martedì, febbraio 28, 2023
Febbraio 2023. Il meglio
Si parte bene nel 2023 con gli album di Tex Perkins, DeWolff, Iggy Pop, John Cale, Joel Sarakula, Algiers, The Men, Tex perkins and the Fat Rubber Band.
Tra gli italiani The Cut, Senzabenza, Forty Winks, Pitchtorch, C+C=Maxigross, Blue Moka, Lory Muratti
TEX PERKINS and the FAT RUBBER BAND - Other World
Splendido ritorno dell'ex voce dei Beasts of Bourbon. Blues dolente, ballate intensissime, decadenti, crepuscolari, brani alla Stones e una voce cavernosa e piena di vita vissuta.
DE WOLFF - Love, Death & In Between
Nel nuovo album della band olandese troviamo una mirabile e sconfinata prateria di suoni che spaziano da soul a funk, al Joe Cocker dei primi due album, psichedelia, freakbeat, Hammondbeat e tanto altro. Tutta roba super derivativa, stra ascoltata, assomigliano a: ma ugualmente grandissimi.
QUASI - Breaking the balls of history
Nono album per la band di Portland, assente da parecchio tempo nel panorama discografico. Un grande lavoro in cui entrano garage, alt rock, psichedelia, tastiere acide, pop, beat, punk e tanto altro. Bravissimi, intriganti, crudi, sgangherati.
THE CUT - Dead city nights
Il trio bolognese firma il settimo album di un'onoratissima carriera. Tredici brani minimali, diretti, rabbiosi, "sonici", nervosi e nevrotici, come sempre. Si avverte sempre di più l'alto livello di progressiva maturazione compositiva che riesce a mettere insieme, in chiave sempre personale e originale, mille influenze, dal punk rock più classico alle elaborazioni blues di Jon Spencer Blues Explosion, dai Cramps a venature post punk alla Fontaines DC che i Cut avevano precorso anni prima. Di nuovo, siamo a livelli di eccellenza. They got the beat!
ALGIERS - Shook
Scongiurato un possibile scioglimento la band di Atlanta ritrova il guizzo e porta a termine un quarto album.
Una cascata di creatività dalle mille influenze: dal punk sfrenato a ipnotici brani hip hop, sperimentazione, brevi intermezzi parlati, funk malato, solenni gospel, elettronica e tanto altro.
Stuolo di ospiti per un album eclettico, denso, al passo con i tempi ma con uno sguardo che guarda lontano.
YOUNG FATHERS - Heavy heavy
C'è davvero tanto nella musica degli Young Fathers.
In "Heavy heavy" ancora più del solito, tra gospel soul, rock, psichedelia, trip hop, un mood tribale, sperimentazione.
Un album che cresce progressivamente ad ogni ascolto.
SHAME - Food for Worms
Precursori del sound post punk che caratterizza la scena inglese degli ultimi tempi (Fontaines DC in testa), i londinesi Shame firmano il terzo album, sempre all'insegna di un sound aspro, sferragliante, ruvido. Buone canzoni e album egregio.
THE MEN - New York City
Sono già al nono album, vengono da New York, e suonano un punk rock minimale figlio di Stooges, MC5, Heartbreakers, Dictators ma anche Gun Club e affini. Nel nuovo disco c'è quella roba lì. Irresistibilmente 77.
KING TUFF - Smalltown stardust
Parecchio Beatlesiano, con un po' di glam, pizzichi garage e psichedelici, tanto Lennon solista.
Molto gradevole e intrigante.
Un aspetto che mi preme sottolineare è che, inevitabilmente, quando qualcuno riesuma influenze Beatles tardo 60's/Lennon etc, il batterista di turno suona come Ringo e il basso imita i suoni di Paul.
ROBERT FORSTER - The candle and the flame
L'ex Go Betweens con un ottimo album, semi acustico, dedicato alla malattia, vinta, della moglie. Intenso, sofferente, profondo, un album pieno di piccole perle. Ottimo.
ALEXIS EVANS - Yours truly
Terzo album per il soul man francese che affina e personalizza sempre di più il suo stile, aggiungendo elementi reggae, jazz, funk, hip hop ma tenendo le radici ben salde nel soul più vintage (dalle parti di Marvin Gaye). Come sempre livelli più che alti.
FRANK POPP ENSEMBLE - Shifting
Molto gradevole, come sempre, il nuovo album della band tedesca, che confeziona un perfetto cocktail di umori soul, northern soul, pop, sixties, funk.
Ci sanno fare, soprattutto nella scelta degli arrangiamenti, al servizio di composizioni molto ben studiate, fresche e immediate.
MISHA PANFILOV - Momentum
Il compositore estone torna con un buon album di modern funk cinematico strumentale con lunghi brani ipnotici e qualche sperimentazione dal gusto jazz. Buono.
The WAEVE – The WAEVE
Graham Coxon e Rose Elinor Dougall per un side project di buona caratura, dalle tonalità piuttosto malinconiche e decadenti, suoni elettronici e post wave. Non male pur se non indimenticabile.
GERARDO FRISINA – Joyful sound
La lunga carriera discografica di Frisina si arricchisce di un nuovo gioiello nu jazz in cui convergono come d’abitudine jazz, funk, latin soul, ritmiche e influenze afro cubane, groove elettronici, dance, elementi percussivi tribali e il consueto raffinatissimo gusto per gli arrangiamenti. Musica per intenditori dal palato sofisticato.
BLUE MOKA - Enjoy
Secondo album per una delle migliori realtà italiane in ambito funk jazz fusion dal prevalente gusto anni Settanta (dalle parti degli Spyro Gyra). Valga per tutto la spettacolare cover jazzata di "Teardrop" dei Massive Attack che trova in questo nuovo arrangiamento una chiave di lettura solare, pur mantenendo l'originale malinconico groove armonico. Il resto è un brillante e freschissimo viaggio tra brani dal tempo spesso sostenuto, un grande lavoro chitarristico e tastieristico a cui la sezione ritmica fornisce un costante e metronomico supporto. Super!
ASADO FILM - Rude Boys
"Rude Boys" è il primo film scritto, diretto, interpretato e musicato dal vivo da ASADO FILM, collettivo ligure di musicisti e filmaker composto dal regista e musicista Francesco Traverso, da Olmo Martellacci(bassista/tastierista degli Ex-Otago), dal cantautore Matteo Fiorino e dal dubmaster U’Elettronicu, al secolo Gabriele Repetto. Il disco funge da colonna sonora attraverso undici brani strumentali che spaziano in vari contesti artistici, dal classico jazz a momenti sperimentali, elettronica, psichedelia, funk, acid jazz alla Corduroy. Il riferimento va ovviamente alle esperienze dei Calibro 35 sui cui binari si muove questa tipologia di proposta ma la band suona molto bene, è ispirata, le composizioni originali e curatissime, eseguite con la giusta attitudine e il mood perfetto al genere. Consigliato.
FM e ALEX SPALCK - Franz Schubert's Winterreise
Maurizio Fasolo e Alex Spalck, sono da sempre le colonne portanti del mitico e immarcescibile progetto dei Pankow ("Questo è il nuovo album dei pankow-, ma non è il nuovo album dei pankow-. "). In queste vesti riprendono Winterreise di Frank Schubert e Wilheim Müller. Il taglio è rigoroso, solenne, la rivisitazione personale. Un'operazione tanto coraggiosa quanto creativa e innovativa.
LORY MURATTI – Torno a dirvi tutto
Lory Muratti è un artista a 360 gradi che abbraccia discipline come musica, scrittura, video- arte. Il progetto più recente accomuna un album al suo romanzo omonimo. Un lavoro rigoroso, dal passo solenne e austero. Otto brani che attingono compositivamente dalla canzone d’autore per svilupparsi in direzioni che accostano afflati rock con una vena che guarda in modo più evidente alla new wave anni 80. Il disco è legato da un filo conduttore che accomuna le canzoni, i cui testi non hanno paura di affrontare tematiche scomode come suicidio ed elaborazione del dolore. Un lavoro ambizioso e importante, da ascoltare con estrema attenzione.
C+C=MAXIGROSS - Cosmic Res
Prosegue l'affascinante e intrigante percorso del collettivo veronese con un nuovo lavoro in cui il loro personalissimo folk psichedelico si tinge sempre di più di elettronica in un mix originale e immediatamente distintivo che si avvicina a un mix tra Flaming Lips, Beck, Julian Cope e Animal Collective.
Dedicato alla memoria dell'amico e produttore Miles Coop Seaton (ex membro degli Akron Family) tragicamente scomparso, "Cosmic res" assimila anche numerose influenze dalla canzone d'autore italiana (il Lucio Battisti degli anni Settanta, in particolare).
Eccellente.
GIACOMO SFERLAZZO - Comu na nuci dintra un saccu
«Dopo sei album in cui mettevo, mettevo, arrangiamenti, strumenti, musicisti, ho provato a togliere». Il cantautore di Lampedusa torna con un album minimale, chitarra classica e voce, ma che non toglie potenza ed espressività alla sua arte combattiva che spazia da folk al blues, da ballate dolenti a brani rabbiosi. Attinge alla tradizione di Rosa Balistreri e alla figura di cantastorie come Ciccio Busacca ma si propone in chiave moderna e attuale. Un altro album coraggioso, anomalo, prezioso.
ASCOLTATO ANCHE:
KELELA (nu soul, pop, jazzy, gradevole), LIL YACHTY (funk, Prince, rap/trap. Miscela interessante), NAUTILUS (fusion funk), THE TUBS (buon guitar rock non lontano dal sound di Bob Mould), GRANSODA (Puro e semplice punk rock, immediato, urgente, che guarda al ’77 ma anche a Social Distortion, Descendents, Rancid), GORILLAZ (la classe ovviamewnte non manca ma la formula è stanca e a parte qualche guizzo l'album si dimentica facilmente),
LETTO
JOYELLO TRIOLO - Maurizio
La musica italiana ha prodotto nel corso della sua storia una lunga serie di eccellenze delle quali troppo spesso ci siamo dimenticati, preferendo guardare all’estero, non di rado abbracciando esperienze di gran lunga inferiori a quanto avevamo e abbiamo sotto il naso.
A volte complice è una sorta di snobismo autolesionista che svilisce tutto ciò che abbiamo intorno come se non fosse degno della giusta attenzione.
L’elenco è lungo e dettagliato e non mancano nomi attualmente in circolazione che meriterebbero attenzione ben maggiore rispetto a quanta ne ricevono.
E’ uscita da poco, per Crac Edizioni, una biografia, a cura dello scrittore, giornalista e musicista Joyello Triolo.
intitolata “Maurizio”. Lui era Maurizio Arcieri, funambolico cantante, musicista, artista, videomaker, innovatore, visionario. Avrebbe compiuto ottanta anni, se non ci avesse lasciati, dopo una lunga malattia, nel 2015. Il libro ne celebra le gesta, attraverso una dettagliatissima discografia, aneddoti (alcuni dei quali incredibili) e un’intervista esclusiva insieme alla compagna e moglie di sempre, Christina Moser che se ne è andata invece lo scorso ottobre.
Maurizio Arcieri ha attraversato tutto l’arco temporale della storia del rock, dagli anni Sessanta al 2010.
Triolo sintetizza bene il suo profilo in poche righe: “La cosa che ricordo meglio di lui (Triolo è stato anche autore di un tributo ai Krisma, band di Arcieri e la moglie, e ha avuto stretti contatti con la coppia) è la sua rassicurante consapevolezza: conosceva alla perfezione il suo valore, sapeva di aver contribuito in maniera sostanziosa al rinnovamento della musica pop ma sembrava sempre alla ricerca di qualcosa in più, di nuovo o diverso come un bambino smanioso di esplorare la vita.
Ciò nonostante appariva umile e socievole, non si poneva mai su un piedistallo e, anzi, cercava sempre di trovare nuovi collegamenti con chiunque. A pochi minuti dall’averlo conosciuti già ti sentivi suo amico, perché sapeva aprire il suo cuore assieme al diario di ricordi riferiti alla miriade delle sue esperienze artistiche. Maurizio aveva il raro dono dell’umiltà...ha lavorato per il cinema e per la televisione, è diventato una star dei fotoromanzi, ha elaborato, progettato e costruito strumenti musicali elettronici e si è applicato anche nell’arte delle videoinstallazoni creando anche una vera e propria stazione televisiva d’avanguardia che, via satellite, proponeva immagini e suoni della società degradata degli ultimi anni del XX secolo.
Ciò nonostante è principalmente il suo percorso discografico a mettere meglio in luce la singolare caparbietà professionale che gli ha consentito di unire, con maestria e rigore, l’alto e il basso con consapevole leggerezza. Tra i musicisti con cui ha lavorato si trovano nomi eccellenti: Vangelis, Osibisa, Franco Battiato, Subsonica, Joe Vannelli, Arto Lindsay”.
Arcieri incomincia la carriera nel migliore dei modi.
E’ il 1965, l’Italia incomincia a pullulare di gruppi beat, diretta filiazione, il più delle volte al limite del plagio, di Beatles e Rolling Stones.
Qualcuno però guarda più in là, osa di più, ricerca riferimenti meno scontati.
I New Dada sono tra questi.
Maurizio è il cantante, la band suona bene, l’estetica è curata: capelli lunghi ma pettinati e ben tenuti, nuovi dandy ribelli ma sofisticati, fino ad essere altezzosi. Maurizio è bello, biondo, affascinante, aspetto aristocratico. Dureranno poco ma infileranno una serie di piccoli successi, un album interessante in cui inseriscono brani non convenzionali ma, anzi, piuttosto ricercati, da Little Richard a James Brown ai Kinks, a cui si aggiungono buone canzoni autografe che si rifanno spesso a un potente rhythm and blues di stampo americano.
Il gruppo miete successo e attenzioni, fino ad arrivare ad aprire i concerti italiani dei Beatles nel 1965, in cui si affiancano a Peppino di Capri e Fausto Leali, tra gli altri.
Si mormora che furono proprio i genitori di due dei componenti del gruppo (tra cui quello che diventerà poi famoso con lo pseudonimo de Il Guardiano del Faro), esponenti della nobiltà milanese, a convincere l’organizzatore Leo Watcher a portare i Fab Four in Italia, in cambio della partecipazione del gruppo dei figli con tanto di contributo alle spese per gli eventi.
I concerti permisero ai New Dada di proporsi davanti a migliaia di persone e a ottenere una popolarità ancora maggiore.
Purtroppo la storia della band finì, curiosamente, dopo l’incisione di un brano dei Rolling Stones, “Lady Jane” con tanto di orchestrazione e testo cambiato (l’originale aveva una serie di sottointesi metaforici un po’ spinti).
Il singolo ha successo ma la band si divide tra ripicche e litigi.
Maurizio prosegue con una carriera solista dignitosa in cui alterna brani piuttosto commerciali e ammiccanti a scelte più coraggiose, come “24 ore spese bene con amore” che non è altro che la cover di “Spinning wheel” dei Blood Sweat and Tears e una, convincente e ben fatta, di “We’re not gonna take it” degli Who tratta da “Tommy”, intitolata “Guardami, aiutami, toccami, guariscimi”, fino a “La decisione” del 1972 in cui ammicca all’hard rock inglese del periodo.
Collabora in questi anni con future star della musica italiana come Paolo Conte e Franco Battiato, ottiene un discreto successo (anche grazie all’attività di attore di fotoromanzi, sfruttando la sua indubbia bellezza) ma il suo spirito irrequieto e la ricerca di nuovi orizzonti lo spinge a sperimentare con nuovi suoni ed esperienze.
Nel 1973 pubblica, per la prima (e unica) volta come Maurizio Arcieri, “Trasparenze”, un album concepito in quanto tale e non come raccolta di singoli di successo.
E’ un lavoro anomalo in cui rifugge da elementi facili e pop, per abbracciare sonorità vicine alle nuove tendenze progessive, più complesse ed elaborate. Un album particolare, molto personale, che rimane però confinato in un oblìo immeritato e trova scarsa considerazione .
Ci sarà tempo ancora per un paio di 45 giri e per una curiosa apparizione come voce narrante italiana in una versione di “Pierino e il lupo” a cui partecipano nomi eccellenti del rock internazionale, da Phil Collins a Brian Eno.
Sposa la compagna di sempre, Christina Moser e inizia una nuova fase artistica.
Fondano i Chrisma (dalle iniziali dei rispettivi nomi), incidono due 45 giri collaborando con il futuro celeberrimo compositore Vangelis, di scarso spessore artistico, a base di pop e discomusic con cui partecipano al Festivalbar del 1976 per poi cambiare sorprendentemente e approdare a una delle esperienze più innovative della musica italiana di sempre. E’ il 1977, esplodono punk e new wave e i Chrisma sono già lì, in prima fila, con l’album “Chinese restaurant”, registrato a Londra, elettronico, ipnotico, algido, sperimentale. Il singolo “Lola”, tango decadente e conturbante, trova anche il successo di classifica.
Assurgono a scandalizzata popolarità quando Maurizio si taglia, provocatoriamente e involontariamente, un dito sul palco, finendo su tutti i giornali come simbolo del punk autodistruttivo. Replicheranno due anni dopo con “Hibernation”, altro lavoro che si muove su coordinate simili e da cui estrarranno il singolo ”Aurora B” che avrà il privilegio, antesignani e pionieri, di avere il primo video in Italia.
“Cathode mama” dona loro un nuovo nome, Krisma e anche il singolo di maggior successo, “Many kisses”, molto pop pur se sempre declinato in sonorità elettronico/new wave che però sono diventate ormai meno innovative e già utilizzate da parecchi altri gruppi.
La band prosegue con varie altre uscite discografiche ma che raccolgono meno successo, sono spesso discontinue, subiscono anche problematiche a livello discografico, lunghe e volute assenze, sperimentazioni, avanguardia, evoluzioni verso forme primordiali di techno, l’apertura di un canale satellitare, Krisma-Tv.
Azioni il più delle volte incomprese, troppo avanti e anomale per essere commercializzate e destinate invece a un limbo e a una nicchia.
Il loro valore viene progressivamente riconosciuto, tornano in auge, collaborano con l’antico amico Franco Battiato e con i Subsonica, vengono omaggiati con tributi e cover, riappaiono in qualità di stralunati opinionisti in una trasmissione televisiva di Piero Chiambretti, proseguono a giocare e a sperimentare con web ed elettronica.
Rileggere la carriera e riascoltare la produzione discografica di Maurizio Arcieri ci rivela quanto sia ancora stimolante fresca e interessante la sua arte e quanto sia stato sottovalutato il suo apporto alla musica nostrana.
Può essere il momento per farlo.
ROBERTO FARINA - Sarà perché ti amo
Difficilmente e raramente quando ascoltiamo una canzone pensiamo a quello che c’è dietro. Ci concentriamo sulla fruibilità della stessa, in base al nostro gusto, sull’interprete e poco altro.
In realtà una canzone ha bisogno di un produttore, un arrangiatore, uno o più esecutori, una confezione, un’immagine, una promozione.
Soprattutto un compositore. In molti casi abbiamo nel cuore, nell’anima, nelle orecchie, canzoni che hanno segnato la nostra vita senza avere la minima idea di chi le abbia composte, scritte, pensate. Nella musica pop e rock, non di rado chi canta e suona il successo del momento non coincide con chi ha scritto il brano. Gli esempi sono incalcolabili.
Basti pensare a Elvis Presley o a Mina che non hanno praticamente mai composto nulla in vita loro ma sono unanimemente considerati nel mondo e in Italia tra gli artisti più rappresentativi di sempre. Comporre una canzone che diventi popolare (e venduta) è un’arte, significa riuscire a intercettare i gusti del momento o, ancora più difficile, anticiparli, sapere cogliere il respiro del mondo, appena prima che tutto accada.
Ci vuole talento.
Tanto.
I compositori di questo tipo sono persone diventate nel tempo ricche ma quasi mai famose. Perché i loro brani, arrivati al primo posto delle classifiche per poi assurgere al ruolo di classici, continuano a rendere profitti, grazie ai diritti d’autore, per anni, a volte per sempre.
Per dare un’idea delle proporzioni economiche una canzone come “Yesterday” dei Beatles ha reso fino ad oggi 30 milioni di dollari in diritti d’autore a John Lennon e Paul McCartney, più o meno 1.500 euro al giorno. E i due di canzoni famose ne hanno firmate un bel po’.
Roberto Farina ha da poco scritto un libro sulla carriera di suo zio Dario Farina, “Sarà perché ti amo”, edito da Milieu Edizioni.
Chi è questo sconosciuto signor Dario Farina?
Difficile che, a parte gli addetti ai lavori, qualcuno ne ricordi nome e gesta.
E’ un signore che ha scritto brani per il gotha della musica leggera italiana:
Ricchi e Poveri, Gianni Morandi, Albano e Romina, Nada, Little Tony, Patty Pravo, Andrea Bocelli e una lunga serie di altri importanti personaggi che per anni hanno stazionato nelle parti più alte delle classifiche di vendita e che ancora oggi ripropongono abitualmente i suoi brani.
E che brani!
“Felicità” e “Ci sarà” per Albano e Romina, “Sarà perché ti amo”, “Mamma Maria” e “Se mi innamoro” per i Ricchi e Poveri, “La donna di picche” per Little Tony, coautore di “Odisssea Veneziana” dei Rondò Veneziano, idea di un altro esimio autore, Gian Piero Reverberi, inizialmente dileggiato poi acclamato dopo la quantità di dischi venduti con questo bizzarro progetto. Titoli da milioni di copie, tuttora, piacciano o meno, suonate ovunque nel mondo.
Sicuramente non saranno pochi a storcere il naso di fronte a una simile produzione, leggera, dagli scarsi contenuti culturali e intellettuali, artisticamente impalpabili. Riprendo allora le parole, riportate nell’avvincente libro, di un amico di Farina, Ieppe, titolare di un negozio di dischi:
“Solo gli odori hanno una forza evocativa pari a quella di una canzone. Le canzoni non sono gelide operazioni mercantili. Una canzone può accedere alle parti più intime, dove i ricordi si rannicchiano per non scomparire. Il fine della canzone è divertire, commuovere gli animi, la canzone punta alla popolarità, non all’applauso di una scarsissima parte di persone, cioè degli intenditori. Questi ascoltano un brano secondo tante regole complicate che capiscono solo loro, il popolo invece ha una sola regola: il suo orecchio.
E se il popolo loda un brano sofisticato, lo fa per assecondare gli intenditori dei quali ha soggezione, o per la meraviglia che nasce davanti a qualcosa di astruso. Dario Farina è uno che ha moltiplicato le melodie popolari, lui non ha cercato la novità, ma la semplicità, cioè l’universalità. Il primo fine della canzone è smuovere i sentimenti, commuovere gli animi, non quelli di pochi, ma di tutti. Avvicinarsi al popolo è il compito della canzone”.
Dario Farina incomincia la carriera di autore con le consuete difficoltà, deve farsi strada sgomitando per trovare un posto in un ambiente in cui i muri sono molto alti e pieni di filo spinato ma alla fine ce la fa. Adotta un metodo infallibile, così lontano dall’immaginario del musicista. Glielo aveva consigliato Bruno Zambrini, altro grande autore poco conosciuto, da “In ginocchio da te” per Gianni Morandi a “La bambola” per Patty Pravo:
“Non aspettare la cosiddetta ispirazione. Mettiti tutti i giorni al piano. Paul McCartney non aspetta l’ispirazione. Ti risulta che Paul aspetti l’ispirazione? No, non l’aspetta, Paul McCartney lavora come un matto. Le idee non vengono davanti al tramonto o guadando le nuvole. Le idee vengono al pianoforte. Siamo dei professionisti. La mattina ci svegliamo e ci mettiamo al lavoro. Così nascono le canzoni. Un’idea sebbene sembri improvvisa, non viene dal cielo, ma dal lavoro”.
Interessante la gestazione di un brano come “Mamma Maria” dei Ricchi e Poveri che venne in qualche modo concepita per essere apprezzata e immediatamente intellegibile anche all’estero. Mettendo insieme due delle parole italiane più conosciute da chi non parla la nostra lingua, “Mamma” e “Maria” ma aggiungendo volutamente una modalità di cantato in qualche modo subliminale, utilizzando la prima sillaba, “ma”, che viene pronunciata da un bambino piccolo, riprodotta poi con alla maniera della lallazione (i primi tentativi di parlato dei neonati, dal settimo mese in poi): “Ma-ma-ma-mam-ma-ria-ma”).
Un piccolo capolavoro di comunicazione.
Il brano ha venduto milioni di copie in Italia e all’estero, diventando tra i brani più popolari in Russia. Come è più volte capitato, paradossalmente, i grandi compositori, perennemente dietro le quinte, quando provano a mettersi in gioco falliscono clamorosamente. Anche Farina tenta questa strada nel 1979 con quello che rimarrà il suo solo album, “Destinazione tu”.
Un lavoro leggero che risente dei suoni dell’epoca, non lontani dalle suggestioni discomusic ma di stampo cantautorale e con brani di indubbia qualità creativa. Il disco è un insuccesso clamoroso e non raggiunge le mille copie vendute.
Farina non ci riproverà più e tornerà a dedicarsi al suo abituale lavoro compositivo che, tra alti e bassi, tonfi (un pur pregevole album per Mal, reduce dal successo di “Furia cavallo del West” che segnò, paradossalmente, la fine della sua carriera, ormai derubricata a interprete di canzoni di telefilm per bambini), però ben equilibrati da una nuova serie di canzoni che arrivano puntualmente alle vette delle classifiche. C’è un passaggio significativo nelle pagine del libro di Roberto Farina che rimarca la frustrazione di quando i suoi coetanei venivano a sapere dell’attività dello zio e lo prendessero in giro perle sue composizioni, tanto da spingerlo a nascondere la parentela, per timore di ulteriori dileggi.
“Era dunque questa la cultura alta che ti spingeva a nasconderti? Dov’era quel mondo di libertà di cui parlavamo sempre, gli accigliati studenti e io? Dov’era la potenza liberatrice dell’arte? L’equazione era semplice: cantautori uguale a popolo, canzonette uguale a piccola borghesia. E così, secondo quest’algebra, la musica di De André, figlio dell’alta borghesia genovese, diveniva una bandiera popolare e il pop dei Ricchi e Poveri, figli del proletariato, diventava uno dei tanti trucchi dei padroni per asservire le masse”.
Dario Farina rimarrà per sempre un “uomo tra parentesi” ovvero coloro il cui nome si legge solo tra le parentesi sulle copertine dei dischi ma che raramente hanno una faccia o che vengono citati tra i grandi della musica.
Ma è la testimonianza vivente dell’importanza di un ingranaggio determinante e di primaria importanza nella costruzione e nell’economia artistica di una canzone.
Che è sempre frutto di studio, esperienza, colpo di genio, lavoro, applicazione, perseveranza.
In totale antitesi all’approccio moderno di molti giovani musicisti che pensano di potere arrivare al successo senza alcuna gavetta o sforzo ma solo con un paio di mesi in un talent show che li proietti in testa alle classifiche.
Piaccia o meno, non è così.
STEFANO SCRIMA - Smells like Kurt spirit. Nirvana e filosofia
Stefano Scrima ha l'interessantissima capacità di riuscire a unire rock e filosofia, in modo colto e approfondito ma mai pesante o pedante.
Il rock è ormai da tempo musealizzato, anche nelle sue forme più estreme, è tempo di analisi e connessioni culturali peraltro pertinenti.
E' questo il caso.
La storia di Kurt Cobain e della band viene sviscerata a prescindere dal contenuto musicale, scandagliata nei suoi più reconditi e allo stesso tempo evidenti messaggi esistenziali, filosofici, intellettuali.
Il libro è davvero particolare e intrigante.
Consigliato, al di là della passione per i Nirvana.
GENNARO SHAMANO COZZOLINO - Neapolis 2125
Gennaro Shamano Cozzolino è l'autore di un'eccellente testimonianza sulla sua vita di strada in contesti punk e affini, "L'asfalto sulla pelle".
In questo caso si cimenta invece con un romanzo distopico, ambientato nel 2125 nella sua Napoli, in cui la maggioranza degli abitanti è costretta da un'epidemia, sfruttata a dovere dal potere, a vivere reclusa negli "alveari", controllati a vista e costantemente davanti a uno schermo di un computer.
Due giovani si ribelleranno alle imposizioni, raggiungeranno un gruppo di rivoltosi nei sotterranei partenopei e proveranno a cambiare le carte in tavola.
Gennaro scrive in modo efficace e coinvolgente ma quello che sorprende e impressiona è che il romanzo fu concepito e scritto nel 2018 (pubblicato poi nel 2020) e riproduce fedelmente quello che accadrà due anni dopo, tra Covid e lockdown.
Corredato da tavole a fumetti che seguono il racconto, piacerà tantissimo a chi ama l'ambito "futurista" (perché di fantascienza qua, purtroppo, non si può più parlare).
MAURIZIO INCHINGOLI - Musica di carta – 50 anni di riviste musica in Italia
Ci tengo a sottolineare il fatto che "Musica di carta - 50 anni di riviste musicali in Italia" non è e non vuole essere un'enciclopedia sulle riviste, il libro si basa chiaramente su un percorso personale attraverso il quale provo a fare un po' il punto storico di questo importante fenomeno culturale che purtroppo ha perso, secondo me, il fascino che aveva, poi è arrivato Internet e inevitabilmente la situazione è cambiata, nel bene e nel male.
L'autore precisa l'intento di questa lodevole iniziativa, che mette un po' di ordine nel caotico mondo delle riviste musicali cartacee, con il prezioso aiuto di alcuni dei protagonisti, da Federico Guglielmi a Francesco Adinolfi, Luca Frazzi, al "mitico" Piero Scaruffi, intervistati in esclusiva da Inchingoli.
Il tema che emerge è quanto possa ancora (r)esistere la divulgazione cartacea, ormai sopraffatta da internet.
I dati di vendita sono in costante calo e ormai ridotti al lumicino ma, nonostante ciò, le riviste continuano ad uscire, a nascere, a proporre e proporsi (a dispetto delle nefaste previsioni che le volevano scomparse da anni).
Una storia complessa, spesso convulsa e fautrice di "battaglie" epocali, disastri economici, aspri scontri verbali ma testimonianza di una vitalità che dagli anni Sessanta in poi ha reso le giornate di noi appassionati più gradevoli e interessanti.
VISTO
"Judas and the Black Messiah" di Shaka King Molto bello, con un favoloso Daniel Kaluuya (premio Oscar per l'interpretazione) nella parte dell'attivista delle Black Panthers, Fred Hampton, ucciso dall'FBI in un agguato nl 1969, grazie all'opera di un infiltrato. Film equilibrato, ambientazioni perfette, consigliato agli amanti del "genere".
(su Netflix fino all'8 marzo)
Lazzaro felice di Alice Rohrwacher
Suggestivo, tragico, straziante, onirico, visonario. Pasoliniano, Felliniano, fortemente debitore ai Taviani. Consigliato.
COSE VARIE
° Ogni giorno mie recensioni italiane su www.radiocoop.it (per cui curo ogni settimana un TG video musicale - vedi pagina FB https://www.facebook.com/RadiocoopTV/).
° Ogni domenica "La musica ribelle", una pagina sul quotidiano "Libertà"
° Ogni mese varie su CLASSIC ROCK.
° Ogni sabato un video con aggiornamenti musicali sul portale https://www.facebook.com/goodmorninggenova
° Sulle riviste/zines "GIMME DANGER" e "GARAGELAND"
° Periodicamente su "Il Manifesto" e "Vinile".
IN CANTIERE
E' uscito per Agenzia X "Northern Soul. Il culto dei giovani ribelli soul" un viaggio di stampo storico sociologico nel difficile e non sempre agilmente esplorabile mondo del Northern Soul.
PRESENTAZIONI:
Presentazioni del libro "NORTHERN SOUL" edito da Agenzia X.
Prossimi appuntamenti fino a marzo:
sabato 4 marzo
Brescia ore 19,30 Baretto Aperto + Alioscia DJset
domenica 12 marzo
Torino "Jazz Club" via Valdo Fusi ore 18
sabato 18 marzo
Viareggio "Vegas" Viale Europa ore 21
venerdì 24 marzo
Lido Adriano (RA) "Cisim" viale Parini 48 ore 21
domenica 26 marzo
Castelnuvo di Borgonovo (PC) "Kelly's" ore 21
sabato 1 aprile
Parma "The Clebbino" Borgo Cocconi 3/B ore 21
lunedì, febbraio 27, 2023
Roberto Farina - Sarà perché ti amo
Riprendo l'articolo scritto ieri per "Libertà".
Difficilmente e raramente quando ascoltiamo una canzone pensiamo a quello che c’è dietro. Ci concentriamo sulla fruibilità della stessa, in base al nostro gusto, sull’interprete e poco altro.
In realtà una canzone ha bisogno di un produttore, un arrangiatore, uno o più esecutori, una confezione, un’immagine, una promozione.
Soprattutto un compositore. In molti casi abbiamo nel cuore, nell’anima, nelle orecchie, canzoni che hanno segnato la nostra vita senza avere la minima idea di chi le abbia composte, scritte, pensate.
Nella musica pop e rock, non di rado chi canta e suona il successo del momento non coincide con chi ha scritto il brano. Gli esempi sono incalcolabili.
Basti pensare a Elvis Presley o a Mina che non hanno praticamente mai composto nulla in vita loro ma sono unanimemente considerati nel mondo e in Italia tra gli artisti più rappresentativi di sempre.
Comporre una canzone che diventi popolare (e venduta) è un’arte, significa riuscire a intercettare i gusti del momento o, ancora più difficile, anticiparli, sapere cogliere il respiro del mondo, appena prima che tutto accada.
Ci vuole talento.
Tanto.
I compositori di questo tipo sono persone diventate nel tempo ricche ma quasi mai famose. Perché i loro brani, arrivati al primo posto delle classifiche per poi assurgere al ruolo di classici, continuano a rendere profitti, grazie ai diritti d’autore, per anni, a volte per sempre.
Per dare un’idea delle proporzioni economiche una canzone come “Yesterday” dei Beatles ha reso fino ad oggi 30 milioni di dollari in diritti d’autore a John Lennon e Paul McCartney, più o meno 1.500 euro al giorno.
E i due di canzoni famose ne hanno firmate un bel po’.
Roberto Farina ha da poco scritto un libro sulla carriera di suo zio Dario Farina, “Sarà perché ti amo”, edito da Milieu Edizioni.
Chi è questo sconosciuto signor Dario Farina?
Difficile che, a parte gli addetti ai lavori, qualcuno ne ricordi nome e gesta.
E’ un signore che ha scritto brani per il gotha della musica leggera italiana:
Ricchi e Poveri, Gianni Morandi, Albano e Romina, Nada, Little Tony, Patty Pravo, Andrea Bocelli e una lunga serie di altri importanti personaggi che per anni hanno stazionato nelle parti più alte delle classifiche di vendita e che ancora oggi ripropongono abitualmente i suoi brani.
E che brani!
“Felicità” e “Ci sarà” per Albano e Romina, “Sarà perché ti amo”, “Mamma Maria” e “Se mi innamoro” per i Ricchi e Poveri, “La donna di picche” per Little Tony, coautore di “Odisssea Veneziana” dei Rondò Veneziano, idea di un altro esimio autore, Gian Piero Reverberi, inizialmente dileggiato poi acclamato dopo la quantità di dischi venduti con questo bizzarro progetto. Titoli da milioni di copie, tuttora, piacciano o meno, suonate ovunque nel mondo.
Sicuramente non saranno pochi a storcere il naso di fronte a una simile produzione, leggera, dagli scarsi contenuti culturali e intellettuali, artisticamente impalpabili. Riprendo allora le parole, riportate nell’avvincente libro, di un amico di Farina, Ieppe, titolare di un negozio di dischi:
“Solo gli odori hanno una forza evocativa pari a quella di una canzone. Le canzoni non sono gelide operazioni mercantili. Una canzone può accedere alle parti più intime, dove i ricordi si rannicchiano per non scomparire. Il fine della canzone è divertire, commuovere gli animi, la canzone punta alla popolarità, non all’applauso di una scarsissima parte di persone, cioè degli intenditori. Questi ascoltano un brano secondo tante regole complicate che capiscono solo loro, il popolo invece ha una sola regola: il suo orecchio. E se il popolo loda un brano sofisticato, lo fa per assecondare gli intenditori dei quali ha soggezione, o per la meraviglia che nasce davanti a qualcosa di astruso. Dario Farina è uno che ha moltiplicato le melodie popolari, lui non ha cercato la novità, ma la semplicità, cioè l’universalità. Il primo fine della canzone è smuovere i sentimenti, commuovere gli animi, non quelli di pochi, ma di tutti. Avvicinarsi al popolo è il compito della canzone”.
Dario Farina incomincia la carriera di autore con le consuete difficoltà, deve farsi strada sgomitando per trovare un posto in un ambiente in cui i muri sono molto alti e pieni di filo spinato ma alla fine ce la fa. Adotta un metodo infallibile, così lontano dall’immaginario del musicista. Glielo aveva consigliato Bruno Zambrini, altro grande autore poco conosciuto, da “In ginocchio da te” per Gianni Morandi a “La bambola” per Patty Pravo:
“Non aspettare la cosiddetta ispirazione. Mettiti tutti i giorni al piano. Paul McCartney non aspetta l’ispirazione. Ti risulta che Paul aspetti l’ispirazione? No, non l’aspetta, Paul McCartney lavora come un matto. Le idee non vengono davanti al tramonto o guadando le nuvole. Le idee vengono al pianoforte. Siamo dei professionisti. La mattina ci svegliamo e ci mettiamo al lavoro. Così nascono le canzoni. Un’idea sebbene sembri improvvisa, non viene dal cielo, ma dal lavoro”.
Interessante la gestazione di un brano come “Mamma Maria” dei Ricchi e Poveri che venne in qualche modo concepita per essere apprezzata e immediatamente intellegibile anche all’estero. Mettendo insieme due delle parole italiane più conosciute da chi non parla la nostra lingua, “Mamma” e “Maria” ma aggiungendo volutamente una modalità di cantato in qualche modo subliminale, utilizzando la prima sillaba, “ma”, che viene pronunciata da un bambino piccolo, riprodotta poi con alla maniera della lallazione (i primi tentativi di parlato dei neonati, dal settimo mese in poi): “Ma-ma-ma-mam-ma-ria-ma”).
Un piccolo capolavoro di comunicazione.
Il brano ha venduto milioni di copie in Italia e all’estero, diventando tra i brani più popolari in Russia. Come è più volte capitato, paradossalmente, i grandi compositori, perennemente dietro le quinte, quando provano a mettersi in gioco falliscono clamorosamente. Anche Farina tenta questa strada nel 1979 con quello che rimarrà il suo solo album, “Destinazione tu”.
Un lavoro leggero che risente dei suoni dell’epoca, non lontani dalle suggestioni discomusic ma di stampo cantautorale e con brani di indubbia qualità creativa. Il disco è un insuccesso clamoroso e non raggiunge le mille copie vendute.
Farina non ci riproverà più e tornerà a dedicarsi al suo abituale lavoro compositivo che, tra alti e bassi, tonfi (un pur pregevole album per Mal, reduce dal successo di “Furia cavallo del West” che segnò, paradossalmente, la fine della sua carriera, ormai derubricata a interprete di canzoni di telefilm per bambini), però ben equilibrati da una nuova serie di canzoni che arrivano puntualmente alle vette delle classifiche.
C’è un passaggio significativo nelle pagine del libro di Roberto Farina che rimarca la frustrazione di quando i suoi coetanei venivano a sapere dell’attività dello zio e lo prendessero in giro perle sue composizioni, tanto da spingerlo a nascondere la parentela, per timore di ulteriori dileggi.
“Era dunque questa la cultura alta che ti spingeva a nasconderti? Dov’era quel mondo di libertà di cui parlavamo sempre, gli accigliati studenti e io? Dov’era la potenza liberatrice dell’arte? L’equazione era semplice: cantautori uguale a popolo, canzonette uguale a piccola borghesia. E così, secondo quest’algebra, la musica di De André, figlio dell’alta borghesia genovese, diveniva una bandiera popolare e il pop dei Ricchi e Poveri, figli del proletariato, diventava uno dei tanti trucchi dei padroni per asservire le masse”.
Dario Farina rimarrà per sempre un “uomo tra parentesi” ovvero coloro il cui nome si legge solo tra le parentesi sulle copertine dei dischi ma che raramente hanno una faccia o che vengono citati tra i grandi della musica.
Ma è la testimonianza vivente dell’importanza di un ingranaggio determinante e di primaria importanza nella costruzione e nell’economia artistica di una canzone. Che è sempre frutto di studio, esperienza, colpo di genio, lavoro, applicazione, perseveranza.
In totale antitesi all’approccio moderno di molti giovani musicisti che pensano di potere arrivare al successo senza alcuna gavetta o sforzo ma solo con un paio di mesi in un talent show che li proietti in testa alle classifiche.
Piaccia o meno, non è così.
Roberto Farina
Sarà perché ti amo
Milieu Edizioni
Pagine 240
19 euro
domenica, febbraio 26, 2023
Presentazioni Northern Soul
Presentazioni del libro "NORTHERN SOUL" edito da Agenzia X.
Prossimi appuntamenti fino a marzo:
sabato 4 marzo
Brescia ore 19,30 Baretto Aperto + Alioscia DJset
domenica 12 marzo
Torino "Jazz Club" via Valdo Fusi ore 18
sabato 18 marzo
Viareggio "Vegas" Viale Europa ore 21
venerdì 24 marzo
Lido Adriano (RA) "Cisim" viale Parini 48 ore 21
domenica 26 marzo
Castelnuvo di Borgonovo (PC) "Kelly's" ore 21
sabato 1 aprile
Parma "The Clebbino" Borgo Cocconi 3/B ore 21
Prossimi appuntamenti fino a marzo:
sabato 4 marzo
Brescia ore 19,30 Baretto Aperto + Alioscia DJset
domenica 12 marzo
Torino "Jazz Club" via Valdo Fusi ore 18
sabato 18 marzo
Viareggio "Vegas" Viale Europa ore 21
venerdì 24 marzo
Lido Adriano (RA) "Cisim" viale Parini 48 ore 21
domenica 26 marzo
Castelnuvo di Borgonovo (PC) "Kelly's" ore 21
sabato 1 aprile
Parma "The Clebbino" Borgo Cocconi 3/B ore 21
venerdì, febbraio 24, 2023
Telephone
Tra i gruppi rock francesi più rappresentativi in assoluto, i TELEPHONE vissero nell'arco artistico di 10 anni, dal 1976 al 1986, incidendo cinque album, vendendo sei milioni di dischi, andando in tour con i Rolling Stone e in Usa, Giappone e Inghilterra.
Si sono riuniti dal 2015 al 2017 per una serie di concerti con il nome di Les Insus.
TELEPHONE (1977)
L'esordio del novembre 1977, in piena esplosione punk è ancora però legato a classici stilemi rock 'n' roll, molto Stones e pub rock, pur se con grande tiro, energia, urgenza, spontaneità. Non male ma non il migliore.
Hygiaphone
https://www.youtube.com/watch?v=ah3ayYdRO5A
CRACHE TON VENIN (1979)
Il loro capolavoro, prodotto da Martin Rushent (già con Stranglers e Buzzcocks), abbraccia le sonorità punk, si avvicina al groove di Iggy Pop, duro ma mai banale. Gioielli come punbk rock "Fait divers" e "J'ai pas quoi faire" oltre all'aspra ballata "La bombe humaine" sono i momenti salienti ma tutto l'album è di livello altissimo. All'interno una foto della band nuda creerà problemi di censura.
Fait divers
https://www.youtube.com/watch?v=5ZPPicYAlFk
AU COEUR DE LA NUIT (1980)
Costantemente in tour e alla ricerca del consolidamento del precedente successo, si affidano ancora alla produzione di Rushent e approdano ai mitici Electric Lady Studios di New York. Il suono è più corposo e potente, i brani conservano la carica punk indulgendo spesso in un chiaro groove Stones. Se il precedente rimane preferibile per l'urgenza e la spontaneità "Au coeur de la nuit" si piazza appena dietro.
Au coeur de la nuit
https://www.youtube.com/watch?v=PdjySppcEXo
DURE LIMITE (1982)
La band tenta il salto internazionale ma pur vendendo 700.000 copie il disco li confina ancora solo in patria (nonostante una serie di date in Europa e in USA - a Chicago si troveranno di fronte solo due spettatori, una versione del disco in inglese - originariamente i testi dovevano essere tradotti da Lou Reed ma non se ne farà nulla). Produce Bob Ezrin (Alice Cooper, Lou Reed, Pink Floyd, Kiss), aprono il tour francese per i Rolling Stones e tanto altro. Il disco è buono, vira verso un pop rock meno rabbioso e più fruibile, un brano è firmato con Ivan Kral del Patti Smith Group.
Dure limite
https://www.youtube.com/watch?v=vXU3VveLWww
UN AUTRE MONDE (1984)
E' l'ultimo album della band, fiaccata da una carriera fulminante e divisa da diatribe interne. La prodduzione d Glyn Johns, i cori di John Entwistle in un brano, una verve sempre più pop rock non spostano le cifre di vendita in Francia ma non contribuiscono, nonostante anche un tour mondiale, a fare uscire la band dai confini.
La band si scioglie.
Un autre monde
https://www.youtube.com/watch?v=xqnZPHo6qx4
Le successive incarnazioni soliste saranno trascurabili, la reunion (senza la bassista Corine Marienneau) con il nome di Les Insus avrà successo ma la magìa no si ripeterà più.
giovedì, febbraio 23, 2023
Mosca e San Pietroburgo. Settembre 2022 #2
L'amico SOULFUL JULES, abituale frequentatore, per motivi di lavoro, dell'ex Urss, ci introduce nel clima di alcune zone, tristemente famose in questi giorni.
Ci aiuta a capire e ad approfondire, al di fuori di divisioni ideologiche, polarizzazioni, supposizioni.
Mosca e San Pietroburgo. Settembre 2022 - Seconda parte.
La prima parte qui: https://tonyface.blogspot.com/2023/02/mosca-e-san-pietroburgo-settembre-2022.html
Le precedenti puntate di "Tales from ex Urss" sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/Tales%20from%20Ex%20Urss
Dopo il primo appuntamento rientriamo a Mosca, lasciamo Tatjana a una fermata della metro e carichiamo in auto Vjačeslav, un suo collega con cui andiamo a visitare un produttore di cucine, un’azienda da trecento dipendenti.
Sono più a mio agio on Vjačeslav e Rafael, posso parlare in maniera diretta.
“È possibile che dichiarino la mobilitazione?”
Sui media occidentali se ne parla da qualche settimana e se Mosca dovesse arruolare i riservisti, lo status di “operazione militare speciale” potrebbe cambiare in “stato di guerra” con tanto di chiusura delle frontiere e introduzione della legge marziale.
“Tutto è possibile. Speriamo di no.” risponde Vjačeslav, che poi è quello che dice il russo medio.
“Non ci voglio pensare”, “speriamo si sistemi tutto”, “non possiamo farci niente”.
“Ma se annunciano la mobilitazione potresti essere richiamato?”
“Se chiamano i riservisti vanno per fasi. Conta il grado militare, l’età e l’anno del congedo. Io sarei chiamato al terzo turno. Comunque è difficile che ci sia una mobilitazione.”
“Parli mai con i clienti di quello che succede?”
“In genere cerco di evitare.
Qualcuno sostiene la guerra ma quando gli domando se è pronto a partire, tentenna. Anche tra quelli fanatici, quando gli chiedo se ci manderebbe figli o nipoti, il patriottismo si ammoscia.”
“E i prezzi? Sono aumentati?”
“Sì è tutto più caro! Quest’anno non abbiamo neanche fatto le ferie. In famiglia siamo in quattro, avrei pagato il doppio rispetto a gennaio. Aspettiamo, magari ci andiamo il prossimo anno.”
“Il mangiare?”
“Gli alimentari sono aumentati del 20%, dove non hanno alzato i prezzi hanno rimpicciolito le confezioni.
Lo zucchero costa un sacco, l’olio di semi è raddoppiato, adesso lo usano in pochi.”
L’olio di semi, che noi lo usiamo per friggere le patatine.
L’azienda è in un’area recintata.
Solita trafila: passaporti all’ingresso e telefonate alla referente con cui abbiamo appuntamento perché confermi che è tutto ok.
Dopo qualche minuto il guardiano ci rilascia un foglietto di carta che dovrà essere firmato e timbrato prima di uscire.
È una struttura grande, recente, il capannone in buone condizioni.
Abbiamo appuntamento al quarto piano, saliamo a piedi. Nell’alzata di ogni gradino è stampata una frase motivazionale in russo, tipo “La vittoria nasce dentro noi stessi” di Henry Ford e cose del genere.
Attraversiamo corridoi male illuminati e polverosi, alla fine di uno di questi ci aspetta Marina che chiede di pazientare un attimo, entra ed esce per vari uffici, poi ci invita a seguirla.
Scendiamo di un paio di piani, ci conduce dal direttore in una sala riunioni che sembra un ufficio prototipi.
Bussolotti di compensato, pannelli sagomati, cassetti, maniglie e complementi sparsi per la stanza.
Ci accomodiamo a un tavolo lungo quattro metri, sembra quello dell’incontro tra Putin e Macron, prima della guerra. Devo presentare articoli tecnici: attaccaglie per appendere i mobili alle pareti, reggiripiani per fissare le mensole, piedini di regolazione e sistemi di apertura a spinta, il push-to-open che tanti qua chiamano push-up, come il reggiseno imbottito, e invece serve per aprire le ante senza maniglia.
Impossibile mostrare dettagli grandi come un’unghia a oltre due metri di distanza, è più facile farlo su Zoom, mi alzo e mi metto a fianco del direttore, Vadim.
Parlo con calma della facilità di montaggio e di regolazione, gli spiego la capacità di carico, sia statico che dinamico. Vadim mi guarda, all’inizio non commenta, poi annuisce, come a dire che sì, effettivamente ci sono un sacco di vantaggi e inizia ad aggredire i collaboratori, Marina e i tecnici, due panzoni con il maglioncino arrotolato sopra la pancia.
“Perché non usiamo questo?” interroga il tipo alla sua destra, mostrandogli il piedino regolatore che gli ho appena passato “È quello che cercavo, ve l’ho detto un mese fa!” parla come se fossero servi.
Marina abbassa gli occhi, uno dei due cerca di tirarsi giù la maglia con le mani, quasi volesse acchiappare l’addome che sguscia via dappertutto.
Nessuno risponde, incassano con lo sguardo fisso sul tavolo, come gli scolaretti di trent’anni fa perché adesso se alzi la voce ti prendono a sberle, ti rigano la macchina e postano il video su TikTok.
Vadim indossa un piumino smanicato sopra una t-shirt che gli lascia le braccia scoperte; mentre parla con noi si leva dal gomito le crosticine della psoriasi, le valuta brevemente e poi le lascia cadere a terra.
Vuole provare gli articoli che ho mostrato, dà disposizioni ai due tecnici perché cambino tutto.
La presentazione sta andando bene, troppo a dire il vero, perché non funziona mai così, non con le grosse aziende. Qualsiasi cambiamento tecnico, pur offrendo una serie di benefici, anche economici, richiede sempre operazioni aggiuntive.
Per prima cosa bisogna testare gli articoli, costruire i prototipi dei mobili, effettuare le forature e poi le prove. Se i campioni funzionano, vanno modificati i disegni tecnici, le codifiche in anagrafica e nelle distinte-basi, poi c’è da fare un po’ di formazione in produzione e ai montatori perché cambiano le procedure a cui erano abituati.
Se dopo un incontro un’azienda decide di inserire due componenti è già un successo, Vadim ne vuole sostituire quindici.
Andrà a finire che faranno qualche test a caso, diranno che va tutto bene ma che ci devono pensare.
E rimarranno ingolfati su questi pensieri per dei mesi, nel prossimo incontro presenterò le stesse cose e reagiranno come fosse la prima volta che le vedono. Prima di andarmene faccio leva sul cavallo di battaglia degli ultimi mesi.
“Quante aziende europee vi hanno visitato di recente?”
“Nessuna.” rispondono prontamente.
Vadim però non ci sta a far cadere la cosa e rilancia.
“È vero che in Italia ci sono tanti episodi di russofobia?”
“No, mai sentito.”
“Qua da noi mentono?”
“Dipende. In Europa del sud e in Germania non credo ci sia un sentimento ostile verso la Russia. Nell’Europa dell’est, tipo in Polonia, è più diffuso.” Chiedi a Salvini.
“È vero che da voi il gas costa tre volte tanto?”
“Sì.”
“Ci vorrebbe… come si chiama…”
“Berlusconi.” rispondo controvoglia.
“Sì Berlusconi! Ha Ha Ha” sghignazza con lo sguardo da lucignolo. “Ci vorrebbe lui, per fare il governo con la mafia siciliana.”
“Ognuno ha la sua mafia.”
Vadim sorride ma non credo abbia capito.
Rientro in albergo prima di cena e accendo la tv.
Sul primo canale c’è un talk show, il conduttore calvo che a maggio esaltava l’umanità dei soldati russi oggi indossa una maglia nera con una V bianca. Riconosce le difficoltà delle truppe di Mosca sul campo, chiede il parere di un commentatore presente in studio, un signore sulla sessantina con fisico appesantito, occhiaie e voce roca da un pacco di cicche al giorno.
Il tipo inspira, come se stesse per dire qualcosa di sgradevole ma necessario.
“Noi combattiamo con un esercito di volontari mentre l’Ucraina ha il supporto di mercenari addestrati dalla Nato e dispone di armamenti sofisticati. Già a febbraio Kiev ha mobilitato una buona parte della popolazione maschile.”
“E allora cosa possiamo fare?” lo incalza il conduttore.
“Adesso noi stiamo conducendo un’operazione militare speciale. I nostri soldati stanno lottando meglio che possono ma sono pochi rispetto al nemico. Bisogna dichiarare lo stato di guerra, almeno in quelle regioni che sono al confine con le zone del conflitto.”
Pubblicità. Dopo il telegiornale una nuova serie tv, una produzione russa su Pietro Il Grande.
Nella rubrica dello sport ignorano i risultati della Champions League, mostrano gli highlights di Lokomotiv – Krasnodar. Un giocatore sconosciuto segna un gol davanti a uno stadio quasi vuoto.
Il giorno dopo ho altre visite in programma.
Alla mattina passa a prendermi Ruslan, un venditore.
In auto chiudo gli occhi, cerco di riposare.
Fuori è come ieri: grigio, bagnato, deprimente.
Lontano dal centro, il cemento dei cantieri e dei capannoni cede al verde selvatico e al legno delle casette fatiscenti. Attorno alle ville più recenti non ci sono ringhiere o staccionate ma lastroni di lamiera ondulata conficcati nel prato, quasi sempre sfasati, come i dossi nel terreno. Sono tre giorni che non vedo il sole e avverto già i sintomi del rachitismo.
Tiro fuori il cellulare, leggo un articolo sul sito del Guardian: in crisi l’autorità di Mosca nell’Asia Centrale.
Parla della guerra tra Armenia e Azerbaijan e del conflitto tra Tadjikistan e Kirgizistan, secondo il giornalista le ex repubbliche sovietiche stanno approfittando della debolezza della Russia, troppo impegnata in Ucraina per intervenire militarmente anche in quelle zone.
Ruslan mi distrae.
“Anche in Italia dovete mettervi le cinture?”
Iphone 13 e nessuna idea di come gira il mondo.
Eppure è anche grazie a gente come lui se vendo in questo paese.
In quindici anni ho visitato centinaia di aziende in uno spazio che va da San Pietroburgo a Irkutsk, seimila chilometri e cinque fusi orari.
Spesso ho portato io la luce nel buio pesto dell’estetica e della funzionalità, mostrando articoli e offrendo soluzioni inimmaginabili con un livello di presentazione e un grado di eloquenza abbastanza rari in quei posti, in molti casi mai più eguagliati.
Ho concluso delle vendite all’istante, a caldo, in maniera istintiva ed emozionale come ormai non si usa più, perché adesso ci sono mille aspetti da esaminare e certe volte la concorrenza fa i regalini al referente degli acquisti, una vacanzetta in Turchia o qualche cena al ristorante.
Ma quando poi te ne vai, quando prendi un aereo e ti metti sulle orecchie le cuffie della Bose con il noise-cancelling per zittire le miserie della gente seduta accanto a te, quando reclini lo schienale per leggere il Mago del Cremlino, sono i Ruslan di turno che prendono la macchina, il treno o il bus e continuano a visitare le fabbriche e i garage pieni di truciolo sul pavimento, anche se fuori fa meno trenta, e si occupano di tenere la roba a magazzino, di spiegare quel poco che han capito dei tuoi training di formazione e di vendere quello che tu vendi a loro.
E certe volte tu ti focalizzi sulle cifre, i moltiplicatori di una confezione e l’economia di scala, gli aspetti tecnici da trasmettere come il diametro della punta o l’escursione della regolazione e non importa quanto impegno e passione tu ci metti in questa cosa, prima di tutto devi aprire una porticina nella testa di Ruslan, guardarci un po’ dentro e rassicurarlo che sì, anche in Italia dobbiamo mettere le cinture di sicurezza quando si va in auto.
Terminato il primo incontro, mi viene a prendere Olga per andare a un appuntamento in centro.
Ci conosciamo da diversi anni e abbiamo un po’ di confidenza.
“Negli ultimi mesi è diventato tutto più caro. Non solo il mangiare ma anche i quaderni, i libri di scuola per mia figlia.”
Alla radio L’italiano di Toto Cutugno, l’ultima volta che l’ho sentita da noi andavo ancora alle elementari. Passa un camion verde, col telone. A bordo un gruppo di soldati giovani, uno fuma sporgendosi fuori, i capelli rasati e i segni dell’acne sulle guance. Chissà dove vanno.
Le domando della guerra.
“I primi giorni ero sotto shock, non riuscivo a crederci. Paralizzata dalla paura.” scuote la testa, come fosse ancora incredula “Mio marito ha fatto l’ufficiale in artiglieria. Potrebbe partire in qualsiasi momento. Piangevo. Cercavo in ogni modo di aiutare gli ucraini.”
“Tipo?”
“Una mia amica si occupa di beneficenza, le ho dato una mano a raccogliere vestiti e giocattoli per i bambini. Poi mio marito mi ha detto: “Non puoi continuare così, la tua vita è qui, con la tua famiglia.” E un po’ alla volta mi sono abituata.”
C’è amarezza nella sua voce. Rassegnazione.
“E tuo marito?”
“Non ne abbiamo mai parlato apertamente. Non vorrebbe partire ma ha detto che se lo chiamano lui ci va. Quando tutto questo è cominciato era d’accordo, poi forse ha cambiato idea.”
Alla sera guardo il solito talk show, ascolto mentre faccio addominali, i lombari che premono sulla moquette.
Anche oggi il conduttore indossa una maglietta con la V, intervista altri esperti che criticano aspramente la sudditanza dell’Europa nei confronti degli Stati Uniti.
“Bruxelles non decide niente, fa tutto quello che ordinano gli USA. Oggi le sanzioni, domani un’aggressione armata contro la Russia.”
Il giorno dopo, venerdì, lo trascorro in ufficio dal mio distributore.
Devo mostrare i nuovi prodotti ai venditori, così sanno come presentarli quando vanno in giro. In una stanzetta buia sono radunate una ventina di persone, su uno schermo appeso al muro vengono proiettati video e disegni tecnici.
È un’altra cosa rispetto a un incontro frontale perché richiede maggiore chiarezza nell’esposizione, un’impostazione diversa della voce, il tono più caldo, occorre fare pause; filmati e immagini devono partire in maniera tempestiva, coordinata, bisogna catturare l’attenzione di più teste e mantenerla viva per un’ora o poco più.
Ho iniziato una quindicina di anni fa a tenere seminari, la prima volta a Nižnyj Novgorod, davanti a duecento persone.
Una sala grande, il pavimento di piastrelle lucide, un pubblico interessato e io rimbecillito dal sonno dopo una notte in treno, non ero nemmeno riuscito a ripassarmi i testi delle presentazioni perché stavo in cuccetta con quattro persone al buio e il bambino sopra il mio letto giocava coi soldatini e faceva il rumore delle esplosioni con la bocca, neanche la madre riusciva a zittirlo.
Il giorno dopo mi ero trovato in una situazione imbarazzante, a corto di voce, le parole mi si spegnevano in bocca, tutti gli occhi puntati addosso con l’espressione di chi pensa:
“Che cazzo sta dicendo questo?”
Rimasi scottato da quell’umiliazione e per i seminari successivi mi preparai con cura, imparai a memoria la presentazione di ogni articolo e feci decine di prove davanti allo specchio.
Quando pochi mesi dopo ad Omsk, nella Siberia occidentale, fu organizzato un evento con cinque aziende, parlai per ultimo e feci il miglior speech di tutti davanti a sette persone in un teatro polveroso di epoca sovietica.
Nel corso degli anni gli strumenti si sono evoluti, oggi condivido dal mio portatile un report della fiera di Milano, il focus sui nuovi trend.
Le basi sospese che permettono di giocare con i volumi, la popolarità delle tinte pastello, l’importanza dell’illuminazione all’interno delle vetrine e il design pulito delle ante senza maniglie.
Qualcuno sonnecchia, altri fanno domande impossibili.
No, la reggimensola Star non è disponibile in verde e non si può produrre in dieci paia.
Siamo un’industria, non un’officina.
In pausa pranzo esco a fare due passi con Lëša, uno dei product manager. Studia il mercato, la concorrenza, raccoglie tutte le informazioni tecniche sugli articoli che poi finiscono a catalogo, risponde alle domande dei venditori.
È un ragazzo simpatico, attacca sempre allo stesso modo.
“Ciao, como estai?”.
Facciamo il giro del quartiere, abbottono il trench perché tira aria.
“Senti ma in tv è da un paio di sere che parlano dello stato di guerra. Tu come la vedi?”
“Non ci voglio neanche pensare. Con gli amici, quando tutto è iniziato, ci si trovava e non riuscivamo a discutere d’altro. Poi abbiamo fatto un patto, abbiamo smesso di parlarne.” articola tutte le sillabe lentamente, in maniera netta, per rendere meglio il concetto, come quando spieghi le cose ai bambini. Poi però cambia tono e accelera, dubbioso “Ma dov’è che l’hai sentita ‘sta cosa? Da voi?”
“No, qua, sul primo canale, a ora di cena.”
Scoppia in una risata potente, sollevato.
“Lascia stare la tv! Da noi in ufficio non la guarda nessuno, chiedi a Slava.”
Slava è il suo capo, il ragazzo di origine bielorussa con cui lavoro da quindici anni.
All’inizio andavamo insieme a fare i seminari in giro per la Russia. Slava si metteva con le mani congiunte davanti al pacco come certi buttafuori e quando era il suo turno recitava la parte a duecento all’ora, senza respirare. Poi ha imparato a inalare dal naso e forse anche per questo è diventato capo dell’ufficio dove era entrato come stagista.
Costeggiamo un palazzo con la facciata ricoperta di piastrelle marroncine, il perimetro delimitato da un nastro bianco e rosso perché i passanti non camminino sotto il tetto.
“Occhio che ci casca in testa un oligarca.” dico scherzando.
Lëša ride, ma in maniera meno convinta rispetto a prima.
“Hai visto che la scorsa settimana è caduto dal settimo piano un dirigente di Lukoil?”
“No” risponde serio “è la prima volta che lo sento. Ma sei sicuro?”
“Sì, sì, era su tutti i giornali.”
Inarca le sopracciglia e piega la bocca verso il basso, incredulo.
Rientrati in ufficio, Slava invita i colleghi e le ragazze degli acquisti a disporsi attorno alla scrivania di Andrej, un collaboratore che oggi compie gli anni.
Sono tutti radunati in piedi, aspettano che Slava prenda la parola. Il capo si sistema il bavero della giacca, raddrizza la schiena e parla con tono formale. Tiene ancora le mani raccolte davanti al pacco.
“In questo giorno importante, Andrej, a nome mio e dei colleghi, ti auguro che tutti i tuoi sogni si avverino. Sei un professionista, è un piacere lavorare con te e ti meriti tutto ciò che desideri.”
Andrej è rosso in faccia, non si aspettava queste parole, anche se in Russia si usa così, per gli auguri di compleanno fanno sempre il discorsetto. Si alza in piedi per rispondere.
“Grazie, grazie di cuore. Per me è un onore lavorare con voi.” borbotta commosso, gli occhi lucidi.
A fine giornata prenoto un taxi, Slava mi accompagna alla porta e facciamo due chiacchiere.
“Uhh non vedo l’ora di venire in Italia per la fiera, a ottobre. Sono tre anni che aspetto.”
“Prima il covid, adesso la guerra. Speriamo che non chiudano tutto.”
“Se l’occidente smette di mandare armi la guerra finisce in due mesi.”
Lo guardo senza rispondere, gli occhi allargati e la fronte increspata. Slava si scalda.
“Quante armi ha mandato l’America? Da quanti anni si preparava l’Ucraina? Sai che io non sono per la guerra ma magari è vero che se non fossimo intervenuti…”
“Dai Slava! Il secondo esercito del mondo non ha fatto errori? È arrivato con le truppe preparate, gli armamenti a posto?”
È un classico in Russia, quando c’è un problema è difficile che qualcuno dica “ho sbagliato”, “è colpa mia”, “sono un cazzone”. Nessuno si prende la responsabilità, parte lo scaricabarile secondo la struttura verticistica, dall’alto verso il basso, e quando si arriva all’ultimo anello della catena si passa al metafisico: “chi lo avrebbe immaginato?”, “non è mai successo”, “non possiamo farci niente”.
“Cosa succede se dichiarano lo stato di guerra?”
“Non ci voglio pensare.”
“Chiudono i confini?”
“Te lo ripeto, non ci voglio pensare. Perché tanto né io né tu possiamo farci niente e se dichiarano lo stato di guerra cambia tutto. Non staremo più qua a parlare di vendite, meno venti, più trenta percento, novità, trasporti, pagamenti, crisi. Cambia tutto. Ci sarà un prima e un dopo e a quel dopo non ci voglio pensare.”
“E gli oligarchi che cadono dai palazzi?”
Mi guarda sorpreso, come se parlassi degli ufo.
“È la prima volta che lo sento.”
martedì, febbraio 21, 2023
Gennaro Shamano Cozzolino - Neapolis 2125
Gennaro Shamano Cozzolino è l'autore di un'eccellente testimonianza sulla sua vita di strada in contesti punk e affini, "L'asfalto sulla pelle": https://tonyface.blogspot.com/2022/08/gennaro-shamano-l-asfalto-sulla-pelle.html).
In questo caso si cimenta invece con un romanzo distopico, ambientato nel 2125 nella sua Napoli, in cui la maggioranza degli abitanti è costretta da un'epidemia, sfruttata a dovere dal potere, a vivere reclusa negli "alveari", controllati a vista e costantemente davanti a uno schermo di un computer.
Due giovani si ribelleranno alle imposizioni, raggiungeranno un gruppo di rivoltosi nei sotterranei partenopei e proveranno a cambiare le carte in tavola.
Gennaro scrive in modo efficace e coinvolgente ma quello che sorprende e impressiona è che il romanzo fu concepito e scritto nel 2018 (pubblicato poi nel 2020) e riproduce fedelmente quello che accadrà due anni dopo, tra Covid e lockdown.
Corredato da tavole a fumetti che seguono il racconto, piacerà tantissimo a chi ama l'ambito "futurista" (perché di fantascienza qua, purtroppo, non si può più parlare).
Gennaro “Shamano” Cozzolino
Neapolis 2125
10 euro
247 pagine
Edizioni Monte Bove
lunedì, febbraio 20, 2023
Joyello Triolo - Maurizio
Riprendo l'articolo pubblicato domenica per "Libertà".
La musica italiana ha prodotto nel corso della sua storia una lunga serie di eccellenze delle quali troppo spesso ci siamo dimenticati, preferendo guardare all’estero, non di rado abbracciando esperienze di gran lunga inferiori a quanto avevamo e abbiamo sotto il naso.
A volte complice è una sorta di snobismo autolesionista che svilisce tutto ciò che abbiamo intorno come se non fosse degno della giusta attenzione.
L’elenco è lungo e dettagliato e non mancano nomi attualmente in circolazione che meriterebbero attenzione ben maggiore rispetto a quanta ne ricevono.
E’ uscita da poco, per Crac Edizioni, una biografia, a cura dello scrittore, giornalista e musicista Joyello Triolo.
intitolata “Maurizio”. Lui era Maurizio Arcieri, funambolico cantante, musicista, artista, videomaker, innovatore, visionario. Avrebbe compiuto ottanta anni, se non ci avesse lasciati, dopo una lunga malattia, nel 2015. Il libro ne celebra le gesta, attraverso una dettagliatissima discografia, aneddoti (alcuni dei quali incredibili) e un’intervista esclusiva insieme alla compagna e moglie di sempre, Christina Moser che se ne è andata invece lo scorso ottobre.
Maurizio Arcieri ha attraversato tutto l’arco temporale della storia del rock, dagli anni Sessanta al 2010. Triolo sintetizza bene il suo profilo in poche righe: “La cosa che ricordo meglio di lui (Triolo è stato anche autore di un tributo ai Krisma, band di Arcieri e la moglie, e ha avuto stretti contatti con la coppia) è la sua rassicurante consapevolezza: conosceva alla perfezione il suo valore, sapeva di aver contribuito in maniera sostanziosa al rinnovamento della musica pop ma sembrava sempre alla ricerca di qualcosa in più, di nuovo o diverso come un bambino smanioso di esplorare la vita.
Ciò nonostante appariva umile e socievole, non si poneva mai su un piedistallo e, anzi, cercava sempre di trovare nuovi collegamenti con chiunque. A pochi minuti dall’averlo conosciuti già ti sentivi suo amico, perché sapeva aprire il suo cuore assieme al diario di ricordi riferiti alla miriade delle sue esperienze artistiche. Maurizio aveva il raro dono dell’umiltà...ha lavorato per il cinema e per la televisione, è diventato una star dei fotoromanzi, ha elaborato, progettato e costruito strumenti musicali elettronici e si è applicato anche nell’arte delle videoinstallazoni creando anche una vera e propria stazione televisiva d’avanguardia che, via satellite, proponeva immagini e suoni della società degradata degli ultimi anni del XX secolo.
Ciò nonostante è principalmente il suo percorso discografico a mettere meglio in luce la singolare caparbietà professionale che gli ha consentito di unire, con maestria e rigore, l’alto e il basso con consapevole leggerezza. Tra i musicisti con cui ha lavorato si trovano nomi eccellenti: Vangelis, Osibisa, Franco Battiato, Subsonica, Joe Vannelli, Arto Lindsay”.
Arcieri incomincia la carriera nel migliore dei modi.
E’ il 1965, l’Italia incomincia a pullulare di gruppi beat, diretta filiazione, il più delle volte al limite del plagio, di Beatles e Rolling Stones.
Qualcuno però guarda più in là, osa di più, ricerca riferimenti meno scontati.
I New Dada sono tra questi.
Maurizio è il cantante, la band suona bene, l’estetica è curata: capelli lunghi ma pettinati e ben tenuti, nuovi dandy ribelli ma sofisticati, fino ad essere altezzosi.
Maurizio è bello, biondo, affascinante, aspetto aristocratico. Dureranno poco ma infileranno una serie di piccoli successi, un album interessante in cui inseriscono brani non convenzionali ma, anzi, piuttosto ricercati, da Little Richard a James Brown ai Kinks, a cui si aggiungono buone canzoni autografe che si rifanno spesso a un potente rhythm and blues di stampo americano.
Il gruppo miete successo e attenzioni, fino ad arrivare ad aprire i concerti italiani dei Beatles nel 1965, in cui si affiancano a Peppino di Capri e Fausto Leali, tra gli altri.
Si mormora che furono proprio i genitori di due dei componenti del gruppo (tra cui quello che diventerà poi famoso con lo pseudonimo de Il Guardiano del Faro), esponenti della nobiltà milanese, a convincere l’organizzatore Leo Watcher a portare i Fab Four in Italia, in cambio della partecipazione del gruppo dei figli con tanto di contributo alle spese per gli eventi.
I concerti permisero ai New Dada di proporsi davanti a migliaia di persone e a ottenere una popolarità ancora maggiore.
Purtroppo la storia della band finì, curiosamente, dopo l’incisione di un brano dei Rolling Stones, “Lady Jane” con tanto di orchestrazione e testo cambiato (l’originale aveva una serie di sottointesi metaforici un po’ spinti).
Il singolo ha successo ma la band si divide tra ripicche e litigi.
Maurizio prosegue con una carriera solista dignitosa in cui alterna brani piuttosto commerciali e ammiccanti a scelte più coraggiose, come “24 ore spese bene con amore” che non è altro che la cover di “Spinning wheel” dei Blood Sweat and Tears e una, convincente e ben fatta, di “We’re not gonna take it” degli Who tratta da “Tommy”, intitolata “Guardami, aiutami, toccami, guariscimi”, fino a “La decisione” del 1972 in cui ammicca all’hard rock inglese del periodo.
Collabora in questi anni con future star della musica italiana come Paolo Conte e Franco Battiato, ottiene un discreto successo (anche grazie all’attività di attore di fotoromanzi, sfruttando la sua indubbia bellezza) ma il suo spirito irrequieto e la ricerca di nuovi orizzonti lo spinge a sperimentare con nuovi suoni ed esperienze.
Nel 1973 pubblica, per la prima (e unica) volta come Maurizio Arcieri, “Trasparenze”, un album concepito in quanto tale e non come raccolta di singoli di successo. E’ un lavoro anomalo in cui rifugge da elementi facili e pop, per abbracciare sonorità vicine alle nuove tendenze progessive, più complesse ed elaborate. Un album particolare, molto personale, che rimane però confinato in un oblìo immeritato e trova scarsa considerazione
. Ci sarà tempo ancora per un paio di 45 giri e per una curiosa apparizione come voce narrante italiana in una versione di “Pierino e il lupo” a cui partecipano nomi eccellenti del rock internazionale, da Phil Collins a Brian Eno.
Sposa la compagna di sempre, Christina Moser e inizia una nuova fase artistica.
Fondano i Chrisma (dalle iniziali dei rispettivi nomi), incidono due 45 giri collaborando con il futuro celeberrimo compositore Vangelis, di scarso spessore artistico, a base di pop e discomusic con cui partecipano al Festivalbar del 1976 per poi cambiare sorprendentemente e approdare a una delle esperienze più innovative della musica italiana di sempre. E’ il 1977, esplodono punk e new wave e i Chrisma sono già lì, in prima fila, con l’album “Chinese restaurant”, registrato a Londra, elettronico, ipnotico, algido, sperimentale. Il singolo “Lola”, tango decadente e conturbante, trova anche il successo di classifica.
Assurgono a scandalizzata popolarità quando Maurizio si taglia, provocatoriamente e involontariamente, un dito sul palco, finendo su tutti i giornali come simbolo del punk autodistruttivo.
Replicheranno due anni dopo con “Hibernation”, altro lavoro che si muove su coordinate simili e da cui estrarranno il singolo ”Aurora B” che avrà il privilegio, antesignani e pionieri, di avere il primo video in Italia.
“Cathode mama” dona loro un nuovo nome, Krisma e anche il singolo di maggior successo, “Many kisses”, molto pop pur se sempre declinato in sonorità elettronico/new wave che però sono diventate ormai meno innovative e già utilizzate da parecchi altri gruppi.
La band prosegue con varie altre uscite discografiche ma che raccolgono meno successo, sono spesso discontinue, subiscono anche problematiche a livello discografico, lunghe e volute assenze, sperimentazioni, avanguardia, evoluzioni verso forme primordiali di techno, l’apertura di un canale satellitare, Krisma-Tv.
Azioni il più delle volte incomprese, troppo avanti e anomale per essere commercializzate e destinate invece a un limbo e a una nicchia.
Il loro valore viene progressivamente riconosciuto, tornano in auge, collaborano con l’antico amico Franco Battiato e con i Subsonica, vengono omaggiati con tributi e cover, riappaiono in qualità di stralunati opinionisti in una trasmissione televisiva di Piero Chiambretti, proseguono a giocare e a sperimentare con web ed elettronica.
Rileggere la carriera e riascoltare la produzione discografica di Maurizio Arcieri ci rivela quanto sia ancora stimolante fresca e interessante la sua arte e quanto sia stato sottovalutato il suo apporto alla musica nostrana.
Può essere il momento per farlo.
Joyello Triolo
Maurizio Crac Edizioni
172 pagine
14 euro
sabato, febbraio 18, 2023
Presentazioni Northern Soul
Presentazioni del libro "NORTHERN SOUL" edito da Agenzia X.
Prossimi appuntamenti fino a marzo:
sabato 11 febbraio
Imperia "Tuttomusica" Piazza Unità Nazionale 1 ore 17
https://www.facebook.com/events/738050037587507
sabato 18 febbraio:
Milano "Reverend" via Zuretti 9 ore 19
venerdì 24 febbraio
Bologna "Hellnation Store" ore 18, via dell'Artigiano 17b presentazione di "Soul"
Bologna "Buccia via Fratelli Rosselli 10 presentazione di "Northern Soul"
sabato 4 marzo
Brescia ore 19
domenica 12 marzo
Torino "Jazz Club" via Valdo Fusi ore 18
sabato 18 marzo
Viareggio "Vegas" Viale Europa ore 21
venerdì 24 marzo
Lido Adriano (RA) "Cisim" viale Parini 48 ore 21
domenica 26 marzo
Castelnuvo di Borgonovo (PC) "Kelly's" ore 21
sabato 1 aprile
Parma "The Clebbino" Borgo Cocconi 3/B ore 21
Prossimi appuntamenti fino a marzo:
sabato 11 febbraio
Imperia "Tuttomusica" Piazza Unità Nazionale 1 ore 17
https://www.facebook.com/events/738050037587507
sabato 18 febbraio:
Milano "Reverend" via Zuretti 9 ore 19
venerdì 24 febbraio
Bologna "Hellnation Store" ore 18, via dell'Artigiano 17b presentazione di "Soul"
Bologna "Buccia via Fratelli Rosselli 10 presentazione di "Northern Soul"
sabato 4 marzo
Brescia ore 19
domenica 12 marzo
Torino "Jazz Club" via Valdo Fusi ore 18
sabato 18 marzo
Viareggio "Vegas" Viale Europa ore 21
venerdì 24 marzo
Lido Adriano (RA) "Cisim" viale Parini 48 ore 21
domenica 26 marzo
Castelnuvo di Borgonovo (PC) "Kelly's" ore 21
sabato 1 aprile
Parma "The Clebbino" Borgo Cocconi 3/B ore 21
venerdì, febbraio 17, 2023
Mosca e San Pietroburgo. Settembre 2022
Moscow City
L'amico SOULFUL JULES, abituale frequentatore, per motivi di lavoro, dell'ex Urss, ci introduce nel clima di alcune zone, tristemente famose in questi giorni.
Ci aiuta a capire e ad approfondire, al di fuori di divisioni ideologiche, polarizzazioni, supposizioni.
Le precedenti puntate di "Tales from ex Urss" sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/Tales%20from%20Ex%20Urss
MOSCA E SAN PIETROBURGO A SETTEMBRE
PRIMA PARTE
“Ciao mamma.”
“Come va?”
“Tutto ok. Senti, per i bambini, la settimana prossima potete tenerli voi il pomeriggio? La Nico è a scuola e io vado a Mosca.”
Silenzio.
“Ma è proprio necessario?”
“È il mio lavoro.”
“Non puoi fare su Whatsapp?”
No, non si può fare su Whatsapp.
Per un anno e mezzo mi sono sbattuto a organizzare incontri e presentazioni su Zoom.
Connessione lenta, “non si sente niente”, “aspetta che accendo la telecamera”. Difficile mostrare la nuova cerniera per ante a ribalta, senza viti sul pannello. Come fai a spiegare la cinematica, il movimento brevettato del braccetto in acciaio che solleva la porta senza toccare il piano. Ti sudano le ascelle dalla tensione mentre cerchi di trasmettere il concetto di estetica e funzionalità, dai un’occhiata al riquadro in alto sullo schermo e il tipo si cura le unghie con un cacciavite, di quelli a taglio, sottili. Forse è uno scalpellino.
Meglio spendere duemila euro per vederli dal vivo, gli artigiani dell’ex Urss che si fanno la manicure con gli utensili.<
Manca ancora un po’ all’imbarco per Istanbul.
Mi siedo su una poltroncina davanti al gate e tiro fuori un libro dallo zaino.
Il Mago del Cremlino, di Giuliano da Empoli, un economista che scrive come un romanziere e racconta la storia di uno dei consiglieri di Putin, il capo della propaganda di Mosca per quasi vent’anni. L’infanzia privilegiata di un rampollo della nomenklatura sovietica, il crollo dell’Urss dal punto di vista della “generazione che ha assistito all’umiliazione dei padri”, le contraddizioni di un uomo di cultura che voleva lavorare nel teatro e si è trovato la Russia come palcoscenico, centocinquanta milioni di figuranti a disposizione.
Un tizio in carne si piazza vicino a me, fa una telefonata di lavoro, dà disposizioni, forse a un’assistente. Parla in modo deciso, pronuncia con enfasi parole come “strategico”, “essenziale”, “progetto su misura”, non si sforza neanche di abbassare la voce.
Termina la chiamata e attacca bottone con un conoscente che gli si è avvicinato.
Sono entrambi venditori, quello in piedi si lamenta della sua azienda, il tono sconsolato, al limite della depressione.
Quello accanto a me ha il modo arrembante da commerciale alfa che spara cifre appena apre bocca. “Tutto bene”, “siamo pieni di ordini”, “quest’anno più dieci per cento”.
L’altro, magro e coi capelli più grigi dei miei, non ci prova neanche, confessa di aver passato un’estate difficile.
“Son tornato dall’Irlanda e mi sono preso il covid. Poi se l’è beccato anche la mia ragazza e così siamo rimasti chiusi in un bilocale quaranta giorni.”
“Quaranta giorni?” interroga scettico il ciccio.
“Guarda che c’è gente che è rimasta positiva anche due mesi…”
“Sì, sì ma mi pare tanto lo stesso…”
“Puoi immaginarti che atmosfera durante la quarantena, col caldo che faceva.
Saltate anche le vacanze.” continua il suo racconto con voce lamentosa, il peggio deve ancora arrivare.
“Appena siamo tornati liberi la mia ragazza è andata da una psicologa.
Il giorno dopo ha preso tutte le sue cose ed è andata via di casa.” “E tutto per una seduta?” domanda sempre meno convinto il mio vicino.
“In psicologia si chiama effetto-trigger.” spiega il grigio con tono saccente.
Il tecnicismo italo-inglese è la chiave di tutto, la fatalità che innesca la sfiga.
“Chissà cosa aveva in testa.” commenta rassegnato.
“Eh beh, certo. Se aveva già i suoi problemi, magari la seduta le ha smosso qualcosa. Vai a sapere. Ma adesso siete in contatto?”
“Non vuole più vedermi, ha cambiato numero.”
“Ma allora aveva sì qualcosa che non andava. Forse è meglio così.”
“Mah, vediamo.” conclude il grigio.
Secondo me non è rimasto molto da vedere.
v Tiro fuori il cellulare dalla tasca dei jeans senza spostare lo sguardo dalla pagina e prendo nota della conversazione, così imparano a chiacchierare a voce alta mentre cerco di leggere i libri di Giuliano da Empoli.
Il Mago del Cremlino.
Chissà se l’hanno tradotto anche in russo. C’è meno gente del solito sul volo Istanbul – Mosca, qualche posto è rimasto libero.
Il cielo è cupo e le temperature si sono abbassate anche in Turchia, l’estate è agli sgoccioli.
Restano immutate le sporgenze di zigomi e labbra sui volti lucidi delle signore che maneggiano i dispositivi Apple con le dita inarcuate, le unghie troppo lunghe per digitare sullo schermo coi polpastrelli.
Qualche felpa Abercrombie col cappuccio, il logo enorme sul petto di uomini di mezza età, che è anche la mia mezza età.
I passeggeri sono silenziosi, sonnecchiano o guardano le foto delle vacanze mentre un americano sbadiglia rumorosamente, un muggito che si propaga per la fusoliera a intervalli regolari.
All’aeroporto di Vnukovo ricevo i bagagli e prenoto un taxi.
Machačkala
L’autista si chiama Renad, è originario di Machačkala, capitale del Dagestan, sul Mar Caspio.
Ci vuole un’ora di strada per arrivare in albergo, per farmela passare gli faccio le solite domande. Renad dice che da quando “tutto è incominciato” le auto sono diventate più care ma per il resto non c’è nessuna differenza.
Non usa mai la parola guerra.
“Peccato per la gente che muore ma è andata così.” commenta con distacco, la voce limpida, senza emozioni “Dicono che se non avessimo attaccato noi, ci avrebbero attaccato loro.”
“Anche l’Europa ha le sue colpe, siamo coinvolti in questa faccenda.
Adesso bisogna trovare un accordo.” Sono sei mesi che lo ripeto, ormai ho smesso di crederci ma suona bene.
“Putin dice che non dovevano mettere i missili al confine e su questo ha ragione.” annuisce mentre parla, il frontino del berretto nero oscilla su e giù.
Il discorso cade su quelli che hanno lasciato il paese, in parlamento minacciano di togliere la cittadinanza a chi non rientra.
“Ma qua parlano e non fanno niente. Lukašenko invece ha detto che se non tornano gliela toglie davvero, la cittadinanza. Lukašenko è un duro.”
Parla con ammirazione del presidente bielorusso, uno che governa con il pugno di ferro.
Renad ha gli occhi azzurri e i capelli castani, la barba rossiccia. Gli chiedo se è proprio originario del Daghestan.
Conferma, è di etnia lesga, una delle quaranta nazionalità che convivono nel suo paese. Parla il russo ma è di madrelingua lesga.
Sono stato una volta a Machačkala, sette o otto anni fa. Prima di arrivare, il cliente, Azamat, mi aveva rassicurato.
“Non ti preoccupare, qua è tranquillo.”
A ogni incrocio c’era polizia in tenuta antisommossa, casco e giubbetto antiproiettile nero, il fucile semiautomatico imbracciato all’altezza del petto, l’indice pronto sul grilletto.
Per il resto non si stava male, tutti gentili, mix di barbe, veli scuri e occhi azzurri, gente ospitale che non ti lasciava mai da solo, ogni volta al ristorante un pranzo di matrimonio. Azamat portava bene i suoi cinquantacinque anni.
“Mia mamma va per i novanta. Qua ci sono tanti vecchi perché sono quasi tutti musulmani.
Non bevono e non fumano.”
Il giorno dopo la mia partenza le teste di cuoio avevano fatto un blitz in centro, dietro il mio albergo, e avevano “liquidato” un gruppo di terroristi.
In taxi passiamo accanto a un palazzo con la facciata ricoperta da un maxischermo led che trasmette la pubblicità di un Suv cinese, un marchio mai sentito; qualche mese fa ci sarebbe stata una BMW o una Bentley.
Costeggiamo la city, l’area con la più alta concentrazione di grattacieli in vetro e acciaio di Mosca, quasi tutti uffici, le luci ancora accese all’interno di palazzoni di trenta o quaranta piani che brillano al tramonto.
Renad interrompe il flusso di pensieri.
“Lei ha un’aria da intellettuale.” dice intelligent, senza malizia “Porta gli occhiali, ha la sciarpa. Le piace vivere qua?”
“Non vivo qua, ci vengo per lavoro. Mi piace Mosca d’estate ma è pesante come città. Il traffico, lo smog, il freddo e il buio di inverno. Sto bene dove abito, in Italia.”
“In Italia?” ribatte sbalordito, come gli avessi detto che vengo dalle isole Tonga. “Anche da voi ci sono le code per strada?”
“Sì, nelle grandi città. Roma, Milano.”
“Voi avete il dollaro vero?”
“No, abbiamo l’euro.”
“Ah, l’euro. Parlate inglese?” “In italiano.” sembra di chiacchierare con un bambino dell’asilo “Hai famiglia?” domando per cambiare discorso.
“Mia moglie lavorava come parrucchiera, guadagnava bene con le trecce. Poi si è messa a fare la maestra di asilo e così hanno preso anche nostro figlio, senza problemi. Non so da voi, ma qua è difficile entrare negli asili pubblici se non hai agganci.
Quelli privati costano troppo.
Con due stipendi non riusciamo a permettercelo. Mi moglie prende 25.000 rubli al mese.” Quasi quattrocento euro, al cambio attuale. “Adesso non è facile trovare lavoro, molti sono stati licenziati.”
“In che settori?”
Ci pensa un po’, alza gli occhi per concentrarsi.
“Beh, conosco gente che lavorava nella metropolitana, altri in aeroporto, poi camion, trasporti e anche internet.”
“Internet?”
“Tante aziende straniere se ne sono andate.”
“Conosci nessuno che combatte in Ucraina?”
“Un mio vicino, soldato di professione. È stato ferito a marzo, ha perso un occhio. Poi un mio amico bielorusso. Abbiamo litigato.”
“Ah sì?”
“Voleva che andassimo a combattere insieme, contro la Russia. Quando gli ho chiesto se era scemo mi ha riempito di parolacce, anche su mia madre. E questo non va bene.”
Scuote la testa mentre lasciamo sulla destra l’ippodromo con le colonne palladiane e le guglie gotiche. Ormai siamo arrivati in albergo, pago in contanti e lo saluto.
In tv mostrano i volti dei soldati che hanno compiuto gesti di eroismo.
Un gruppo di giovani volontari sistema una scuola di Lugansk, i vetri rotti, i telai delle porte scardinati dalle granate dell’artiglieria ucraina.
A Mariupol, due clown con la faccia dipinta di bianco e le scarpe enormi fanno uno spettacolo per i bambini di un asilo, seduti a terra in semicerchio, gli occhi azzurri sbarrati, i capelli raccolti in trecce o code, ordinate e simmetriche.
Disney, Amazon e Netflix non si aprono sul mio telefono.
Il giorno dopo lascio l’albergo di buon’ora per visitare un cliente fuori Mosca.
Nel parcheggio mi aspettano Rafael, l’autista, e Tatjana, una venditrice del nostro distributore.
È appena rientrata dalle ferie, la pelle scura in contrasto con il cielo grigio e la pioggerellina di metà settembre che cade sul piazzale dell’hotel. Qua è autunno e da noi ci sono trentatre gradi.
“Dove sei stata in vacanza?”
“In Crimea, due settimane. Faceva veramente caldo.” dice soddisfatta.
“E non hai avuto problemi?”
“Nessun problema. Si stava benissimo.” alza il tono sull’ultima parola come per rimarcare la stupidità della mia domanda.
Me la vedo Tatjana in bikini, sdraiata sul telo mare sopra la sabbia bianca di Yalta, la pelle unta di crema abbronzante, occhiali scuri e cuffiette, il sole alto e una colonna di fumo che si alza alle sue spalle, i razzi dell’artiglieria ucraina hanno fatto centro.
Nuvole scure e allungate coprono le punte dei grattacieli della City, scivolano veloci, spostate dal vento. Le facciate a specchio dei palazzi riflettono i bracci gialli delle gru, decine di cantieri aperti per lo sviluppo verticale di acciaio, vetro e cemento.
Alla radio parlano del deficit di automobili, invitano a comprarle a Vladivostok, dove arrivano container pieni di veicoli usati dal Giappone e dalla Corea.
Da Mosca sono nove ore di volo, quasi una settimana in treno, oltre novemila chilometri di distanza.
Festival della Gioventù 1957
Costeggiamo il parco Lužniki, dove stanno costruendo un complesso residenziale e commerciale.
Sulle grate che delimitano l’area dei lavori sono appesi dei banner commemorativi in pvc per l’anniversario del “Festival mondiale della gioventù e degli studenti”.
Nell’estate del 1957, nello stadio all’interno di questo parco, si tenne la cerimonia inaugurale di un evento simbolico della fase del disgelo avviata da Chruščhev, quattro anni dopo la morte di Stalin.
Nella capitale russa arrivarono oltre trentamila ragazzi da tutto il mondo, anche dall’Italia, e i giovani moscoviti poterono finalmente incontrare coetanei di altri paesi senza timore di denunce o delazioni.
Con gli stranieri comparvero i blue jeans, considerati per almeno altri trent’anni il simbolo della degenerazione capitalista. Ancora oggi, girando per uffici è raro vedere gente che indossa pantaloni di denim.
Nel corso della manifestazione fece ritorno nell’Urss il jazz, molto popolare fino agli anni venti e censurato poi da Stalin in quanto genere borghese.
Il successo dei vari concerti, tenuti principalmente da musicisti dell’est Europa, contribuì alla diffusione del jazz nella realtà sovietica con la nascita di club e festival dedicati.
Le conferenze e i dibattiti si tenevano di giorno nei teatri, nelle sedi delle organizzazioni giovanili e nelle università della capitale, sotto gli occhi vigili delle autorità e degli adulti; di sera il controllo si allentava e i ragazzi socializzavano nei parchi, al chiaro di luna.
Nove mesi dopo, nella capitale si registrò un boom di nascite con la comparsa della prima generazione di sovietici mulatti, soprannominati “I bambini del Festival”. Sono chiamati così anche quelli nati in circostanze simili dopo le olimpiadi di Mosca del 1980 ma negli ultimi venti anni non credo di averne mai incontrato uno.
Attraversiamo un ponte sul fiume Moscova, le rive ancora verdi di alberi e cespugli, tra una decina di giorni i colori predominanti saranno il giallo, l’arancio e il marrone.
Alla nostra destra si muove una scia di studenti che indossano sciarpe e giacconi col cappuccio, si affrettano verso l’ingresso del MGU, l’Università Statale di Mosca.
Lungo la strada, nuovi punti vendita di Vkusno i Točka nei ristoranti che una volta erano Mc Donald’s; il rosso è sparito dalle insegne, poco invitante la nuova combinazione di verde e giallo.
Le auto e i furgoni sono quasi tutti di brand stranieri e anche i camion russi hanno componenti occidentali:
pompe idrauliche, montacarichi, pistoni; tutta roba di importazione che adesso si trova a fatica per via delle sanzioni.
Alla radio annunciano la morte di Jean Luc Godard, gli speaker criticano l’establishment americano che gli ha conferito l’unico Oscar, alla carriera, soltanto nel 2011.
Il servizio seguente parla della guerra tra Armenia e Azerbaijan, si contano decine di morti tra i soldati e i civili.
“Come mai è ripresa la guerra?” chiedo a Rafael, l’autista azerbaijano di origine armena.
“Uhh è una storia lunga.” dice con voce lagnosa “Combattono per i territori del Nagorno-Karabakh, dove ci vivono gli armeni da mille anni. Dopo la rivoluzione, Lenin li ha ceduti all’Azerbaijan ma gli armeni vogliono tornare sotto Yerevan. Sono trent’anni che si sparano e andranno avanti ancora per molto. Un altro conflitto senza fine.”
v commenta Rafael con amarezza, i capelli bianchi spettinati, come si fosse appena alzato dal letto.
Anche lui ha fatto le ferie in Crimea, c’è andato con la sua Hyundai, più di mille ottocento chilometri a tratta.
“Io e mia moglie. Siamo stati bene. Unica cosa, ci siamo persi sul ponte di Kerč. Il navigatore non funzionava, ci vuole un sim ucraina.”
L'amico SOULFUL JULES, abituale frequentatore, per motivi di lavoro, dell'ex Urss, ci introduce nel clima di alcune zone, tristemente famose in questi giorni.
Ci aiuta a capire e ad approfondire, al di fuori di divisioni ideologiche, polarizzazioni, supposizioni.
Le precedenti puntate di "Tales from ex Urss" sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/Tales%20from%20Ex%20Urss
MOSCA E SAN PIETROBURGO A SETTEMBRE
PRIMA PARTE
“Ciao mamma.”
“Come va?”
“Tutto ok. Senti, per i bambini, la settimana prossima potete tenerli voi il pomeriggio? La Nico è a scuola e io vado a Mosca.”
Silenzio.
“Ma è proprio necessario?”
“È il mio lavoro.”
“Non puoi fare su Whatsapp?”
No, non si può fare su Whatsapp.
Per un anno e mezzo mi sono sbattuto a organizzare incontri e presentazioni su Zoom.
Connessione lenta, “non si sente niente”, “aspetta che accendo la telecamera”. Difficile mostrare la nuova cerniera per ante a ribalta, senza viti sul pannello. Come fai a spiegare la cinematica, il movimento brevettato del braccetto in acciaio che solleva la porta senza toccare il piano. Ti sudano le ascelle dalla tensione mentre cerchi di trasmettere il concetto di estetica e funzionalità, dai un’occhiata al riquadro in alto sullo schermo e il tipo si cura le unghie con un cacciavite, di quelli a taglio, sottili. Forse è uno scalpellino.
Meglio spendere duemila euro per vederli dal vivo, gli artigiani dell’ex Urss che si fanno la manicure con gli utensili.<
Manca ancora un po’ all’imbarco per Istanbul.
Mi siedo su una poltroncina davanti al gate e tiro fuori un libro dallo zaino.
Il Mago del Cremlino, di Giuliano da Empoli, un economista che scrive come un romanziere e racconta la storia di uno dei consiglieri di Putin, il capo della propaganda di Mosca per quasi vent’anni. L’infanzia privilegiata di un rampollo della nomenklatura sovietica, il crollo dell’Urss dal punto di vista della “generazione che ha assistito all’umiliazione dei padri”, le contraddizioni di un uomo di cultura che voleva lavorare nel teatro e si è trovato la Russia come palcoscenico, centocinquanta milioni di figuranti a disposizione.
Un tizio in carne si piazza vicino a me, fa una telefonata di lavoro, dà disposizioni, forse a un’assistente. Parla in modo deciso, pronuncia con enfasi parole come “strategico”, “essenziale”, “progetto su misura”, non si sforza neanche di abbassare la voce.
Termina la chiamata e attacca bottone con un conoscente che gli si è avvicinato.
Sono entrambi venditori, quello in piedi si lamenta della sua azienda, il tono sconsolato, al limite della depressione.
Quello accanto a me ha il modo arrembante da commerciale alfa che spara cifre appena apre bocca. “Tutto bene”, “siamo pieni di ordini”, “quest’anno più dieci per cento”.
L’altro, magro e coi capelli più grigi dei miei, non ci prova neanche, confessa di aver passato un’estate difficile.
“Son tornato dall’Irlanda e mi sono preso il covid. Poi se l’è beccato anche la mia ragazza e così siamo rimasti chiusi in un bilocale quaranta giorni.”
“Quaranta giorni?” interroga scettico il ciccio.
“Guarda che c’è gente che è rimasta positiva anche due mesi…”
“Sì, sì ma mi pare tanto lo stesso…”
“Puoi immaginarti che atmosfera durante la quarantena, col caldo che faceva.
Saltate anche le vacanze.” continua il suo racconto con voce lamentosa, il peggio deve ancora arrivare.
“Appena siamo tornati liberi la mia ragazza è andata da una psicologa.
Il giorno dopo ha preso tutte le sue cose ed è andata via di casa.” “E tutto per una seduta?” domanda sempre meno convinto il mio vicino.
“In psicologia si chiama effetto-trigger.” spiega il grigio con tono saccente.
Il tecnicismo italo-inglese è la chiave di tutto, la fatalità che innesca la sfiga.
“Chissà cosa aveva in testa.” commenta rassegnato.
“Eh beh, certo. Se aveva già i suoi problemi, magari la seduta le ha smosso qualcosa. Vai a sapere. Ma adesso siete in contatto?”
“Non vuole più vedermi, ha cambiato numero.”
“Ma allora aveva sì qualcosa che non andava. Forse è meglio così.”
“Mah, vediamo.” conclude il grigio.
Secondo me non è rimasto molto da vedere.
v Tiro fuori il cellulare dalla tasca dei jeans senza spostare lo sguardo dalla pagina e prendo nota della conversazione, così imparano a chiacchierare a voce alta mentre cerco di leggere i libri di Giuliano da Empoli.
Il Mago del Cremlino.
Chissà se l’hanno tradotto anche in russo. C’è meno gente del solito sul volo Istanbul – Mosca, qualche posto è rimasto libero.
Il cielo è cupo e le temperature si sono abbassate anche in Turchia, l’estate è agli sgoccioli.
Restano immutate le sporgenze di zigomi e labbra sui volti lucidi delle signore che maneggiano i dispositivi Apple con le dita inarcuate, le unghie troppo lunghe per digitare sullo schermo coi polpastrelli.
Qualche felpa Abercrombie col cappuccio, il logo enorme sul petto di uomini di mezza età, che è anche la mia mezza età.
I passeggeri sono silenziosi, sonnecchiano o guardano le foto delle vacanze mentre un americano sbadiglia rumorosamente, un muggito che si propaga per la fusoliera a intervalli regolari.
All’aeroporto di Vnukovo ricevo i bagagli e prenoto un taxi.
Machačkala
L’autista si chiama Renad, è originario di Machačkala, capitale del Dagestan, sul Mar Caspio.
Ci vuole un’ora di strada per arrivare in albergo, per farmela passare gli faccio le solite domande. Renad dice che da quando “tutto è incominciato” le auto sono diventate più care ma per il resto non c’è nessuna differenza.
Non usa mai la parola guerra.
“Peccato per la gente che muore ma è andata così.” commenta con distacco, la voce limpida, senza emozioni “Dicono che se non avessimo attaccato noi, ci avrebbero attaccato loro.”
“Anche l’Europa ha le sue colpe, siamo coinvolti in questa faccenda.
Adesso bisogna trovare un accordo.” Sono sei mesi che lo ripeto, ormai ho smesso di crederci ma suona bene.
“Putin dice che non dovevano mettere i missili al confine e su questo ha ragione.” annuisce mentre parla, il frontino del berretto nero oscilla su e giù.
Il discorso cade su quelli che hanno lasciato il paese, in parlamento minacciano di togliere la cittadinanza a chi non rientra.
“Ma qua parlano e non fanno niente. Lukašenko invece ha detto che se non tornano gliela toglie davvero, la cittadinanza. Lukašenko è un duro.”
Parla con ammirazione del presidente bielorusso, uno che governa con il pugno di ferro.
Renad ha gli occhi azzurri e i capelli castani, la barba rossiccia. Gli chiedo se è proprio originario del Daghestan.
Conferma, è di etnia lesga, una delle quaranta nazionalità che convivono nel suo paese. Parla il russo ma è di madrelingua lesga.
Sono stato una volta a Machačkala, sette o otto anni fa. Prima di arrivare, il cliente, Azamat, mi aveva rassicurato.
“Non ti preoccupare, qua è tranquillo.”
A ogni incrocio c’era polizia in tenuta antisommossa, casco e giubbetto antiproiettile nero, il fucile semiautomatico imbracciato all’altezza del petto, l’indice pronto sul grilletto.
Per il resto non si stava male, tutti gentili, mix di barbe, veli scuri e occhi azzurri, gente ospitale che non ti lasciava mai da solo, ogni volta al ristorante un pranzo di matrimonio. Azamat portava bene i suoi cinquantacinque anni.
“Mia mamma va per i novanta. Qua ci sono tanti vecchi perché sono quasi tutti musulmani.
Non bevono e non fumano.”
Il giorno dopo la mia partenza le teste di cuoio avevano fatto un blitz in centro, dietro il mio albergo, e avevano “liquidato” un gruppo di terroristi.
In taxi passiamo accanto a un palazzo con la facciata ricoperta da un maxischermo led che trasmette la pubblicità di un Suv cinese, un marchio mai sentito; qualche mese fa ci sarebbe stata una BMW o una Bentley.
Costeggiamo la city, l’area con la più alta concentrazione di grattacieli in vetro e acciaio di Mosca, quasi tutti uffici, le luci ancora accese all’interno di palazzoni di trenta o quaranta piani che brillano al tramonto.
Renad interrompe il flusso di pensieri.
“Lei ha un’aria da intellettuale.” dice intelligent, senza malizia “Porta gli occhiali, ha la sciarpa. Le piace vivere qua?”
“Non vivo qua, ci vengo per lavoro. Mi piace Mosca d’estate ma è pesante come città. Il traffico, lo smog, il freddo e il buio di inverno. Sto bene dove abito, in Italia.”
“In Italia?” ribatte sbalordito, come gli avessi detto che vengo dalle isole Tonga. “Anche da voi ci sono le code per strada?”
“Sì, nelle grandi città. Roma, Milano.”
“Voi avete il dollaro vero?”
“No, abbiamo l’euro.”
“Ah, l’euro. Parlate inglese?” “In italiano.” sembra di chiacchierare con un bambino dell’asilo “Hai famiglia?” domando per cambiare discorso.
“Mia moglie lavorava come parrucchiera, guadagnava bene con le trecce. Poi si è messa a fare la maestra di asilo e così hanno preso anche nostro figlio, senza problemi. Non so da voi, ma qua è difficile entrare negli asili pubblici se non hai agganci.
Quelli privati costano troppo.
Con due stipendi non riusciamo a permettercelo. Mi moglie prende 25.000 rubli al mese.” Quasi quattrocento euro, al cambio attuale. “Adesso non è facile trovare lavoro, molti sono stati licenziati.”
“In che settori?”
Ci pensa un po’, alza gli occhi per concentrarsi.
“Beh, conosco gente che lavorava nella metropolitana, altri in aeroporto, poi camion, trasporti e anche internet.”
“Internet?”
“Tante aziende straniere se ne sono andate.”
“Conosci nessuno che combatte in Ucraina?”
“Un mio vicino, soldato di professione. È stato ferito a marzo, ha perso un occhio. Poi un mio amico bielorusso. Abbiamo litigato.”
“Ah sì?”
“Voleva che andassimo a combattere insieme, contro la Russia. Quando gli ho chiesto se era scemo mi ha riempito di parolacce, anche su mia madre. E questo non va bene.”
Scuote la testa mentre lasciamo sulla destra l’ippodromo con le colonne palladiane e le guglie gotiche. Ormai siamo arrivati in albergo, pago in contanti e lo saluto.
In tv mostrano i volti dei soldati che hanno compiuto gesti di eroismo.
Un gruppo di giovani volontari sistema una scuola di Lugansk, i vetri rotti, i telai delle porte scardinati dalle granate dell’artiglieria ucraina.
A Mariupol, due clown con la faccia dipinta di bianco e le scarpe enormi fanno uno spettacolo per i bambini di un asilo, seduti a terra in semicerchio, gli occhi azzurri sbarrati, i capelli raccolti in trecce o code, ordinate e simmetriche.
Disney, Amazon e Netflix non si aprono sul mio telefono.
Il giorno dopo lascio l’albergo di buon’ora per visitare un cliente fuori Mosca.
Nel parcheggio mi aspettano Rafael, l’autista, e Tatjana, una venditrice del nostro distributore.
È appena rientrata dalle ferie, la pelle scura in contrasto con il cielo grigio e la pioggerellina di metà settembre che cade sul piazzale dell’hotel. Qua è autunno e da noi ci sono trentatre gradi.
“Dove sei stata in vacanza?”
“In Crimea, due settimane. Faceva veramente caldo.” dice soddisfatta.
“E non hai avuto problemi?”
“Nessun problema. Si stava benissimo.” alza il tono sull’ultima parola come per rimarcare la stupidità della mia domanda.
Me la vedo Tatjana in bikini, sdraiata sul telo mare sopra la sabbia bianca di Yalta, la pelle unta di crema abbronzante, occhiali scuri e cuffiette, il sole alto e una colonna di fumo che si alza alle sue spalle, i razzi dell’artiglieria ucraina hanno fatto centro.
Nuvole scure e allungate coprono le punte dei grattacieli della City, scivolano veloci, spostate dal vento. Le facciate a specchio dei palazzi riflettono i bracci gialli delle gru, decine di cantieri aperti per lo sviluppo verticale di acciaio, vetro e cemento.
Alla radio parlano del deficit di automobili, invitano a comprarle a Vladivostok, dove arrivano container pieni di veicoli usati dal Giappone e dalla Corea.
Da Mosca sono nove ore di volo, quasi una settimana in treno, oltre novemila chilometri di distanza.
Festival della Gioventù 1957
Costeggiamo il parco Lužniki, dove stanno costruendo un complesso residenziale e commerciale.
Sulle grate che delimitano l’area dei lavori sono appesi dei banner commemorativi in pvc per l’anniversario del “Festival mondiale della gioventù e degli studenti”.
Nell’estate del 1957, nello stadio all’interno di questo parco, si tenne la cerimonia inaugurale di un evento simbolico della fase del disgelo avviata da Chruščhev, quattro anni dopo la morte di Stalin.
Nella capitale russa arrivarono oltre trentamila ragazzi da tutto il mondo, anche dall’Italia, e i giovani moscoviti poterono finalmente incontrare coetanei di altri paesi senza timore di denunce o delazioni.
Con gli stranieri comparvero i blue jeans, considerati per almeno altri trent’anni il simbolo della degenerazione capitalista. Ancora oggi, girando per uffici è raro vedere gente che indossa pantaloni di denim.
Nel corso della manifestazione fece ritorno nell’Urss il jazz, molto popolare fino agli anni venti e censurato poi da Stalin in quanto genere borghese.
Il successo dei vari concerti, tenuti principalmente da musicisti dell’est Europa, contribuì alla diffusione del jazz nella realtà sovietica con la nascita di club e festival dedicati.
Le conferenze e i dibattiti si tenevano di giorno nei teatri, nelle sedi delle organizzazioni giovanili e nelle università della capitale, sotto gli occhi vigili delle autorità e degli adulti; di sera il controllo si allentava e i ragazzi socializzavano nei parchi, al chiaro di luna.
Nove mesi dopo, nella capitale si registrò un boom di nascite con la comparsa della prima generazione di sovietici mulatti, soprannominati “I bambini del Festival”. Sono chiamati così anche quelli nati in circostanze simili dopo le olimpiadi di Mosca del 1980 ma negli ultimi venti anni non credo di averne mai incontrato uno.
Attraversiamo un ponte sul fiume Moscova, le rive ancora verdi di alberi e cespugli, tra una decina di giorni i colori predominanti saranno il giallo, l’arancio e il marrone.
Alla nostra destra si muove una scia di studenti che indossano sciarpe e giacconi col cappuccio, si affrettano verso l’ingresso del MGU, l’Università Statale di Mosca.
Lungo la strada, nuovi punti vendita di Vkusno i Točka nei ristoranti che una volta erano Mc Donald’s; il rosso è sparito dalle insegne, poco invitante la nuova combinazione di verde e giallo.
Le auto e i furgoni sono quasi tutti di brand stranieri e anche i camion russi hanno componenti occidentali:
pompe idrauliche, montacarichi, pistoni; tutta roba di importazione che adesso si trova a fatica per via delle sanzioni.
Alla radio annunciano la morte di Jean Luc Godard, gli speaker criticano l’establishment americano che gli ha conferito l’unico Oscar, alla carriera, soltanto nel 2011.
Il servizio seguente parla della guerra tra Armenia e Azerbaijan, si contano decine di morti tra i soldati e i civili.
“Come mai è ripresa la guerra?” chiedo a Rafael, l’autista azerbaijano di origine armena.
“Uhh è una storia lunga.” dice con voce lagnosa “Combattono per i territori del Nagorno-Karabakh, dove ci vivono gli armeni da mille anni. Dopo la rivoluzione, Lenin li ha ceduti all’Azerbaijan ma gli armeni vogliono tornare sotto Yerevan. Sono trent’anni che si sparano e andranno avanti ancora per molto. Un altro conflitto senza fine.”
v commenta Rafael con amarezza, i capelli bianchi spettinati, come si fosse appena alzato dal letto.
Anche lui ha fatto le ferie in Crimea, c’è andato con la sua Hyundai, più di mille ottocento chilometri a tratta.
“Io e mia moglie. Siamo stati bene. Unica cosa, ci siamo persi sul ponte di Kerč. Il navigatore non funzionava, ci vuole un sim ucraina.”