giovedì, marzo 09, 2023

Mosca e San Pietroburgo. Settembre 2022 - Parte #4



L'amico SOULFUL JULES, abituale frequentatore, per motivi di lavoro, dell'ex Urss, ci introduce nel clima di alcune zone, tristemente famose in questi giorni.
Ci aiuta a capire e ad approfondire, al di fuori di divisioni ideologiche, polarizzazioni, supposizioni.


Mosca e San Pietroburgo. Settembre 2022 - Quarta parte.

La prima parte qui:
https://tonyface.blogspot.com/2023/02/mosca-e-san-pietroburgo-settembre-2022.html

La seconda parte qui:
https://tonyface.blogspot.com/2023/02/mosca-e-san-pietroburgo-settembre-2022-2.html

la terza parte qui:
https://tonyface.blogspot.com/2023/03/mosca-e-san-pietroburgo-settembre-2022.html

Le precedenti puntate di "Tales from ex Urss" sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/Tales%20from%20Ex%20Urss

Il giorno dopo atterro a San Pietroburgo prima di pranzo, il cielo è grigio e basso, sembra un altro posto rispetto a un paio di mesi fa.
In periferia ci sono decine di gru, nuove costruzioni, grattacieli di trenta piani, l’estetica moderna, pulita e i colori sgargianti, arancio, verde pisello, lime.
Le forme asimmetriche e i tetti spioventi comunicano audacia da parte dei progettisti contemporanei, la volontà di cambiare il panorama, trasmettono energia e freschezza rispetto ai casermoni sovietici, quelli che ancora resistono sono sminuiti anche nelle dimensioni.

Il taxi attraversa il quartiere Šušari, dal finlandese Suosaari, isola in mezzo alla palude, duecento anni fa era un territorio circondato dagli acquitrini e ospitava trecento persone, oggi ci sono milioni di metri cubi di cemento, la zona è piena di fabbriche. Toyota, General Motors, Procter & Gamble, Scania, Coca Cola, Phillips.

Allargando l’orizzonte, il paesaggio è rivoluzionato rispetto a venti anni fa, oggi è moderno e geometrico ma se restringi il campo, il ciglio della strada è rimasto pieno di erbacce, lamiere, fango e detriti dei cantieri.
Percorriamo il Ligovskij Prospekt e ci avviciniamo al centro, resiste qualche vecchio muro di recinzione, in attesa di un nuovo complesso residenziale. Il cielo si confonde con il grigio dei palazzi e delle vie, sembra un film di Wim Wenders, e gli unici dettagli colorati sono bigliettini rosa e verde fluo appicciati sui muri e sui gabbiotti alle fermate dei bus, sopra c’è stampato il nome di una ragazza, un numero di telefono e la promessa di relax.


A pochi passi dal mio albergo c’è la casa di Anna Achmatova, la poetessa che voleva essere chiamata poeta.
Mai letto neanche un verso ma il suo profilo spigoloso mi ha sempre incuriosito, la combinazione dei tratti del viso spezzettati, severi e la malinconia evocativa del suo sguardo, una bellezza che ha incantato legioni di intellettuali, artisti e amanti della poesia.
L’appartamento-museo è in centro, all’ultimo piano di un palazzo che si trova all’interno di un parco, per raggiungerlo si attraversa un vicoletto, le pareti ricoperte di scritte fatte coi pennarelli. L’esposizione parte dalle mura del giardino che incorporano, letteralmente, installazioni cementificate.
Stoviglie di porcellana, posate, pezzi di mobilio, un paltò nero che esce per metà dall’intonaco, piastrelle di maiolica, tante dediche e citazioni che danno vita al museo, lo rendono interattivo; i visitatori partecipano e lasciano una parte di sé, un tributo che cambia lo spazio e lo rinnova regolarmente, un gesto d’amore pulsante.

All’ultimo piano di una palazzina nobiliare, con i soffitti stuccati, c’è l’abitazione dove Anna Achmatova ha trascorso buona parte della sua vita.
L’ingresso è spazioso, sulla parete pitturata di verdino è appeso il cappotto doppiopetto di uno dei suoi compagni, Nikolaj Punin, le spalle deformate dalla gruccia, il tessuto grigio opacizzato dal tempo.
È lì dall’agosto del 1949, quando Punin venne arrestato con l’accusa di terrorismo e attività controrivoluzionaria.
Morì in prigione nel 1953 e venne riabilitato quattro anni dopo.
Questo il primo oggetto descritto dall’audioguida, poi fai fatica a dimenticartelo, anche quando guardi i quadri appesi, i mobili in legno massiccio, le foto sfocate e le cose di Anna.
Si trasferì in questo appartamento nel 1924 che era una celebrità, in quel periodo le fabbriche sovietiche producevano una statuetta di porcellana che la raffigurava con lo sguardo malinconico, il busto fasciato da una tunica bianca, un mantello sulle spalle e la testa china di lato. Un oggetto pop venduto in milioni di pezzi, un esemplare è conservato in una vetrinetta art deco, in quella che era la stanza di suo figlio Lev.

Poi anche per lei, come per Bulgakov e tanti altri, il vento cambiò direzione e dal 1926 al 1940 non poté pubblicare.
La casa dove abitava era una kommunal’ka, in ogni stanza viveva una famiglia e per un periodo si ritrovò come inquiline l’ex moglie e la figlia del compagno.
Per trent’anni visse nello stesso appartamento, spostandosi da un vano all’altro.
Con l’avvento del comunismo fu costretta a trovarsi un impiego come bibliotecaria e traduttrice di autori francesi e italiani, Hugo e Leopardi tra gli altri. In corridoio troviamo un biglietto in cui chiede in prestito qualche copeco a una vicina.
Anna, di famiglia nobile e ricca, che in gioventù aveva viaggiato per mezza Europa e che per un periodo era stata la più grande poetessa del paese, viveva ora in ristrettezze economiche, guadagnava pochissimo.
In questo palazzo, dove adesso è celebrata la sua vita e la sua arte, attraversò periodi di guerra e di pace, fasi di repressione e sporadici barlumi di apertura sociale e culturale.
Nel 1921 venne fucilato il suo primo marito, il poeta Nikolaj Gumilëv, con l’accusa di attività controrivoluzionaria; negli anni trenta furono ripetutamente arrestati il figlio Lev e il compagno e anche lei si ritrovò ai domiciliari, confinata nella sua stanza con l’obbligo di affacciarsi regolarmente alla finestra così che l’ufficiale di polizia, che era seduto su una panchina del parco, potesse tenerla d’occhio. Per molto tempo scrisse poco o niente, poi nel 1938 venne nuovamente incarcerato Lev e per più di un anno, quasi ogni giorno Anna si ritrovò a fare la fila fuori dalla prigione insieme ad altre madri, a “sciogliere il ghiaccio con le lacrime” mentre aspettavano il loro turno di visita. Un giorno, una donna che l’aveva riconosciuta, le domandò “Lei può descrivere tutto questo?” e Anna rispose “Posso”.

Questa la genesi del poema Requiem
, la spinta a donarsi ancora alla poesia, a scrivere e ricordare tutto a memoria; per paura di essere perquisita ricopiava i suoi versi su strisce di carta e obbligava le amiche ad impararli, prima di bruciarli.
I bigliettini ardevano in un piccolo posacenere a forma di calderone, in metallo ossidato. Oggi è sopra il mobile-scrittoio, nella penultima stanza, sulla destra è appoggiata la valigia in cui mise tutti i suoi averi quando le truppe tedesche assediarono Leningrado nel ’41 e lei venne evacuata a Taškent, in Uzbekistan.
Una vita in una borsa, bruciare per preservare, il ricordo nel silenzio.
Frasi, immagini e idee inghiottite per vergogna o per paura, il terrore che ammutolisce, il potere che strangola la parola.
Uscendo, nel giardino c’è una specie di lapide, in marmo, con dei versi di ottanta anni fa.

“Attraverso il bombardamento
Si sente una vocina infantile”


Sul muro, coperto di scritte, un’esortazione: Mečtaj sil’nee!
Sogna più forte!

È metà pomeriggio, il cielo violaceo, almeno non piove. Prima di rientrare in albergo voglio vedere la casa museo di Sergej Dovlatov, uno dei miei scrittori preferiti, brillante e cazzone, alcolizzato e sregolato, come tutti i russi geniali.

Costeggio un corso d’acqua che si immette nella Neva, una coppia di pensionati con il gilet di panno verde sistemano lenza e galleggiante sulla canna da pesca, chissà che buono il pesce del canale. Fuori dalla via principale, la prospettiva Nevskij, il ritmo è morbido, la gente rilassata come i turisti a Venezia, che camminano con la testa rivolta all’insù. Incrocio una coppia di ragazzi, faccia da russa con le labbra carnose lei, lui occhi a mandorla, indossa una mascherina e le stringe la mano forte forte, per non perderla. Passa un tizio con una bici elettrica nera, la forcella alta e rinforzata che sembra quella di un chopper, anche la tuta aderente è nera, come il caschetto, Diabolik al Tour di Mosca.
Dopo qualche minuto raggiungo Ulica Rubinšteina, una via trendy, le insegne di localini caratteristici su entrambi i lati, cafè, ristoranti, trentenni eleganti che fumano e ridono sul marciapiede, c’è una bella atmosfera.
Solo il piano terra è curato, più in su le facciate dei palazzi sono sgarrupate, scrostate, decine di cavi elettrici neri e spessi che si districano da gomitoli appesi al muro e raggiungono il lato opposto.
Alzo lo sguardo e il cielo pare imbrigliato in un reticolo. Cerco di fare una foto, di quelle un po’ studiate, con la prospettiva e la regola dei tre terzi ma i suv neri, parcheggiati lungo la strada, coprono metà della visuale.
Davanti a un palazzo, sul marciapiede, c’è una statua di bronzo di Sergej Dovlatov, la figura a grandezza naturale appoggiata alla cornice di una porta, anche quella in bronzo.
Sul volto la solita aria scazzata che ha nelle foto, i capelli spettinati, la barba incolta e il naso pronunciato, la camicia aperta sul petto e una mano sulla coscia. Una targa alla parete dice che in questo edificio Sergetto c’ha vissuto dal 1944 al 1975, 31 anni in una kommunal’ka, anche lui come Anna Achmatova, a pochi passi di distanza.


In Russia, nei libri di Dovlatov, sulla quarta di copertina è riportato, non senza ironia, che “è nato da evacuato ed è morto da emigrato”.
Venne alla luce a Ufa nel 1941, vicino agli Urali, lontano dalla Leningrado assediata da cui la sua famiglia era scappata, poco prima che Anna Achmatova raggiungesse Taškent. Morì a New York nel 1990, quando i suoi libri, inediti nell’Urss, iniziavano a vendere tra i russi espatriati.
Ne sentii parlare per la prima volta all’università, al terzo anno la docente di letteratura russa ci fece tradurre Čemodan, La Valigia, una raccolta di racconti.
Quell’estate ero a San Pietroburgo dal prof Saša, dopo pranzo mi mettevo con il testo fotocopiato e il dizionario Kovalëv sul tavolino in cucina, sopra la tovaglia in plastica cerata.
Già alle prime pagine rimasi conquistato dalla sua ironia asciutta e arguta, dalla capacità di rendere il senso di cose universali e complesse in poche parole, una frase al massimo, senza mai prendersi sul serio.
Nel racconto sui calzini finlandesi, quando parla dei suoi studi, dice che se esistono le scienze esatte, di contro, ci sono anche quelle inesatte, e il primo posto tra queste ultime spetta senza dubbio alla filologia.
Per questo si era iscritto alla facoltà di lingue, la stessa che frequentavo io a Venezia, città di acqua e pietra, come San Pietroburgo.
Ripresi in mano Dovlatov quando cominciai a viaggiare in Russia per lavoro, cercavo un modo coinvolgente per fare pratica con la lingua e lessi buona parte dei suoi libri in originale.
A parte la sua lucida cazzoneria, mi piace la mancanza di piagnisteo, di quella pesantezza esistenziale che invece rimane in molti scrittori russi, anche nei contemporanei, tipo Limonov - quello del romanzo di Carrère - e ci ho provato con il suo primo libro, Eto ja – beby Edička che in italiano hanno intitolato “Il poeta russo preferisce i grandi negri”, ma anche lì ho dovuto mollare, non sopportavo le lamentele, le difficoltà ad ambientarsi a New York, la malinconia e la nostalgia del suo paese. Limonov a casa c’è tornato dopo il crollo dell’Urss, una casa diversa da quella che aveva lasciato e che nel 1991 si chiamava Federazione Russa. Probabilmente anche Dovlatov sarebbe rientrato in patria dopo aver vissuto per undici anni in un paese che non capiva e che non lo capiva, nella condizione di tanti sovietici emigrati.
Raccontava le loro storie, di come avevano perso status e privilegi dopo il trasferimento a Brighton Beach, erano diventati cittadini americani ma rimanevano russi, e lui vedeva tutto, viveva in quella realtà ma era ben lontano dalla società e dalla cultura a stelle e strisce degli eighties.

Sul sito del museo-Dovlatov c’è scritto che l’ingresso è gratuito e che è aperto ventiquattro ore su ventiquattro.
Il problema è che non si capisce dove sia l’entrata. Allo stesso numero corrispondono una decina di portoncini, alcuni vecchi e scrostati, altri più recenti; guardo dappertutto ma non riesco a capire quale sia quello giusto.
Chiedo a due che stanno chiacchierando in strada, ne indicano uno alle mie spalle e mi spiegano che l’appartamento è al terzo o al quarto piano ma ci si può accedere soltanto su prenotazione, con le visite guidate.
Rispondo che sul sito è scritto diversamente, uno dei due allarga le braccia per dire “Fai come credi.”

Continuo a girare, poco convinto, faccio per imboccare l’ingresso che mi hanno mostrato ma esce uno con una bici da uomo sotto l’ascella, mi guarda e sputa per terra.
Scoraggiato, attraverso un vicolo che dà su un vialetto sporco e bagnato, le pareti delle case macchiate di muffa, per terra cumuli di immondizia, e sì che sembrava una via trendy.
Non ci vado in albergo senza un altro tentativo, torno indietro e afferro il pomolo del portone, si apre senza resistenza.
Salgo le scale, sento movimenti sopra di me, alzo la testa e vedo che sulla rampa ci sono una decina di persone in fila. Tombola! Mi aggrego e finalmente entro nell’appartamento di Sergej Dovlatov.
Quelli del gruppo mi guardano sorridendo, un po’ confusi.
Una ragazzina bionda con un impermeabile beige da uomo, tipo ispettore Colombo, spiega che ci troviamo all’interno di un palazzo nobiliare, indica le stuccature sul soffitto, una di quelle dimore requisite dai bolscevichi e redistribuite al popolo, in un appartamento come questo ci abitavano sette o otto famiglie, una per camera, con un bagno e una cucina in comune.
Non era uno spasso vivere in quelle condizioni, tra coinquilini era tutto un bisticcio o un’infamata; alle volte erano paranoici, altre soltanto meschini, potevano denunciarti perché era sparito il coperchio di una pentola. E poco importava se quel coperchio non era mai esistito, magari finivi in prigione lo stesso così liberavi la stanza. Dovlatov abitò lì con la prima e poi con la seconda moglie, e dopo il divorzio la prima moglie e la figlia si trasferirono nella sala accanto, nello stesso piano vivevano anche i genitori di Dovlatov, che erano i custodi di un teatro importante e godevano di qualche privilegio.
E anche per questo, per invidia, gli altri inquilini si lamentavano con le autorità e ogni tanto lo segnalavano, per attività antisovietica, per parassitismo, perché era sempre sbronzo, sai mai che si liberasse la sua stanza.

A metà del racconto la guida mi osserva, aggrotta le ciglia come se mi vedesse per la prima volta, si blocca e mi interroga:
“Scusi lei chi e?”
“Sono un fan italiano di Dovlatov.” borbotto imbarazzato “Ho cercato l’ingresso, poi vi ho visti salire e mi sono accodato.” mi giustifico con un sorriso ebete mentre tutti mi guardano. “Benissimo, ma come vede, io devo fare pagare ogni visitatore, il proprietario di questo appartamento me ne chiede conto” indica una telecamera appesa al muro, mi pare quasi di sentire un mormorio di approvazione da parte degli altri visitatori.
“Mi dica quanto le devo.”
“Facciamo dopo.” mi rassicura lei abbassando la mano.

“Sergej Donatovič visse in questa stanza fino al 1975, poi ci hanno abitato altre famiglie, guardate le foto alle pareti.”
Immagini in bianco e nero con donne, vecchi e bambini, una famiglia che sorride e si stringe attorno a una capra, sorride anche lei, in sei in una stanza con la capretta che fa le fusa.
“Poi qualche anno fa i coinquilini se ne sono andati e il proprietario ha trasformato questo spazio nel museo-Dovlatov.”
Sulle mensole, sopra la tavola e sul coperchio di un baule in legno sono disposti oggetti tipici del byt, della quotidianità degli anni cinquanta e sessanta, una macchina da scrivere Underud, un mobile radio, un frigo con la porta bombata, tutta rossa, una tv con lo schermo piccolo, chissà cosa riuscivano a guardarci.
La ragazza mostra un flexi appeso a un chiodo sul muro. È un bootleg, un disco pirata, che girava clandestinamente nell’Unione Sovietica.
Erano registrazioni proibite, generalmente di rock ‘n’ roll, che venivano incise sulle lastre delle radiografie, mette il flexi in controluce e ci mostra la zampa di un gatto.

“Il commercio e la diffusione erano assolutamente proibiti, si rischiavano tre anni di galera.”
La guida ci invita poi a guardare dalla finestra, il cortiletto interno è chiuso dalle mura di palazzi adiacenti, tra i due si apre una fessura di un paio di metri, coperta dai rami di un albero. Questo era quello che vedeva dalla sua stanza Dovlatov, due pareti sporche e umide e uno spicchio di cielo. Poi uno si domanda perché passava il tempo a ubriacarsi.
Per l’ultima parte della visita ci spostiamo in cucina, la ragazza controlla che non ci sia nessuno perché ancora oggi è utilizzata dalle altre famiglie che abitano in questo appartamento.

“Quante sono in tutto?” domanda un ragazzo.
“Sette o otto.”

Nel 2022, a pochi passi dal Prospekt Nevskij c’è ancora gente che vive negli spazi di cinquanta anni fa, secondo le stesse dinamiche; persone che abitano stipate in una stanza e si scaldano la cena, si preparano il pranzo o la colazione in quella cucina, a turno, sperando di non incrociare la signora dell’ultima camera in fondo perché chiede sempre l’olio, mai che se lo compri, poi non pulisce e lascia tutto uno schifo.

Ci mostra le pareti, che sono pitturate di blu scuro e verde
“Qualche anno fa è venuta qua la vedova di Dovlatov e ha detto che, a parte il colore, questa cucina è rimasta esattamente come era a metà degli anni settanta. Apre la finestra, che dà su un muro giallo
La vista dalla camera era meno deprimente. Poi indica un portone in legno appoggiato alle sue spalle. “Questo era giù in ingresso, lo han sostituito qualche mese fa. È originale, degli anni venti del secolo scorso, se a qualcuno interessa…”

La visita è finita, mi sa che ero l’unico fan di Dovlatov, l’ekskursija continua, il gruppo si sposta a vedere altre kommunal’lki lungo la via, io mi apparto un attimo per saldare il debito con la biondina, che mi ricorda un po’ Pippi Calzelunghe, solo più adulta e con il trench oversize.
“Non si offenda ma quando l’ho vista lì seduto, sbucato dal nulla, con gli occhiali e la sciarpetta, ho pensato che fosse un tipo un po’ sospetto.”
“Eh sì, proprio una storia da Dovlatov.” commento. Lei mi guarda e libera una risata sincera, piena dell’allegria dei vent’anni e si meriterebbe un bacio in bocca se non avesse un herpes sotto il labbro inferiore.

Il giorno dopo, prima di andare dal cliente, telefono a Mosca per prenotare una stanza nei paraggi dell’aeroporto, così venerdì parto tranquillo. Cerco di fare lo spelling del mio nome, in russo.
“G come Georgia, I come Italia, U di Ucraina, L di Lituania.”
La tipa sospira e mi blocca allarmata, non capita tutti i giorni di sentire quattro stati ostili in quattro lettere “Va bene. Senta, segno che è italiano.”

In tv, alle 7:30, danno dei consigli su come gestire l’hangover del fine settimana. Mostrano un filmato in cui l’attore, che ha l’anda di uno che si è spaccato di vodka senza ritegno, si alza dal divano con una mano alla testa e si mette ai fornelli per prepararsi una omelette. Stacco di immagine e si versa dell’acqua, beve diligentemente, ogni sorsata un sollievo, l’espressione del viso meno accigliata, più serena.

Fuori è tutto grigio, le nuvole dense e basse scorrono veloci come una colonna di fumo che si alza da un falò, l’orizzonte è diviso in due: la parte superiore è color cenere, anche quella inferiore, ma se fai attenzione ogni tanto spunta un cartellone pubblicitario che rompe la monocromia con il rosso acceso di una pizza fumante, in distanza luccica il lampeggiante blu di un’auto della polizia, ancora si distingue il verde di un’aiuola curata.
E non è un caso che i palazzi del diciottesimo secolo fossero gialli e che i grattacieli oggi siano tutti di colori sgargianti, se non ci pensa qualche architetto-designer con la montatura color miele, qua il panorama per buona parte dell’anno si confonde in una pennellata uniforme di nebbia e smog che copre cose e persone.

Lungo la riva della Neva c’è una scritta incastonata su un’aiuola, Saint Petersburg 2018, i mondiali di calcio, l’ultima volta che la Russia si è aperta al mondo in maniera deliberata e organizzata.

Decine di migliaia di stranieri a fare festa ovunque, i russi felici di quel clima di esultanza, orgogliosi di mostrare quanto era bello il loro paese, pronto ad accogliere tutti, si divertivano nelle piazze fino a notte fonda, non c’era bisogno di prendere un volo per andare all’estero, bastava scendere in strada. Sono passati quattro anni e sembra un tempo remoto, l’arcadia pre-guerra e pre-covid.

Per Saša, il mio amico di Mosca, il periodo migliore è stato dal 2008 al 2012, “allora veramente sembrava che il paese si aprisse come non era mai successo, e anche gli stranieri che vivevano qua avevano un’altra energia.”

Credo fosse il 2010 o giù di lì che ero andato a visitare un cliente a Saratov e il responsabile degli acquisti, Vadim, lo aveva detto chiaramente.
“In tutta la sua storia, la Russia non ha mai goduto di un periodo di pace e di stabilità come negli ultimi dieci anni”, mi pare di vederlo Vadim, seduto al tavolo della mensa, il volto sereno e fiducioso, le cuoche alle sue spalle che rassettavano, i capelli raccolti nella retina bianca.

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