Riprendo l'articolo che ho scritto per "Alias" de "Il Manifesto" lo scorso sabato, approfittando delle contemporanee uscite della graphci novel di Thomas Mauceri e Seb Piquet, “In search of Gil Scott Heron. The Godfather of rap” e del live “Legend in his own mind”, registrato nel 1983.
Su Gil Scott Heron ho iniziato un ulteriore lavoro di approfondimento che vedrà la luce nel 2025.
Gil Scott Heron è stato un faro nella "black culture", un infinito universo di spunti artistici, culturali, musicali, socio/politici. Un personaggio e un lascito che è necessario continuare ad approfondire, studiare, esaminare con cura, tanto è prezioso il contenuto che ha espresso nella sua convulsa vita.
Il suo ruolo eclettico e dalle molteplici sfaccettature (dapprima scrittore, poi, contemporaneamente, poeta, musicista e cantante, attivista politico), la sua vita unica, drammaticamente incredibile quanto intensa e furibonda, ne hanno fatto un riferimento culturale unico, inimitabile, tuttora attuale e moderno nei concetti espressi, dagli esordi a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, con le premonizioni su un futuro sempre più difficile e sempre meno giusto per gli afroamericani ma anche per i poveri, per i proletari, per gli esclusi.
Nei suoi testi, nelle sue parole, mezzo secolo fa erano già dipinte le fosche tinte che ci ritroviamo a vivere da ormai tanto tempo nella decadente società occidentale.
Il suo approccio artistico, diviso e allo stesso tempo unito dall'essere cantante, insegnante, musicista, compositore, oltre a un sagace, sarcastico, ironico intrattenitore, grande oratore (i suoi concerti sono sempre stati caratterizzati da lunghe introduzioni ai brani) è stato un esempio per generazioni di artisti e musicisti.
Ha dato il via (pur se ha sempre sdegnosamente rifiutato questa veste) a quello che conosciamo come rap (influenzato direttamente dagli amici Last Poets), con il primo album “Small talk at 125th Lenox” ha sperimentato con la musica, mischiando jazz, blues, rock, reggae, fusion, disco, funk, gospel, soul, ha usato il sarcasmo più caustico per attaccare le istituzioni e le icone intoccabili.
Nel 1970 si chiedeva in “Whitey on the moon” come mai i bianchi (whitey è un termine dispregiativo nei confronti dei bianchi con una connotazione linguistica che si contrappone a nigger) avevano speso tutti quei soldi per andare sulla Luna quando i neri vivevano in condizioni spesso disperate, senza coperture sociali, in periferie malsane.
In “Home is where the hatred is” del 1971 fotografa, in una terribile istantanea, il suo ritorno nel ghetto con l'incipit che riassume drammaticamente la situazione “Un tossico in controluce/me ne sto tornando a casa”.
Nel brano “Pieces of a man” dipinge, con rara intensità poetica, il dramma, descritto dal figlio, di un uomo a cui viene recapitata una lettera di licenziamento mentre la nonna, inconsapevole, “con la vecchia scopa di paglia non sapeva cosa stava facendo / non riusciva a capire che stava veramente spazzando via pezzi di un uomo”.
Nel 1977 è tra i primi ad avvertire l'urgenza sul pericolo nucleare parlandone esplicitamente in “We almost lost Detroit” a seguito di un incidente nucleare che per poco non interessò la popolosissima area di Detroit. Nel 1974 in quella che diventerà la sua principale hit, “The bottle”, ci parla della piaga dell'alcolismo.
Per scrivere il testo usò una modalità da giornalista d'inchiesta. Si mise in coda con gli alcolisti che ogni mattina aspettavano l'apertura del negozio di liquori del quartiere, ne ascoltò le difficili storie e le riportò nel brano, dandoci uno spaccato reale e spietato di un problema abitualmente nascosto e trascurato.
In “Winter in America” canta mestamente dell'inverno socio/politico americano dopo l'uccisione di chi stava per dare una nuova speranza al futuro delle nuove generazioni (soprattutto afroamericane): Martin Luther King e John Fitzgerald Kennedy.
Il suo brano più noto “The revolution will be televised”.
Mai canzone fu più male interpretata, ritenuta sempre come sorta di incitamento alla rivoluzione, in realtà, basta leggere il testo e ascoltare le sue spiegazioni:
“Una rivoluzione di qualunque colore sia, succede dentro a te. Una rivoluzione è prima di tutto mentale, arriva dalla mente. Se vuoi cambiare la tua vita, se vuoi che le cose intorno a te siano diverse, è necessario per prima cosa cambiare il modo in cui pensi." In sostanza non ci sarà nessun annuncio alla televisione per unirti alla “rivoluzione”.
Quella incomincia solo ed unicamente da te. L'infanzia in Tennesse con la nonna Lily, maestra di vita e di cultura, l'adolescenza con l'amico Karim Abdul Jabbar, uno dei più grandi cestisti americani di sempre, l'arrivo nella durissima New York degli anni Settanta nel quartiere di Chelsea dove “il 70% erano bianchi, il resto portoricani. E poi c'ero io”. Due romanzi, la laurea, la carriera musicale.
Gil Scott Heron, non si è mai capito come e perché, finisce poi nell'abisso delle dipendenze, le stesse della cui pericolosità aveva sempre “avvertito” i ragazzi del ghetto.
E' un inferno da cui non esce vivo.
La carriera sarà distrutta, la sua esistenza si consumerà per anni in condizioni sempre più disagevoli e drammatiche, finirà in prigione, per uscirne solo per incidere l'ultimo stupendo album “I'm new here” nel 2010, prima di lasciarci, l'anno dopo, per sempre.
Ma regalandoci l'ennesima lezione di vita, rifiutandosi, nella cover di “Me and the devil” del bluesman Robert Johnson di cantare la strofa “picchierò la mia donna finché non ne avrò abbastanza” (frase figurata che rappresentava il diavolo che si impadronisce di un uomo alcolizzato). “Ho sempre vissuto con delle donne che hanno fatto di tutto per me, non posso cantare una cosa del genere”.
Inaspettatamente il suo nome ritorna di attualità in questi giorni con due uscite non collegate tra loro ma di uguale importanza e spessore. Un live inedito di quasi due ore (finora reperibile solo su bootleg e incompleto), “Legend in his own mind”, registrato nel 1983 in cui uno strepitoso Gil suona, canta, interpreta, parla, si trasforma in quell'impareggiabile intrattenitore che era, giocando con le parole, i doppi sensi, i sensi diretti e spietati. Versioni di "The bottle", "Johannesburg", "We almost lost Detroit" spettacolari. Ottima qualità di registrazione, band in gran spolvero, Gil in formissima.
Ma è soprattutto curiosa e sorprendente una graphic novel pubblicata (in inglese) in Francia, a cura di Thomas Mauceri e Seb Piquet, “In search of Gil Scott Heron. The Godfather of rap”.
Gil è il protagonista indiretto del sincero e appassionato tentativo di uno studente francese di origine africana di incontrarlo per girare un documentario su di lui, cercando di vincerne la ritrosia. Le cose partono male ma, dopo numerosi tentativi di incontrarlo, rimedia una telefonata per sentirsi ripetere in maniera glaciale quello che il poeta e musicista ha sempre sostenuto: "Non ho nulla di interessante per te, tutto ciò che ho da dire lo dico nei miei testi. Non riesco a capire il motivo di fare un film su di me".
Gli ulteriori tentativi andranno sempre a vuoto, passando attraverso varie disavventure che rappresenteranno un percorso di formazione e di conoscenza, culturale e sociale, del complesso mondo afroamericano, vivendo il drammatico e drastico passaggio da Obama a Trump e continuando a dover fare i conti con discriminazione e razzismo. Constatando che dall'epoca in cui Gil Scott Heron mosse i primi passi ad oggi le cose non sono particolarmente diverse.
Stupendi i disegni, le citazioni, completa e competente la discografia ragionata e commentata alla fine.
E' una fortuna che di Gil si continui a parlare, ragionare, si tenga viva la memoria dell'uomo e dell'opera, tanto più importante in un'epoca di decadenza sociale e morale come quella che stiamo purtroppo vivendo.
"La vita è un cerchio. Finisci sempre da dove sei partito. Non esiste l'altra parte, non c'è via d'uscita."
(Gil Scott Heron)
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