dei tipici contratti capestro che subivano soprattutto gli artisti neri ai tempi (pratica protrattasi fino agli anni 70).
Ritrovò successo e riconoscimenti quando tornò a suonare e a incidere, dopo un lungo, ritiro ormai ultra ottantenne negli anni 70.
La musica rappresentava per gli schiavi uno dei pochi modi per esprimere la sofferenza originata dal terrore razziale.
(Paul Gilroy)
Per conoscere meglio le artiste citate sono consigliate esclusivamente alcune compilation che raccolgono e mettono ordine nelle numerose registrazioni sparse tra nastri, 78 giri e altro.
“The collection” del 1989 introduce con 16 brani nel migliore dei modi nel mondo di Bessie Smith, talmente vasto da avere anche box non del tutto esaustivi di 10 CD.
L'opera di Memphis Minnie è perfettamente riassunta in “The queen of blues” del 1997.
“The best of” del 2004 (con tanto di fascetta “Explicit lyrics”) è l'ideale per scoprire il blues estremo di Lucille Bogan.
“Mother of the blues” del 2004 è un perfetto omaggio a quello di Ma Raney.
Alberta Hunter può essere ben rappresentata da “Amtrak Blues” del 1987.
domenica, agosto 23, 2020
AA.VV: - Exciting & Dynamic Sounds Of The Hammond B3 Organ
AA.VV. - Soul Love Now: The Black Fire Records Story 1975-1993
AA.VV. - Exciting & Dynamic Sounds Of The Hammond B3 Organ.
La sublimazione dell'HAMMOND JAZZ in tredici brani super cool, proposti da band semi sconosciute di estrazione prevalentemente 60's e quasi esclusivamente strumentali.
Per gli amanti di quello spettro onoro che va da Jimmy Smith a Jimmy McGriff, passando per il primo Brian Auger, un album di primissima qualità.
AA.VV. - Soul Love Now: The Black Fire Records Story 1975-1993
Una pregevole raccolta di alcuni dei migliori artisti della Black Fire Records, fondata dal saxofonista James “Plunky” Branch dei Oneness Of Juju.
Spiritual jazz, deep e afro funk, molto molto "nero" e fedele alle radici.
Nomi poco conosciuti ma materiale esplosivo e originalissimo.
sabato, agosto 22, 2020
Il Manifesto
Dedico oggi due pagine in Ultrasuoni de IL MANIFESTO alle DONNE BLUES (da Bessie Smith a Lucille Bogan, Memphis Minnie, Ma Raney e Alberta Hunter) che negli anni 20 americani sfidarono razzismo e pregiudizi diventando interpreti di un proto FEMMINISMO che le portava a (ri)appropriarsi, attraverso la musica, della loro identità di DONNA, rivendicando anche un pieno controllo della propria sessualità.
L'articolo si basa sull'essenziale libro/saggio di Elisa De Munari (Elli de Mon) "Countin' the blues" di cui avevo parlato qui:
https://tonyface.blogspot.com/2020/04/elisa-de-munari-countin-blues.html
giovedì, agosto 20, 2020
Eddy Cilia - Venerato Maestro oppure
Scrivere è sempre meglio che lavorare
EDDY CILIA è tra i migliori e più autorevoli giornalisti musicali italiani.
La lunga militanza nel "Mucchio", fondatore di "Velvet", attualmente con "Audio Review" e "Blow Up", autore di numerosi libri, consulente a RadioRai3 e presente sul web con il sempre interessantissimo blog https://venerato-maestro-oppure.com/.
Il nuovo libro raccoglie quasi 400 pagine di suoi scritti dal 1994 al 2015 ed è un sussidiario perfetto, un abecedario ideale, l'epitome suprema di come si dovrebbe scrivere di musica: in maniera chiara, colta, sempre documentatissima, un pizzico di ironia e la capacità di spaziare da Miles Davis ai Replacements, da Paul Weller a Lee Scratch Perry o ai Beastie Boys.
C'è da imparare, divertirsi, prendere nota.
Essenziale.
Eddy Cilia
Venerato Maestro oppure - Percorsi nel rock 1994/2015
OmniNote
29 euro
Si acquista in cartaceo qui:
https://www.amazon.it/Venerato-Maestro-Oppure-Percorsi-1994-2015/dp/B089M61ND6/ref=tmm_pap_swatch_0?_encoding=UTF8&qid=1591875026&sr=1-1
mercoledì, agosto 19, 2020
Bazooka Joe
Band sconosciuta ai più ma che è stata la culla di una serie di elementi di particolare importanza (pur se a livello di curiosità) nella storia del PUNK INGLESE.
Attivi dal 1970 nel circuito dei pub, interpreti di un sound che attingeva dalla tradizione rock 'n' roll, aveva tra i suoi componenti John Ellis, Danny Kleinman e Stuart Goddard. Furono gli headliner del concerto del 6 novembre 1975 al Central Saint Martins College of Art and Design che segnò l'esordio dei SEX PISTOLS.
Impressionato dalla loro carica Stuart Goddard, lasciò il gruppo e con il nome di ADAM ANT fondò gli Adam and the Ants.
Steve Ellis diventò nel 1978 il chitarrista dei VIBRATORS per poi suonare con Peter Gabriel, Peter Hammill e dal 1990 al 2000 degli Stranglers.
Danny Kleinman è diventato un famoso regista che ha curato tutte le siglie dei film di James Bond fino al 1995 per poi dirigere video per Madonna, Fleetwood Mac, Paula Abdul, Simple Minds, Wang Chung, Adam Ant.
Infine nella band militava Dan Barson, il cui fratello, Mike Barson, divenne il tastierista dei MADNESS che nell'album d'esordio ripresero un brano dei Bazooka Joe, "Rockin in a flat"
giovedì, agosto 13, 2020
Bruno Morelli / Antonio G. D'Errico - Alunni del Sole
C'è un'ampia porzione della musica pop italiana dimenticata o inesplorata ma che ha lasciato segni tangibili e riconoscibili nella storia nostrana.
Gli Alunni del Sole sono sempre stati piuttosto lontani dalle mie preferenze, non di meno la loro storia è interessante e intrigante.
Sostanzialmente creatura del compositore e cantante Paolo Morelli, anima e mente del gruppo (diventata una sorta di sigla della sua opera creativa), personaggio introverso, poetico, particolare, profondo, a metà tra musica leggera, pop, canzone d'autore e con una vena prog agli inizi, scomparso nel 2013.
In questo libro il fratello e braccio destro nella band, Bruno Morelli, affiancato da Antonio G.D'Errico, ne raccontano la storia artistica (ricca di successi e notorietà tra i 70 e gli 80) e l'intimo poetico, aprendo anche uno sguardo molto interessante sulle vicende della discografia italiana, sull'amicizia con Fabrizio De Andrè, sulle manovre che stanno dietro alla gestione di un gruppo e tanto altro.
Interessante approfondimento.
Gli apparati produttivi delle multinazionali venivano definitivamente smobilitati.
Gli artisti erano invitati ad anticipare la risoluzione dei loro contratti che, nel migliore dei casi, venivano trasformati in semplici rapporti di distribuzione.
Subentrò di conseguenza un sistema già da tempo adottato in Usa e Inghilterra: lo spostamento in capo all'artista o a un eventuale suo produttore personale, degli oneri relativi ai costi di produzione.
Era la fine di un mondo fato di case di produzione discografiche che avevano nelle loro strutture artistiche un punto di forza, in cui i direttori artistici operavano a priori la selezione dei nuovi talenti, facendoli crescere, cercando di valorizzare ed esaltare le qualità dei contenuti e alla fine la realizzazione del disco diventava il punto di arrivo.
Queste prospettive vennero ribaltate progressivamente, facendo del punto di arrivo il punto di partenza.
Bruno Morelli / Antonio G. D'Errico
Alunni del Sole
Arcana Edizioni
17.50 euro
mercoledì, agosto 12, 2020
L'arrivo dei primi Mod
AGOSTO DI REPLICHE: ripropongo alcuni articoli particolarmente apprezzati in passato.
Attraverso alcuni cenni storici andremo alla ricerca dei semi e delle radici del MODernismo, dal dopo guerra alla metà degli anni 50.
Le precedenti puntate qui:
http://tonyface.blogspot.com/search/label/Le%20radici%20del%20Modernismo
E' negli anni 50 che il jazz si afferma e si radica nella cultura giovanile.
Il ritorno dei jazzisti americani (da anni banditi in Inghilterra) porta a Londra Louis Armstrong, Lionel Hampton, Sidney Bechet.
Ronnie Scott apre nel 1959 il suo jazz club a Gerard Street.
Il trombonista Chris Barber intanto introduce i semi, grazie al suo banjoista Lonnie Donegan di quello che diventerà a breve uno dei suoni più seguiti e praticati dai giovani musicisti inglesi, lo skiffle (futuri Beatles inclusi) ma sarà soprattutto il principale promoter dei migliori nomi del blues americani che da Muddy Waters a Bigg Bill Bronzy fino a Sonny Terry e Brownie Mc Ghee arriveranno in Inghilterra diventando i principali ispiratori per una nuova generazione di musicisti (che di lì a poco si chiaeranno Rolling Stones, Yardbirds, Fleetwood Mac etc).
La fine degli anni 50 sono il momento in cui si forma il primo nucleo “ufficiale” di ragazzi consapevoli della propria identità, di un proprio stile, di una propria etica, radunati intorno all'ascolto della musica jazz.
E non a caso il tutto nasce a Soho da sempre luogo in cui si radunavano artisti, bohemiens, sognatori e avanguardisti.
Il Bar Italia è il luogo in cui si trovano i primi Modernisti. Sono giovani e i pub sono a loro interdetti fino ai 21 anni. L' Italia è un luogo cool, europeo, “esotico” quanto lo può essere una città americana, irraggiungibile all'epoca per chiunque non fosse particolarmente ricco.
Un cappuccino o un caffè espresso da sorseggiare sono infinitamente più eleganti e raffinati di una pinta di birra e sono soprattutto un elemento di distinzione dalla tradizione inglese.
L'ammirazione per lo stile europeo (che porterà ad adottare oltre al taglio di capelli alla francese, l'eleganza degli scooter italiani) è generata da un cosmopolitismo antitetico alla chiusura isolana e isolazionista inglese che si scontra con la mera imitazione dello stile americano caro ai Ted e ai Rocker.
La musica più in voga oltre al rock 'n' roll (ad appannaggio però di una frangia minoritaria di giovani) è il jazz tradizionale, amato anche dagli “adulti” e dalla classe operaia.
Condizione da cui i Mod vogliono fuggire, rifugiandosi in un loro mondo, nuovo e stiloso.
Graham Hughes, uno dei primi mod londinesi puntualizza:
“Noi apparivamo diversi perchè il modern jazz che ascoltavamo aveva più stile e noi ci adattavamo esteticamente a questo. Andavamo agli all nighter vestiti di tutto punto per distinguerci dal resto degli appassionati jazz, in jeans, maglioni, abiti trasandati e con la barba."
George Melly dipinge in poche parole un ritratto perfetto dei primi Mod:
“I Boppers non avevano alcun interesse ad usare la loro musica per avere successo nel mondo dei bianchi.
L'asprezza del Be Bop è l'espressione del loro disprezzo per una società che ha offerto loro di vivere solo in cambio del riconocimento della loro inferiorità razziale.
I primi Modernisti basarono le loro vite e la loro arte sulle stesse premesse.
I loro occhiali da sole raffinati e il distacco hip dei loro eroi...essendo bianchi e inglesi erano decisamente lontani dai loro idoli tanto quanto il jazz revivalista e tradizionale. Non c'era alcun dubbio sulla loro sincerità.
Non solo capivano la complessità del Be Bop ma anche lo spirito che lo aveva creato.
Erano quello che Norman Mailer definiva dei White Negroes.
Scelsero di respingere la società che automaticamente però non rifiutava loro.”
martedì, agosto 11, 2020
La scena jazz inglese negli anni 50
AGOSTO DI REPLICHE: riprendo alcuni articoli particolarmente apprezzati in passato.
Attraverso alcuni cenni storici andremo alla ricerca dei semi e delle radici del MODernismo, dal dopo guerra alla metà degli anni 50.
Le precedenti puntate qui:
http://tonyface.blogspot.com/search/label/Le%20radici%20del%20Modernismo
Negli anni 50 gli appassionati di JAZZ incominciarono a dividersi tra chi apprezzava le sonorità classiche (oltre a recuperare quelle ancora più antiche tipicamente Dixieland/New Orleans) e chi invece amava la novità appena arrivate.
Da una parte i Traditionalists dall'altra i Modernists.
Anche tra i musicisti si crea una frattura.
Nomi come George Webb e i suoi Dixielanders e Humprey Littleton rimangono ancora alla tradizione, altri come John Dankworth e Ronnie Scott abbracciano il nuovo stile.
Nel 1948 il padre di un giovane batterista, Victor Friedman, decide di affittare una sala del Mack's Restaurant al 100 di Oxford Street per permettere al figlio di esibirsi con la sua band e per permettere agli amanti dello swing di ballare in tranquillità e costantemente.
Lascia anche le domeniche pomeriggio a disposizione per chi vuole dedicarsi al Be Bop, improvvisando e suonando liberamente le nuove tendenze e battezza il locale London Jazz Club.
Anche il trombettista Humphrey Littleton affitta la sala durante un altro giorno della settimana per proporre i concerti della propria band a base di un jazz derivato dallo stile dixieland di New Orleans.
Nel 1964 il locale fu rilevato da Roger Horton, ribattezzato “100 Club” e aperto a stili di musica il più aperti possibile (dal beat al rhythm ad blues fino, nel 1976, al punk e alla new wave).
E' sempre nel 1948 che avviene un cambiamento epocale nella fruizione del jazz a Londra.
La band australiana Graeme Bell's Australian Band invita il pubblico ad alzarsi e a ballare durante la loro esibizione. Ricorda sempre Eddie Harvey che fino a quel momento l'idea di ballare ad un concerto jazz era qualcosa di assolutamente sacrilego !
Litttleton stupito e travolto dalla novità decide di aprire un suo club a Leicester Square al “Cafè Europe” e introduce la nuova pratica anche al suo pubblico.
lunedì, agosto 10, 2020
Il jazz a Londra negli anni 50
AGOSTO DI REPLICHE: riprendo alcuni articoli particolarmente apprezzati in passato.
La musica jazz degii anni 50 in Inghilterra si caratterizza per la sua forte trasversalità sociale e getta i primi semi di quella che sarà una caratteristica peculiare della scena Mod ovvero l'assoluta assenza di discriminazioni.
Colin Mc Innes nel suo “Absolute Beginners”, cristallizza al meglio:
“Ma la cosa sensazionale nel mondo del jazz, per tutti i giovani che entrano a farne parte, è questa: che nessuno si cura della classe sociale a cui appartenete, del colore della vostra pelle, dei vostri quattrini; se ne frega che siate maschi o femmine o un po' dell'uno e un po' dell'altro, purchè comprendiate l'ambiente e sappiate comportarvi come si deve e v lasciate alle spalle tutte queste fesserie non appena varcate la soglia del club.
Il risultato di tutto ciò è che nell'ambiente del jazz si incontrano ogni genere di tipi su un piede di assoluta parità; di là vi possono sospingere in tutte le direzioni: sociale, culturale, sessuale, razziale, insomma in qualunque campo vogliate imparare qualcosa”.
Il jazzista George Melly:
“Per noi il jazz era black music, era la musica dei poveri.
La scena Modern Jazz attraeva molti neri, al Ronnie's Scott c'erano sempre neri ai concerti, la stessa cosa non avveniva nel giro del jazz tradizionale.
Il Modern jazz era contemporaneo più cool ed è per questo che attraeva più giovani.
Credo che il nostro sound che si rifaceva alla tradizione di New Orleans venisse percepito dai neri come musica da Zio Tom, vecchia e che ricordava tempi non tanto felici.”
Il sociologo marxista Colin Barker approfondisce:
“Il jazz implicò una forte connessione con l'anti razzismo anche se ai tempi il termine era praticamente sconosciuto.
Si è spesso parlato dei Teds che fossero tendenzialmente razzisti e cercassero la rissa con i neri ma non è esatto.
Ted era più che altro uno stile estetico non necessariamente collegato a idee di destra.
Più che altro il loro stile estetico provocatorio e anomalo provocava la disapprovazione dei genitori e degli adulti ed era questo che li rendeva dei grandi!”.
Un' attitudine coraggiosa e anomala in un periodo in cui le tensioni razziali non erano rare.
La White Difence League e l'Union Movement di Oswald Mosley crescevano numericamente e politicamente con lo slogan “Keep Britain White”. Nell'estate del 1958 scoppiarono vari incidenti a sfondo razziale a Notting Hill e a Nottingham con centinaia di arresti e feriti.
venerdì, agosto 07, 2020
La scena jazz inglese negli anni 40
AGOSTO DI REPLICHE: riprendo alcuni articoli particolarmente apprezzati in passato.
Attraverso alcuni cenni storici andremo alla ricerca dei semi e delle radici del MODernismo, dal dopo guerra alla metà degli anni 50.
Le precedenti puntate qui:
http://tonyface.blogspot.com/search/label/Le%20radici%20del%20Modernismo
Nel 1948, insieme ad un'altra decina di appassionati di modern jazz, Ronnie Scott e John Dankworth, pionieri della scena jazz inglese, aprono in Great Windmill Street il primo club di Be Bop londinese, il “Club Eleven” dove ogni sera i musicisti locali suonavano e improvvisavano rincorrendo il nuovo stile.
IL trombonista Eddie Harvey dichiara che
“il Club Eleven fu la mia università, fui uno dei primi musicisti a lasciare una band di jazz tradizionale e ad abbracciare il Be Bop”.
Entra in quella che si può considerare la prima Be Bop band inglese, la John Dankworth Seven.
Nel 1950 il Club Eleven si sposta a Carnaby Street, puntualmente seguito dai suoi lealissimi fan.
Ronnie Scott ricorda nella sua autobiografia quanto la scena locale avesse forti connessioni con il mondo della droga, parte essenziale delle serate (da quelle più leggere alle pesanti).
Nel 1952 apre il “Flamingo” a Wardour Street, successivamente (nel 1958) arriveranno il “Marquee” in Oxford Street nel 1958 e il “Ronnie's Scott” a Gerrard Street nel 1959.
Sia i locali inglesi che quelli americani avevano una struttura piuttosto simile con un bar, tavoli e sedie (dove spesso si poteva anche mangiare) e il palco su cui gli artisti si esibivano ascoltati in religioso silenzio.
Il jazzista George Melly (nella foto) ricordava come da un punto di vista sociale il pubblico e i musicisti avevano pochi rappresentanti della working class anche se in molti venivano dalle periferie, c'era una piccola parte di ricchi e aristocratici e non mancava una forte rappresentanza omosessuale (in epoca in cui in Inghilterra era ancora reato).
Lo scrittore, poeta, musicista (e tanto altro) Jeff Nuttall ricorda:
“Eravamo contro la repressione sessuale sia nel movimento pacifista sia nella scena jazz, alla fine degli anni 50.
Le connessioni tra jazz e il sesso, le parole a sfondo sessuale delle canzoni, i riferimenti ai bordelli. Un contrasto fortissimo con l'Inghilterra dei tempi, assolutamente repressa e repressiva.
Mi sono accorto solo dopo che buona parte dei miei amici erano omosessuali. C'era un sacco di attività sessuale, in ogni caso di forte desiderio sessuale nella scena jazz. Mi ricordo certe serate nei jazz club, ballando scalzi, pensando a noi stessi come a beatniks, con i jeans neri, con giacche di pelle e a coste , capelli lisci.
Non c'era la birra nei jazz club così andavamo a fare rifornimento nei pub vicini tra un set e l'altro dei concerti.”
Brian Harvey:
“Eravamo anti establishment e contro le convenzioni anche se, a conti fatti, la scena jazz degli anni 20 era ben più promiscua della nostra”.
John Minnion:
“Il jazz aveva una credibilità di strada. Era sovversivo per la musica tradizionale, era anti commerciale, soprattutto quando arrivò lo skiffle e si impose come una musica che nasceva dal basso e che era lontana dall'industria discografica.”