Moscow City
L'amico SOULFUL JULES, abituale frequentatore, per motivi di lavoro, dell'ex Urss, ci introduce nel clima di alcune zone, tristemente famose in questi giorni.
Ci aiuta a capire e ad approfondire, al di fuori di divisioni ideologiche, polarizzazioni, supposizioni.
Le precedenti puntate di "Tales from ex Urss" sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/Tales%20from%20Ex%20Urss
MOSCA E SAN PIETROBURGO A SETTEMBRE
PRIMA PARTE
“Ciao mamma.”
“Come va?”
“Tutto ok. Senti, per i bambini, la settimana prossima potete tenerli voi il pomeriggio? La Nico è a scuola e io vado a Mosca.”
Silenzio.
“Ma è proprio necessario?”
“È il mio lavoro.”
“Non puoi fare su Whatsapp?”
No, non si può fare su Whatsapp.
Per un anno e mezzo mi sono sbattuto a organizzare incontri e presentazioni su Zoom.
Connessione lenta, “non si sente niente”, “aspetta che accendo la telecamera”. Difficile mostrare la nuova cerniera per ante a ribalta, senza viti sul pannello. Come fai a spiegare la cinematica, il movimento brevettato del braccetto in acciaio che solleva la porta senza toccare il piano. Ti sudano le ascelle dalla tensione mentre cerchi di trasmettere il concetto di estetica e funzionalità, dai un’occhiata al riquadro in alto sullo schermo e il tipo si cura le unghie con un cacciavite, di quelli a taglio, sottili. Forse è uno scalpellino.
Meglio spendere duemila euro per vederli dal vivo, gli artigiani dell’ex Urss che si fanno la manicure con gli utensili.<
Manca ancora un po’ all’imbarco per Istanbul.
Mi siedo su una poltroncina davanti al gate e tiro fuori un libro dallo zaino.
Il Mago del Cremlino, di Giuliano da Empoli, un economista che scrive come un romanziere e racconta la storia di uno dei consiglieri di Putin, il capo della propaganda di Mosca per quasi vent’anni. L’infanzia privilegiata di un rampollo della nomenklatura sovietica, il crollo dell’Urss dal punto di vista della “generazione che ha assistito all’umiliazione dei padri”, le contraddizioni di un uomo di cultura che voleva lavorare nel teatro e si è trovato la Russia come palcoscenico, centocinquanta milioni di figuranti a disposizione.
Un tizio in carne si piazza vicino a me, fa una telefonata di lavoro, dà disposizioni, forse a un’assistente. Parla in modo deciso, pronuncia con enfasi parole come “strategico”, “essenziale”, “progetto su misura”, non si sforza neanche di abbassare la voce.
Termina la chiamata e attacca bottone con un conoscente che gli si è avvicinato.
Sono entrambi venditori, quello in piedi si lamenta della sua azienda, il tono sconsolato, al limite della depressione.
Quello accanto a me ha il modo arrembante da commerciale alfa che spara cifre appena apre bocca. “Tutto bene”, “siamo pieni di ordini”, “quest’anno più dieci per cento”.
L’altro, magro e coi capelli più grigi dei miei, non ci prova neanche, confessa di aver passato un’estate difficile.
“Son tornato dall’Irlanda e mi sono preso il covid. Poi se l’è beccato anche la mia ragazza e così siamo rimasti chiusi in un bilocale quaranta giorni.”
“Quaranta giorni?” interroga scettico il ciccio.
“Guarda che c’è gente che è rimasta positiva anche due mesi…”
“Sì, sì ma mi pare tanto lo stesso…”
“Puoi immaginarti che atmosfera durante la quarantena, col caldo che faceva.
Saltate anche le vacanze.” continua il suo racconto con voce lamentosa, il peggio deve ancora arrivare.
“Appena siamo tornati liberi la mia ragazza è andata da una psicologa.
Il giorno dopo ha preso tutte le sue cose ed è andata via di casa.”
“E tutto per una seduta?” domanda sempre meno convinto il mio vicino.
“In psicologia si chiama effetto-trigger.” spiega il grigio con tono saccente.
Il tecnicismo italo-inglese è la chiave di tutto, la fatalità che innesca la sfiga.
“Chissà cosa aveva in testa.” commenta rassegnato.
“Eh beh, certo. Se aveva già i suoi problemi, magari la seduta le ha smosso qualcosa. Vai a sapere. Ma adesso siete in contatto?”
“Non vuole più vedermi, ha cambiato numero.”
“Ma allora aveva sì qualcosa che non andava. Forse è meglio così.”
“Mah, vediamo.” conclude il grigio.
Secondo me non è rimasto molto da vedere.
v Tiro fuori il cellulare dalla tasca dei jeans senza spostare lo sguardo dalla pagina e prendo nota della conversazione, così imparano a chiacchierare a voce alta mentre cerco di leggere i libri di Giuliano da Empoli.
Il Mago del Cremlino.
Chissà se l’hanno tradotto anche in russo.
C’è meno gente del solito sul volo Istanbul – Mosca, qualche posto è rimasto libero.
Il cielo è cupo e le temperature si sono abbassate anche in Turchia, l’estate è agli sgoccioli.
Restano immutate le sporgenze di zigomi e labbra sui volti lucidi delle signore che maneggiano i dispositivi Apple con le dita inarcuate, le unghie troppo lunghe per digitare sullo schermo coi polpastrelli.
Qualche felpa Abercrombie col cappuccio, il logo enorme sul petto di uomini di mezza età, che è anche la mia mezza età.
I passeggeri sono silenziosi, sonnecchiano o guardano le foto delle vacanze mentre un americano sbadiglia rumorosamente, un muggito che si propaga per la fusoliera a intervalli regolari.
All’aeroporto di Vnukovo ricevo i bagagli e prenoto un taxi.
Machačkala
L’autista si chiama Renad, è originario di Machačkala, capitale del Dagestan, sul Mar Caspio.
Ci vuole un’ora di strada per arrivare in albergo, per farmela passare gli faccio le solite domande. Renad dice che da quando “tutto è incominciato” le auto sono diventate più care ma per il resto non c’è nessuna differenza.
Non usa mai la parola guerra.
“Peccato per la gente che muore ma è andata così.” commenta con distacco, la voce limpida, senza emozioni “Dicono che se non avessimo attaccato noi, ci avrebbero attaccato loro.”
“Anche l’Europa ha le sue colpe, siamo coinvolti in questa faccenda.
Adesso bisogna trovare un accordo.” Sono sei mesi che lo ripeto, ormai ho smesso di crederci ma suona bene.
“Putin dice che non dovevano mettere i missili al confine e su questo ha ragione.” annuisce mentre parla, il frontino del berretto nero oscilla su e giù.
Il discorso cade su quelli che hanno lasciato il paese, in parlamento minacciano di togliere la cittadinanza a chi non rientra.
“Ma qua parlano e non fanno niente. Lukašenko invece ha detto che se non tornano gliela toglie davvero, la cittadinanza. Lukašenko è un duro.”
Parla con ammirazione del presidente bielorusso, uno che governa con il pugno di ferro.
Renad ha gli occhi azzurri e i capelli castani, la barba rossiccia. Gli chiedo se è proprio originario del Daghestan.
Conferma, è di etnia lesga, una delle quaranta nazionalità che convivono nel suo paese. Parla il russo ma è di madrelingua lesga.
Sono stato una volta a Machačkala, sette o otto anni fa. Prima di arrivare, il cliente, Azamat, mi aveva rassicurato.
“Non ti preoccupare, qua è tranquillo.”
A ogni incrocio c’era polizia in tenuta antisommossa, casco e giubbetto antiproiettile nero, il fucile semiautomatico imbracciato all’altezza del petto, l’indice pronto sul grilletto.
Per il resto non si stava male, tutti gentili, mix di barbe, veli scuri e occhi azzurri, gente ospitale che non ti lasciava mai da solo, ogni volta al ristorante un pranzo di matrimonio. Azamat portava bene i suoi cinquantacinque anni.
“Mia mamma va per i novanta. Qua ci sono tanti vecchi perché sono quasi tutti musulmani.
Non bevono e non fumano.”
Il giorno dopo la mia partenza le teste di cuoio avevano fatto un blitz in centro, dietro il mio albergo, e avevano “liquidato” un gruppo di terroristi.
In taxi passiamo accanto a un palazzo con la facciata ricoperta da un maxischermo led che trasmette la pubblicità di un Suv cinese, un marchio mai sentito; qualche mese fa ci sarebbe stata una BMW o una Bentley.
Costeggiamo la city, l’area con la più alta concentrazione di grattacieli in vetro e acciaio di Mosca, quasi tutti uffici, le luci ancora accese all’interno di palazzoni di trenta o quaranta piani che brillano al tramonto.
Renad interrompe il flusso di pensieri.
“Lei ha un’aria da intellettuale.” dice intelligent, senza malizia “Porta gli occhiali, ha la sciarpa. Le piace vivere qua?”
“Non vivo qua, ci vengo per lavoro. Mi piace Mosca d’estate ma è pesante come città. Il traffico, lo smog, il freddo e il buio di inverno. Sto bene dove abito, in Italia.”
“In Italia?” ribatte sbalordito, come gli avessi detto che vengo dalle isole Tonga. “Anche da voi ci sono le code per strada?”
“Sì, nelle grandi città. Roma, Milano.”
“Voi avete il dollaro vero?”
“No, abbiamo l’euro.”
“Ah, l’euro. Parlate inglese?”
“In italiano.” sembra di chiacchierare con un bambino dell’asilo “Hai famiglia?” domando per cambiare discorso.
“Mia moglie lavorava come parrucchiera, guadagnava bene con le trecce. Poi si è messa a fare la maestra di asilo e così hanno preso anche nostro figlio, senza problemi. Non so da voi, ma qua è difficile entrare negli asili pubblici se non hai agganci.
Quelli privati costano troppo.
Con due stipendi non riusciamo a permettercelo. Mi moglie prende 25.000 rubli al mese.” Quasi quattrocento euro, al cambio attuale. “Adesso non è facile trovare lavoro, molti sono stati licenziati.”
“In che settori?”
Ci pensa un po’, alza gli occhi per concentrarsi.
“Beh, conosco gente che lavorava nella metropolitana, altri in aeroporto, poi camion, trasporti e anche internet.”
“Internet?”
“Tante aziende straniere se ne sono andate.”
“Conosci nessuno che combatte in Ucraina?”
“Un mio vicino, soldato di professione. È stato ferito a marzo, ha perso un occhio. Poi un mio amico bielorusso. Abbiamo litigato.”
“Ah sì?”
“Voleva che andassimo a combattere insieme, contro la Russia. Quando gli ho chiesto se era scemo mi ha riempito di parolacce, anche su mia madre. E questo non va bene.”
Scuote la testa mentre lasciamo sulla destra l’ippodromo con le colonne palladiane e le guglie gotiche. Ormai siamo arrivati in albergo, pago in contanti e lo saluto.
In tv mostrano i volti dei soldati che hanno compiuto gesti di eroismo.
Un gruppo di giovani volontari sistema una scuola di Lugansk, i vetri rotti, i telai delle porte scardinati dalle granate dell’artiglieria ucraina.
A Mariupol, due clown con la faccia dipinta di bianco e le scarpe enormi fanno uno spettacolo per i bambini di un asilo, seduti a terra in semicerchio, gli occhi azzurri sbarrati, i capelli raccolti in trecce o code, ordinate e simmetriche.
Disney, Amazon e Netflix non si aprono sul mio telefono.
Il giorno dopo lascio l’albergo di buon’ora per visitare un cliente fuori Mosca.
Nel parcheggio mi aspettano Rafael, l’autista, e Tatjana, una venditrice del nostro distributore.
È appena rientrata dalle ferie, la pelle scura in contrasto con il cielo grigio e la pioggerellina di metà settembre che cade sul piazzale dell’hotel. Qua è autunno e da noi ci sono trentatre gradi.
“Dove sei stata in vacanza?”
“In Crimea, due settimane. Faceva veramente caldo.” dice soddisfatta.
“E non hai avuto problemi?”
“Nessun problema. Si stava benissimo.” alza il tono sull’ultima parola come per rimarcare la stupidità della mia domanda.
Me la vedo Tatjana in bikini, sdraiata sul telo mare sopra la sabbia bianca di Yalta, la pelle unta di crema abbronzante, occhiali scuri e cuffiette, il sole alto e una colonna di fumo che si alza alle sue spalle, i razzi dell’artiglieria ucraina hanno fatto centro.
Nuvole scure e allungate coprono le punte dei grattacieli della City, scivolano veloci, spostate dal vento. Le facciate a specchio dei palazzi riflettono i bracci gialli delle gru, decine di cantieri aperti per lo sviluppo verticale di acciaio, vetro e cemento.
Alla radio parlano del deficit di automobili, invitano a comprarle a Vladivostok, dove arrivano container pieni di veicoli usati dal Giappone e dalla Corea.
Da Mosca sono nove ore di volo, quasi una settimana in treno, oltre novemila chilometri di distanza.
Festival della Gioventù 1957
Costeggiamo il parco Lužniki, dove stanno costruendo un complesso residenziale e commerciale.
Sulle grate che delimitano l’area dei lavori sono appesi dei banner commemorativi in pvc per l’anniversario del “Festival mondiale della gioventù e degli studenti”.
Nell’estate del 1957, nello stadio all’interno di questo parco, si tenne la cerimonia inaugurale di un evento simbolico della fase del disgelo avviata da Chruščhev, quattro anni dopo la morte di Stalin.
Nella capitale russa arrivarono oltre trentamila ragazzi da tutto il mondo, anche dall’Italia, e i giovani moscoviti poterono finalmente incontrare coetanei di altri paesi senza timore di denunce o delazioni.
Con gli stranieri comparvero i blue jeans, considerati per almeno altri trent’anni il simbolo della degenerazione capitalista. Ancora oggi, girando per uffici è raro vedere gente che indossa pantaloni di denim.
Nel corso della manifestazione fece ritorno nell’Urss il jazz, molto popolare fino agli anni venti e censurato poi da Stalin in quanto genere borghese.
Il successo dei vari concerti, tenuti principalmente da musicisti dell’est Europa, contribuì alla diffusione del jazz nella realtà sovietica con la nascita di club e festival dedicati.
Le conferenze e i dibattiti si tenevano di giorno nei teatri, nelle sedi delle organizzazioni giovanili e nelle università della capitale, sotto gli occhi vigili delle autorità e degli adulti; di sera il controllo si allentava e i ragazzi socializzavano nei parchi, al chiaro di luna.
Nove mesi dopo, nella capitale si registrò un boom di nascite con la comparsa della prima generazione di sovietici mulatti, soprannominati “I bambini del Festival”. Sono chiamati così anche quelli nati in circostanze simili dopo le olimpiadi di Mosca del 1980 ma negli ultimi venti anni non credo di averne mai incontrato uno.
Attraversiamo un ponte sul fiume Moscova, le rive ancora verdi di alberi e cespugli, tra una decina di giorni i colori predominanti saranno il giallo, l’arancio e il marrone.
Alla nostra destra si muove una scia di studenti che indossano sciarpe e giacconi col cappuccio, si affrettano verso l’ingresso del MGU, l’Università Statale di Mosca.
Lungo la strada, nuovi punti vendita di Vkusno i Točka nei ristoranti che una volta erano Mc Donald’s; il rosso è sparito dalle insegne, poco invitante la nuova combinazione di verde e giallo.
Le auto e i furgoni sono quasi tutti di brand stranieri e anche i camion russi hanno componenti occidentali:
pompe idrauliche, montacarichi, pistoni; tutta roba di importazione che adesso si trova a fatica per via delle sanzioni.
Alla radio annunciano la morte di Jean Luc Godard, gli speaker criticano l’establishment americano che gli ha conferito l’unico Oscar, alla carriera, soltanto nel 2011.
Il servizio seguente parla della guerra tra Armenia e Azerbaijan, si contano decine di morti tra i soldati e i civili.
“Come mai è ripresa la guerra?” chiedo a Rafael, l’autista azerbaijano di origine armena.
“Uhh è una storia lunga.” dice con voce lagnosa “Combattono per i territori del Nagorno-Karabakh, dove ci vivono gli armeni da mille anni. Dopo la rivoluzione, Lenin li ha ceduti all’Azerbaijan ma gli armeni vogliono tornare sotto Yerevan. Sono trent’anni che si sparano e andranno avanti ancora per molto. Un altro conflitto senza fine.”
v commenta Rafael con amarezza, i capelli bianchi spettinati, come si fosse appena alzato dal letto.
Anche lui ha fatto le ferie in Crimea, c’è andato con la sua Hyundai, più di mille ottocento chilometri a tratta.
“Io e mia moglie. Siamo stati bene. Unica cosa, ci siamo persi sul ponte di Kerč. Il navigatore non funzionava, ci vuole un sim ucraina.”
Come sempre, stupendo.
RispondiEliminaAssolutamente. Grazie Jules e Boss. C
RispondiEliminaGratta gratta sotto il russo trovi il mongolo.
RispondiEliminaProverbio russo.
Cortez