martedì, ottobre 31, 2023

lunedì, ottobre 30, 2023

Ottobre 2023. Il meglio

Viaggiamo verso la fine del 2023 e cisono un sacco di buoni album. In ordine sparso: Jaimie Branch, Aja Monet, Corinne Bailey Rae, Teenage Fanclub, Noel Gallagher, Graham Day, The Darts, Blur, Miles Kane, Durand Jones, Edgar Jones, Bobby Harden, DeWolff, Bring Me the Hearts, Rain Parade, Wreckless Eric, Public Image LTD, Billy Sullivan, Iggy Pop, Everettes, Everything But The Girl, PJ Harvey, Slowthai, Meshell Ndegeocello, Sleaford Mods, John Cale, Elza Soares, Acantha Lang, Joel Sarakula, Algiers, The Men, Tex Perkins and the Fat Rubber Band, Gina Birch, Gabriels, Lonnie Holley, The Who, Mudhoney, Kara Jackson, Tinariwen, Geese, Don Letts, Pretenders, Bobby Bazini, Lankum.

Tra gli italiani: Giorgio Canali & Rossofuoco, Alex Fernet, Funkool Orchestra, Sick Tamburo, Zac, Polemica, Milo Scaglioni, Il Senato, Lucio Corsi, Statuto, Broomdogs, The Cut, Senzabenza, Forty Winks, The Lancasters, Elli De Mon, Ellen River, Double Syd, Pitchtorch, C+C=Maxigross, Blue Moka, Lory Muratti, Garbo, Electric Machete, Avvoltoi & Steno, Dome La Muerte EXP, Marco Rovelli & Paolo Monti.


THE ROLLING STONES - Hackney diamonds
Saltando il pregiudiziale "sono vecchi/perché fare ancora un album/fanno sempre le stesse cose", il nuovo Stones è un ottimo lavoro, pieno di tutto ciò che è lecito e normale attendersi da Mick, Keith e Ron, dal consueto Stones sound, alla ballata di gusto country, la canzone malinconica cantata da Keith, il rock FM di "Mess ot up".
Sorprendono il punk rock di "Bite my head off" con Paul McCartney al basso e il gospel di oltre sette minuti magnificamente cantato da Lady Gaga "Sweet sounds of heaven".
Degna e commovente conclusione con "Rollin' stone blues" di Muddy Waters, chitarra acustica, armonica e voce.
La lista di celebri ospiti (Elton John, Macca, Stevie Wonder) è, a parte la citata Lady Gaga, ininfluente.
Il drumming di Charlie Watts, nei due brani in cui è presente, ben distinguibile e caratterizzante. C'è anche Bill Wyman a chiudere il cerchio.
Se fosse, come probabile, l'addio, complimenti per la classe, l'anima e il cuore e per tutto quello che ci hanno dato.

BRING ME THE HEARTS - s/t
Arrivano dalle parti di Manchester, sono all'esordio e ci regalano un incantevole e raffinato viaggio in atmosfere folk di gusto Fairport Convention ma con sguardi anche ai primi Jefferson Airplane, a CSNY, Mamas and Papas, con un tocco di soul (Bill Withers e affini). Un album malinconicamente solare, pur con sapori nordici. Un vero e proprio gioiello.

THE RAIN PARADE - Last Rays of a Dying Sun
Quei primi anni 80, Dream Sydicate, Three O' Clock, Bangles, Green On Red, Long Ryders, i favolosi True West e i Rain Parade. L'immaginifico Paisely Underground che ammaliava incrociando Byrds, Velvet Underground, Doors, country, folk, psichedelia mentre a fianco ruggiva il ritorno del garage punk. Those were the days. I Rain Parade tornano dopo 38 anni con un nuovo (terzo) album, la magia rivive in buona parte del disco, di livello qualitativo alto e più che convincente (nonostante qualche flessione trascurabile).

GOAT - Medicine
Il quinto album della "sciamanica" band svedese ci immerge in una psichedelia aspra, tribale, ancestrale, primitiva, minacciosa. Un sound che ammalia e allo stesso scarnifica la corteccia del cervello. Ancora una volta eccellenti.

BLONDE REDHEAD - Sit down for diner
Torna l'elegante e soffuso sound della storica band new yorkese, tra ricordi di stampo 4AD, una sinuosità decadente di gusto Velvet Underground, una consueta immediata riconoscibilità. E' sempre un piacere perdersi in questi suoni.

THE STREETS - The Darker The Shadow The Brighter The light
Torna dopo un lungo silenzio lo "street rapper" Mike Skinner con un album molt ocriticato e bastonato dalla critica. Personalmente lo trovo invece molto interessante, allargato a sonorità e campionamenti inusuali per il genere, come swing, blues, reggae. alla fine molto interessante e intrigante.

WILCO - Cousin
La classe rimane intatta, le melodie e le composizioni di una grazia sopraffina. sapori REM, Violent Femmes e Warren Zevon fanno capolino in un mare di consolidata personalità. I toni sono lievi, malinconici e avvolgenti. Ottimo disco.

MAIIAH AND THE ANGELS OF LIBRA - s/t
Eccellente album di vintage soul apparecchiato alla perfezione dal collettivo tedesco degli Angels of libra che supportano alla perfezione la potente voce di Maiiah. A tratti ricordano i Makin Time di Fay Hallam ma il sound è decisamente "black" e di sapore Sixties. Album godibilissimo, divertente, pieno di energia.

TRE BURT - Traffic fiction
Un buon album di rhythm and blues e soul retrò, belle canzoni con deviazioni nelle atmosfere care al primo Elvis Costello.

INCOGNITO - Into you
Inutile attendersi grandi stravolgimnenti da un disco degli Incognito. Bluey continua a regalarci il consueto mix di soul, funk, jazz, fusion, atmosfere raffinate ed eleganti, suonate con grandissima qualità, piene di groove e ritmo. Una certezza.

VANISHING TWIN - Afternoon X
Il quarto album della band cosmopolita londinese ci porta in un mondo esoterico, psichedelico, fumoso, lisergico, sospeso, pieno di vibrazioni estatiche. Un po' Stereolab, un po' i Velvet Undergound più pop.

GIORGIO CANALI & ROSSOFUOCO - Pericolo giallo
E' una fortuna che esista Giorgio Canali, che le sue sue canzoni rimangano sempre così urticanti, cattive, lucide, politiche, intensamente politiche. Poeta moderno che non ha paura a confrontarsi a chiare lettere con una realtà sempre più difficile e amara da vivere. I testi sono come sempre eccellenti, le canzoni crude e abrasive ma di una bellezza struggente. Disco italiano dell'anno.

THE HEAT Inc. – Asleep In The Ejector Seat
Esordio potentissimo per la band anglo italiana, a base di un sound che attinge dal lato più ruvido e duro dell’Iggy Pop solista (era “Instinct”), dalle ritmiche solide e compatte dei Ramones, senza trascurare il chitarrismo degli Stones anni 70. I brani sono duri, feroci, con arrangiamenti semplici ma allo stesso tempo curati e sempre perfettamente calibrati. Chiude una ballad semi acustica tra Johnny Cash e Rolling Stones a stemperare il clima infuocato dei nove brani precedenti. Ottimo!

MASSIMILIANO LAROCCA - Daimon
Il cantautore toscano firma il sesto album solista, ancora una volta affiancato dalla sapiente produzione di Hugo Race, che ben si addice al taglio semi acustico, dai toni dark blues che caratterizza i dieci brani autografi. Ci sono pennellate jazz, riferimenti vari alla migliore tradizione della canzone d'autore nostrana e alla scuola francese dei Sessanta. Il tutto arrangiato in chiave moderna, con atmosfere avvolgenti, suadenti, autunnali che si pongono tra Leonard Cohen, Nick Cave, Serge Gainsbourg e Umberto Bindi. Suoni eccellenti, album di alto livello.

BOTTAZZI - Vol. 1
Un prodigioso salto agli anni Settanta funk/blaxploitation strumentali, colonne sonore di inguardabili B movies polizieschi m anche un pizzico di latin soul del primo Santana. I brani sono frutto di session live in studio che danno lo spunto per improvvisazioni, sperimentazioni, sapori jazz fusion. Il tutto con una grande verve, tanta creatività, freschezza, urgenza espressiva.

PHEROMONES - s/t
Un ottimo esordio per la band trentina che ama guardare alla lezione del punk contaminato di gruppi come Sonic Youth, Bikini Kill, Breeders, Le Tigre attingendo da sonorità noise ma con linee melodiche pop (che talvolta riportano ai primissimi Blondie). Gli otto brani funzionano nella loro urgenza e spontaneità, pur essendo spesso piuttosto elaborati ritmicamente e costruiti con particolare originalità. Una partenza più che riuscita.

SABRINA NAPOLEONE – Cristalli sognanti
Il terzo album in carriera coglie la cantautrice genovese al massimo della creatività ed espressività. I nove brani partono dalla canzone d’autore ma si sviluppano in un labirinto di contaminazioni (soprattutto con la musica elettronica in varie sue filiazioni, dalla techno alla dark wave) supportati da una vocalità molto personale (pur se debitrice in certe parti da influenze che arrivano dalle ultime prove discografiche di Nada). La costruzione dei brani è sempre molto accurata, ricca di suggestioni sonore e varie collaborazioni vocali, con arrangiamenti originali edi sapore avantagarde. Un percorso coraggioso, distintivo, in cui sperimentazione e tradizione cantautorale si fondono alla perfezione, creando un ibrido nuovo e stimolante.

THE SWANGERS – Bye Bye
La band emiliana riesce a mischiare con equilibrio, eleganza e competenza una serie di influenze affini, dal grunge a sonorità quasi garage punk, momenti psichedelici, un più generico alternative rock chitarristico, dalle parti dei Pixies. Le canzoni sono sempre ottimamente costruite in fase compositiva e bene arrangiate. Il risultato finale è efficace e di alto livello (peraltro ben reso nella dimensione live). Da seguire con attenzione.

THE VANISHED PEOPLE - School trip
Sono travolgenti, innovativi, eclettici, sorprendenti questi due giovani abruzzesi trapiantati a Milano. Giocano con campionamenti, ritmiche furiose di gusto metal (che riportano allo spettacolare lavoro del Dj belga Igorrr), per poi passare a suadenti funk, insert orchestrali, sprazzi prog. I sei brani dell'ep sono un caleidoscopio creativo di rara genialità. Eccellenti.

PAOLO FUSCHI - This old world
Singolo ultra funk da Manchester con i Funkadelic e Sly and the Family Stone in sottofondo e un'attitudine Acid Jazz grooves. Support!
https://soundcloud.com/paolo-fuschi/this-old-world/s-PtkmAULKAjN

THE CELIBATE RIFLES - The Turgid Miasma of Existence
Il terzo album della band australiana, pubblicato nel 1986, rivive nella ristampa della nostra Area Pirata Records e fotografa il momento precedente all'esplosione internazionale. Il sound è grezzo, aspro, abrasivo, ancora vicino a una dimensione punk ma lascia intravedere gli sviluppi imminenti che consegneranno la band di Sidney alla storia del rock di Oz ma non solo.

VV.AA. - Into Tomorrow – The Spirit of Mod 1983-2000
Il cosiddetto “revival Mod” sviluppatosi alla fine dei Settanta in Inghilterra sulla spinta dei Jam e del film “Quadrophenia” produsse una serie di ottimi gruppi e dischi ma si esaurì in breve tempo, più o meno, non casualmente, quando la band di Paul Weller si sciolse, alla fine del 1982. Ma il seme era stato piantato e, pur senza più l'appoggio mediatico, decine di band continuarono a suonare beat, rock, soul, Who, Small Faces, mischiandoli insieme. In questi 92 brani in 4 CD troviamo un abbondante sunto di quei suoni con grandi nomi come Prisoners, Redskins, Style Council, Stone Roses, Primal Scream, Supergrass e decine di gioielli sconosciuti e dimenticati. I più accorti collezionisti non troveranno grandi novità, per chi ha perso il dettaglio di quel periodo invece c'è di che divertirsi.

ASCOLTATO ANCHE:
PU POO PLATTER (cinesi/americani di Brooklyn con un buon funk), DU-RITES (buon album di funk prevalentemente strumentale, classico e minimale), THE MENZINGERS (banalissimo pop punk),

LETTO

Giovanni Lindo Ferretti, Massimo Zamboni, Annarella Giudici, Danilo Fatur - Felicitazioni! CCCP Fedeli alla linea 1984-2024
Il catalogo della mostra "Felicitazioni", in corso ai Chiostri di San Pietro a Reggio Emilia (dal 12 ottobre 2023 all'11 febbraio 2024) dedicata alla carriera dei CCCP Fedeli alla Linea.
456 pagine in cui la band racconta la convulsa (e breve) storia, attraverso una lunga serie di immagini, volantini, articoli di giornale, curiosità, progetti. Partendo dagli inizi incerti (con contributo di Pier Vittorio Tondelli che, tra i primi, si accorse della loro immagine e potenzialità), passando per un'improvvisa popolarità, arrivando al grande successo, a Luigi Ghirri e Amanda Lear.
"Ne esce una linea che esorbitando dallo spazio stretto di residenza – Reggio Emilia, in particolare, e tutta l’Emilia Paranoica da loro cantata – si è andata a proiettare in uno spazio umano illimitato, collegando di volta in volta Berlino Est e Ovest, l’Europa delle frontiere, Beirut, il mondo arabo, URSS e paesi satelliti, la Cina, Hong Kong, la Mongolia, Kabul, Palestina, Israele, Mosca, Leningrado, trasformandoli vorticosamente in periferie e centri di un unico impero mentale."
Con il consueto e famoso "senno di poi" rimane impressa l'evidente teatralità, provocatoria ma soprattutto immaginaria, che venne costantemente male intesa da fan e detrattori, da sempre impegnati in sterili diatribe su presunti "tradimenti" alla "causa".
Ai tempi i loro spettacoli erano assolutamente nuovi, inconsueti, divisivi, d'avanguardia, sempre e comunque di grande impatto espressivo (piacessero o meno). La musica ugualmente personale e inedita, i testi ancora di più.
Furono un progetto unico che ha lasciato occasionali sbiaditi epigoni ma che ha segnato in maniera indelebile la storia della musica pop/rock/alternativa italiana.

Cherry Vanilla - Lick me. Come sono diventata Cherry Vanilla
L'autobiografia (pubblicata in Italia da Odoya nel 2011) di una delle groupie più famose nella storia del rock ma che ha saputo progressivamente emanciparsi dal ruolo, lavorando all'organizzazione del tour americano di David Bowie per promuovere "Ziggy Stardust", facendo l'attrice per Andy Warhol nello spettacolo teatrale "Pork", entrando nel music businness, diventando per breve tempo una piccola star in ambito glam/punk (un paio di album e qualche singolo).
Frequenta Ringo Starr, lo stesso Bowie, arriva al cospetto di John e Yoko e mille altre avventure per poi dedicarsi alla scrittura, "articoli, biografie,comunicati stampa,pubblicità, proposte commerciali, qualsiasi cosa che mi desse da vivere".
Il libro è la sublimazione del classicissimo "sesso, droga e rock 'n' roll" che non mancano praticamente in nessuna pagina, fino a diventare una vera e propria indigestione di prestazioni di ogni tipo con questo o con quello (l'elenco è infinito o quasi...).
D'altronde ci tiene a specificarlo: "Senza stare a fornire troppo dettagli (...meno male...NdA), lasciatemi dire che , in materia di sesso, ci sono alcune cose che non ho mai fatto come la zoofilia, la necrofilia e la pedofilia. Ma a seconda della persona, della droga o dell'occasione, ho utilizzato ogni orifizio e ogni strumento di piacere che Dio mi ha dato."
Interessante la sua visione del punk, quando approdò a Londra, suonando nei vari Roxy's, Marquee etc in piena esplosione della scena, con Stewart Copeland alla batteria e Sting al basso.
"Noi newyorkesi abbracciammo l'idea del punk come l'ultima delle mode rock, con una strizzata d'occhio alla scarsa importanza della nostra piccola ribellione. In Inghilterra invece iul punk stava esplodendo e aveva assunto connotati fortemente politicizzati, con un messaggio di vera lotta di classe."
Libro gradevole da parte di una testimone in "prima linea" nell'evolversi del rock dai Sessanta agli Ottanta.

Donato Zoppo - Lucio Battisti. Scrivi il tuo nome su qualcosa che vale
Ho sempre apprezzato gli approfondimenti su dischi particolari, magari poco conosciuti o vicende scarsamente considerate.
Racconti che intrigano e appassionano, soprattutto quando sono scritti con la bravura di Donato Zoppo, esperto conoscitore dell'opera di Lucio Battisti di cui analizza un album "minore", quel "E già" del 1982, il primo dopo la fortunata partnership con Mogol, sostituito dalla moglie Grazia Letizia Veronese, indicata come Velezia.
Nel libro si solleva qualche dubbio sulla reale consistenza del suo contributo ma è uno dei tanti misteri del lavoro.
Zoppo esamina accuratamente il percorso compositivo che ha portato a questa svolta radicale, con un Battisti (affiancato da Greg Walsh) che si affida completamente all'elettronica, infatuato dalle suggestioni new wave che arrivano da Human League, Kraftwerk, Gary Numan, Buggles, Visage, il Joe Jackson di "Steppin out", Depeche Mode, Psychedelic Furs, Eurythmics e dal percorso solista di Peter Gabriel (con cui intesse rapporti londinesi).
Battisti aveva già sperimentato queste prospettive in "Immersione" dell'amico Adriano Pappalardo e ora inaugura la sua nuova stagione artistica con una sua opera, sperimentale, anomala, lontana dal classico profilo cantautorale.
Non entrerà tra i suoi migliori dischi ma è la porta per una nuova strada creativa che da "Don Giovanni" (1986) al conclusivo "Hegel" (1994) traccerà ben altri percorsi.

Silvio Bernelli - Dopo il lampo bianco
In questa inquietante testimonianza degli accadimenti autobiografici a seguito di un gravissimo incidente occorsogli in Thailandia, Silvio Bernelli, scrittore, ex bassista di Declino e Indigesti, affronta il difficile rapporto con la sopravvivenza, una possibile morte imminente, giocata sul filo dei minuti.
Il cervello agisce in funzione "sopravvivente", ci difende dal baratro della disperazione, dal lasciarsi definitivamente andare.
Bernelli cita libri di sopravvissuti a tragedie in montagna o naufragi a supporto della sua esperienza.
"Desideravo soltanto che il sonno arrivasse. Sonno senza sogni. La realtà era un incubo, vieni, diceva. Era un buco nero, pozzo senza sofferenza, pozzo senza tempo.
Come la morte. " (Joe Simpson - alpinista inglese coinvolto in un incidente sulle Ande peruviane a 6.500 di altezza in una bufera - da "La morte sospesa").
Quando l'autore si rende conto che potrebbe non esserci più una via di salvezza cade nello sconforto e nell'auto abbandono.
"Avevo fatto quello che potevo. La consapevolezza della morte mi tranquillizzò. Il cervello fu finalmente sgombro dai pensieri contingenti...il processo di invecchiamento precoce era giunto allo stadio limite, oltre il quale si spalancava il nulla.
Ogni prospettiva si restrinse nel cubicolo scuro che si era impadronito del cervello.
Un luogo in cui la paranoia produceva pensieri di morte che avevano la consistenza dell'allucinazione e che la mia mente mostrava perfino di apprezzare".
Bernelli si salverà.
Anche la sua gamba ridotta in condizioni disperate non subirà una probabile amputazione.
Il racconto è una narrazione psicologica avvincente, dai tratti quasi thriller, scritto molto bene, appassionante e coinvolgente.

COSE VARIE
° Ogni giorno mie recensioni italiane su www.radiocoop.it (per cui curo ogni settimana un TG video musicale - vedi pagina FB https://www.facebook.com/RadiocoopTV/).
° Ogni domenica "La musica ribelle", una pagina sul quotidiano "Libertà"
° Ogni mese varie su CLASSIC ROCK.
° Ogni sabato un video con aggiornamenti musicali sul portale https://www.facebook.com/goodmorninggenova
° Sulle riviste/zines "GIMME DANGER" e "GARAGELAND"
° Periodicamente su "Il Manifesto" e "Vinile".

IN CANTIERE
Uscito il mio nuovo libro dedicato a "Quadrophenia" a 50 anni dall'uscita.
Se interessati, ordinatelo e compratelo in LIBRERIA, ancora meglio se in quelle indipendenti.


Oppure qua: https://interno4edizioni.it/p/quadrophenia

50 anni di 'Quadrophenia', uno dei dischi più importanti degli Who e della storia della musica, ancora oggi insuperata Opera Rock e fenomeno generazionale.

Si parla del disco e del film di culto che hanno ispirato generazioni di fan degli Who.
Uscito il 26 ottobre del 1973 'Quadrophenia', sesto album in studio degli Who, è un'opera rock che amplia le tematiche più volte espresse da Pete Townshend sul disagio adolescenziale e il traumatico passaggio alla vita adulta, espressa in questo lavoro attraverso le vicende del giovane Mod Jimmy.

'Quadrophenia' è un album magniloquente, musicalmente ricco e pomposo, in perfetto equilibrio tra il possente rock degli Who e arrangiamenti dal sapore neo-classico.
Il libro ripercorre la storia del disco, le fonti di ispirazione, la tormentata gestazione dell'opera, le difficolta produttive e di registrazione, la complessa riproduzione della musica dal vivo, l'iconica copertina e i brani, oltre a una sezione dedicata alle recensioni dell'epoca (italiane e straniere).

Grande spazio anche al film di Frank Roddam uscito nel 1979, alla sua colonna sonora, al musical , ai tour celebrativi e alle curiosità (la similitudine non casuale con il film 'Saturday Night Fever').

NOT MOVING LTD live
This could be the last time Tour

Venerdì 24 novembre: Castelnuovo di Borgonovo (Piacenza) “Kelly’s”
Sabato 25 novembre: Lonate Ceppino (VA) “Black Inside"

Venerdì 1 dicembre: Pisa “Caracol”
Sabato 2 dicembre: Rubiera (Reggio Emilia) “Condor”
Domenica 3 dicembre: Torino "Blah Blah" ore 18
Sabato 9 dicembre : S.Arcangelo Romagna “Sidro”
Sabato 16 dicembre: Surprise!!!!
Venerdì 5 gennaio 2024 Milano “CIQ”
Sabato 6 gennaio 2024: Savona "Raindogs"

giovedì, ottobre 26, 2023

Antonio Bacciocchi
Quadrophenia. Gli Who e la storia del disco e del film che hanno definito un genere

Esce il mio nuovo libro dedicato a "Quadrophenia" a 50 anni dall'uscita.
Se interessati, ordinatelo e compratelo in LIBRERIA, ancora meglio se in quelle indipendenti.


Oppure qua: https://interno4edizioni.it/p/quadrophenia

50 anni di 'Quadrophenia', uno dei dischi più importanti degli Who e della storia della musica, ancora oggi insuperata Opera Rock e fenomeno generazionale.

Si parla del disco e del film di culto che hanno ispirato generazioni di fan degli Who.
Uscito il 26 ottobre del 1973 'Quadrophenia', sesto album in studio degli Who, è un'opera rock che amplia le tematiche più volte espresse da Pete Townshend sul disagio adolescenziale e il traumatico passaggio alla vita adulta, espressa in questo lavoro attraverso le vicende del giovane Mod Jimmy.

'Quadrophenia' è un album magniloquente, musicalmente ricco e pomposo, in perfetto equilibrio tra il possente rock degli Who e arrangiamenti dal sapore neo-classico.
Il libro ripercorre la storia del disco, le fonti di ispirazione, la tormentata gestazione dell'opera, le difficolta produttive e di registrazione, la complessa riproduzione della musica dal vivo, l'iconica copertina e i brani, oltre a una sezione dedicata alle recensioni dell'epoca (italiane e straniere).

Grande spazio anche al film di Frank Roddam uscito nel 1979, alla sua colonna sonora, al musical , ai tour celebrativi e alle curiosità (la similitudine non casuale con il film 'Saturday Night Fever').

Antonio Bacciocchi
Quadrophenia. Gli Who e la storia del disco e del film che hanno definito un genere
Interno 4
160 pagine
16 euro
Il nuovo lavoro inizia a concretizzarsi nella primavera del 1973.
All'improvviso Pete focalizza la sua attenzione su un ricordo (grazie anche a un suggerimento di un amico e fan di lunga data, un mod storico come Irish Jack), di quando trascorse una notte in giro per Brighton con una ragazza, dopo un concerto degli Who, tra mod che vagabondavano dopo uno scontro con i rocker, scooter e quella sensazione di libertà e allo stesso tempo di inadeguatezza rispetto alla società circostante.
Scrive febbrilmente una serie di pensieri e note, le stesse contenute nel booklet del disco.
Una volta utilizzato, uno dei simboli più ricordati nella storia del rock (la Vespa GS), venne abbandonato per strada davanti agli studi, vandalizzato e dopo poco tempo caricato su un camion della spazzatura.
Ricorda il fotografo che l'ultima volta che vide la Vespa era sul cassone di un camion della spazzatura.
“Sono rimasto stupito di come la musica degli Who (e da parte della mia modalità compositiva) conduce a una performance orchestrale.
Probabilmente tutta la musica suonerebbe meravigliosa suonata da una buona orchestra.
Ma ci sono parecchie ragioni perché funziona in questo per gli Who.
Lo stile di batteria di Keith Moon era quasi orchestrale, molto più decorativo e celebrativo piuttosto che ritmico.
John Entwistle aveva avuto una formazione classica con tromba e corno francese, così il suo lavoro, specialmente per Quadrophenia, inglobò un set completo di strumenti a fiato e scrisse tutti gli arrangiamenti.
Nel momento in cui gli Who arrivarono in studio di registrazione Roger era alla sua massima vetta vocale e riuscì a dare a tutti i testi una grande vitalità. Io stesso usai i sintetizzatori soprattutto er emulare una dimensione orchestrale, avendoli già ampiamente sperimentati per “Who’s next”. (Pete Townshend)
Una volta sistemato il cast Roddam, con l’aiuto di John Entwistle, radunò gli attori in una sorta di Mod Boot Camp dove vissero tutti insieme per quindici giorni, per conoscersi, istituire un forte cameratismo, fare festa, entrare nei ruoli, incontrare mod originali (come il DJ Jeff Dexter) e perfezionare la conoscenza della scena mod. Roddam fu entusiasta del risultato:
“Fu fantastico, lo vivevano davvero!”. E per tutta la durata delle riprese il gruppo fu compatto e reciprocamente collaborativo, come un vero gruppo di amici mod.

mercoledì, ottobre 25, 2023

Georgie Fame

GEORGIE FAME fu, giovanissimo, uno degli act più seguiti dalla scena original mod dei primi 60’s, grazie ad un repertorio fedelmente vicino al rhythm and blues più genuino.
Look cool, gusto impeccabile, suoni e grooves perfetti e sinceri, tastierista eccellente, cantante raffinato.

Fu l’unica band bianca ad essere inserita nel tour inglese della Motown nei mid 60’s a fianco di Supremes, Stevie Wonder, Martha & the Vandellas.

La carriera di Georgie Fame conoscerà in seguito numerosi alti e bassi, ma il suo nome tornerà periodicamente ai vertici.
Si muoverà spesso tra jazz e album più leggeri, ma soprattutto come tastierista di Van Morrison, nei Rythm Kings di Bill Wyman e come turnista di Eric Clapton, Count Basie, Muddy Waters, Verve.
Rhythm and Blues at the Flamingo (1964)
Esordio live registrato con i Blue Flames in uno dei templi della scena mod.
La band si destreggia maginificamente tra modern jazz, rhythm and blues, latin soul, ska, perfetta fotografia della scena londinese dell'epoca.

20 Beat classics (1982)
Compilation di altissima qualità e classe in cui sono raccolti i successi dell'era beat, da "Yeh Yeh" a "Get On The Right Track, Baby", "In the meantime", "Sunny", "Green onions".

Sweet Things (1966)
L'ecletticità di Fame si palesa in questo primo album senza più i Blue Flames, passando da soul ("My girl") a latin ("Dr.Kitch") a pop, rhythm and blues ("Ride your pony" e "The whole world shaking") a soul beat ("Music talk"), souljazz alla Booker T. ("The in crowd").
Alla batteria Mitch Mitchell che qualche mese dopo fu scelto per la nuova avventura con la Jimi Hendrix Experience.
Alla tromba Eddie Thornton che suonerà poi in "Got to get to into my life" dei Beatles.

Seventh Son (1970)
Un album in cui si sposta agevolmente tra suadenti ballate, brani soul jazz (stupenda la cover sdi "Seventh Son"), un classico come "Somebody stole my thunder", puntate nel vaudeville/cabaret (la conclusiva "Vino Tequilla"), un pizzico di funk qua e là.

Georgie Fame (1974)
Album oscuro e dimenticato che in anni di glam, hard e prog, non esita a passeggiare in un contesto souleggiante, funk, con retaggi Sixties, deliziose canzoni a volte soffuse e avvolgenti, con taglio jazz, altre più ritmate e rock. Lavoro di grande pregio.

How Long Has This Been Going On (1995)
Tell Me Something: The Songs of Mose Allison (1996)
A lungo (e attualmente) collaboratore di Van Morrison, nel primo album i due si divertono con un po' di cover e brani di Van, registrati dal vivo al Ronnie's Scott con anche Pee Wee Ellis della band di James Brown al sax.
Nel secondo invece si occupano del repertorio del mitico Mose Allison che li affianca nelle registrazioni.
Due lavori di sofisticatissimo swing, jazz, blues, al livello più alto.

martedì, ottobre 24, 2023

Russia. Febbraio 2023 #5

L'amico SOULFUL JULES, abituale frequentatore, per motivi di lavoro, dell'ex Urss, ci introduce nel clima di alcune zone, tristemente famose in questi giorni.
Ci aiuta a capire e ad approfondire, al di fuori di divisioni ideologiche, polarizzazioni, supposizioni.


Le precedenti puntate di "Tales from ex Urss" sono qui: https://tonyface.blogspot.com/search/label/Tales%20from%20Ex%20Urss

PARTE #5

La mattina seguente sono dal nostro grossista fino a ora di pranzo.
Diamo un’occhiata ai dati, anche se si parla del primo mese dell’anno le vendite sono in crescita.
Ci raggiunge anche la signora che segue la logistica, Tatjana, una moretta che ha passato da un po’ la cinquantina, capelli corti e occhiali con la montatura tonda e sottile come Harry Potter.
Non abbiamo molto da discutere, da diversi mesi abbiamo alzato le scorte di magazzino perché i tempi di consegna si sono allungati.
Per la sola produzione, dal momento in cui riceviamo l’ordine a che la merce è pronta, serve circa un mese e fin qua tutto ok.

Il problema è che poi il cliente deve trovare un camion che attraversi l’Europa e una volta arrivato nei paesi baltici o al confine della Bielorussia faccia il trasbordo dei pallet perché ai veicoli russi non è permesso circolare nell’Unione Europea e viceversa.
Col trasporto ci balla un mese circa e una volta arrivata a Mosca, la merce viene scaricata nella sede centrale del cliente e poi spedita alle varie filiali o direttamente ai produttori di mobili in giro per tutta la Russia, per cui ci vuole un’altra settimana.
Sempre che non ci siano file esagerate ai confini o che i funzionari delle dogane russe, polacche o estoni non si fissino su una descrizione poco chiara, un puntino o una lettera fuori posto nei documenti.
In più, ultimamente, c’è il problema dei pagamenti, sempre meno banche gestiscono bonifici in arrivo dalla Russia e in alcuni casi i soldi impiegano fino a tre settimane per essere depositati nel conto del fornitore.
Per non correre rischi abbiamo aumentato le giacenze in Russia e questo tipo di gestione sta dando i suoi frutti.

Eppure Tatjana vuole parlare con me di persona, dice che non si fida a discutere di certe cose al telefono.
“Cosa sta succedendo da voi?”
Dice voi come se fossimo la Corea del Nord, un paese chiuso, difficile da decifrare, in mano a forze oscure.
“Cosa dicono delle sanzioni?“Boh, se sapessi cosa stanno decidendo a Bruxelles ci starei già speculando.”
“Sì ma alla tv cosa dicono? Magari avete informazioni che noi non abbiamo.”

“Mmhh, no, devono mettersi d’accordo in venti e passa stati, finché non hanno deciso di solito non danno notizie.”
“Ha! Quindi non vi dicono di cosa discutono?” insiste compiaciuta, un’altra conferma che siamo tenuti all’oscuro di tutto. Poi elabora un po’:
“Da noi se stanno parlando di un disegno di legge ce lo dicono alla tv, così siamo preparati. Da voi no invece?”
“Senta ma lei, quando il 23 febbraio dell’anno scorso è andata a dormire, sapeva esattamente cosa sarebbe successo il giorno dopo? Glielo avevano detto alla tv? Era preparata?”

Tatjana sorride, con un’aria di sufficienza, come la nonna che spiega certe ovvietà al nipotino:
“Guardi, nella mia vita, l’unica cosa a cui non ero preparata, l’unica cosa che mi ha veramente sconvolta è stato il crollo dell’Unione Sovietica.
Dopo di quello ho capito che sono pronta a qualsiasi cosa.”

chiude soddisfatta, si rigira le maniche lunghe del maglione nero, i pollici escono da uno strappo laterale, fatto apposta, in stile punk, come i pantaloni che indossa, in pelle o finta pelle color rosso, che pare vestita come Steve Jones, il chitarrista dei Sex Pistols, nel 1976 o giù di lì.

Negli anni ’80 i punk erano schifati dall’establishment sovietico, erano visti come una forma di degenerazione del sistema capitalistico, adesso una signora di mezza età può andare in ufficio con una mise in stile bondage e non se la caga nessuno.

A pranzo esco con Vasja che mi porta in un ristorante italiano.
Riprendiamo il discorso di Tatjana, quando è caduto l’Urss lei aveva una ventina d’anni, si rendeva conto conto di quello che stava succedendo.
Vasilij invece era un bambino, andava in prima elementare, che qua incomincia a sette anni. Si ricorda bene di quel periodo.
“Non c’erano soldi. Volevo giocare a hockey e i miei non potevano comprarmi la mazza e i pattini. È per quello che mia mamma mi ha mandato a fare boxe. I guantoni costavano meno.”

Parla di un tempo per lui lontano, dalla prospettiva di un bambino che vedeva un mondo senza colori sgretolarsi, la miseria, il caos, le bande armate che facevano il bello e cattivo tempo nelle grandi città come nelle provincie, un brutto ricordo ormai sbiadito.
Fruga un po’ tra i pensieri, lo sguardo velato dalle memorie di trent’anni fa, poi, quasi sorpreso dalla possibilità di dimenticarsi una cosa importante, aggiunge:
“I miei erano militari e avevano diritto a un vaso di caviale a testa, quello rosso, con le palline grandi. Non so quanto gliene davano ma mi pareva che a casa ci fosse solo quello da mangiare. Non ne potevo più e mia madre che insisteva, perché c’erano le proteine. Per anni non ho più toccato il caviale rosso.”

Forse è anche per le ristrettezze patite durante l’infanzia che Vasilij mangia quasi esclusivamente carne, se potesse si farebbe anche il dessert a base di manzo.
La trattoria che ha scelto è all’interno di un centro commerciale, moderno, luminoso e pulito.
Trasmettono musica funky in filodiffusione, al piano terra ci sono banchi con insaccati di qualità, frutta secca dalla Turchia e dall’Asia Centrale.
Diversi negozi hanno chiuso, quelli dei marchi che se ne sono andati, tipo H&M, Zara e Hugo Boss, le vetrine unte, le insegne impolverate.

Di contro sono comparsi brand russi con nomi italianeggianti, tipo Eleganza, Eterna Camicie, Marella, Gloria Jeans e le scarpe di Carlo Pazolini.

Per i corridoi cammina gente ben vestita, piumini leggeri, pellicce.
Tanti giovani, qualcuno in maniche corte.
Niente vecchi col montone, il colbacco o la pelliccia di Astrakhan.
Prima di andare a mangiare chiedo a Vasilij se mi cambia degli euro in rubli, in contanti. Ci fermiamo davanti a un bancomat per prelevare.
“Quanto prendo?”
“Non so, magari ne ho bisogno anche per il prossimo viaggio o per qualche emergenza. Ma poi non sono mai sicuro che ci sia una prossima volta.”

Vasilij fa una smorfia, come chi sta per perdere la pazienza: “Dici sempre la stessa cosa.”
“Vero ma ogni volta che ci vediamo la situazione peggiora.”

Vasilij ha scelto un posto fighetto, in stile loft, cemento, alluminio nero e legno scuro.
Alle pareti disegni di tizi con facce da mafiosi, stereotipi che vedi nei film. La cameriera che ci accoglie all’ingresso indossa un vestito lungo con uno spacco profondo sul davanti.
“Un paio di settimane fa ho visto Evgenij.” dice Vasilij. “Chi, quello che curava il nostro assortimento?” Evgenij è un ragazzo in gamba, sulla trentina, che si occupava dei nostri prodotti.
Quando hanno annunciato la mobilitazione era in Turchia, in ferie, e ha deciso di non tornare più a Mosca. Adesso vive a Dubai.
Vasilij annuisce: “È venuto a Mosca a prendersi un po’ di roba. Ha detto che non ha intenzione di tornare in Russia.”
“Cosa fa a Dubai?”
“Lavora per un intermediario, un’azienda che importa in Russia componenti di aeroplani e carri armati, roba che è stata sanzionata.”
Mi viene da ridere.
“È scappato perché non voleva andare in guerra e adesso importa roba per fare la guerra.”
Giriamo tutti due lo sguardo verso la vetrata che dà sul Leningradskoe Šosse, asfalto e acciaio, centinaia di automobili, furgoni e camion.
“Quando vieni la prossima volta?”
“Non lo so, te lo dicevo prima. Bisogna vedere.”
“Di cosa hai paura?
” mi incalza.
“Non so qua, ma da noi la menano con la controffensiva di Kiev. Chi lo sa cosa succede.”
Alza le spalle, come dire “cosa cambia?”
“Sono settimane che parlano di sistemi antimissilistici sui tetti, di attacchi coi droni su Mosca. Io non ho paura che mi cada un drone in testa ma è capace che chiudano lo spazio aereo, sospendono i voli e rimango bloccato qua.”
Inarca le sopracciglia, con l’aria di chi ha appena sentito una sciocchezza:
Non credo. Comunque puoi sempre volare verso oriente.”
“Ho capito ma non è la stessa cosa.”
“Bah tanto non succederà.”
chiude la questione.

“Senti ma voi come lo vedete qua Prigožin?”
“Quello della Wagner? Bene, è un tipo in gamba, capace.
Combatte, ottiene risultati.
Molti lo ammirano.
Dice le cose come stanno, un sacco di battaglie le ha vinte lui.”

L’elogio dell’uomo solo al comando, in un ristorante costoso, gli impiegati in pausa pranzo stravaccati sui divanetti, la forchetta in una mano e il telefono nell’altra.
“Ma tu, onestamente, come credi che finirà?” Stira un po’ la faccia, forse per cancellare qualche pensiero che gli passava per la testa.
“Secondo me la Russia terrà tutti i nuovi territori. Non può lasciarli andare. Sono zone cuscinetto e poi la regione di Zaporožija è strategica per garantire l’acqua alla Crimea. Ci vorrà del tempo, guarda la Cecenia. Ci hanno messo trent’anni ma adesso la questione è risolta, tutto tranquillo.”

Per raggiungere l’uscita del mall attraversiamo una galleria con gli store dei marchi italiani, sono rimasti tutti: Trussardi, Guess, Calzedonia, Falconeri, Geox, Piquadro, Benetton.
Incrociamo una ragazza con un cappotto rosa, occhiali con le lenti rosa e cappello rosa con la scritta Anything Is Possible. Armeggia con un Iphone con la cover rosa.

Rientrati in ufficio, carico i campioni nell’auto di Rafael, il tassista di origine armena che mi porta in giro per Mosca.
Assieme a noi c’è una venditrice del nostro distributore, Elena, una biondina che sul profilo di Whatsapp mette sempre foto in posizioni allusive, quest’estate era la scollatura in evidenza, adesso un’inquadratura da dietro, i pantaloni aderenti sul sedere e lei appoggiata a una ringhiera che pare stia facendo squat da quando spinge le chiappe. Poi la vedi di persona e ha il modo di fare di una catechista, la pelle del viso lucida e bucherellata, la silhouette meno armoniosa che sui social e ti verrebbe voglia di fare un esposto al Codacons, pubblicità ingannevole.

Ha una sorta di timore nei miei confronti, mi dà sempre del voi, io ricambio, cerco di metterla a suo agio, le faccio qualche domanda, giusto per non restare in silenzio. Piano piano prende coraggio, mi parla della guerra, anzi, della situacija.
“È difficile, le cose sono cambiate. Non possiamo neanche vedere Avatar 2.”

Il suo ex marito è originario di Luhansk, vive a Mosca da trenta anni ma la suocera è rimasta in Ucraina.
Dice che è stata buttata fuori dall’autobus perché chiacchierava in russo.
La cugina, di Odessa, non le parla più, si erano viste nel dicembre del 2021, avevano passato una settimana insieme, erano state bene.
Adesso non ne vuole più sapere.
“È uno schifo quando sei definito in base al tuo passaporto.” dico, penso alla moglie di mio fratello, una ragazza iraniana, a tutte le rogne che ha avuto per ottenere il visto e poi per aprire un conto corrente in Inghilterra, solo per il paese in cui è nata.
“Guarda la Germania nazista, come hanno iniziato, con gli ebrei. Sembra che adesso stiano facendo lo stesso con i russi.” commenta sopraffatta dal suo stesso stupore.
Evito di risponderle.

L’orizzonte è diviso in due, la metà inferiore chiara, brillante, il cielo color perla.
Usciti da Mosca la neve è ammassata ai bordi delle strade.
Siamo a Lobnja, una trentina di chilometri dalla capitale, i grattacieli colorati, tinte vivaci, arancio, indaco, lime.
Poi ci passi vicino e sono mezzi scrostati, una mano di pittura tanto per ravvivare il panorama, il marciapiedi una distesa di ghiaccio luccicante, un trampolino tra la strada bagnata e le aiuole imbiancate di neve. Gianna Nannini canta dei maschi disegnati sul metrò.
L’azienda che dobbiamo visitare è all’interno di un recinto tutto sgangherato, il cancello arrugginito che l’ultima volta che l’hanno chiuso era ancora presidente Gorbacёv.
Uffici e produzione sono in un capannone di mattoni rossi, roba di sessanta, settant’anni fa.
Quando Elena mi aveva detto il nome del cliente non avevo ben capito che azienda fosse, adesso invece ho riconosciuto la sala riunioni, ci sono già stato qua, prima della pandemia.
A ottobre, in fiera, ho litigato con il tecnico con cui abbiamo appuntamento.
Aleskandr girava per lo stand e metteva le mani dappertutto, come fosse il padrone di casa, pensava di poterselo permettere perché compra un po’ di reggiripiani e invece s’è beccato un cazziatone quando l’ho beccato che tirava un meccanismo a filo, per l’apertura delle ante verso il basso.
“Cosa sta facendo?” l’avevo interrogato a muso duro.
“Faccio i miei test.” aveva risposto tranquillo.
“Ma scusi, se voglio testare la vernice delle vostre cucine non vengo mica in negozio con un coltello?”
La cosa sarebbe finita lì se Aleksandr non si fosse messo a fare il gradasso, erano pieni di ordini, in Russia le cose andavano molto meglio di quanto dicessero da noi.
“E cosa dicono da noi? Visto che qua è pericoloso? Visto che sono tutti russofobi?”
Era stato zitto, aveva toccato ancora un po’ ma in maniera più accorta, con fare sdegnoso, un po’ offeso, poi se ne era andato.

E adesso me lo ritrovo davanti, dall’altro lato della scrivania, a dire il vero è tranquillo, parliamo come niente fosse, gli presento le novità.
Discutiamo per un’ora abbondante, senza tanta convinzione, io evito di spingere troppo, lui non si sbilancia.
Adesso vede, si farà mandare qualche campione da Elena, poi se ha tempo li testa.
Mi chiede se voglio ancora del tè ma è un po’ che sono distratto da un prurito all’occhio sinistro, una sensazione un po’ fastidiosa, come se avessi una ciglia incastrata che gratta quando sbatto le palpebre.
Rifiuto il tè e chiedo di usare il bagno.
Attraversiamo tutto il capannone, perché non ci sono toilette vicino alla sala riunioni e se a uno scappa forte peggio per lui.

Mi guardo allo specchio, ho un segno rosso sulla sclera, un taglietto.
Provo a toccarlo con la carta igienica ma niente, non è una cosa superficiale.
A questo punto vorrei davvero andarmene via ma Aleksandr insiste per mostrarci la produzione, si capisce che ci tiene e non si può rifiutare per quel meccanismo del tipo “Io vengo sempre a vedere il tuo stand alle fiere, adesso tocca a te.”

Non c’è niente di particolare, la struttura vecchia come il cucco, qualche macchinario italiano o tedesco e cumuli di trucioli ovunque.
Non hanno neanche un aspiratore.
Il tipo parla a mezza voce, non si sente niente per i rumori delle bordatrici in sottofondo e i miei pensieri in superficie.
“Che cazzo è ‘sta cosa dell’occhio? Mai successo prima. Mi sono sfregato?”
Alla fine Aleksandr ci molla, appena saliamo in macchina chiedo a Elena se avevo gli occhi rossi prima dell’incontro ma dice di no, non aveva notato niente.
“Rafael, può fermarsi in una farmacia che compro un collirio?” Rafael fa cenno di sì col capo, nessun problema.
La biondina ha l’aria preoccupata e mi chiede se ho mal di testa.
“No” rispondo dopo averci pensato un po’, “giusto un po’ di stanchezza.”
“Senta, vicino al suo albergo c’è una clinica privata. Che ne dice se provo a prenotarle una visita oculistica?” “Ok.”
Elena fa un paio di telefonate e dopo neanche cinque minuti mi conferma che mi ha fissato un appuntamento tra un’ora, il tempo di rientrare a Mosca.
Provo a riposarmi un attimo ma la biondina attacca di nuovo, con la voce lamentosa.
“Scusi se glielo chiedo ancora… ma è sicuro di non avere mal di testa?” “Mhh, no. Perché?” “Perché potrebbe avere la pressione alta.” Cazzo, anche la pressione alta adesso.

La clinica è in un complesso recente, all’ingresso, intenta a sistemarsi dei sacchettini blu sopra le scarpe, c’è una ragazza con le labbra gonfie e gli zigomi sporgenti, mi guarda con insistenza, forse abbozza un sorriso da sotto la maschera di botox o chissà quali preparati.
Credo sia una trans.
È raro vedere dei trans in Russia, qualche effeminato, qualche ragazza coi tratti e i modi mascolini li trovi in giro, anche nelle aziende, ma in tanti anni questa è la seconda persona trans che mi capita di incrociare, già non è una fase semplice quella del cambiamento, del passaggio da un sesso all’altro e qua, in un paese che a larga maggioranza crede che l’omosessualità sia una devianza o una malattia, la vita per queste persone dev’essere ancora più difficoltosa.
La ragazza si sistema le protezioni sopra le sneaker Balenciaga, roba da mille euro al paio, Elena e Rafael evitano di guardarla, quasi non fosse di fronte a noi.
La zona accettazione è luminosa e ordinata, i mobili in noce chiaro e panna dovrebbero trasmettere serenità e invece inizia a salirmi la paranoia. Al banco mi chiedono i documenti, l’impiegata è gentile e meticolosa, sorride, dopo qualche minuto mi dice di salire al terzo piano. Elena e Rafael mi seguono preoccupati. Li invito ad andare a casa, prenderò un taxi, è inutile che stiano qua con me, è tardi, che vadano pure.
Niente, non ne vogliono sapere: “Non se ne parla.” protesta Elena, non pare neanche lei dal tono perentorio.
“Noi restiamo qua finché lei non esce.”
Al terzo piano mi fanno accomodare in un ambulatorio spazioso, alla scrivania c’è una ragazza bionda che indossa casacca e pantaloni neri, si alza e mi viene incontro, è più alta di me.
Le racconto quello che è successo, osserva l’occhio e mi fa sedere davanti a un macchinario.
Misura tutto quello che c’è da misurare.
“Per quello che vedo io, è tutto a posto. Può essere che sia un graffio.” Non faccio in tempo a tirare un sospiro di sollievo che aggiunge:
“Adesso misuriamo la pressione.”
Mi fa distendere il braccio su di un piano, avvolge la fascia di pelle sopra il gomito con un manicotto che poi gonfia con la pompetta.
Seduta dall’altra parte del tavolo, tira la mia mano verso di sé e l’appoggia contro il seno, la trattiene lì qualche istante.
Sorpreso, alzo lo sguardo e vedo che ha gli occhi fissi sulla lancetta che oscilla.
“È alta.” sentenzia con una certa gravità.
Si ammosciano le speranze di un flirt in clinica e inizia a salirmi l’ansia.
“E adesso?”
“Adesso le faccio fare degli esami al cuore.”


Passo le due ore successive tra ambulatori, laboratori e sale di attesa.
Elena e Rafael seduti su un divanetto in silenzio, gli occhi bassi e l’espressione mesta, sono preoccupati per me e questa cosa mi fa sentire in difetto.
Dovrebbero essere a casa a preparare la cena, rilassarsi con un po’ di musica o una serie tv e invece sono qua con me.
Rafael abita fuori città, una volta finite le analisi e le visite mi deve riaccompagnare in albergo, poi un’altra ora di strada per tornare da sua moglie.
Elena non so dove stia di preciso, so solo che ha una figlia che l’aspetta, mi assicura che è tutto a posto e mi mette ancor di più in imbarazzo
. Soltanto un paio di ore fa ero impegnato a registrare le sue preoccupazioni.
Ti sentivi superiore mentre annotavi sul telefonino, per via di quel tuo sguardo illuminato, l’imparzialità di chi non ha niente da perdere, basta poco per fare bella figura con questi poveri cristi.
E se ti volti e te li trovi accanto, è perché ci tengono, senza tanti calcoli, non stanno lì a pensare se questa gentilezza aumenta il loro fatturato.
Certo, non è colpa di nessuno, sono cose che succedono ma se ripenso alle ultime settimane è chiaro che ho tirato troppo la corda.

È iniziato tutto con Bristol, dopo le vacanze di Natale.
Mi avevano invitato a mettere i dischi.
Volo, albergo pagato e un buon cachet.
Non era per i soldi che avevo accettato ma per l’opportunità di suonare davanti a più di trecento persone, tre sere di fila.
Ragazzi e ragazze, tutti sotto i trent’anni, una botta di energia e quella sensazione di onnipotenza che si prova ogni volta che riesci a far muovere una stanza piena di gente secondo il flusso dei tuoi dischi.
Soul, funk, jazz, r&b.

L’ordine lo stabilisci tu, un po’ ti prepari e un po’ segui il dancefloor, l’insieme, la moltitudine che diviene una sola entità, pulsante e piena di vita mentre segue la corrente dei tuoi sette pollici, il ritmo che corre e poi rallenta, qualche canzone strana che il pubblico raccoglie con entusiasmo e poi uno o due classici che fanno esplodere la pista.
E tutti che ti guardano e ti sorridono, sei il cuore della festa, per un paio di ore ti trattano come un divo e ti senti nel tuo elemento.
Non era per i soldi ma per quell’esplosione di vitalità che ero andato e l’avevo pagata tutta la settimana dopo, a casa come al lavoro.
La spossatezza, le distrazioni, i pensieri a ritroso, i flash delle serate, le mosse di un gruppetto di ragazze sul riff di chitarra che lanciava il break di percussioni, e anche se per un paio di giorni avevo faticato a gestire la vita lavorativa e familiare, anche se avrei avuto bisogno di una settimana di riposo per riprendermi del tutto, continuavo a ripetermi che ne era valsa la pena.

Neanche il tempo di tirarmi in qua che poi ero andato in Armenia, a Yerevan, questa volta senza la borsa dei dischi ma con il campionario.
Il volo notturno, l’ennesimo taxi, la periferia con le case mezze diroccate e gli edifici più curati man mano che ci si avvicinava al centro, le facciate di tufo, color malva.
Sullo sfondo, imponente, il monte Ararat che copre la parte superiore del paesaggio con i sui cinquemila e rotti metri di altezza, la cima innevata. Le insegne dei negozi in russo e armeno, quasi illeggibile come lingua. La loro e simile alla nostra t, la a uguale alla u mentre la l pressoché invariata. L’incontro con il distributore, le analisi di mercato, i progetti per l’anno a venire.
“Che progetti vuoi fare con una guerra in corso?”
Aveva quasi perso la pazienza Garry a quella domanda di routine.
Ah sì la guerra, un altro conflitto.
Roba mia, no roba mia.

lunedì, ottobre 23, 2023

La storia degli impianti voce

Riprendo l'articolo che ho scritto sabato per Il Manifesto nell'inserto Alias dedicato a una breve storia degli IMPIANTI VOCI.

Quando i Beatles salirono per l'ultima volta su un palco insieme, il 29 agosto 1966 al Candlestick Park di San Francisco, si ritrovarono in mezzo a uno stadio di baseball, circondati, lontanissimi, sulle tribune, da 25.000 ragazzi e ragazze costantemente urlanti. Per i Fab Four c'erano due monitor agli angoli anteriori del palco, gli amplificatori con un microfono ciascuno e la batteria con la sola cassa microfonata.
Il tutto confluiva negli altoparlanti dello stadio utilizzati per i comunicati durante le partite.
Il rock era diventato grande, non più di pertinenza di piccoli locali o teatri ma una faccenda da stadi, pur trattandosi, in questo caso, ancora di un'eccezione.
Il garbo con cui veniva proposta fino ad allora la musica dal vivo dovette fare i conti con sonorità sempre più dure, chitarre elettriche, organi Hammond, batterie pulsanti e travolgenti, vocalità prorompenti, a beneficio di un pubblico sempre più ampio che non stava più nei piccoli spazi.

Fu l'ultimo concerto dei Beatles, sfiniti da una situazione che non gli permetteva più di suonare adeguatamente, tanto meno di sentirsi. Ringo Starr ha più volte dichiarato che negli ultimi tempi per sapere a che punto fosse il pezzo doveva basarsi sui movimenti dei compagni.

Paul, John e George spesso erano costretti a osservare su quali note stavano andando le mani degli altri per capire in che tonalità fosse la canzone.
Probabilmente con a disposizione gli impianti voce che qualche anno dopo sarebbero diventati la normalità, avrebbero considerato con più benevolenza l'ipotesi di riprendere a suonare dal vivo.
Ci volle un anno ma già dal Monterey Pop Festival del giugno 1967 le cose cambiarono radicalmente con l'arrivo di quello che é l'antesignano dei moderni PA.

LA STORIA
Gli albori del concetto di amplificazione risale agli Antichi Greci e all’Impero Romano, grazie ai principi dell’architetto Vitruvio che concepiva gli anfiteatri in maniera semicircolare con le sedute progressive verso l’alto a più livelli, sia per una veduta ideale dello spettacolo ma anche per catalizzare meglio il suono e consentire un ascolto ottimale. Anche in anni più recenti, la musica classica veniva composta in base al luogo in cui sarebbe stata suonata e proposta. La musica corale era solitamente lenta e solenne perché doveva essere ascoltata in chiese enormi e riverberanti. La musica sinfonica era grandiosa e maestosa perché il luogo d’ascolto erano grandi sale e teatri.

Allo stesso modo la musica da camera, che, come dice il nome, si suonava in stanze dalle misure contenute, era scritta in modo che si potessero distinguere archi e sfumature più veloci.
I compositori partivano da un concetto di musica già “mixata” scrivendo le parti specifiche di ogni strumento per ottenere l'equilibrio desiderato di ogni brano musicale.

Il termine PA è la contrazione di "Public Address", inteso come mezzo di comunicazione per raggiungere più persone possibili all'interno di stazioni ferroviarie, stadi, negozi, ospedali, aeroporti o hotel. Fino alla fine del XIX secolo, tutte le forme di comunicazione al pubblico venivano eseguite utilizzando l'acustica architettonica: non esistevano alternative praticabili per migliorare l'amplificazione del parlato.

Nel 1875 l'inventore e professore di musica britannico-americano David Edward Hughes creò il microfono a carbone.
Lo chiamò "microfono" per assonanza con il microscopio.
Nacque così il primo componente di un sistema PA moderno.
Poco prima della fine del secolo il fisico britannico Oliver Lodge inventò il primo altoparlante sperimentale a bobina al mondo, conosciuto come il "telefono urlante", alla base del principio che regola gli altoparlanti moderni: un diaframma fatto vibrare da una bobina mobile, il cui suono veniva poi amplificato da un corno svasato
. Nel 1906 l'inventore americano Lee DeForest crea l'Audion, primo dispositivo in grado di amplificare un segnale elettrico.
Edwin Jensen e Peter Pridham, ingegneri della società di elettronica americana Magnavox, durante una serie di test in laboratorio dal 1911 al 1915, collegarono un microfono e un altoparlante a una batteria da 12 volt, determinando il primo verificarsi di feedback acustico.

Il "Magnavox" diventa così il primo sistema PA elettrico al mondo, presentato a San Francisco il 24 dicembre 1915, con 100.000 persone che si affollarono per ascoltare la trasmissione di musica e discorsi natalizi.
L'impianto fu utilizzato dal presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson per parlare a una folla di 75.000 persone a San Diego. Anche la società britannica di telecomunicazioni Marconi per tutti gli anni Venti ha prodotto parecchi sistemi PA per fare fronte a un mercato sempre più in espansione ed esigente. Durante la seconda guerra mondiale vennero progressivamente perfezionati anche in funzione militare ma fino agli anni Cinquanta rimasero impianti di bassissima potenza, non superiori ai 25 watt.

Fu l'avvento del rock 'n' roll che impose la necessità di un'amplificazione che permettesse alle voci (e ad altri strumenti come fiati o pianoforte) di sentirsi sopra la potenza degli ampli da chitarra che arrivarono in breve tempo dai 50 ai 100 watt.

Negli anni Sessanta il problema divenne impellente perché molti locali non avevano impianti adeguati.
Proprio per questo molti gruppi incominciarono a portarsi un impianto voci, insieme agli strumenti, che fosse consono al loro sound. Molto spesso erano i gruppi a sistemare i volumi, non di rado regolandoli loro stessi durante il concerto, senza avere tecnici del suono in sala.
Quando i Beatles suonarono allo Shea Stadium di New York, nell'agosto del 1965, provarono ad ovviare al consueto problema che li attanagliava, distribuendo quattro casse da 175 watt ciascuna nello stadio per rendere intellegibile il suono.
Ma 42.000 persone urlanti produssero qualcosa come 140 decibel di rumore (pari a quello del decollo di un aereo a reazione), esattamente il doppio di quello dell'amplificazione.

Il fonico britannico Charlie Watkins è considerato come il "padre britannico dell'amplificazione".
Creò di fatto la disposizione mixer-amplificatore-altoparlante che figura ancora nella maggior parte dei sistemi PA contemporanei. Al Windsor Jazz & Blues Festival del 1967, Watkins presentò il suo sistema Slave PA, in grado di generare 1.000 W di potenza. Da questo momento le modalità inventate da Watkins divennero la norma nei festival musicali britannici.

Sempre nel 1967 John Meyer, successivamente fondatore della Meyer Sound Laboratories, fu il protagonista del leggendario Monterey Pop Festival per il quale elaborò un impianto di amplificazione a beneficio iniziale della Steve Miller Band.
"A quel tempo era tutto nuovo, con questo stile musicale completamente nuovo appena nato. Mi sono reso conto che avremmo dovuto iniziare a costruire un'intera nuova generazione di apparecchiature in grado di far fronte a questo livello di festival all'aperto. Monterey ha davvero aperto le cose. È stato un evento importante e sapevo che non sarebbe finita lì”.
Dal 16 al 18 giugno 1967 36.000 persone videro così all'opera Who, Hendrix, Janis Joplin, Canned Heat con un ascolto adeguato.

Nonostante nessuno si aspettasse il mezzo milione di persone, al Festival di Woodstock di sicuro era prevista una vasta affluenza di folla. Gli organizzatori si premurarono in anticipo per dare un ascolto adeguato al pubblico.
Michael Lang: “Saltò fuori questo pazzo di Boston che avrebbe voluto provarci. Bill Hanley aveva acquisito una certa fama sulla costa orientale, al Newport Folk Festival, al Newport Jazz Festival e ai concerti di Bill Graham al Fillmore East. Il suo obiettivo era semplice: dare a chi è seduto nell'ultimo posto la stessa esperienza di chi è in prima fila.” Con la sua troupe pianificarono di piazzare le casse su una piattaforma sopraelevata costruita con compensato e impalcature a 22 metri di altezza a sinistra del palco. Il sistema era progettato per fornire l'audio a 200.000 persone (secondo quanto riferito il più grande fino a quel momento) ma alla fine ha raggiunto le orecchie di 500.000 con una buona qualità.

Ai tempi Hanley non si rendeva conto che stava facendo la storia dell'audio.
Interessante, osservando foto e filmati dell'evento, di come siano stati utilizzati, rispetto alle abitudini odierne, pochissimi microfoni.
La batteria di Michael Shrive dei Santana o quella di Keith Moon degli Who ne hanno, ad esempio, non più di quattro (rullante, cassa, timpano e un panoramico).

Gli anni Settanta consacrano e perfezionano, stabilendo degli standard, il concetto di impianto voci. Nel febbraio del 1970 Bob Heil costruì un impianto appositamente per i Grateful Dead, apportando innovazioni mai sperimentate in precedenza, riuscendo, grazie a un sistema di microfonaggio particolare ad evitare che l’aumento del volume provocasse dei feedback durante il concerto.
L’impianto fu portato fino a 20.000 watt e accompagnò tutto il tour della band americana, diventando un riferimento per i futuri impianti di amplificazione, soprattutto per gli Who che lo ingaggiarono per il giro americano ed europeo di “Who’s next”.
Pete Townshend gli commissionò un’ulteriore evoluzione, riuscendo ad arrivare a una potenza sonora di 115 decibel, posizionando quattro altoparlanti nei quattro angoli dei palasport in cui suonava la band.
I Deep Purple provarono a rubare agli Who lo scettro di band più rumorosa del mondo ma senza successo. Nel 1976 Townshend e compagni al “The Valley” di Londra arrivarono a 126 Decibel. Bob Heil fondò la Heil Sound e lavorò con numerose altre band.

Nel 1973 Owsley Stanley, fonico e progettista ma soprattutto produttore e spacciatore di LSD creò sempre per i Grateful Dead l’impianto Wall Of Sound, un muro di casse dalla potenza di oltre 25.000 watt che permetteva alla band di suonare senza spie sul palco perché i musicisti suonavano davanti alle casse, ascoltando lo stesso suono di cui usufruiva il pubblico.
La band lo utilizzò fino agli inizi degli anni Ottanta quando una struttura del genere diventò obsoleta a fronte della possibilità di ottenere performance simili senza dovere spostare un’incredibile massa di materiale tecnico.
Nel 1974, la casa produttrice britannica Soundcraft rivoluzionò il settore con la Series 1, la prima console di missaggio integrata in un flight case, a 12 e 16 canali, diventato universale tra i mixer analogici.
Fu in questo periodo e grazie alla Soundcraft che il mixer incominciò ad essere posizionato di fronte al palco per ascoltare ciò che effettivamente arrivava al pubblico, modalità che al giorno d’oggi pare ovvia e scontata ma che ai tempi fu una vera e propria innovazione per una corretta fruizione del suono. Contemporaneamente con il potenziamento degli impianti si rese necessario fornire i musicisti di stage monitor o spie.
Bill Hanley progettò così delle casse inclinate a 45 gradi da posizionare a terra in direzione dei musicisti, collegate a un mixer indipendente da gestire direttamente dal palco in base alle esigenze di ogni singolo componente della band che poteva e può utilizzare il volume adatto. Un sistema ancora più che attuale.
Nel 1987, la Garwood Communications ha prodotto Radio Station, il primo sistema IEM wireless in commercio. Oltre a risolvere i problemi di volume del palco, il sistema ha anche dato ai musicisti la libertà di muoversi su palchi di grandi dimensioni e continuare a sentire il loro mix del monitor senza essere legati a un'unica posizione.

Anche se i Pink Floyd iniziarono a utilizzare cuffie sul palco già negli anni Settanta.
Sempre nel 1987 arriva il mixer audio digitale creato dalla Yamaha, il DMP7: un mixer automatizzato per consentire ai tastieristi di gestire la loro gamma sempre più complessa di tastiere e di modificare automaticamente le impostazioni durante gli spettacoli.
E che poi è stato fruito progressivamente da ogni strumentista.
Con il digitale la qualità del suono è sensibilmente migliorata, anche in virtù della possibilità di configurare i volumi dei canali e poterli “richiamare” automaticamente senza doverli fissare in modo potenzialmente non preciso.
Potendo inoltre perfezionare la qualità del mix sera dopo sera.

I mixer digitali possono gestire un'elaborazione maggiore, accogliere un numero infinito di effetti ed essere logisticamente più contenuti in grandezza, maneggevoli e precisi.
La conseguenza è stato il progressivo abbandono delle console analogiche. Un ulteriore miglioramento arrivò nel 1993 grazie a Christian Heil della Heil Sound che introdusse il V-DOSC un sistema di casse che rivoluzionò l’ascolto.
Precedentemente, la potenza che usciva dell’impianto si disperdeva sulla distanza ovvero chi era più vicino sentiva più alto, chi si trovava lontano riceveva volumi più bassi e meno fedeli.
Il nuovo sistema lavora con casse adiacenti che si rinforzano nel suono l’una con l’altra favorendo una dispersione del suono orizzontale ottimale che consente una qualità di ascolto (soprattutto nei locali) uguale per tutti gli spettatori.

La tecnologia ormai fornisce costanti margini di miglioramento e sofisticazione, continuando però a basarsi su quelle fondamenta descritte più sopra, risalenti all’era pionieristica del contesto. Spesso scontrandosi però con l’inadeguatezza dei locali o delle location che ospitano i concerti, a potere consentire il massimo dello sfruttamento delle capacità dei nuovi impianti per farci ascoltare la musica nel migliore dei modi. A un’evoluzione tecnologica non corrispondono, se non in rari casi, luoghi in cui i frutti del progresso possano essere assaporati nel giusto modo.

BOX 1
Gli Iron Maiden detengono il record di grandezza di un impianto voci, quando nel 1988 al Monsters of Rock Festival di Castle Donnington schierarono 360 casse Turbosound sviluppando mezzo milione di watt e raggiungendo un picco di 140 decibel durante il loro concerto (a cui parteciparono, davanti a oltre 100.000 persone, anche Van Halen, Kiss, Metallica, Guns n Roses).

BOX2
Dave Clegg, protagonista a lungo della scena soul inglese ha sottolineato quanto fosse importante la potenza e la qualità degli impianti all’interno dei locali che suonavano Northern Soul a metà degli anni Settanta nel nord dell’Inghilterra:
La musica funzionava al Wigan Casino (mitico locale, “patria” della scena Northern Soul nda) soprattutto per la sua acustica. C'era questa grandissima hall e se prendevi ad esempio un brano come Heaven Is In Your Arms degli Admirations e lo sentivi dal balcone suonava splendidamente. Poi ne compravi una copia, la portavi a casa e sembrava una canzoncina per bambini. Se la canzone aveva il ritmo giusto funzionava, con la gente che ballava come pazza facendo acrobazie.

BOX3 Dal libro di Fabio Fantazzini”Dread Inna Inglan” un passaggio che sintetizza l’importanza dei Soundsystem nella cultura anglo caraibica negli anni 70.
"I sound system, come altri esempi all'interno della diaspora nera, assumono la funzione di rappresentazione di un blocco sociale sistematicamente escluso dai vari organi del sistema. Si configurano come spazi di resistenza culturale rispetto all'esclusione e alla marginalizzazione della comunità nera da parte delle istituzioni.
In secondo luogo acquisiscono maggiore rilevanza politica in quanto vettori comunicativi di messaggi (siano essi la cronaca di un evento o inviti alla ribellione) durante il picco del conflitto da istituzioni inglesi e controcultura nera...i sound system oltre ad essere un luogo di divertimento, sono uno spazio pubblico di scambio di informazioni e di discussione. Il sound system britannico che, in particolare negli anni Settanta, diventa uno spazio politico e un potente vessillo identitario.
Rispetto al reggae registrato su disco e ai club del centro che suonano soul, il sound system è un luogo dove si celebra e si difende l'identità nera senza compromessi, dove si sperimentano nuove forme musicali che influenzeranno tutta la musica britannica (e non solo) nei decenni avvenire e dove si raccontano e condividono le vicende di una comunità al tempo letteralmente presa d'assalto da istituzioni, polizia ed estremisti di destra."

domenica, ottobre 22, 2023

Not Moving LTD in concerto

On the road again con i Not Moving L T D.

Venerdì 27 ottobre a La Spezia allo Shake Club La SpeziaLa Spezia con i Welcome Delay.
Sabato 28 ottobre a Como al Arci Joshua Blues Club APS con i Just Kids.

https://www.facebook.com/profile.php?id=100051397366697

sabato, ottobre 21, 2023

Intervista a RadioCittà Aperta

50 ANNI DI QUADROPHENIA, L’ULTIMO CAPOLAVORO DEGLI WHO
INTERVISTA AD ANTONIO BACCIOCCHI PER LA BOTTEGA DEL FORNO 23-10-2023

ORE 15

“Quadrophenia” è l’album MOD per eccellenza.
Paradossalmente è musicalmente il più lontano possibile dai gusti sonori dei MODS.
Rock dalle tinte hard, gonfiato di synth , archi, fiati, sinfonico, pomposo, con aperture alla musica classica, complesso, raffinato, elaboratissimo.
Ma l’omaggio di PETE TOWNSHEND e soci alla CULTURA MOD riesce a cogliere nel modo migliore l’anima mod.

A cinquant’anni dall’uscita discografica di Quadrophenia, Bacciocchi è in procinto di pubblicare per la Interno 4 Edizioni il volume Quadrophenia-Gli Who, la storia del disco e del film che hanno definito un genere.

https://www.radiocittaperta.it/landing/50-anni-di-quadrophenia-lultimo-capolavoro-degli-who-intervista-ad-antonio-bacciocchi-per-la-bottega-del-forno-23-10-2023/

www.radiocittaperta.it

venerdì, ottobre 20, 2023

Gil Scott Heron

Riprendo l'articolo che ho scritto per "Alias" de "Il Manifesto" lo scorso sabato, approfittando delle contemporanee uscite della graphci novel di Thomas Mauceri e Seb Piquet, “In search of Gil Scott Heron. The Godfather of rap” e del live “Legend in his own mind”, registrato nel 1983.

Su Gil Scott Heron ho iniziato un ulteriore lavoro di approfondimento che vedrà la luce nel 2025.

Gil Scott Heron è stato un faro nella "black culture", un infinito universo di spunti artistici, culturali, musicali, socio/politici. Un personaggio e un lascito che è necessario continuare ad approfondire, studiare, esaminare con cura, tanto è prezioso il contenuto che ha espresso nella sua convulsa vita.
Il suo ruolo eclettico e dalle molteplici sfaccettature (dapprima scrittore, poi, contemporaneamente, poeta, musicista e cantante, attivista politico), la sua vita unica, drammaticamente incredibile quanto intensa e furibonda, ne hanno fatto un riferimento culturale unico, inimitabile, tuttora attuale e moderno nei concetti espressi, dagli esordi a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, con le premonizioni su un futuro sempre più difficile e sempre meno giusto per gli afroamericani ma anche per i poveri, per i proletari, per gli esclusi.
Nei suoi testi, nelle sue parole, mezzo secolo fa erano già dipinte le fosche tinte che ci ritroviamo a vivere da ormai tanto tempo nella decadente società occidentale.
Il suo approccio artistico, diviso e allo stesso tempo unito dall'essere cantante, insegnante, musicista, compositore, oltre a un sagace, sarcastico, ironico intrattenitore, grande oratore (i suoi concerti sono sempre stati caratterizzati da lunghe introduzioni ai brani) è stato un esempio per generazioni di artisti e musicisti.

Ha dato il via (pur se ha sempre sdegnosamente rifiutato questa veste) a quello che conosciamo come rap (influenzato direttamente dagli amici Last Poets), con il primo album “Small talk at 125th Lenox” ha sperimentato con la musica, mischiando jazz, blues, rock, reggae, fusion, disco, funk, gospel, soul, ha usato il sarcasmo più caustico per attaccare le istituzioni e le icone intoccabili.
Nel 1970 si chiedeva in “Whitey on the moon” come mai i bianchi (whitey è un termine dispregiativo nei confronti dei bianchi con una connotazione linguistica che si contrappone a nigger) avevano speso tutti quei soldi per andare sulla Luna quando i neri vivevano in condizioni spesso disperate, senza coperture sociali, in periferie malsane.
In “Home is where the hatred is” del 1971 fotografa, in una terribile istantanea, il suo ritorno nel ghetto con l'incipit che riassume drammaticamente la situazione “Un tossico in controluce/me ne sto tornando a casa”.
Nel brano “Pieces of a man” dipinge, con rara intensità poetica, il dramma, descritto dal figlio, di un uomo a cui viene recapitata una lettera di licenziamento mentre la nonna, inconsapevole, “con la vecchia scopa di paglia non sapeva cosa stava facendo / non riusciva a capire che stava veramente spazzando via pezzi di un uomo”.
Nel 1977 è tra i primi ad avvertire l'urgenza sul pericolo nucleare parlandone esplicitamente in “We almost lost Detroit” a seguito di un incidente nucleare che per poco non interessò la popolosissima area di Detroit. Nel 1974 in quella che diventerà la sua principale hit, “The bottle”, ci parla della piaga dell'alcolismo.
Per scrivere il testo usò una modalità da giornalista d'inchiesta. Si mise in coda con gli alcolisti che ogni mattina aspettavano l'apertura del negozio di liquori del quartiere, ne ascoltò le difficili storie e le riportò nel brano, dandoci uno spaccato reale e spietato di un problema abitualmente nascosto e trascurato.

In “Winter in America” canta mestamente dell'inverno socio/politico americano dopo l'uccisione di chi stava per dare una nuova speranza al futuro delle nuove generazioni (soprattutto afroamericane): Martin Luther King e John Fitzgerald Kennedy.
Il suo brano più noto “The revolution will be televised”.
Mai canzone fu più male interpretata, ritenuta sempre come sorta di incitamento alla rivoluzione, in realtà, basta leggere il testo e ascoltare le sue spiegazioni:
“Una rivoluzione di qualunque colore sia, succede dentro a te. Una rivoluzione è prima di tutto mentale, arriva dalla mente. Se vuoi cambiare la tua vita, se vuoi che le cose intorno a te siano diverse, è necessario per prima cosa cambiare il modo in cui pensi." In sostanza non ci sarà nessun annuncio alla televisione per unirti alla “rivoluzione”.

Quella incomincia solo ed unicamente da te. L'infanzia in Tennesse con la nonna Lily, maestra di vita e di cultura, l'adolescenza con l'amico Karim Abdul Jabbar, uno dei più grandi cestisti americani di sempre, l'arrivo nella durissima New York degli anni Settanta nel quartiere di Chelsea dove “il 70% erano bianchi, il resto portoricani. E poi c'ero io”. Due romanzi, la laurea, la carriera musicale.

Gil Scott Heron, non si è mai capito come e perché, finisce poi nell'abisso delle dipendenze, le stesse della cui pericolosità aveva sempre “avvertito” i ragazzi del ghetto.
E' un inferno da cui non esce vivo.
La carriera sarà distrutta, la sua esistenza si consumerà per anni in condizioni sempre più disagevoli e drammatiche, finirà in prigione, per uscirne solo per incidere l'ultimo stupendo album “I'm new here” nel 2010, prima di lasciarci, l'anno dopo, per sempre.
Ma regalandoci l'ennesima lezione di vita, rifiutandosi, nella cover di “Me and the devil” del bluesman Robert Johnson di cantare la strofa “picchierò la mia donna finché non ne avrò abbastanza” (frase figurata che rappresentava il diavolo che si impadronisce di un uomo alcolizzato). “Ho sempre vissuto con delle donne che hanno fatto di tutto per me, non posso cantare una cosa del genere”.

Inaspettatamente il suo nome ritorna di attualità in questi giorni con due uscite non collegate tra loro ma di uguale importanza e spessore. Un live inedito di quasi due ore (finora reperibile solo su bootleg e incompleto), “Legend in his own mind”, registrato nel 1983 in cui uno strepitoso Gil suona, canta, interpreta, parla, si trasforma in quell'impareggiabile intrattenitore che era, giocando con le parole, i doppi sensi, i sensi diretti e spietati. Versioni di "The bottle", "Johannesburg", "We almost lost Detroit" spettacolari. Ottima qualità di registrazione, band in gran spolvero, Gil in formissima.

Ma è soprattutto curiosa e sorprendente una graphic novel pubblicata (in inglese) in Francia, a cura di Thomas Mauceri e Seb Piquet, “In search of Gil Scott Heron. The Godfather of rap”.
Gil è il protagonista indiretto del sincero e appassionato tentativo di uno studente francese di origine africana di incontrarlo per girare un documentario su di lui, cercando di vincerne la ritrosia. Le cose partono male ma, dopo numerosi tentativi di incontrarlo, rimedia una telefonata per sentirsi ripetere in maniera glaciale quello che il poeta e musicista ha sempre sostenuto: "Non ho nulla di interessante per te, tutto ciò che ho da dire lo dico nei miei testi. Non riesco a capire il motivo di fare un film su di me".

Gli ulteriori tentativi andranno sempre a vuoto, passando attraverso varie disavventure che rappresenteranno un percorso di formazione e di conoscenza, culturale e sociale, del complesso mondo afroamericano, vivendo il drammatico e drastico passaggio da Obama a Trump e continuando a dover fare i conti con discriminazione e razzismo. Constatando che dall'epoca in cui Gil Scott Heron mosse i primi passi ad oggi le cose non sono particolarmente diverse.
Stupendi i disegni, le citazioni, completa e competente la discografia ragionata e commentata alla fine.

E' una fortuna che di Gil si continui a parlare, ragionare, si tenga viva la memoria dell'uomo e dell'opera, tanto più importante in un'epoca di decadenza sociale e morale come quella che stiamo purtroppo vivendo.

"La vita è un cerchio. Finisci sempre da dove sei partito. Non esiste l'altra parte, non c'è via d'uscita." (Gil Scott Heron)