giovedì, ottobre 31, 2013
In tour
Si riparte in tour.
Per l'ennesima volta.
Che poi non è un tour di quelli veri di cui si legge sui libri, "Coast to Coast, mesi lontano da casa, ogni giorno un albergo e una città diversi, le migliaia di kilometri, bla bla bla".
E' una serie di date, diluite in un mese e mezzo, ritagliate nei weekend, tra settimane lavorative, famiglie, bollette, mutui, tasse, alzatacce all'alba per timbrare al lavoro, figli a scuola etc.
Insomma niente di romanticamente da immaginario del rock.
Ma per questo ancora una volta e PER SEMPRE, quanto più ROCK N ROLL ci sia.
Concerti per due soldi, piccoli locali che vivono della passione di chi li porta avanti a testate nel muro, cercando di non perderci, resistendo a crisi, burocrazie e mille altri ostacoli.
Poco pubblico ma vero, appassionato, sincero, qualche volta invece distratto e poco riconoscente.
In mezzo noi, non più giovanissimi e scattanti direi ma con l'inguaribile malattia che ci brucia dentro e ci infiamma al pensiero di rimetterci su una strada per tornare all'alba senza più energie, alla ricerca di qualcosa che ben sappiamo quanto sia lontana e beffardamente in costante fuga.
Fa lo stesso:
"Better stop dreaming of the quiet life
Cos it's the one we'll never know"
E così :
"Struggle after struggle
Year after year"
mi sa che non è finita qui.
Venerdì 1 novembre : Brescia “Lio Bar”
Sabato 2 novembre : Cigognola (PV) “Vallescuropasso”+ Suspicious Three
Sabato 9 novembre : Pisa “Newroz” + Cpt Crunch and the Bunch
Venerdì 15 novembre : Cremona “Arcipelago”
Sabato 30 novembre : Aosta “Espace”
Venerdì 13 dicembre : Parma “Giovine Italia”
Sabato 14 dicembre : Bologna “Joe Strummer Tribute”
Sabato 21 dicembre : Verbania “Loggia del Leopardo”
www.lilithandthesinnersaints.com
Ottobre 2013. Il meglio.
Tra i nomi che potrebbero finire nella top 10 di fine anno Excitments, Miles Kane, Franz Ferdinand, The Strypes, Charles Walker & the Dynamites, Moment, Willis Earl Beal, Beady Eye, Sweet Vandals, Mudhoney, Nicole Willis, Ocean Colour Scene, Mavis Staple, Nick Cave, Johnny Marr , Willie Nile, Jimi Hendrix, Jesse Dee, Lilian Hak, Impellers e tra gli italiani Statuto, Raphael Gualazzi, Calibro 35, Temponauts, Santo Niente, Julie’s Haircut, Lord Shani, Mauro Ermanno Giovanardi, Petrina, Zamboni/Baraldi, Cut/Julie’s Haircut, Valentina Gravili, Cesare Basile e Andrea Balducci, Electric Shields, Svetlanas, Stella Maris Music Cospiracy.
ASCOLTATO
PAUL MC CARTNEY - New
Non un capolavoro ma ancora una volta Paul si distingue perl’equilibrio, la classe, la capacità immutata di scrivere bellissime canzoni e di saper guardare al nuovo con curiosità.
Il suo acume nel saper dosare alla perfezione nostalgia, passato, presente e futuro è, ancora una volta, il segreto per continuare ad amarlo ed apprezzarlo a 70 anni suonati.
STEVE CRADOCK - Travel wild travel free
Il chitarrista di Ocean Colour Scene e Paul Weller alla terza tappa solista con 13 brani di forte sapore psichedelico beatlesiano (“Magical Mistery Tour” e dintorni o se preferite “Their majestic...” degli Stones), i consueti riferimenti ai principali mostri sacri dei 60’s, un paio di tocchi soul (bellissimo l’incedere Northern di “Doodle book”), ottimi brani pop, per un buon album, molto piacevole, con poche cadute di tono.
CALIBRO 35 - Traditori di tutti
Al quinto album non finiscono di stupire per qualità, verve e freschezza pur praticando un genere ampiamente abusato e diffuso in tutte le salse, tra temi polizieschi anni 70, con tinte funk, psichedeliche, tardo beat.
Ma il tutto suonato così bene e con un groove assolutamente unico che lo rende un album eccellente.
BABYSHAMBLES - Prequel to sequel
Torna il buon (?) Pete Doherty con i Babyshambles dopo 6 anni di silenzio.
Prodotto da Stephen Street (Smiths, Blur, gli stessi Babyshambles e il solista di Doherty), riprende il discorso esattamente là dove l’avevano lasciato con il buon ”Shooter’s nation” nel 2007. Ovvero buon brit rock che assorbe tutto il meglio dai 60’s al punk fino ai suon i più recenti. Non mancano omaggi allo ska, ai primi Clash, ballate crude e sgangherate.
Il disco si fa ascoltare volentieri, è ben fatto e riuscito anche se dopo tanto tempo qualcosa in più sarebbe stato lecito aspettarsi.
FRATELLIS - We need medicine
Al terzo album la band scozzese si conferma buona interprete di un brit sound un po’ datato ma genuino e ruspante che accomuna il primo Costello, un po’ di Stones, l’elettricità degli Arctic Monkeys più “urgenti”, pop, Brit Pop vario. Niente di sconvolgente ma molto ben fatto ed energico.
ARCADE FIRE - Reflektor
Al quarto album la band canadese lascia il suggestivo connubio di new wave, folk e sontuose orchestrazioni per un coraggioso tuffo in un calderone di influenze tra le più svariate in una sorta di personale “Album Bianco” (dei Beatles) o “Sandinista” (Clash) dove il filo conduttore era il rivolgersi in mille direzioni diverse.
A farla da padrone è la “dance”, intesa nel senso più ampio, dal funk, alle influenze africane, dalla disco all’elettronica.
Ma ci sono anche riferimenti ai Cure, Talking Heads, Blondie, proprio ai già citati Clash di “Sandinista” innamorati di reggae e dub. E poi accenni punk, a Bowie, ai Rolling Stones smaniosi di discomusic e una lunghissima suite finale di oltre 11 minuti che incrocia Moroder all’ambient music e David Byrne.v Album complesso, pieno di suggestioni e stimoli sonori anche se talvolta eccessivamente dispersivo e forse non completamente a fuoco.
RUBY VELLE & the SOULPHONICS - It’s about time
E’ soul music, suonata bene, con un eccellente groove vintage, bella voce femminile, tinte funk, ottime songs.
Serve altro ?
LAURA MARLING - One I was an eagle
Al quarto album la cantautrice inglese centra il bersaglio, sfoderando un lavoro che sfiora la perfezione con un album impegnativo e coraggioso, dove si destreggia tra brani dalla costruzione complessa, mai banali, talvolta ostici, strumentazione scarna e minimale, atmosfere sospese, drammatiche, tese. I riferimenti sono i più svariati dai Led Zeppelin acustici al brit folk dei 70's dei Fairport Convention, a Dylan e Joni Mitchell ma senza dimenticare il jazz folk psichedelico del primo Van Morrison, le ballate della Carole King di "Tapestry", Johnny Cash, l'incedere severo e sgraziato di PJ Harvey.
MASSIMO VOLUME - Aspettando i barbari
Come sempre i Massimo Volume non fanno prigionieri.
Il tono è acre, cupo, alle soglie del diluvio, della soluzione finale.
Scorrono severe le basi musicali in sottofondo, recita implacabile la voce di Emidio Clementi, compare una componente elettronica che ben si accompagna al classico duro post rock a cui ci abituati la band bolognese e su cui, nel consueto stile inconfondibile, scorrono, declamati, ora con rabbia, ora diretti allo stomaco, testi taglienti, crudi, evocativi.
Un ottimo lavoro.
RAPHAEL GUALAZZI - Raimbows
Gradevole il nuovo ep di uno dei migliori talenti che abbiamo in Italia.
Niente di eccezionale, carina la cover di “Svalutation” di Celentano, gli altri tre brani sono prevedibili ma di alto livello.
ERIC BIBB "Jericho Road".
Ottimo blues moderno nel nuovo album del sempre verde Bibb dovemette insieme soft blues, atmosfere New Orleans, funk, southern soul, gospel, country blues.
Il tutto con grande raffinatezza che riporta a tratti al mai dimenticato JJ Cale.
Bel disco (suonato da paura !)
The Poets of Rhythm - Anthology 1992-2003 La Daptone ci regala una preziosa antologia relativa ad una band TEDESCA che sembra uscita dai 70’s più black americani: funk, soul, Hammond urlante, James Brown groove a manetta.
YOKO ONO - Take me to the land of hell
A 80 anni la vedo di John Lennon sforna un album di tutto rispetto.
Qualche sperimentazione, intense ballate, perfino qualche occhiata beatlesiana.
Il personaggio a cui più si adatta il famoso “o la ami o la odi” ma che a conti fatti dimostra di avere ancora idee, verve e capacità di farsi notare e non solo in negativo.
PEARL JAM - Lightning bolt
Non il mio gruppo preferito, anzi.
L’album non è malissimo, rock energico, tirato, chitarre poderose, Vedder sempre ottimo protagonista, ottimi brani. Insomma dignitoso.
ASCOLTATO ANCHE:
I CANI (il secondo album è più cantautorale, meno personale, più convenzionale), GARY NUMAN (interessante il ritorno di uno dei pionieri dell’elettronica. Album bene fatto), ANNA CALVI (delude il secondo album, qualche buono spunto ma poco altro, dopo l’esordio che aveva entusiasmato). THE ANIMEN (dalla Svizzera tra soul, rock n roll, garage blues, surf. Non male), SNARKY PUPPY (soul, funk, fusion, blues dal Texas, ottimi), EARTHLESS (psych stoner strumentale Hendrixiano dagli USA), HARLEIGHBLU (dall’Inghilterra un po’ di soul dai tratti talvolta eccessivamente patinati e r’n’b ma interessante), PAUL MENDONCA (funk, fusion, buon groove ma solo occasionalmente), MORCHEEBA (soul sintetico che fa rimpiangere i trascorsi. Qualcosa di carino ma in generale trascurabile), REVEREND SHINE SNAKE OIL COMPANY (Deep blues a tinte swing con rimandi a Nick Cave e Screamin Jay Hawkins. Non male), JOHN GRANT (sgangherato cantautorato in chiave synth pop dark wave dalle movenze alla Beck. Interessante)
LETTO
“Io sono il calciatore misterioso”
Un libro di un anonimo calciatore di Premier League seguito al successo avuto da una sua (altrettanto anonima) rubrica tenuta sul "Guardian" dove si "svelano" tutte le storture e i "segreti" del calcio (scommesse, prostituzione, soldi a palate buttati in Champagne in gare a base di alcol, feste selvagge a Las Vegas, partite combinate e un triste finale con l'esclusione dal club e relativa caduta nella depressione ).
“Il calcio perfetto” - Alessandro Aleotti
Un lucido saggio, un (spesso) utopistico (in relazione a quello che è il calcio nelle sue strutture economiche e di business che conosciamo), sguardo su un mondo così vasto e stimolante, relegato da tempo al ruolo di un bersaglio su cui sparare a vista (vedi l’illuminante capitolo “La favola del grande calcio cattivo”).
Ottimo libro, disponibile gratuitamente.
Paolo Rumiz - Trans Europa Express
Un emozionante viaggio al Centro dell’Europa, “verticale”, dalla Finlandia ai Baltici, via Kaliningrad, Bielorussia, Ucraina. Un mondo perduto e che si sta perdendo, travolto da speculazione e nuove povertà ma che conserva il battito che è proprio del Cuore dell’Europa. Davvero bello.
VISTO
“Chelsea girls” di Andy Warhol
Uno dei suoi film sperimentali con una stupenda Nico e altri protagonisti della Factory.
Al di là dell’aspetto sperimental-documentaristico, una vaccata.
COSE & SUONI
Uscito il 21 ottobre “Stereo Blues vol.1 : Punk collection” di Lilith and the Sinnersaints .
E da novembre nuove date in giro per la penisola, un video, un teaser e un Tshirt ad hoc.
In concerto qui:
Venerdì 1 novembre : Brescia “Lio Bar”
Sabato 2 novembre : Cigognola (PV) “Vallescuropasso”
Sabato 9 novembre : Pisa “Newroz”
Sabato 16 novembre : Cremona “Arcipelago”
Sabato 30 novembre : Aosta “Espace”
Venerdì 13 dicembre : Parma “Giovine Italia”
Sabato 14 dicembre : Bologna “Joe Strummer Tribute”
Sabato 21 dicembre : Verbania “Loggia del Leopardo”
www.lilithandthesinnersaints.com
https://www.facebook.com/LilithandtheSinnersaints
Mie recensioni su www.radiocoop.it
IN CANTIERE
Concluso il libro sugli Statuto (in uscita a febbraio 2014) mentre prosegue la promozione di “Rock n Goal” che in autunno si arricchirà di nuove presentazioni.
Sabato 9 novembre : Pisa “Newroz” ore 20
Sabato 16 novembre Vignola (Mo) “Circolo Ribalta” ore 21
Sabato 23 novembre : Milano “Ridotto Dal verme”
Mercoledì 27 novembre : S.Nicolò (PC) “Melville” ore 21.30
Martedì 10 dicembre: Cremona “Osteria del Fico” ore 21.30
Per Natale un altro progetto semi letterario e particolarmente utile (a breve more info)
mercoledì, ottobre 30, 2013
Get Back. Dischi da (ri)scoprire
Qualche disco da riscoprire, colpevolmente dimenticato o trascurato.
CHRISMA - Chinese restaurant
Uscito nel 1997, prodotto dal fratello di Vangelis (che suona non accreditato in varie parti del disco), può essere annoverato tra gli album più interessanti e avanguardistici mai usciti in Italia.
Maurizio Arcieri (ex idolo beat con i New Dada) e la compagna Cristina Moser raccolgono tutto ribolle tra Londra e New York e lo frullano in tempo reale, senza dover nulla invidiare alle contemporanee produzione estere.
Ci sono il Bowie berlinese, gli Ultravox di John Foxx, Iggy Pop (in “Wanderlust” con un riff terribilmente simile a “Satisfaction” degli Stones, seppellito da una frenetica base new wave/punk), il kraut rock elettronico, Gary Numan, i Roxy Music, i Suicide.
Tutto un immaginario sconosciuto nell’Italia ultra politicizzata/cantautrice/jazz rock/prog che non lesinò critiche (tra cui l’immancabile “fascisti” a causa dell’abbigliamento e degli atteggiamenti).
Il singolo “Lola” ottenne un certo riscontro, un po’ meno l’album che rimane una pietra miliare della musica pop italiana.
JIMMY CASTOR BUNCH - It’s just begun
Esce nel 1972 il secondo album del Jimmy Castor Bunch, capolavoro funk soul dalle mille influenze.
Un concept in cui si intrecciano il torrido funk dell’epoca , spesso mutuato dalla lezione pyschedelic soul di Sly and the Family Stone (vedi “Bad” dove il basso di Doug Gibson pulsa come nei migliori album della Family) ma anche latin sound (vedi “Psyche” che sembra uscire da un album del primo Santana) mentre “My brighest day” è un brano che farebbe furore su ogni dancefloor di Northern Soul.
Ma in mezzo sfilano anche rock, jazz, rhythm and blues, pop, soul in ogni sua declinazione.
Gli arrangiamenti talvolta sono appesantiti dall’attitudine dell’epoca alla musica “espansa” con assoli un po’ eccessivi ma “It’s just begun” rimane un gioiello da riscoprire.
STAPLE SINGERS - Staple swingers
Il terzo album del 1971, con movenze solo occasionalmente gospel (ambito abituale della band), prevalentemente invece funk soul (vedi la bellissima "You've Got to Earn It" che fu dei Temptations pur se scritta da Smokey Robinson).
Tutta da ascoltare e ballare “Little boy” che starebbe alla grande in un allnighter Northern Soul, grande rhythm and soul in “Heavy makes you happy”, tono generale allegro e andante, grande ritmica, voci immense.
martedì, ottobre 29, 2013
Intervista a LILITH
Dopo FEDERICO FIUMANI dei DIAFRAMMA, al giornalista FEDERICO GUGLIELMI, ad OSKAR GIAMMARINARO, cantante e anima degli STATUTO, al presidente dell'Associazione Audiocoop GIORDANO SANGIORGI, a JOE STRUMMER, a MARINO SEVERINI dei GANG, a UMBERTO PALAZZO dei SANTO NIENTE, LUCA RE dei SICK ROSE, LUCA GIOVANARDI e NICOLA CALEFFI dei JULIE'S HAIRCUT, GIANCARLO ONORATO oggi mi dedico a qualcuno da me particolarmente conosciuto: LILITH, ex voce dei NOT MOVING negli 80's e poi dedita ad una nuova avventura artistica nei 90's fino all'attuale militanza con LILITH AND THE SINNERSAINTS (www.lilithandthesinnersaints.com).
Foto Maurizio Molgora
Le altre interviste le trovate qui: http://tonyface.blogspot.it/search/label/Le%20interviste
In epoca di musica “liquida”, mp3, download etc, tu rimani fermamente ancorata ad un’ottica “tradizionale” e fisica, rifiutando spesso le prime opzioni. Come mai ?
Sono un persona “antica”, mi piacciono i dischi e le loro copertine.
Da ragazza avevo solo le cassette, mai avuto uno stereo, solo un mangianastri portatile e da piccola un mangia dischi arancione.
Quando mi sono sposata e mi sono trovata a casa migliaia di dischi, alla fine non li ascoltavo ma facevo passare le copertine, leggevo le note.
Non sopporto la musica in sottofondo mentre si fanno altre cose. L’ascolto della musica è un rito, non tollero la musica nei supermercati o nei negozi, ad esempio.
Se sono al mare voglio ascoltare il rumore del mare.
Ho un rapporto minimale con la tecnologia e in generale amo il silenzio.
Ho provato a lavorare con un lettore mp3 ma dopo l’entusiasmo iniziale alla fine mi ha rotto i coglioni e sono tornata ai cari dischi da ascoltare con in mano le copertine da guardare e i testi da leggere.
E’ dal 28 dicembre del 1981 che, allora quindicenne, calchi i palchi di tutta Italia e un pezzo d’Europa.
E’ cambiato qualcosa nel tuo approccio con il pubblico, con il rito concertistico ?
Ho meno paura e riesco a guardare le persone negli occhi anzi cerco gli sguardi della gente.
Non ho più nessun tipo di timore neanche davanti ad un pubblico ostico o indifferente che anzi mi stimola a presentarmi e a raccontargli i miei 30 anni di palchi. Prima avevo soggezione del potere delle persone di smontarmi. Ora non più, mi si sciolgono i nervi, sparisce anche l’ansia solita compagna della mia vita.
E’ il mio urlo di Munch ed è un momento di massima espressione interiore e fisica.
In realtà il palcoscenico è uno dei luoghi più intimi che ci siano, il posto dove ti mostri, il posto dove puoi nasconderti, dove devi vincere un sacco di tuoi limiti.
Ed è un momento irripetibile, il qui ed ora, l’ adesso, dove devi tirar fuori il meglio. C’è il piacere della maschera, il travestimento, l’entrare; pezzo dopo pezzo nelle tue mille vite possibili, e volendo, c’è anche lo spazio per scivolare nelle esistenze degli altri.
Fin da piccola ho desiderato un pubblico, l’attenzione della gente.
Il palco mi permette di esprimermi, di presentare l’esagerazione di me stessa.
Adoro dare al tutto una sensazione teatrale; dal dramma alla comicità, espressi come se fossimo in un buio bar al confine……………..dove hai, forse, tutto e niente.
Quanto ti è rimasto del punk, ora che sei mamma e persona adulta.
E’ qualcosa che ancora ti accompagna e influenza la tua quotidianità ora che non giri più con i capelli arancioni o verdi ?
Il punk di cui vado cianciando non è legato allo stereotipo estetico che mi affascinava a 16 anni per distinguermi, per dire “io ci sono”.
Fossi nata negli anni ‘20 avrei frequentato gli ambienti jazz. Per me il punk è stato: tu come sei puoi, non sei un numero nella folla.
Dopo 30 anni sono ancora qua a combattere con i piccoli numeri , con un riscontro limitato ma per me il punk è libertà di provarci.
Il punk non è mai stato qualcosa di rumoroso o fastidioso.
Fastidioso lo era come una macchia rossa in uno sfondo nero ma io sono stata sempre più legata ad aspetti più melodici come Ramones o X, non l’hardcore o le frange più politiche come i Crass, ad esempio.
Il punk è stata un’apertura verso mondi sconosciuti che mi si aprivano per essere conosciuti.
Un punto di partenza per conoscere un sacco di forme di arte, una chiave per aprire nuovi orizzonti.
Non mi sono mai sentita una punk nel senso più banale del termine.
Dal punk ho sempre cercato di distinguermi anche all’interno dello stessa scena, non ho mai voluto essere come gli altri punk. Ognuno ha una propria chiave per aprire nuove strade, ogni cosa è concatenata per aprirne di nuove.
Riscoprire Robert Johnson negli anni ’80 per me era punk.
Quello che io ho raccolto è stato un invito alla libertà………………alla fantasia, al guardare oltre la siepe…………...
L’omaggio al punk di “Stereo Blues vol. 1”: Punk collection” ha, secondo te, qualche connotato nostalgico, anche nel senso buono e positivo della parola?
No.
Concepisco la tristezza, la saudade brasiliana ma non la nostalgia.
Se uno ascolta come abbiamo rifatto i quattro brani del disco capisce bene che non c’è nulla di nostalgico.
E’ semplicemente una materia che ci appartiene, come ritornare nel luogo in cui un è nato e cresciuto e farsi una foto in quei posti.
Mica voglio far passare di essere giovane e carina, sono più vecchia e grigia ma mi posso permettere di cantare “I see no evil “ dei Television senza passare da nostalgica.
La musica è sempre stato il tuo principale mezzo espressivo anche se so (guarda caso...) che hai altri veicoli attraverso i quali ti esprimi artisticamente.
La musica è il mezzo più immediato perché è la modalità attraverso cui posso esprimere la mia urgenza di comunicare.
Poi io disegno, cucio, dipingo……………………………….sono una dilettante assoluta, ma credo sia stato detto da qualcun altro……….
Dopo oltre 32 anni di attività musicale hai raccolto quanto hai seminato ? Spesso hai svolto un ruolo pionieristico (dai Not Moving Crampsiani e punk n roll nel 1981/82 agli esordi acustici con Lilith quando ovunque si suonava grunge, ad esempio).
Sempre out of time, dunque ?
Mio malgrado si, non è assolutamente voluto.
Purtroppo i miei gusti non incontrano il consenso generale. Sono stata macrobiotica tra i carnivori, predicavo la vita agreste nelle metropoli, usavamo le chitarre acustiche e le slide più melodiose in mezzo al grunge-style imperante, amavo il blues prima che diventasse di moda, cantavo in dialetto prima ……………
Tutte cose che ho smesso di fare nel momento in cui le stesse arrivavano al successo.
Si sono fuori tempo, sempre.
La consueta lista dei dischi da portare sull’isola deserta.
Un paio di TUOI dischi che consiglieresti a chi ti vuole conoscere e qualcuno che regaleresti per chi è digiuno in materia rock n roll.
Tra i miei dischi direi “A kind of blues” e “Hello I love me”.
Con “Stereo Blues”siamo invece arrivati alla maturità sonora, non abbiamo mai suonato così bene.
Se ci fosse davvero un’ isola..........forse non dischi interi, ma pezzi………. “Midnight rambler” , “Sympathy for the devil” e “Sweet Virginia” degli Stones, “Little red rooster” di W.Dixon, “Love in vain” di Robert Johnson, “The house of risiong sun” degli Animals, “Me and Bobby McGhee” nella versione di Janis Joplin, “Crown Jane Alley” di Willy De Ville, “Sweet mama fix” di Larry Martin Factory, “Carmelita” di Warren Zevon.
Mi porterei anche “Il Maestro e Margherita” diu Bulgakov, “La trilogia di K” di Agota Kristof, un dizionario su misteri e le leggende del mondo e un po’ di fogli, colori e matite.
domenica, ottobre 27, 2013
Lou Reed
Avevo preparato da un po’ questo post, speravo di non doverlo utilizzarlo in una simile circostanza.
In verità neanche ci avevo mai pensato che LOU REED potesse morire.
Eppure non è che si fosse mai risparmiato.
Nonostante ciò la sua scomparsa mi ha colto MOLTO di sorpresa e mi dispiace.Tanto.
Uno dei rari musicisti che ho visto e rivisto (dal 1980 ai 2.000) più volte in varie incarnazioni (talvolta deludenti e irritanti) e che ho sempre seguito in ogni sua uscita.
VELVET UNDERGROUND
The Velvet Underground & Nico (1967) 10
Non credo siano necessarie ulteriori parole su uno dei massimi capolavori della musica.
White Light/White Heat (1968) 8
Spesso sottovalutato e dimenticato, è un lavoro d’avanguardia, sperimentale, abrasivo, aggressivo, seminale quanto il precedente.
The Velvet Underground (1969) 6.5
La dipartita di John Cale lascia il segno, l’album è più convenzionale, meno incisivo e rivoluzionario dei precedenti, mancano il graffio e l’innovazione.
Loaded (1970) 8
La via “commerciale” della band confeziona un grande album, dolcemente decadente, dalle tinte psichedeiiche e “vellutate”.
Bastino la presenza di “Sweet Jane” e “Rock n roll” per farne un classico.
VU (1985) 7
Outtakes e inediti di prima qualità e ottimo album.
Live at Max's Kansas City (1972) 6
Live MCMXCIII (1993) 6
Caotico e trascurabile il primo, doppio che documenta la poco incisiva e deludente (inutile) reunion dei 90’s il secondo.
LOU REED
Lou Reed (1972) 5.5
Transformer (1972) 8.5
Berlin (1973) 8
Sally can’t dance (1974) 6.5
Ad un esordio solista poco interessante e smorto, Lou Reed replica con due capolavori di eccelsa qualità.
“Transformer” dipinge alla perfezione gli stimolanti vizi della New York dei primi 70s’ (con capolavori come “Walk on the wild side”, “Perfect day”, “Vicious”, “Satellite of love”), “Berlin” è un dolente, intensissimo concept, accolto male da pubblico e critica ma destinato ad una grande rivalutazione posteriore.
“Sally can’t dance”, rinnegato dallo stesso Lou (colto in un periodo di devastazione dalle droghe), è materia leggera e trascurabile, poco incisiva se confrontata con quanto appena prodotto, ma ugualmente di alto livello.
Rock n roll animal (1974) 8.5
Live (1975) 6.5
Due album che colgono Lou Reed in dimensione live, con una band con i fiocchi, versioni hard glam di alcuni suoi classici, look proto punk super provocatorio e un’esecuzione da antologia per il primo.
Replica e aggiunta meno felice il secondo con brani dallo stesso concerto.
Metal Machine Music (1975) 0/10
Opera d’arte o presa per il culo ?
64 minuti di feedback e rumore, quattro facciate oltre all’”avanguardia”.
Per conto mio opera d’arte.
Coney Island baby (1976) 6.5
Rock n roll heart (1976) 5.5
Un paio di album di scarsa vena creativa, transitori, di discreto successo, dal mood soft, carini e gradevoli ma trascurabili.
Street hassle (1978) 9
Per chi scrive IL CAPOLAVORO di Lou Reed, blues metropolitano irripetibile, unico, inimitabile.
Live Take no prisoners ( 1978) 8
Altro capolavoro.
Album malatissimo, drogato, infetto, decadente all’eccesso, qualche classico, molte cose recenti, manifesto del primo punk più estremo.
The bells (1979) 7
Growing up in public (1980) 6
The blue mask ( 1982) 6
Legendary hearts (1983) 5
New sensations (1984) 5
Mistrial (1986) 5
Gli anni 80 colgono un Lou Reed in crisi creativa.
A parte l’ottimo “The bells” dalle influenze free jazz, i restanti album sono facilmente trascurabili con qualche rara e sporadica eccezione.
Non mancano i buoni spunti, qualche ottima canzone ma in generale poveri di ispirazione e nerbo.
New York (1989) 8.5
Quando ormai si era abbandonata ogni speranza sul futuro artistico del Nostro, ecco arrivare un inaspettato, ennesimo, capolavoro.
L’album è eccellente, lucido, graffiante, compositivamente a livelli eccelsi, suonato e prodotto con cura spaziali.
Stupendo.
Songs for Drella ( 1990) 8
L’inaspettata recente morte di Andy Warhol riporta John Cale e Lou Reed fianco a fianco a comporre e produrre un bellissimo album dedicato al loro pigmalione. Intensissimo, lirico, profondo, piccolo gioiello, nuovo capolavoro.
Magic and loss (1992) 7
Set the Twilight Feeling (1996) 6.5
Ecstasy (2000) 6.5
The Raven (2003) 7
Animal serenade (2004) 6.5
Lou continua con una serie di ottimi album, il livello rimane alto, sperimenta, osa, cambia, spesso in modo, come di consueto, ostile, incurante del compromesso, alieno ad ogni concessione.
Non tutto è riuscito, non sempre è lucido ma non c’è una sola caduta di tono.
Lulu (con Metallica) (2011) 4
Un album senza senso, nè capo, nè coda, assurdo e inutile, se non ridicolo.
Una macchia indelebile soprattutto perchè, a questo punto, è il commiato discografico di un Genio.
Il mod revival e la stampa italiana
Non tutte le riviste erano come la fanzine “Faces”.
La stampa musicale italiana, alla fine degli anni 80, accolse il mod revival con notevole scetticismo, ma anche con un certo interesse, segnalando puntualmente le uscite e dedicandogli alcuni approfondimenti, senza particolari imprecisioni.
Dalla personale collezione di ritagli d’epoca un breve, excursus tra alcune delle recensioni più significative (pur se in alcuni casi non sono potuto risalire all’autore).
CIAO 2001 1979
Secret Affair - Glory Boys
...Glory boys è un ottimo album di rock dalla parte degli Who, e immerso in climi da strada riveduti, con appelli al cambiamento, al nuovo spirito che dovrebbe animare la nostra gioventù...
ROCKERILLA 1980
Secret Affair - Glory Boys
...una specie di Quadrophenia minore, ricca di feeling come la più titolata opera, ma, ovviamente, meno poderosa.
ROCKERILLA 1980
Merton Parkas - Face in the crowd
C’è molta ingenuità in “Face in the crowd”, con il sapore saturo del beat cristallino, volteggiante in scuotimenti ritmati del capo.
Suoni inoffensivi ma non insipidi, spesso immersi in attimi di acuta poesia musicale.
CIAO 2001 1980
Chords - Maybe tomorrow 45
I primi due brani sono durissimi come si conviene, il terzo è un’eccitante ripresa di un successo 60’s degli Small Faces.
Purple Hearts - Frustration 45
Come la “Satisfacion” degli Stones e la “My generation” degli Who, la “Frustration” del gruppo mod dei Purple Hearts vorrebbe essere un nuovo inno generazionale. Ci riuscirà ?
Jam “All around the world” 45
Un brano elettrico e speed , dal risvolto inquietante quando le parole sembrano invocare “una nuova direzione, una nuova reazione, una nuova creazione”.
POPSTER dicembre 1980
Jam - Sound affects di Paolo De Bernardinis
“Sound affects” rappresenta un passaggio molto giusto, una lezione precisa sulla storia di momenti che oggi sono definitivamente morti.
Il beat duro rinato nel punk si è evoluto e i Jam stanno dalla parte degli intelligenti che sanno guardare avanti con il potere della creatività.
POPSTER novembre 1980
Secret Affair “Behind closed doors” di Peppe Videtti
...Contrariamente a quanto hanno fatto molti musicisti dal 77 ad oggi, i Secret Affair sembrano voler ignorare di proposito gli insegnamenti sintetici di Eno/Bowie/Roxy Music/Ultravox...così si propongono moderni, ma anche credibili interpreti di certe coralità che sembravano avessero fatto il loro tempo....
CIAO 2001 1980
Lambrettas - Beat boys in the jet age”
La qualità sonora è sempre eccellente...il gradimento dei brani è invece legato ai presupposti compositivi.
Brani come “Cortina MK II” e “London calling” non dicono nulla di nuovo, al massimo ricordano i Jam, ma “Poison Ivy” e “Daaance” rivelano una freschezza davvero invidiabile.
Corriere della Sera 9/10/1980
Madness e Lambrettas in concerto a Milano
(I Madness è) una band ancora acerba con un impianto decisamente mediocre, che però possiede una freschezza di impatto e una capacità di comunicare, i cui esatti contorni non sono percepibili dal cronista musicale che ha superato la trentina.
E’ in corso a nostro avviso una sorta di inglesizzazione dei giovanissimi italiani, con un gusto vistoso della trasgressione formale (abiti e fogge carnevalesche e molti con cravatta nera e camicia bianca alla moda ska) e dell’aggregazione intorno a suoni che fanno storcere il naso agli amanti dei classici del pop come Cream e Doors. Sintomo di questa inglesizzazione una modesta rissa avvenuta all’inizio, non fra fazioni politiche diverse ma fra mods e punks, bande dai travestimenti diversi e dai gusti musicali opposti. Tratto da “Mod Generations” (Nda Press) - Bacciocchi Antonio - 2009.
sabato, ottobre 26, 2013
Alessandro Aleotti - Il calcio perfetto
Aleotti è giornalista e soprattutto il presidente del Brera Calcio, “la terza squadra di Milano”, nata nel 2000, passata attraverso promozioni e retrocessioni, allenata anche da Walter Zenga, che si è segnalata soprattutto per una serie di iniziative di “calcio sociale” (con il Martinitt Football Club, una squadra che per un biennio ha portato alle competizioni calcistiche i minori che il tribunale affidava alle case-famiglia dei Martinitt o altre iniziative legate all’ambito carcerario, all’integrazione, attraverso il calcio, degli immigrati e dei giovani di etnia Rom).
Il saggio “Il calcio è perfetto” è un lucido, spesso utopistico (in relazione a quello che è il calcio nelle sue strutture economiche e di business che conosciamo), sguardo su un mondo così vasto e stimolante, relegato da tempo al ruolo di un bersaglio su cui sparare a vista (vedi l’illuminante capitolo “La favola del grande calcio cattivo” - ....gli sport “minori” non sono tali perché arbitrariamente schiacciati da uno sport “maggiore” come il calcio, ma sono deboli perché sono solo delle discipline sportive, mentre il calcio – almeno in Italia – è molto più che uno sport.....).
La ricerca di un “Calcio perfetto” porta Aleotti ad un’analisi approfondita di tutti gli aspetti del pianeta football, in modo diretto, disincantato e con una serie di “soluzioni” e suggerimenti tremendamente semplici ed efficaci se si vivesse in un...”mondo perfetto”.
Così non è ed è con grande rammarico che si condividono le sue parole nella consapevolezza che l’applicazione è pressochè impossibile nel contesto calcistico attuale.
“Giocare a pallone è attività irriducibilmente diversa dal giocare a calcio” è la sua frase che forse meglio riassume i dubbi di cui sopra.
Ma per chiunque sia appassionato di calcio “Il calcio perfetto” è ASSOLUTAMENTE INDISPENSABILE.
Considerato anche che il libro è breve, agile, veloce, semplice ed è gratis.
La versione digitale del testo può essere ricevuta gratuitamente diventando fan sulla pagina Facebook del Brera Calcio e inviando una richiesta a posta@breracalcio.it, mentre la versione cartacea viene venduta a prezzo popolare in occasione delle presentazioni pubbliche e alle partite del Brera all’Arena Civica di Milano.
http://www.breracalcio.it/
https://www.facebook.com/pages/Brera-football-club/
venerdì, ottobre 25, 2013
Drupi - Bella e strega
Prosegue la rubrica GLI INSOSPETTABILI ovvero una serie di dischi che non avremmo mai pensato che... Dopo Masini, Ringo Starr, il secondo dei Jam, "Sweetheart of the rodeo" dei Byrds, Arcana e Power Station e "Mc Vicar" di Roger Daltrey, "Parsifal" dei Pooh, di "Solo" di Claudio Baglioni, oggi si va alla scoperta del funk fusion soul di "Bella e strega" di DRUPI.
Le altre puntate de GLI INSOSPETTABILI qui: http://tonyface.blogspot.it/search/label/Gli%20Insospettabili
Personaggio molto particolare Drupi, cantautore relegato spesso all’oblìo, anche a causa di una carattere poco incline ai compromessi (che lo ha portato a rifiutare costantemente la partecipazione alle varie trasmissioni revivaliste che hanno infestato la Tv negli ultimi decenni).
Il successo gli arrise negli anni 70 e primi 80, poi il lento declino a cui non sembra dare troppo peso, continuando ad incidere, pur se ad intervalli sempre meno regolari nuovi dischi che comunque gli conservano un grande seguito nell’Est europeo dove continua a trovare riscontro e successo.
“Se manchi dalla Tv dicono che sei finito.
Io manco perché non ci sono trasmissioni dove cantare e suonare.
Tutti mi chiedono che fine hai fatto: faccio 50 spettacoli all'anno, giro il mondo, vorrei recuperare.
Lancio un appello, se qualcuno ha bisogno di un cantante e non di un opinionista..”
E quando le case discografiche non gli danno più fiducia ne fonda una, la Proxima Centauri e produce due album circondato da musicisti di prima classe.
In particolare “Bella e strega” del 1997.
Prodotto da Larry Dunn, tastierista degli Earth, Wind and Fire vede la partecipazione di una serie di session men fuoriclasse americani, da Vinnie Colaiuta (uno dei batteristi più conosciuti e apprezzati al mondo da Quincy Jones, Herbie Hancock, Sting e spessissimo in Italia in decine di album) a Alphonso Johnson (bassista di Weather Report e Santana), Bobby Watson (già con Temptations, Chaka Khan, Rufus, Earth Wind and Fire, Prince).
Il sound è all’insegna di un vigoroso funk soul, dalle tinte fusion e gospel.
Vedi l’iniziale ritmatissimo jazz funk “Mee humm”, che cancella in un sol colpo tutti i tentativi di Zucchero in tal senso, con il sax di Ronnie Laws (uno con dischi solisti per la Blue Note e collaborazioni con Hugh Masekela, Ramsey Lewis, Sister Ledge) in gran spolvero o la successiva title track, un funk tribale dalla melodia easy fino al roccioso rock blues “Portami fuori” con l’Hammond di Dunn che ulula sorretto da una grande sezione fiati.
Ancora un funk soul leggero leggero, “Pericolo”coglie il nostro vicino alla vocalità di Lucio Dalla mentre “Bella come te” è una ballatona alla Percy Sledge con Hammond in bella vista. Meno riuscite “Be careful” e la scopiazzatura di “Every breathe you take” dei Police che fa da spina dorsale di “Tirare un filo”.
Ancora funk con tinte gospel con “Dammi una mano” mentre la conclusiva “No io no” è un manifesto programmatico della vita trascorsa in chiave ballad dai toni souleggianti.
Un album sorprendente, soprattutto considerata la scarsa visibilità dalle nostre parti nonostante certe sonorità fossero state, ai tempi, ampiamente traghettate in classifica da Zucchero.
giovedì, ottobre 24, 2013
Andrea Diprè
Andrea Diprè, avvocato e "critico d'arte", è tra i più conosciuti personaggi trash, traghettati dalla diffusione dei canali satellitari, diventato fenomeno cult, grazie ad alcune performance di rara crudeltà nei confronti di aspiranti “artisti” che, in cambio di, pare, cifre non del tutto modiche ricevono visibilità sulle sue reti a suon di parossistiche (oltre il limite del comico e del surreale) recensioni entusiaste delle loro “opere”.
Ne risulta un triste museo di freaks, spesso in evidente stato confusionale, irretiti da una prosopopea verbale di stampo “supercazzola” e da vaghe speranze di notorietà.
Ma Diprè riesce a superarsi quando si divide con “Diprè per il sociale” i cui ospiti sono surreali esempi (a tal punto che talvolta si fatica a capire se si tratti di figuranti) di umanità derelitta.
A fianco il DiPrè, con l’occhio fisso ed espressione assente, regge il microfono, compreso nel suo ruolo.
Più realistico e veritiero quando concede spazio a porno star di varia provenienza e aspirazioni.
Youtube è pieno delle sue “imprese” (cliccatissima quella con Sara Tommasi, che, guarda un po’, si denuda).
Diprè solletica il Voyeurismo più estremo, lo legittima, fa spettacolo con un’esponenziale visione Warholiana attualizzata alla pochezza dei nostri tempi: ognuno può ACQUISTARE i suoi minuti di visibilità.
mercoledì, ottobre 23, 2013
L'Italia machiavellica: vuoi vedere che il problema è l'eccessiva astuzia e intelligenza?
Consueto spazio di riflessioni "filosofiche" a cura di ANDREA FORNASARI.
Pochi anni prima che Nicolò Machiavelli diventasse impiegato del Comune di Firenze, l'Italia aveva goduto di un periodo di tranquillità sotto Lorenzo il Magnifico, bilanciatore degli Stati: Lorenzo, non sapendo e non potendo guarire il paese, lo aveva addormentato.
L'equlibrio si reggeva sulle doti del de' Medici più famoso, una sorta di Giolitti con l'ingegno dell'artista: grande diplomatico capace di farsi umile di fronte al più forte, non aveva nessuna stima degli uomini politici del suo tempo ma, essendo tanto più profonda questa disistima rispetto a quella che gli altri nutrivano per lui, alla fine se li conquistava tutti in modi differenti.
Quegli anni di tregua furono un paradiso per l'Italia.
Tutti gli storici concordano sulla brusca inversione di marcia che si rivelò dopo la morte di Lorenzo: la rovina fu pronta, immediata.
Le città d'Italia si azzuffarono in guerre, in tumulti, si divisero in fazioni e in famiglie: assalite e difese, perdute e recuperate, le città passavano di mano in mano, e sempre in sospetto del vicino e del lontano.
Tradimenti, alleanze, dispetti: la difesa ostinata era rara, dal momento che una scala, un portone, una mancia bastavano per conquistare anche la città più forte.
I capi nascevano, crescevano, vincevano, perdevano e sparivano: era un continuo gioco dei quattro cantoni, e non appena uno rimaneva fuori, gli altri occupavano il suo posto.
Non c'era città che fosse unita: vergognoso era perdere, ma non vincere con l'inganno ed era da minchioni non pensare agli accordi da fare con il nemico di oggi, contro l'alleato attuale, nemico forse di domani.
Ognuno si credeva più furbo del compagno e questa gara di furberia, di prevenzione, di sottigliezza e di tradimento avveniva nelle forme più ossequiose del "passi lei"; "no, passi lei", che finisce per forgiare l'astuzia politica.
E Roma? Roma era caput mundi, latrina del mondo: un luogo tutto guerre di quartiere, rovine di un maestoso passato, malaria cronica, sporcizia, lusso e miseria strette insieme.
Vi si bruciavano le streghe e il Vaticano era zeppo di astrologhi e cortigiane, di ruffiani, di santi, d'ingenui: il papa teneva mignotte, figli e concubine, ingrassava i cardinali per fargli la festa quando fosse arrivata l'ora.
I cardinali avevano figli e nipoti, c'era un prezzo per tutto: canonicati, vescovati e papati si compravano per soldi, favori e carezze di donne.
Certi papi amavano la tavola più della spada, altri la spada più delle donne, altri ancora l'oro oppure l'arte.
Ma nessuno amava e ricordava Cristo.
Una vecchia storia racconta di un ebreo che venne a Roma e si convertì: "se questa religione può durare in mezzo a tanta vergogna, per forza dev'essere divina".
E l'Italia? L'Italia bellissima aspettava sul letto, come una cortigiana, il più forte o il più ricco che venisse a prenderla o comprarla.
Ma prima che Carlo VIII scendesse in Italia, politica e guerre erano un tira e molla che si risolveva senza troppi danni per nessuno: Venezia e Milano, Lucca e Pisa, Siena e Firenze, papa e regno, Genova e Savoia avevano le loro ragioni di rivalità, ma nessuna era però così forte da far dimenticare che l'ingrandimento di un alleato era peggio della concorrenza d'un nemico.
Appena uno stava per capitombolare, tutti erano pronti con un'alleanza, un tradimento, una mediazione, a rimetterlo in piedi per continuare il gioco.
Gli italiani dirigevano la politica e pagavano altri per fare la guerra: erano troppo intelligenti per picchiarsi fra loro, ma siccome anche i capitani di ventura erano intelligenti, avevano capito che tirarla per le lunghe senza farsi male era il migliore tornaconto.
Succedeva che dopo una intera giornata passata a darsi botte, ci scappasse un morto soltanto, e magari per una caduta da cavallo: la vittoria era il giorno più brutto per un capitano di ventura.
Perciò il contentino era il saccheggio della città, soprattutto se si era difesa con troppa ostinazione: in quel caso scorreva anche un po' di sangue.
Ora avvenne che un signore italiano, Ludovico Sforza detto il Moro, mancò una regola del gioco politico italiano: "non chiamate stranieri in Italia, il gioco della politica italiana si fa soltanto fra italiani".
Carlo VIII scese così in Italia dalla Francia e possedendo un esercito di tutto rispetto, ecco che ben presto le città italiane si affrettarono a consegnargli le chiavi e a festeggiarlo come liberatore (di cosa, non si sapeva):
quando arrivò nel territorio fiorentino, Piero de' Medici si spaventò, e gli regalò le fortezze di Sarzana, di Sarzanello, di Pietrasanta, di Livorno, gli offrì di entrare in Firenze e l'ospitalità in casa sua.
Dopo aver passato un po' di tempo a Firenze, Carlo VIII se ne andò, come il Saonarola duramente gli chiese, e partì per conquistare il regno di Napoli: questo gli cadde subito ai piedi, come aveva già fatto Pisa in precedenza. Così cedeva l'Italia.
Ma questo nostro paese era già curioso all'epoca: non erano finiti i festeggiamenti che gli Stati si alleavano per ricacciarlo e Carlo VIII si affrettò a fare ritorno in Francia con il suo bottino di oro, quadri e libri pregiati.
A Fornovo, in Val di Taro, un esercito che comprendeva sia il papa che i Veneziani lo attendeva: avrebbero potuto schiacciarlo ma la lotta durò circa un'ora perchè le milizie mercenarie italiane si buttarono sul bottino e Carlo VIII riuscì a fuggire: mentre pensava di ripetere, anni dopo, il viaggio di piacere in Italia, un passo falso lo fece cadere dai gradini di un suo castello, e così morì miseramente senza aver concluso nulla.
Dopo di lui francesi, spagnoli, alemanni e svizzeri seppero che l'Italia era bella, pronta e distesa ad aspettarli: scesero e dilagarono, incendiarono, violentarono e saccheggiarono, riempiendo il paese di sangue e infermità sconosciute, nonchè di bastardi il nostro bel paese.
Ogni tanto qualche staterello si ribellava e vinceva una battaglia: ad uno ad uno questi italiani erano bravi e coraggiosi, tutti insieme dei vigliacchi, ad uno ad uno erano garbati e colti, ma tutti insieme facevano pietà, ad uno ad uno non c'era razza più astuta e intelligente, ma tutti insieme sembravano sciocchi e quando si trattava di mettersi d'accordo anche i più coglioni del mondo.
"Così Machiavelli vide passar Carlo VIII in Firenze, la lancia sulla staffa, in mezzo al popolo bestia che applaudiva, ed ai signori furbi che facevano la smorfia".
martedì, ottobre 22, 2013
Intervista a GIANCARLO ONORATO
Foto di Diego Landi
Dopo FEDERICO FIUMANI dei DIAFRAMMA, al giornalista FEDERICO GUGLIELMI, ad OSKAR GIAMMARINARO, cantante e anima degli STATUTO, al presidente dell'Associazione Audiocoop GIORDANO SANGIORGI, a JOE STRUMMER, a MARINO SEVERINI dei GANG, a UMBERTO PALAZZO dei SANTO NIENTE, LUCA RE dei SICK ROSE, LUCA GIOVANARDI e NICOLA CALEFFI dei JULIE'S HAIRCUT è la volta oggi di GIANCARLO ONORATO. Le altre interviste le trovate qui: http://tonyface.blogspot.it/search/label/Le%20interviste
Giancarlo Onorato è musicista, scrittore, pittore, produttore, Artista.
Dopo gli esordi con gli Underground Life (1977-1992), ha dato il via alle attività di musicista solista e di romanziere.
E' soprattutto un attento osservatore e testimone della realtà "underground" italiana degli ultimi decenni, di cui è stato protagonista.
Nella tua (stupenda) autobiografia “Ex” parli del tuo abbraccio allʼetica ed estetica punk, tra i primi in Italia, alla fine dei 70.
Quanto ti è rimasto dentro di tutto quello che ha significato il punk, quanto ha indirizzato la tua vita e quanto continua, se ancora lo fa, a determinarne le scelte ?
“Ex” può essere letto come una messa a nudo di una coscienza e di un percorso di conoscenza, più che una vera autobiografia, ma riconosco la sua natura di scritto autobiografico.
Questo perché, per onestà e per meglio trattare determinati argomenti, è venuto naturale e spontaneo partire da spunti fortemente autobiografici, ma lʼintenzione era decisamente quella di contribuire a disegnare un tratto della recente storia della nostra comunità in maniera particolare, cioè fondendo insieme lʼafflato artistico a quello etico, sociologico eccetera.
Inoltre, “ex” si sviluppa partendo sì dalla suggestione offerta dal punk, ma accompagnando fino ai nostri giorni la lotta di un individuo che si batte contro ogni abbruttimento.
Trattare certi temi in ambito musicale può far storcere il naso a più di uno, convinti come siamo che la musica sia una faccenda a sé rispetto alla società e agli sviluppi di questa.
Niente è più sbagliato.
La storia dimostra ampiamente che il valore musicale sia con tutta probabilità il termine di valutazione più efficace per considerare un periodo storico, da tutti i punti di vista.
Allora ecco che il punk, nella sua vasta accezione, che io ho deliberatamente mantenuto vasta, è stato un movimento di pensiero completo, una necessaria liberazione da lacci, schemi,imposizioni,che vanno dalla musica allʼabbigliamento, e su su fino alle più alte faccende estetiche (in senso cioè strettamente espressivo). Ancora oggi lʼinflusso liberato e trasversale del punk fa sentire i propri effetti su certo cinema, su certa letteratura e in musica.
Ma non stiamo parlando di punk inteso come un preciso e limitato stile, non necessariamente cioè di anfibi, abiti in pelle, suono e contenuti oltraggiosi eccetera, bensì come capacità di liberarsi da ogni istituto, in musica come in ogni altro campo.
Penso a quanta musica underground di qualità sia nata nel tempo come sviluppo del punk, fuori dai contesti più ortodossi (presso iniziative discografiche indipendenti, ad esempio), e quanto ciò abbia fatto e faccia bene alla qualità delle idee. Per fare un esempio semplice, i Radiohead, che sono stati e sono in parte tuttora una delle massime espressioni del rock mondiale, hanno conservato una impostazione alla trasgressione di ogni regola che è squisitamente punk. Questo ha permesso inoltre che si facesse in certo qual modo della ricerca, senza trincerarsi in stilemi o cliché.
Ogni qualvolta si rinnovi lʼimpulso a non chiudersi in schemi (tecnici ed espressivi) troppo rigidi o barocchi, e laddove si sia in grado di oltrepassare gli steccati e le gabbie dellʼaccademismo e del conservatorismo, vi è il segno lasciato dal punk nella storia.
Il punk è stato infine il più forte movimento politico in senso lato degli ultimi decenni (la cui filosofia ribadisce: tutti possono essere protagonisti del proprio tempo, tutti possono prendere in mano la propria esistenza, invece di rimanere passivamente supini rispetto a coloro che vengono eletti come i più bravi, i più capaci eccetera), e il più attraente per chi abbia una coscienza artistica, giacché esso rinnova gli stessi slanci totali che furono, ad esempio, dellʼanarchismo, della scapigliatura, del fauve, del dada e di ogni movimento estetico-politico seriamente liberato.
Le volte in cui ho detto di me stesso (di fronte a sguardi stralunati), di essere un artista fortemente politico, intendevo proprio questo.
Penso che “ex” abbia avuto il pregio essenziale di farmi conoscere per quello che realmente sono: uno che desidera intervenire sulle cose, assumendosi le proprie responsabilità. Ma questo non è un vanto o unʼesibizione di qualità, bensì un invito a fare ciascuno la propria parte. In tal senso, il mio spirito “punk” non è mai vento meno.
Sappiamo quanto è difficile “vivere di musica” in Italia.
Perchè secondo te ?
Per la stessa ragione per cui nel nostro Paese la più grande crisi mondiale del dopoguerra è subita e sofferta più che altrove, fatte le dovute eccezioni: perché da noi non si è mai instaurato un sano principio di “cosa pubblica” e di condivisione degli scopi.
Perché siamo una comunità retrograda e primitiva dal punto di vista civico, un insieme in cui poche eccellenze isolate annegano in un oceano di opportunismi e di miope egoismo.
Un comportamento che col tempo ha fatto male a tutti.
Non costruire come comunità ha come conseguenza un progressivo e inesorabile impoverimento collettivo. Questo rapporto tra il soggettivo e il collettivo è di fondamentale importanza.
Guarda la scuola come ha mortificato, invece di incoraggiare, la creatività e la crescita personale, che è cosa ben diversa dal vacuo arrivismo e mania di protagonismo di cui sono infettati tanti infelici, destinati a vivere di sogni, e poi a destinati tristemente a soccombere quando i beni materiali non siano più tanto facilmente raggiungibili.
Gli psicofarmaci non bloccheranno i cambiamenti della storia, tamponeranno solo in parte molte coscienze rimaste vulnerabili.
Rimane il fatto che noi siamo deboli, come chi non si sia nutrito a sufficienza, non abbiamo sviluppato le difese naturali che portano a sopportare meglio gli attacchi e i cambiamenti che normalmente una società nei decenni deve saper affrontare.
Paghiamo lo scotto di avere tralasciato per decenni ogni investimento utile a fare crescita reale, come quelli sulla ricerca e sulla cultura in primis, sul rinnovamento della scuola, di conseguenza sullʼinformazione e sulla capacità di giudizio della grande maggioranza degli individui, allevati a forza di tabù e di false convinzioni, di miti nocivi e di vacue fedi.
Il musicista ha un ruolo troppo marginale in tutto questo, specie il musicista che non ricalca alcun cliché già vuotamente accolto dalla maggioranza. (I cantautori delle generazioni precedenti, ad esempio, godevano di un plebiscito di consensi, spesso alquanto gratuiti, per il semplice fatto di essere venuti in un periodo storico in cui tale attitudine aveva finito per affermarsi come la regola buona).
I nostri connazionali saranno ancora per un bel pezzo più interessati ad argomenti più triviali che ai contenuti, troveranno poco interessante leggere e informarsi, saranno facilmente vittime di manipolazioni e così via. La mia è una lettura molto generica, si intende, che tralascia dettagli anche significativi, ma la diagnosi, purtroppo, mi pare chiara.
Non vorrei però evitare di dare la mia ricetta: la cura la mettiamo in atto se sappiamo resistere, continuando a perseguire scopi più utili per tutti.
Ci si dimentica facilmente, cercando profitto ad ogni costo, che lavorare con le idee è e rimane il mestiere più socialmente utile. Il nostro Paese si è formato nella sostanza grazie allʼopera gratuita e altruista di tanti intellettuali semplici e profondi che in letteratura, in poesia, in informazione, in ricerca, nel cinema, nel teatro, hanno messo in circolo la base su cui si sono poi sviluppati i principi di democrazia che sono basilari. Oggi abbiamo, tra le altre nefandezze, persino imbonitori televisivi di sinistra che si riempiono le tasche facendo della volgare demagogia, ai danni di chi invece ha una durissima realtà quotidiana cui fare fronte ed è privo di strumenti di rivalsa.
Tuttavia io sono sereno, lavoro moltissimo, guadagno pochissimo, ma non sarò mai un fantoccio nelle mani di alcuno, e non ho mai smesso di dare un senso profondo alla mia vita: conoscere e poi ancora conoscere, e divulgare.
Eʼ lʼunico contributo che si possa dare in condizioni tanto precarie.
I politici più autentici siamo noi.
Dopo tanti decenni trascorsi tra palchi, studi di registrazione e quantʼaltro, dopo aver contribuito ad aprire tante strade con sappiamo quanti sacrifici e rinunce, credi di aver raccolto in maniera adeguata rispetto a quanto seminato?
La mia risposta qui è un seguito di quella precedente.
Sono di quelli che non si accorgono del passare del tempo, perché in me è più forte il desiderio di crescere, e mi pongo istintivamente di fronte alle cose, alle situazioni, agli eventi, cercando di imparare ogni volta da capo.
Nei fatti, con “sangue bianco”, è come se avessi ricominciato tutto da capo, facendo leva su tutto il bagaglio di esperienza accumulato nel tempo.
Ricominciare da capo ciò che già si conosce, col principio di migliorarsi, è qualcosa che fa bene, anche se può essere spaventoso, come tutte le terapie radicali, ma dopo un poʼ si sta meglio, ci si accorge che è buona cosa mettersi in gioco sempre e sempre un poʼ di più.
Questa mia predisposizione mi ha sempre fornito, insieme a una certa inevitabile dose di disadattamento, fortunatamente anche la forza di evitare i bilanci concreti, quelli da contabilità spicciola, le valutazioni del rapporto tra ciò che si è dato e ciò che si è acquisito.
Sono portato piuttosto a continui bilanci interiori, e questo mi ha salvato, devo ammettere, perché il sentirsi di continuo nellʼansia di un miglioramento, ti impedisce di sentirti arrivato da qualche parte, quindi vedi la strada che hai davanti a te e i suoi ostacoli, dimenticando in fretta quelli che hai già superato. Sei piantato nel presente.
Se dovessi fermarmi a fare un bilancio concreto, non cʼè dubbio che le conclusioni sarebbero molto amare.
Ho visto persone arrendersi per molto meno, e inoltre molti musicisti coi quali collaboro intendono il mestiere della musica come qualcosa che dovrà fruttare in un tempo “x” da loro stabilito, dopodiché si porranno altri traguardi.
Io non lʼho mai vista a quel modo. Piuttosto so con certezza che una ricerca è una ricerca, e non vuole limiti di alcun genere.
Meglio non pensare a quanto poco si è raccolto rispetto a quanto si è seminato, è il miglior modo che io conosca per dare sempre di più. Me lo devo, perché ho rischiato da subito tutto, quindi questa tensione è benedetta. Il tempo deciderà se quelli come me saranno stati degli illusi - un rischio che bisogna saper correre - oppure se la strada giusta, in mezzo a tanti errori, fosse proprio questa.
Sei un artista a 360 gradi che spazia dalla musica alla pittura, alla letteratura. La tua produzione è sempre legata ad una dimensione “tradizionale”, manuale, che sembra fregarsene delle nuove modalità di fruizione (web, mp3, ebook etc).
Eʼ unʼimpressione o una scelta deliberata ?
Lʼimpressione che io sia uno di quelli che insiste su tecniche tradizionali credo sia dovuta al fatto che concentro la mia attenzione sul contenuto.
I supporti che nel tempo si sono avvicendati e le tecniche nuove di comunicazione e di trasmissione dei dati non sono un problema per me, semmai non mi appassionano particolarmente, mentre riconosco il loro valore e il fatto che nel tempo esse rivoluzioneranno, come già sta accadendo, tutto lo scenario culturale. A patto che il loro utilizzo sia consapevole.
Ritorno però a dire che, un contenuto, sia esso scritto su un quaderno o su un portatile, su un tablet oppure inciso su un muro, rimane valido per ciò che trasmette, più che per il supporto che lo farà conoscere. Sono attento alle tecnologie quanto basta, cercando di circondarmi di persone più valide di me nel migliore utilizzo di esse. Vedo un serio pericolo piuttosto nel bieco appiattimento su mode o simili atteggiamenti che scaturiscono dal fraintendimento di certi mezzi (vedi gli idioti utilizzi di massa di certe piattaforme cosiddette “social”, la cui affezione compulsiva da parte di milioni di persone, è il segno dei tempi).
Qui però il discorso si fa delicato e ricco di sfaccettature, e ci vorrebbe tempo per sviscerarle senza risultare superficiale.
Il mio scritto precedente a “ex”, ad esempio, il romanzo “il più dolce delitto”, è stato presto disponibile in formato digitale, ed io non lo trovo né eccitante, né avvilente.
Non possiamo evitare di accorgerci che presto buona parte dellʼeditoria punterà su questo formato, quanto alla musica, la disintegrazione del supporto fisico è sotto gli occhi di tutti. Ciò che non deve sfuggirci, io credo, è il livello della produzione di pensiero.
Gli anni ottanta italiani hanno prodotto unʼinfinità di buona musica e di buoni gruppi che hanno spesso costituito la base per la generazione successiva (da Afterhours a Marlene Kuntz).
Poi sembra siano venute a mancare nuove generazioni che proseguissero quel cammino.
Chi attualmente ha un certo seguito è, nella maggior parte dei casi, ultraquarantenne. Abbiamo perso per strada qualche generazione ?
Quello sulla decadenza del valore in musica, di decade in decade, è un argomento molto spinoso e ricorrente.
Occorrono teste pensanti e poco inclini alla nostalgia per condurlo in modo coerente e corretto.
Lʼoggettività è il più difficile dei traguardi per una persona intelligente. Vi sono individui eccelsi, che posti di fronte a faccende che chiamano in causa argomenti che li toccano da vicino, affettivamente, generazionalmente eccetera, scadono in visioni terribilmente di parte.
Chi mi ha sentito parlare in pubblico o ha avuto occasione di leggere qualche mio intervento, sa che sono piuttosto immune alle nostalgie.
Mi sembrava doveroso introdurre anche qui questo preambolo.
Perché è vero che le generazioni di coloro che hanno avuto tra i venti e i trenta anni entro il 1990, sono anche generazioni di individui che hanno conosciuto un rapporto più duro con il raggiungimento di ogni meta si siano prefissi.
La difficoltà in una lotta, mette in campo abilità che non possono essere sviluppate da chi non ha mai saputo o ha dimenticato cosa significhi conquistarsi tutto: Penso che sia semplicemente in questa immagine la differenza sostanziale tra chi stia cercando di farsi largo oggi nella sempre più fitta giungla degli scenari artistici, rispetto a coloro che tentavano lo stesso traguardo anni prima.
Mi pare che proprio in ragione di una subentrata facilità di acceso a molte fonti di informazione, proprio in base a una sovrabbondanza di stimoli, si sia ingenerata una certa apatia nella capacità di discernimento di quelli che sono i nostri fini estetici e nonché etici.
Quindi non credo siano venute meno velleità e capacità artistiche, penso piuttosto che di recente, da ventʼanni a questa parte almeno, sia progressivamente divenuta talmente frastornante lʼofferta di strumenti e di contenuti, che sia stato davvero difficile forgiarsi.
Non posso spiegare, né vorrei farlo, a un ventenne del 2013 quanto fosse arduo procurarsi un disco con una distribuzione limitata, una volta deciso che le tue sorti artistiche potessero essere legate allʼascolto di quella certa musica.
Attese di settimane, viaggi per negozi eccetera, facevano sì che la tua fruizione di una singola opera, una volta ottenutala, divenisse totale.
Questa fame ha formato personalità, ha forgiato il carattere di chi doveva affrontare un mestiere tanto difficile da sembrare un viaggio che comportasse anche il non-ritorno.
Può darsi che le generazioni più recenti abbiano metabolizzato una certa apatia, spesso lamentandosi di quanta insipienza si sia depositata in tante cose, ma comunque rischiando di rispecchiarla nelle proprie prove. Tengo anche qui a sottolineare che il mio è un discorso piuttosto generico, mentre so che tanta parte della nuova produzione, è un forte ritorno alla musica, alla ricerca e allʼinnovazione.
Personalmente, spesso imparo molto da musicisti assai più giovani di me, e ho la presunzione di pensare che alcuni di essi possano trarre altrettanto profitto intellettuale dallʼincontro col mio lavoro. Questa simbiosi è la via che mi piace, e quella che mi offre continue conferme positive.
Che tipo di spettacolo stai portando in giro con Cristiano Godano ?
Bene, con Cristiano, (e per un breve tour qualche mese prima con Paolo Benvegnù), prendendo spunto dal mio libro “ex”, abbiamo forgiato un concerto in cui confluissero le suggestioni raccolte da entrambi nel tempo, provenienti dalla storia recente della musica come la intendiamo noi, e da quelli che come noi ritengono che la miglior musica nel novecento sia stata espressa da certo rock (e non tanto nei salotti bene dellʼintellighenzia accademica).
Così, fondendo le due diverse ma molto spesso confluenti sensibilità, la mia da una parte e quella di Godano dallʼaltra, abbiamo costruito un programma di brani che vanno da Velvet Underground sino a Beck, interpretati a turno da me e da lui, con il notevole e fondamentale apporto di altri due musicisti, Guido Maria Grillo, voce e chitarre, e Meg Russo al pianoforte. Inizialmente poteva essere un modo insolito di presentare un libro, illustrandone la colonna musicale di cui è per buona parte composto. Ma dʼaltra parte il libro è ricco di moltissima musica e della più disparata origine, così come da molti e differenti spunti tematici, che un concerto non può trattare.
Quindi il concerto si è evoluto nel corso dei mesi sino a diventare uno spettacolo in cui il testo e la musica viaggiano appaiati, con poche essenziali e cruciali letture in mezzo a molte versioni nostre di brani epocali, più qualche brano dal mio repertorio e dal repertorio dei Marlene. Sta venendo tutto talmente bene, e la risposta emotiva del pubblico che ci segue è tale, che da mesi lo portiamo in tutta Italia e lo faremo fino alla fine dellʼanno e per tutta la prima parte del prossimo.
Il classico finale con una lista di dischi che porteresti sulla solita isola deserta e qualcuno che consiglieresti come propedeutico ad un giovane a totale digiuno di musica di “un certo tipo”.
Le due selezioni coincidono.
Credo siano imprescindibili:
The Velvet Underground & Nico, VU
The Piper at The Gate of Dawn, The Pink Floyd
La Solitude, Lèo Ferrè
White Album, The Beatles
Berlin, Lou Reed
The End, Nico
Closer, Joy Division
Ágætis byrjun, Sigur Ròs
Sea Change, Beck
Is This Desire, PJ Harvey
In Rainbows, Radiohead
Cʼé molta altra musica seminale, naturalmente, ma questi per me rappresentano lʼessenziale.
lunedì, ottobre 21, 2013
Lilith and the Sinnersaints - Stereo Blues vol.1: punk collection
Esce oggi “Stereo Blues Vol.1: Punk collection”, primo episodio di una serie di omaggi che Lilith and the Sinnersaints vogliono tributare alla radici del proprio sound.
I quattro brani contenuti in questo EP sono un personale tributo al PUNK di fine anni 70 che fu la prima colonna sonora delle giornate che l'allora 15enne Lilith spendeva tra il gruppo dei tempi, i Not Moving, e la scuola.
Brani come “See no evil” dei Television e (I’m) Stranded” dei Saints giravano sulle cassette che ci si scambiava alla scoperta del nuovo sound.
Poi venne l’hardcore punk e gruppi come Bad Brains (omaggiati con una versione blues del loro classico “Sailin on”) mentre i Clash cercavano nuove strade nella musica tradizionale come il blues, il reggae o il gospel (come in “The sound of the sinners” da “Sandinista”).
Lilith and the Sinnersaints in “Stereo Blues vol.1: Punk collection” volgono lo sguardo a quei tempi ma lo attualizzano attraverso una sensibilità moderna e il loro unico stile.
Il CD esce in una confezione in tiratura limitata in metal box reperibile presso Audioglobe:
http://www.audioglobe.it/disk.php?code=8016670105374
oppure ai concerti del gruppo o tramite il sito:
www.lilithandthesinnersaints.com
Siamo anche su Facebook:
www.facebook.com/Lilithandthesinnersaints
Un breve teaser video di presentazione lo trovate qui:
http://www.youtube.com/watch?v=8YmAe8STOdM
Sempre attraverso il sito del gruppo (e ai concerti) è disponibile la maglietta della band (vedi foto)
Le prime date promozionali:
Venerdì 1 novembre : Brescia “Lio Bar”
Sabato 2 novembre : Cigognola (Pv) "Circolo Vallescuropasso"
Sabato 9 novembre : Pisa “Newroz”
Sabato 16 novembre : Cremona “ArciPelago”
Sabato 30 novembre : Aosta “Espace”
Venerdì 13 dicembre: Parma "Giovine Italia"
Sabato 14 dicembre : Bologna “Joe Strummer Tribute”
Sabato 21 dicembre : Verbania “Loggia del Leopardo”
domenica, ottobre 20, 2013
La storia di Lilith and the Sinnersaints
La riuscita breve reunion del 2005/2006 (http://tonyface.blogspot.it/2013/06/la-storia-dei-not-moving-2005-2006-la.html) dei Not Moving aveva riportato dopo una decina di anni di assenza (spesi tra teatro Fluxus, arte, diploma di Liceo Artistico, un figlio, tre cani, 5 gatti,un marito) Lilith sul palco, dove aveva ritrovato la voglia di restarci.
Inoltre si ero riacceso un certo interesse sulla carriera solista del decennio precedente, i dischi avevano timidamente ripreso a vendere, qualche locale si era rifatto sentire per qualche concerto.
Nel 2007 grazie alla label fiorentina Alpha South di Massimo Bellucci che ci concede fiducia, con il nuovo nome di Lilith and the Sinnersaints si ritorna sul mercato discografico, l’8 marzo, con il CD singolo “I need somebody” (arricchito da una serie di vecchi brani live) e dal vivo, con alcune date, con la nuova line up che recupera oltre a Lilith alla voce e Tony Face alla batteria, Luigi Betty Blue Milani (ultimo bassista dei Not Moving e anima dei Timepills) alla chitarra e lo storico bassista dei 90’s solisti, Cristiano Cassi.
Si completa nel 2008 invece l’album d’esordio “The black lady and the Sinnersaints” (titolo mutuato da un classico di Charlie Mingus), costituito in buona parte da contributi di amici musicisti dai Julie’s Haircut ai Santo Niente, da Tav Falco ai Temponauts, da Giovanni Ferrario all’ex Not Moving Dome La Muerte, Maurizio Curadi, Apollo Negri, Francois Regis Cambuzat.
Album che riscuote interesse e un certo “successo”, rimette in moto la serie di concerti, segna il ritorno di Massimo Vercesi in formazione al posto di Cristiano e culmina con una riuscita partecipazione al “Metarock” di Pisa con Cristina Donà e Siouxsie.
Meno fortunati gli anni successivi (dal 2009 al 2011) che proseguono con lunghe pause, pochi concerti, ripensamenti (nonostante nel marzo 2010 sia da annotare la partecipazione allo spettacolo “Transformed”, dedicato al quasi omonimo album di Lou Reed, a fianco di Violante Placido, Julie’s Haircut , Corrado Nuccini dei Giardini di Mirò, Angela Baraldi) e l’addio di Luigi Betty Blue e la successiva entrata nel 2012 al basso di CJ Hellectric per supportare il tour promozionale del nuovo album “A kind of blues” in cui si avvale la collaborazione di numerosi ospiti, tra cui Luca Giovanardi dei Julie's Haircut, Ferruccio Quercetti dei Cut, Paolo Apollo Negri del Link Quartet, Pier Adduce dei Guignol Nicola Faimali della band di Dente.
La serie di date è finalmente lunga e corposa, la band torna a girare a mille, si spazia in tutto il nord Italia, l’album viene accolto benissimo e anche le vendite, in epoca di crisi totale, sono inaspettatamente incoraggiante. Siamo al 2013, si preparano nuovi traguardi e progetti, domani esce un nuovo lavoro.
Non è ancora finita…..
sabato, ottobre 19, 2013
40 anni di "Quadrophenia"
Oggi fanno 40 anni dall’uscita di “Quadrophenia” degli WHO. Il mio album preferito, per mille motivi, di sempre (rivaleggia solo con “London calling” dei Clash e il “White Album” dei Beatles).
Per festeggiare la ricorrenza ho tradotto la recensione (molto criptica a tratti e non del tutto positiva) che ne fece LENNY KAYE (futuro chitarrista del Patti Smith Group) il 20 dicembre del 1973 per “Rolling Stone”.
"Quadrophenia" è gli Who al loro massimo del simmetrico e cinematografico, in ultima analisi spiazzante.
Capitanati da Pete Townshend hanno realizzato, splendidamente suonato e registrato in modo magnifico, un ritratto della mentalità giovanile inglese nella quale hanno avuto una parte non secondaria con una visione in bianco e nero e una profonda sensibilità della umida aria londinese del 1965.
Nonostante ciò, l'album non riesce a generare un impatto totale a causa di un paradosso insito nell’album stesso: invece che l’interazione a quattro facce implicito nel titolo e nel concetto del lavoro, “Quadrophenia” è esso stesso il prodotto di una singola coscienza (anche se geniale).
Il risultato è una qualità statica che il lavoro non riesce a superare completamente.
Townshend ha faticato tantissimo con questo album, lo ha portato in sè per oltre un anno, lo ha faticosamente montato pezzo per pezzo per comporlo in grande scala.
Ma invece di vincere la battaglia ha perso la guerra, ed è ancora più un peccato.
L’eroe di “Quadrophenia” è Jimmy, un giovane mod in preda ai dubbi su sè stesso e all’alienazione.
A differenza di “Tommy”, al quale è destinato ad essere inevitabilmente comparato, Jimmy non è una semplicistica parabola o un simbolo conveniente.
Le sue caratteristiche di perdente lo distinguono sia dagli amici che dai nemici, e anche se lui è più che disposto a essere guidato, in qualche modo anche quella sicurezza sembra sfuggirgli.
Lacerato tra varie identità, Townshend lo ha omaggiato con ben quattro, tutte in competizione per diventare quella leader nella psiche confusa di Jimmy.
In una è forte e determinato, padrone del suo destino, un’ altra lo trova pieno di sfacciata audacia e spensierato sciovinismo; un’altra ancora ammorbidisce e romanticizza la sua natura, dandogli una quieta forza interiore, e un’altra ancora lo rivela come insicuro, alla ricerca di una promessa e di una salvezza garantita.
Questo è “Quadrophenia”, doppiamente schizofrenico e Townshend manovra questo conflitto su più livelli, ognuno con un gran bell’effetto.
Il più importante di questi collegamenti è la generazione Mod in cui saltarono gli Who e solo secondari (anche se certamente la più interessante per quanto mi riguarda) sono gli Who stessi, quattro temi ("Helpless Dancer", "Bell boy", "Is It Me ? "e" Love Reign O'er Me ") divisi in tutto l'album.
Quanto a Jimmy, la sua frustrazione per non essere in grado di risolvere i suoi sé separati improvvisamente lo travolge, gli rompe lo scooter, fugge a Brighton sulla spiaggia, salendo su una barca con il vago obiettivo di suicidio.
Questo è dove lo troviamo all'inizio del lato A, perso tra i suoi flashback e i ricordi sconnessi, e dove lo lasciamo, con una nota di elevazione spirituale e di trascendenza, alla fine.
Questi non sono comunque nuove preoccupazioni per gli Who.
Considerando che i Kinks sembravano sempre occupati con con la middle class compassata e confortevole, in un rapporto di amore-odio archetipico, Townshend e soci all’inizio erano un affettuoso obbiettivo di una macchina fotografica puntata sui loro contemporanei, culminato con alcuni classici punti di riferimento come "Substitute", "Anyway, anyhow, anywhere "e " My Generation" ancora da eguagliare in quanto a potenza assoluta.
“Quadrophenia”, nell’osservare quel periodo in retrospettiva ed esaminando le sue implicazioni, indugia sui manufatti del periodo come se potessero fornire un indizio. Bollitori per il tè fischiano sulle voci minacciose della BBC, accenni di Who in concerto sfregiano i sogni frammentati di Jimmy, giacche attillate si mescolano con tagli di capelli puliti e ordinati.
Per la mentalità americana, “Quadrophenia” potrebbe sembrare così strano come porzioni di “American Graffiti” lo potrebbero sembrare agli inglesi, ma è certo che il fascino dei ricordi condivisi semi-nostalgici deve per forza funzionare sia per uno che per l'altro.
Il merito di Townshend è che la sua non è una visione disimpegnata o ipocrita dopo tutti questi anni. Nel cercare di capire Jimmy, sta anche cercando di comprendere le radici degli Who, la sua attrazione come punto di congiunzione, il suo eventuale rifiuto di Jimmy ("The Punk meets the Godfather") e - in modo più appropriato - se stesso.
Per impostare la fase del salto finale di Jimmy verso la fede, Townshend si deve chiedere perché la religione del rock & roll (così come la Vespa GS e le purple hearts) ha dovuto essere sostituita da qualcosa di meno temporale e inaffidabile.
Gli episodi interiori dove tutto questo viene generato è la parte più riuscita di “Quadrophenia” , perfettamente delineata da Townshend e incredibilmente eseguita dagli dal Who.
Jimmy cerca di ingranare con la sua famiglia , il suo gruppo di amici , la sua ragazza , e tuttavia rimane un outsider , chiedendosi perché "the other tickets look much better/Without a penny to spend they dress to the letter."
Incontra un vecchio idolo degli scontri in spiaggia, ora ridotto a fattorino di un albergo locale : "Ain't you the guy who used to set the paces/Riding up in front of a hundred faces?"
Pete , nel bene e nel male, è in possesso di una scrittura logica nella sua linearità, e se in effetti ci mettiamo nella mente di una mente emotivamente turbata di un adolescente, né la consistenza della musica né prospettive dell'album sono in grado di far fronte a questa sfida della ritrattistica .
Nonostante i vari temi , Jimmy è visto solo attraverso gli occhi di Townshend, orientato attraverso le percezioni di Townshend, e, di conseguenza, vista attraverso i quattro lati del disco, il concept va in crisi, l'album, sforzandosi di uscire dai suoi confini chiusi, ne esce vacillante e male.
Ciò si riflette nelle canzoni stesse, spesso notevolmente simili nella modalità e nella costruzione, con poche differenze che le distinguono. Solo poche stanno in piedi da sole, come le migliori che hanno fatto gli Who, ( "The Real Me", " Is it in my head?", " 5:15 ", il tema di Townshend "Love Reign O'er Me" ), ed è interessante notare che molte di queste sono brani recuperati dal lost album su cui gli Who hanno lavorato con Glyn Johns prima di “Quadrophenia” .
Inoltre , date le personalità eccessivamente complesse che compongono il gruppo, poco o nessun rilievo hanno Moon, Entwistle o Daltrey .
I loro ruoli sono secondari, in sottofondo, quando invece dovrebbero salire alla ribalta, e invece sottomessi dall’immaginazione di Townshend .
In altri album degli Who potrebbe essere accettabile, perfino benvenuto:
sicuramente Pete è stata la forza guida degli Who, la loro totale ispirazione
. E' la sua mente che ha creato le registrazioni tour-de - force dell'album, il paesaggio realistico e panoramico dell’Inghilterra pre-Carnaby Street, impostato in modo che ogni membro della band potesse dare pieno sfogo alla sua decantata e immensa, unica abilità strumentale.
In effetti , si potrebbe facilmente dire che gli Who non ha mai suonato meglio , sia come band che nelle parti soliste, dimostrando valore inalterato e la loro rilevanza in un'epoca che ha da tempo lasciato altri nomi della loro generazione dispersi in frammenti di storia.
Ma “Quadrophenia” è inferiore al marchio che lo ha prodotto.
“Il gabbiano JIMMY Livingston”, alla deriva in un mare tempestoso, con le ali spezzate e solo i ricordi a fargli compagnia - così vicino, eppure così lontano.
venerdì, ottobre 18, 2013
Claudio Baglioni - Solo
Prosegue la rubrica GLI INSOSPETTABILI ovvero una serie di dischi che non avremmo mai pensato che... Dopo Masini, Ringo Starr, il secondo dei Jam, "Sweetheart of the rodeo" dei Byrds, Arcana e Power Station e "Mc Vicar" di Roger Daltrey, "Parsifal" dei Pooh, è la volta di "Solo" di CLAUDIO BAGLIONI di cui ci parla in dettaglio il Nostro MATTEO WHITE BIANCHI.
Le altre puntate de GLI INSOSPETTABILI qui: http://tonyface.blogspot.it/search/label/Gli%20Insospettabili
Baglioni – “Solo” (1977)
Dici Baglioni e pensi Sbadiglioni…
Eppure nel 1977 Claudio Sbadiglioni se ne esce con un album destinato a entrare negli “insospettabili” a pieno titolo. “Solo” è un concept – secondo l’uso comune settantesco - sulla solitudine, frutto di due anni di lavoro e scaturito durante la lunga turnè sudamericana del ‘75… per la prima volta Sbadiglioni firma tutto, parole, musica e arrangiamenti (eccetto “Gesù caro fratello”, già incisa da Mia Martini nel ’71, di cui Claudio è co-autore) e il risultato è un album indiscutibilmente prodotto e suonato con grande gusto, sulla scia dell’onnipresente Stella
Cometa beatlesiana whitealbum/abbeyroad, con eclettico dispiego di tastiere, strumenti tipici del rock ed etnici.
Il tutto rivestito di effettistica d’attualità e sintetizzatori all’avanguardia. Ma soprattutto: ci sono belle canzoni Pop.
Ecco cosa contiene, in sintesi, “Solo” by Claudio Paglioni:
Intanto La title-track è Sbadiglioni al topper most of the popper most del suo romanticismo.
Il pezzo è una ballata pianistica accompagnata da orchestra, tutto magistralmente sistemato su nastro.
Aperture ed atmosfere alla Procol Harum. Sbadiglioni 1 – Pregiudizi 0… ma andiamo con ordine, perché Claudione rischia di dilagare…
L’iniziale “Gagarin” è una spaghetti-space oddity con astrotesto dedicato al noto cosmonauta solitario nello spazio… costruita su classica scala discendente molto britannica, quasi lifeonmarsiana (che poi sempre beatlesiano è)… arrangiamento elettronico dall’effetto melodico/sci-fi molto originale (il riff sembra suonato con un theremin, in realtà è un synth che cita il theremin usato nei B-movies horror-fantascientifici anni ‘50).
“Duecento lire di castagne”: brano che richiama lo stile del McCartney più bucolico del White album e di certe ballate elettro-pianistiche wingsiane, anche se non manca quel tocco tutto middle-italico, marchio di fabbrica dello Sbadiglioni: tra pop e stornello; bellissimo l’intreccio del pianoforte e del piano elettrico.
“Romano male malissimo”: pop-funk phaserato, latino e blueseggiante al sapor di Broadway. Billy Joel si è fermato a Centocelle. Gran tiro.
“Gesù caro fratello”: apoteosi romanesca prog-melodico-stornello, ma anche qui arrangiamento (con fuga alla Jesus Christ in primis) e sound sono d’alta scuola…
“Nel sole, nel sale, nel sud”: Tropicalismo a Trastevere. Lacrime e Limoni duri.
“Strip-tease”: folk e vaudeville, ottoni e pedal-steel guitar.
I più attenti (per esempio, io) riconosceranno nell’arpeggio di chitarra acustica echi di “Embrionic Journey” dei Jefferson Airplane o “Living in the country” di Arlo Guthrie. Pezzo niente male e piuttosto originale.
“Il Pivot”: ottima ballata sulla solitudine del cestista più lungo… Pianoforti ed elettronica sempre tra Abbey Road e primo Bowie. Sicuramente uno dei pezzi migliori.
Bravo Paglioni.
“Quante volte”: si torna al funk, in questo caso romantico e liquido (con vortice di phaser di grande effetto). Il Philly Sound rielaborato per un Sergio Martino. CineDisco… E altro pezzo sul podio.
“Puoi”: Sbadiglioni torna al top del romantico melodico per concludere.
Gocce di Fender Rhodes su di noi, tra sinfonismi synth e molto altro.
E funziona.
Prego il contributo audio-video: https://www.youtube.com/watch?v=O3xerX2uhPY