lunedì, agosto 24, 2020

Le donne blues



Riprendo l'articolo che ho scritto per IL MANIFESTO sabato scorso 22 agosto nell'inserto "Ultrasuoni".

"Le cantanti blues erano associate al diavolo perché celebravano quella dimensione dell'esistenza umana considerata immorale e malefica, secondo i tenenti della chiesa. Erano delle peccatrici perché cantavano di amore e sesso" (Angela Davis).

Erano donne, nere, figlie o nipoti di schiavi, che, negli oscuri anni 20 americani, in cui il razzismo imperava ovunque e il segregazionismo era legge, imbracciarono le chitarre o usarono la loro forte voce per tracciare un nuovo cammino verso la libertà e l'autodeterminazione.
Non solo razziale, non solo basata sulla conquista di elementari diritti civili ma soprattutto come donne.
Ultimo gradino della società, discriminate non solo per il colore della pelle ma in quanto donne.
Allo stesso modo all'interno della comunità nera, dove venivano sfruttate, picchiate, abusate, abbandonate dai mariti e compagni.
Contraddittoriamente, spesso perdonati e amati ugualmente.

Ma i testi parlano chiaro, denunciano violenza e sopraffazioni.
Quelle stesse modalità quotidiane ben note a tutti ma che non si possono dire e portare alla luce.
Per la prima volta, si alzò la voce contro qualcosa che non era più tollerabile e sopportabile.

Ma Rainey ne canta in “Sweet rough Man”:
“Mi sono svegliata stamattina che la mia testa mi faceva male come se ribollisse. Il mio uomo stanotte mi ha picchiata con un pezzo di rame”.
Ma conclude che “il modo in cui mi ama mi fa dimenticare tutto alla svelta”.
Le parole delle canzoni di queste donne sono una testimonianza di un'epoca, fotografano l'inizio di un nuovo approccio intellettuale e politico.
La donna non più in ombra, non più madre/moglie/amante ma protagonista.
Che denuncia l'oppressione e la violenza del maschio. Anche se con il “perdono” per l'uomo violento si evidenzia una triste e drammatica realtà.

Lottie Kimbrough, una vita, artistica e non solo, poco documentata canta in “Going away blues” delle pessime maniere del suo uomo che le fanno male e che la costringono ad andarsene, pronta però a riprendere un treno per tornare da lui perché gli manca tanto.
Anche la propria sessualità è cantata, esibita, spesso in modo provocatoriamente sguaiato ed esplicito.

Ne parla Elisa De Munari (conosciuta in ambito alternative blues come Elli De Mon, una delle più rinomate e apprezzate blues women italiane) nel suo nuovo libro "Countin' the blues"(sofisticato doppio senso tipicamente blues, dove “cunt” indica volgarmente l'organo femminile, titolo di un brano di Ma Raney del 1924), uno stupendo saggio socio politico antropologico sulle donne di cui stiamo parlando che in quegli anni anticiparono di decenni il concetto di femminismo.
A tal proposito De Munari sottolinea:
"In ogni tempo e in ogni società l'ago della bilancia per quanto riguarda le questioni morali é sempre stato il corpo delle donne, costantemente trattato come qualcosa da nascondere e controllare, perché ritenuto pericoloso e ricco di tentazioni.
Le donne iniziarono per prime a usare il blues come un vero e proprio spazio dove avere un pieno controllo sulla propria sessualità.
Si definirono pubblicamente come esseri sessuali dando spazio al loro desiderio carnale, senza remore o falsi pudori. Riprendere la propria sessualità significò allora combattere il potere oppressivo prima e la morale borghese poi.".


La sopracitata Ma Rainey fu maestra di Bessie Smith e si fece le ossa con i Rabbit Foot Ministrels, uno dei più importanti “Black Ministrels Show”, uno spettacolo originariamente creato da bianchi in cui i neri mostravano una forma caricaturale e ridicola delle caratteristiche degli afroamericani.
Successivamente alcune compagnie di neri rivisitarono la formula, proponendo una serie di esibizioni in cui si mischiavano musica, comicità, giocoleria, teatro.
Una sorta di circo itinerante che non sempre aveva vita facile di fronte a un pubblico misto (rigorosamente separato) non particolarmente accondiscente.
Ma Rainey fu tra le prime a introdurre canzoni blues e a portare sul palco la sua figura imponente, sexy e selvaggia. Proponendo brani che affermavano esplicitamente una sessualità libera e spregiudicata, in cui l'amore poteva essere riservato sia a uomini che donne.
In tempi in cui l'omosessualità era ben più di un inconfessabile tabù. “Prove it on me blues” parla di un rapporto sentimentale tra due donne senza alcuna remora.

Ancora dal libro di De Munari:
Le donne del blues vennero demonizzate, ecco perché la musica del diavolo.
I benpensanti non potevano sopportare la visione di donne vive che sapevano ascoltare i propri bisogni più profondi, compresi quelli più carnali: l'amore, il desiderio, la sessualità, il piacere. Il blues non fece distinzione tra sacro e profano, mantenne una prospettiva unica e continua.
Tutto della vita è sacro, tutte le dimensioni dell'esistenza interagiscono, tutto è uno: in questo c'é l'eredità africana.


Lucille Bogan si spinse oltre.
I suoi testi non ammiccavano né andavano per doppi sensi ma parlavano un linguaggio il più diretto possibile, al limite della volgarità.
Si parlava di prostituzione, sesso, alcol, godimento della vita, nel senso più ampio del termine.
Il boogie “Shave em dry”, inciso nel 1935 inizia nel modo più esplicito possibile:
“Ho i capezzoli delle mie tette grandi come la fine del mio pollice, ho qualcosa tra le gambe che farebbe venire anche un moribondo” e prosegue senza troppa enfasi con versi come “ti scoperei fino a farti piangere” proseguendo con grevi oscenità di ogni tipo.
Una sessualità esplicita, spinta oltre ogni limite del tollerabile che fece di personaggi come Lucille qualcosa di pericoloso e minaccioso per la morale benpensante.
A cui si aggiungevano concerti in cui ogni parola “proibita” era sottolineata da allusioni gestuali con la mimica facciale e i movimenti del corpo, retaggio delle radici delle danze africane ancora così vicine.
Il messaggio era quello di chi evidenziava la volontà e la necessità di esibire e definire i propri bisogni sessuali, tollerati e legittimi se espressi da un maschio, indicibili se arrivavano da una donna.

Donne che parlavano in questi termini, suonavano in locali notturni, “alzavano la testa”, non erano non solo poco gradite dal sistema dominante ma invise anche all'interno della comunità afro americana, soprattutto quella strettamente legata alla rigida cultura cattolica del tempo.
Ovviamente gli schiavi che arrivavano dall'Africa in catene non avevano nulla a che fare con la religione cristiana.
Che venne imposta da solerti missionari, incuranti dello stato di costrizione delle persone ma spaventati dal peccato in cui versavano le loro povere anime.
La chiesa divenne un fulcro nella vita degli schiavi, unico momento di aggregazione consentito e rispettato dal padrone bianco, un'attività che si poteva vivere senza il timore della frusta e dell'oppressione.
La musica, parte integrante della cultura africana, divenne un aspetto di prima importanza all'interno delle funzioni.
L'anima blues venne ripulita dalle asperità lessicali (pur mantenendo spesso doppi sensi e significati incomprensibili ai bianchi), diventò mezzo per inneggiare al Signore, si codificò in quello che conosciamo come gospel e spiritual.
Lentamente la chiesa impose dogmi alla sua stessa comunità, cercando di farsi accettare da quella bianca, nel tentativo di assurgere ad una sorta di parità civica e civile.
Bessie Smith, allieva di Ma Raney e una delle più importanti cantanti blues di sempre, non si fece abbagliare e sentenziò, sicura e tranchant “ La chiesa vi ha trasformato in piagnucolosi ipocriti”.

Bessie Smith, l'Imperatrice del Blues, una di quelle artiste a 360 gradi, che sapeva anche ballare, fare la mima e la comica, come nella grande tradizione dell'entertainment americano, a sua volta musa ispiratrice di Billie Holiday o Ella Fitzgerald.
Divenne una star, uno dei suoi primi successi “Down hearted blues” arrivò quasi al milione di copie e in poco tempo fu l'artista di colore più pagata al mondo (nel 1925 si comprò addirittura una carrozza ferroviaria per spostarsi più facilmente da una città all'altra con la sua band), grazie a spettacoli in cui ostentava tutta la sua versatilità, vestendosi con abiti sgargianti, piume di struzzo, suonando con jazzisti di primissimo livello, sorpassando il blues “rurale” più grezzo della sua ispiratrice Ma Raney, a favore di un sound “metropolitano”, più raffinato e personale.
Che le darà anche l'appoggio inaspettato del pubblico bianco, abitualmente disinteressato e restio ad occuparsi delle “Race records”, i dischi cantati e suonati da artisti di colore e riservati ad un pubblico nero (tra l'altro registrazioni che non venivano mischiate a quelle dei bianchi e a cui erano riservate classifiche a parte, nel timore che potessero superare nelle vendite quelle della “razza superiore”).
Era generosa e affabile ma poteva diventare estrema oltre ogni livello, volgare, manesca, violenta, soprattutto quando, spesso, indulgeva in lunghe serate a base di alcol e sesso senza limiti.
Morirà nel 1937 dopo un incidente stradale.
Avvenuto purtroppo nello stato del Mississippi dove il primo ospedale in cui fu portata dai soccorritori era solo per bianchi e, pare, si sia rifiutato di prestarle le cure necessarie in quanto nera.
Ci volle molto altro tempo per trovarne uno per afroamericani ma era ormai troppo tardi.

Memphis Minnie divenne famosa in ambito rock quando i Led Zeppelin ripresero il suo classico “When the levee breaks” (nel quarto album del 1971), un drammatico brano, registrato nel 1929, che documentava una delle grandi alluvioni del Mississippi da cui quasi esclusivamente i neri traevano danno, essendo mandati a lavorare sugli argini e che venivano lasciati a vivere nei pressi del fiume mentre i bianchi venivano portati in salvo in zone sicure e risarciti di eventuali danni mentre alla popolazione di colore non spettava nulla.
Memphis Minnie non era solo una valida compositrice ma una chitarrista di assoluta eccellenza che, per prima, rivaleggiò e superò i bluesmen maschi (tra cui nomi iconici come Big Bill Bronzy) in drammatici confronti all'ultima nota (e all'ultimo whisky).
Anche lei non brillava per buone maniere, sapeva essere brusca e risoluta ma soprattutto fu tra le prime blues woman (abitualmente interpreti di canzoni scritte da altri, uomini soprattutto) a comporre testi e musiche da sé e con frequenti e diretti riferimenti autobiografici.v Sul palco vestiva elegante e raffinata ma non aveva problemi a diventare aggressiva quando qualcuno pensava di poterla molestare.
“Chitarra, coltello o pistola. Se qualcuno osava prenderla in giro, non avrebbe esitato ad usarli per rimetterlo al suo posto”.
Pare che avesse quasi sempre in bocca una foglia di tabacco da masticare e una tazza in cui sputare, anche sul palco.

Particolarissima la storia di Elizabeth Cotten, autrice del classico “Freight train”, che scrisse all'età di 12 anni e che poi fu ripreso negli anni da Joan Baez. Taj Mahal, Jerry Garcia e tanti altri.
Ma lo incise solo a 62 anni.
Un brano sull'importanza del simbolo “treno” quello che ti portava dalle terre schiaviste al nord più libero e libertario, dove c'era lavoro con cui potevi guadagnare finalmente soldi per te e la tua famiglia, non solo per il padrone. Lei suonava in modo divino, una delle poche blues women chitarriste ma, da mancina, utilizzava lo strumento alla rovescia senza cambiare la disposizione delle corde, inventando di fatto uno stile inimitabile e originalissimo (e altrettanto complicato) di fingerpicking.
La vita la costrinse ad appendere presto la chitarra al chiodo a trasferirsi a Washington e finire per diventare cameriera di Ruth Porter Crawford e Charles Louis Seeger, due dei più appassionati ricercatori di folk americano.
Che per lungo tempo non sospettarono minimamente di avere al loro servizio un puro e unico talento. Fino al giorno in cui non la “sorpresero” a suonare “Freight train” con una delle loro chitarre.
Supplicò di non essere licenziata per avere osato tanto.
I due, a bocca aperta, la pregarono di continuare.
Poco dopo incise il suo primo album e all'età di 67 anni fece il suo primo concerto, suonò con Muddy Waters e John Lee Hooker, girò l'America, apparve in tv ma non raggiunse mai la fama meritata né usufruì dei diritti d'autore sui suoi brani (ad appannaggio di produttori e casa discografica).

Victoria Spivey esplorò invece un tratto misterioso e mai sufficientemente approfondito della cultura africana deportata nelle Americhe.
Ovvero quegli aspetti più oscuri della religione e del culto animista che si trasformò nelle inquietanti pratiche Voodoo.
Spesso spettacolarizzate e decontestualizzate ad uso ludico ma in realtà vissute e seguite da frange di schiavi e loro eredi come legame atavico con le origini. Victoria già a 12 anni suonava nei locali e nei bordelli di Dallas e Houston, dove droga, alcol, prostituzione e tanto altro erano la regola.
Ne cantò, ne parlò esplicitamente, inserendo costantemente elementi “dark” (violenza, suicidi, avvelenamenti, demoni) nei suoi testi e terminologie che facevano riferimenti alle pratiche Voodoo.
Nel 1962 fondò la Spivey Records per cui incisero Muddy Waters, Louis Armstrong, Memphis Slim, Otis Spann e Big Joe Williams (che ospitò in un brano un giovane e ancora poco conosciuto Bob Dylan).

Alberta Hunter pelò a lungo patate durante il giorno per tirare su due soldi e permettersi di suonare la sera nei locali di Chicago.
Alla fine vinse la sua battaglia, andò in tour in Europa, compose il classico “Downhearted blues” che vendette nelle sue varie versioni quasi 2 milioni di copie ma per il quale ricevette poco più di 300 dollari a causa di uno dei tipici contratti capestro che subivano soprattutto gli artisti neri ai tempi (pratica protrattasi fino agli anni 70).
Ritrovò successo e riconoscimenti quando tornò a suonare e a incidere, dopo un lungo, ritiro ormai ultra ottantenne negli anni 70.
La musica rappresentava per gli schiavi uno dei pochi modi per esprimere la sofferenza originata dal terrore razziale.
(Paul Gilroy)

Per conoscere meglio le artiste citate sono consigliate esclusivamente alcune compilation che raccolgono e mettono ordine nelle numerose registrazioni sparse tra nastri, 78 giri e altro.
“The collection” del 1989 introduce con 16 brani nel migliore dei modi nel mondo di Bessie Smith, talmente vasto da avere anche box non del tutto esaustivi di 10 CD.
L'opera di Memphis Minnie è perfettamente riassunta in “The queen of blues” del 1997.
“The best of” del 2004 (con tanto di fascetta “Explicit lyrics”) è l'ideale per scoprire il blues estremo di Lucille Bogan.
“Mother of the blues” del 2004 è un perfetto omaggio a quello di Ma Raney.
Alberta Hunter può essere ben rappresentata da “Amtrak Blues” del 1987.

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