venerdì, dicembre 09, 2022
Russia. Giugno e Luglio 2022 #3 - Mosca
L'amico SOULFUL JULES, abituale frequentatore, per motivi di lavoro, dell'ex Urss, ci introduce nel clima di alcune zone, tristemente famose in questi giorni.
Ci aiuta a capire e ad approfondire, al di fuori di divisioni ideologiche, polarizzazioni, supposizioni.
La prima parte del viaggio di giugno e luglio è qui: https://tonyface.blogspot.com/2022/11/russia-giugno-e-luglio-2022-1.html
La seconda parte qui:
https://tonyface.blogspot.com/2022/12/russia-giugno-e-luglio-2022-2-san.html
Le precedenti puntate di "Tales from ex Urss" sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/Tales%20from%20Ex%20Urss
Il giorno dopo, rientrato a Mosca, visito dei clienti con l’autista che mi accompagna di solito in città, Rafael.
Gira con i finestrini abbassati perché ha il condizionatore scarico.
“L’altra settimana sono andato per farmi mettere il gas ma costa quattro volte tanto rispetto allo scorso anno.”
È esplosa l’estate, il sole è caldo e le strade polverose, sabbia ovunque assorbita dal verde prepotente e incolto degli alberi e dei cespugli che sbordano dappertutto. Cicale di Heather Parisi alla radio, lungo la strada due ragazze con le caviglie sottili portano le borse della spesa chiacchierando.
Fuori dal centro non ci sono marciapiedi, sull’erba sono tracciati dei sentieri di terra battuta e sassi.
Erbacce avvolgono muretti scrostati, sbucano effimere dalle crepe dell’asfalto.
Durano un paio di mesi, tre al massimo, poi gradualmente cedono al grigio, al freddo, alla pioggia e alla neve.
Al buio.
Ed è sempre una natura scorbutica, spigolosa.
Fango e ghiaccio d’inverno, d’estate nuvole di polvere fine, i granelli che grattano fra i denti e ti fanno strizzare gli occhi.
Nella sede del nostro rivenditore, ho un incontro con il titolare, Konstantin.
“Il vostro sito in russo è stato hackerato.” dice infastidito, quasi fosse colpa mia.
“E da chi?”
“Dagli ucraini.” usa un tono crudo, quasi di disprezzo, pur essendo lui stesso di Leopoli.
“E cosa han fatto?”
“Hanno pubblicato dei messaggi.”
“E cosa han scritto?”
“Che la Russia la la la la la la.”
“Eh?”
“L’Ucraina la la la la la la la.”
Lo guardo come fosse diventato scemo.
Lui ripete gli stessi versi.
Non vuole riportare quello che ha letto, probabilmente una serie di atrocità attribuite all’esercito russo, quasi corresse dei rischi.
Alla sera mi porta a cena in un ristorante costoso, frutti di mare e polpa di granchio. Boiserie in legno chiaro, cameriere giovani con le labbra sporgenti.
“Quanto andrà avanti questa cosa?” domando banalmente.
“Tutto il tempo che serve. La Russia non può perdere.”
“Neanche l’Ucraina.”
“Vedremo. Basterebbe che l’Europa e l’America smettessero di mandare armi e finirebbe tutto in dieci giorni.”
“E qua sarebbero tutti contenti. Finalmente un po’ di rispetto.”
Allarga gli occhi sull’ultima parola.
“Sì, rispetto! La gente qua vuole rispetto.
Voi non lo capite!
Potete andare avanti con le sanzioni quanto volete, possiamo vivere senza la roba occidentale ma quello che vuole il russo medio è il rispetto.”
Si versa un po’ di acqua San Pellegrino da una bottiglia in vetro che costa quasi dieci euro.
Terminata la cena, Konstantin lascia una mancia generosa in contanti e mi invita a fare due passi per ulica Malaja Bronnaja, una delle vie più esclusive di Mosca e di tutta la Russia.
A parte qualche taxi, non ci sono auto sotto i 50.000 euro di listino, tutte customizzate, la carrozzeria opacizzata in grigio o nero come si usa adesso.
Il marciapiede è affollato, ci sono ragazze bellissime in shorts, le gambe nude e scolpite, qualche vestito da sera bianco per le signore che escono da un teatro che ha ricreato dei peschi in fiore vicino all’ingresso, l’asfalto ricoperto di petali sintetici rosa.
È un flusso ininterrotto di giovani eleganti, entrano ed escono da locali e negozi di moda. Sembra Londra, un altro paese, glamour, frizzante, elitario. Quasi venti anni che vengo qua per lavoro e la gente che incontro sono falegnami dalla barba incolta, buchi tra i denti, aliti fetenti e le unghie sporche, qualche falange tranciata da una fresa senza protezione.
C’è una barzelletta in russo che conoscono tutti i mobilieri dell’ex Urss.
Un artigiano entra in un negozio di ferramenta e chiede delle viti.
“Quante?” fa il commesso.
“Cinque” risponde il cliente e mostra la mano con tre dita: pollice, indice e mignolo divaricati come a un concerto metal. Le due dita centrali mozzate.
E ogni tanto il dubbio negli occhi chiari, il sospetto nella fronte increspata. Qualcuno non si trattiene e ti interroga:
“Dove hai imparato il russo?” a bruciapelo, per prenderti in castagna.
I posti che ho frequentato negli ultimi venti anni sono per lo più sporchi, soffocanti, puzzolenti.
La vita non è quella di ulica Malaja Bronnaja.
Questo è il palco dove va in scena il privilegio griffato Gucci e Christian Dior, le sopracciglia ad ali di gabbiano e gli zigomi sporgenti, patinati dai filtri dell’ultimo modello di Iphone, che costa un po’ di più perché arriva dal Kazakistan, per aggirare le sanzioni.
Adesso come trecento anni fa l’immagine trasmette uno status, e il grado di ricchezza è definito da oggetti occidentali.
v In tv mostrano soltanto il Donbass.
C’è un programma intitolato “Guerra ai fake”, nei giorni in cui si parla del missile che ha colpito il centro commerciale di Kremenchuk mostrano il parcheggio vuoto, mettono in discussione il fatto che nel negozio ci fossero migliaia di persone.
Il capannone, secondo i commentatori, era un deposito di armi.
I media russi presentano un punto di vista, quelli occidentali un altro, usano riprese diverse, angolazioni opposte che non coincidono mai.
Uno crede quello che vuole credere.
Dedico il sabato alla Novaja Tret’jakovka, il museo di arte figurativa che ospita il meglio dell’arte russa e sovietica del ventesimo secolo.
C’è poca gente, d’estate i russi trascorrono il fine settimana nella da a, la casa di villeggiatura fuori città.
Il percorso attraverso gli stili riflette i cambiamenti sociali e politici nel corso dei decenni.
Con l’affermarsi delle avanguardie negli anni ’10, nella cultura alta si inseriscono elementi della tradizione contadina e delle stampe popolari, Aleksandra Ekster sperimenta con la grafica industriale, incorpora etichette di marchi contemporanei nella natura morta, anticipa di quasi mezzo secolo la pop art.
I primi vent’anni del novecento sono caratterizzati da tumulti rivoluzionari che mettono in crisi lo status quo sociale e ridefiniscono i canoni artistici. Pittori e scultori guardano avanti con un occhio al passato, le forme spigolose delle statuette etniche ritornano nella rappresentazione poliedrica del cubo-futurismo.
Kazimir Malevi va oltre le coordinate tradizionali di spazio e tempo.
Con il suo Quadrato Nero, l’artista di Kiev supera il concetto di alto e basso, terra e cielo. L’assenza di forza di gravità e spazio libera l’artista dal mondo oggettivo e gli permette di fondare la propria realtà, un secolo prima di Zuckenberg e del Metaverso.
Le sale che ospitano le opere dei primi due decenni del novecento sono una festa di sperimentazioni, pennellate energiche, tinte audaci, combinazioni inedite. Un caleidoscopio di forme e colori, espressione di una società diversa e di una nuova visione del mondo.
Quando arrivi ai quadri degli anni trenta la festa finisce, di botto, senza preavviso. Sul pannello descrittivo appeso alla parete è spiegato in russo e in inglese che nel 1932 in URSS vengono ufficialmente sciolte tutte le associazioni artistiche e letterarie indipendenti. Vengono fondate organizzazioni centralizzate che sono direttamente controllate dal partito.
Nasce il realismo socialista, strumento di propaganda ideologica che serve a rafforzare il culto della personalità di Stalin. Cambiano i temi, i soggetti sono principalmente lavoratori e sportivi, gli eroi dell’Unione Sovietica.
I minatori pronti a scendere sotto terra con l’espressione serena e i contorni netti delle figure che dettano il ritmo della nuova epoca.
Le operaie piegate dalla fatica con i volti felici, il corpo imponente, simbolo di maternità sana, supporto per il figlio e per la costruzione del socialismo.
Lo chiamano realismo anche se nella vita vera non sorride mai nessuno.
Esco che è ormai ora di cena, faccio un passaggio veloce in albergo e poi raggiungo Aleksandr in un pub in centro.
Saša è un appassionato di black music e vinili originali e stasera fa un dj set. Ci siamo conosciuti anni fa sui social ma non ci siamo mai incontrati di persona, ero sempre troppo impegnato a guardare Facebook o a leggere un libro dopo il lavoro.
È un posto frequentato da ventenni, abiti larghi e informi, cappellini, monopattini a motore e sigarette elettroniche
Saša suona 45 giri di r&b e soul americano dei sixties, tutti dischi che hanno almeno cinquant’anni.
Molti pezzi li conosco, alcuni fanno parte della mia collezione.
“Metti anche roba sovietica?”
“C’è un sacco di musica interessante, album di jazz-funk registrati nei paesi baltici. In Asia centrale han fatto delle belle cose, tipo funk con inserti di musica turca in Tadjikistan.”
“E li suoni mai?”
“No, è impossibile. Sono registrati da cani. Prova a mettere un disco americano e poi uno sovietico… Noi abbiamo quel problema in tante cose. Nell’Urss c’erano parecchi oggetti di design. Radio, televisori, mobili bellissimi ma fatti con materiali scadenti.”
Beviamo birre artigianali e discutiamo della guerra. Saša parla apertamente.
“Ci vorranno cinquanta anni prima che i rapporti tra russi e ucraini si ristabiliscano.
Intanto l’economia va a farsi fottere. Anche questa,” alza il bicchiere “non abbiamo tutti gli ingredienti qua in Russia.
Alcuni birrifici hanno già chiuso.” Abbassa la mano verso i piatti “I dischi non li posso più comprare perché la mia carta di credito non è accettata da nessuna parte e comunque è impossibile ricevere posta dall’estero. E non possiamo dire una parola.
Siamo tornati negli anni ’30!” Gli anni del terrore e della repressione.
Sul giradischi suona il brano soul midtempo In My Tenement di Jackie Shane, una cantante transessuale che ha inciso una manciata di dischi negli anni sessanta per poi sparire nell’oscurità. Entra una coppia di ragazzine, quella a destra coi capelli corti e l’aria mascolina, l’altra più femminile.
Camminano abbracciate, si tengono per mano. Sono l’unico che ci fa caso. Un paio di settimane fa ne discutevo con Vladimir a Taškent.
“Con tutti i generi che vi siete inventati ci vorranno almeno venti tipi di bagni diversi nei locali.” commentava il russo con tono di scherno.
“Guarda, non sono temi che conosco bene ma credo che lo scopo sia di avere un solo bagno per tutti.”
“Un solo bagno per tutti?” gli occhi spalancati dallo stupore.
“Guarda dietro di te.” la mano rivolta oltre le sue spalle, verso la porta della toilette “Non c’è distinzione tra uomini e donne. E siamo in un paese musulmano.”
Continuiamo a bere, Saša mi racconta di quando trattava merce di contrabbando alla fine degli anni ottanta, non aveva neanche venticinque anni e guadagnava molto più dei suoi genitori. Ci interrompe una signora coi capelli neri, più o meno coetanea di Aleksandr. Chiede informazioni sui dischi che girano, le piace quella musica.
Si presenta, si chiama Lena, abita lì vicino ed è appena tornata da un concerto.
“Che concerto?” chiedo per curiosità.
“I Kino.”
Uno dei gruppi rock più famosi in Russia, il cantante Viktor Coj una specie di Sid Vicious intellettuale, portavoce della generazione cresciuta durante la perestrojka, il periodo di cambiamenti politici e timide aperture sociali che hanno segnato la seconda metà degli anni ’80.
Coj è morto nel 1990 in un incidente d’auto. Alcuni membri della band originale fanno ancora dei concerti con la voce di Coj registrata, sul palco alle loro spalle proiettano su uno schermo immagini e video del cantante.
Mai piaciuti i Kino, troppo cupi e claustrofobici, le sonorità new wave, le percussioni digitali e il cantato sommesso e inespressivo non mi toccano neanche un po’.
Anzi, mi mettono a disagio.
Si tratta comunque di un gruppo leggendario, un simbolo per decine milioni di russi che vanno dai quindici ai sessant’anni.
“Ti è piaciuto?”
“Sì è stato fantastico. Non sapevo cosa aspettarmi, era il mio gruppo preferito quando avevo venti anni. Adesso ne ho cinquantacinque e stasera mi sono resa conto che conoscevo tutte le parole a memoria, in questi trent’anni non mi hanno mai abbandonato.”
“È la magia della musica, anch’io mi ricordo tutte le canzoni che ascoltavo quando avevo quindici anni.” Passavo ore a riavvolgere i nastri, ho massacrato un disco dei Sex Pistols, ho consumato i cd dei Beach Boys e poi le compilation di northern soul. E ancora adesso, ogni volta che sento una nota di quelle canzoni che mi tenevano sveglio di notte mi sembra che il tempo non sia passato, sono ancora un ragazzino che sogna nella sua cameretta.
“Za chorošuju muzyku!” Saša alza il boccale e propone un brindisi alla buona musica.
“Vivi a Mosca?” si incuriosisce Lena
“No, sono qua per lavoro.” e le racconto di quello che faccio e del soggiorno prolungato. Descrivo la mia giornata, cosa ho visto al museo, le dico che per anni me ne sono fregato dell’arte e della cultura e adesso ho sempre paura che sia l’ultima volta.
Lena annuisce.
“Io lavoro per una ditta tedesca, quando tutto questo è cominciato sono rimasta sotto shock per settimane. Ero paralizzata dalla paura e piangevo.” Parla mentre gli occhi le si riempiono di lacrime, il trauma ancora vivo e doloroso, anche in questa serata calda di inizio luglio con la gente che si gode il fresco sul marciapiede, le risate sgangherate, le voci alterate dall’alcol. Rifiuto l’invito di Lena a bere un’altra cosa da lei “Abito proprio qui accanto.”, sono già sbronzo e non è difficile essere fedele se la tentazione non ti seduce.
La domenica mi sveglio con un hang over accettabile e vado in centro, in ulica Bol’šaja Sadovaja, dove c’è uno dei musei dedicati a Michail Bulgakov, l’autore di Cuore di Cane e Il Maestro e Margherita.
È un appartamento all’interno di un palazzo dalla facciata color turchese e inserti bianchi, i balconi stondati in stile liberty.
Lo scrittore sovietico c’ha abitato per un periodo, negli anni venti, per poi trasferirsi in un’altra abitazione nella stessa via.
Una scala in pietra con parapetto in ferro battuto porta al primo piano. Le pareti sono coperte di scritte e graffiti, principalmente citazioni dei romanzi di Bulgakov, soprattutto dal Maestro e Margherita.
La guida, una ragazza di nome Natalja, ci raduna in una stanza col pavimento in legno, i listelli incurvati dal tempo. Al centro c’è un tavolo rotondo su cui è adagiato un gatto nero di pelouche, enorme, il pelo sporco e consunto. Le ragazze continuano ad avvicinarsi al pupazzo e a scattare foto, penso che siano un po’ deficienti fino a quando la bestia inizia a muoversi, lentamente, in maniera meccanica. È un gatto vero, si chiama Behemoth e la guida invita a non disturbarlo, con la pandemia si è disabituato al contatto con le persone.
Natalja inizia a raccontare la vita dello scrittore, nato a Kiev nel 1891. Ci invita a guardare verso la parete alla mia destra, all’interno è stata ricavata una nicchia con un plastico della capitale ucraina.
“In questa casa c’è una finestra che si apre su Kiev. E nell’appartamento di Kiev dove ha vissuto Bulgakov c’è una finestra su Mosca.”
Sorride mentre parla e mi colpisce come una frustata sulla schiena quello che dice, osservo i volti degli altri turisti attorno a me. Sono tutti seri, induriti.
Chissà a cosa pensano, se si rendono conto che i rapporti tra due paesi in guerra sono affidati alla passione e al buon senso di donne e uomini comuni che si sforzano di costruire ponti con la cultura.
Natalja continua a raccontare la storia di Bulgakov, l’attività frenetica e la popolarità raggiunta nel corso degli anni venti con la narrativa e le rappresentazioni teatrali de La Guardia Bianca.
Poi negli anni trenta è vittima del clima di repressione culturale e viene censurato, non riesce più a pubblicare, vive di articoli di critica letteraria e teatro.
Nel privato si dedica alla stesura di romanzi che usciranno dopo la sua morte nel 1940. Il Maestro e Margherita è stampato tra il 1966 e il 1967 e sarà poi tradotto in più di centocinquanta lingue.
Uscito dal museo, seguo il consiglio della guida e faccio due passi lungo gli Stagni del Patriarca, il parco in cui è ambientato il primo capitolo de Il Maestro e Margherita, dove il presidente del Massolit, Berlioz, chiacchiera con lo straniero Woland e poco dopo muore decapitato dal tram. È un’area verde con al centro un laghetto rettangolare, lungo i vialetti passeggiano famiglie e coppiette.
Una ragazza snella fa joga appoggiata ad un albero, poco distante un tizio con la pelle olivastra e i vestiti sporchi si riposa sdraiato per terra, la schiena appoggiata ad un tronco.
La osserva per qualche istante, poi gira verso l’acqua lo sguardo triste, disperato.
Sono l’unico occidentale di tutto il parco, come Woland, che poi è Satana.
Gli Stagni sono costeggiati da ulica Malaja Bronnaja, la via del lusso che ho percorso l’altra sera assieme al mio cliente. Le persone che incrocio sono curate nell’aspetto, profumate. Anche i cagnolini sono precisi, sembrano quelli della pubblicità.
Bianchi e castani, col pelo corto, un fiocchetto tra le orecchie, raramente zampettano, spesso sono tenuti in braccio da signore abbronzate di mezza età, le labbra gonfie pitturate di rosa.
I tavoli dei locali disposti sui marciapiedi sono pieni di giovani che fanno il brunch, i ristoranti offrono il valet parking, un ragazzo di colore che potrebbe fare l’indossatore sta alla porta, i monopattini parcheggiati poco distante.
Alla fine della strada c’è la sede della Tass, l’equivalente dell’Ansa.
È un edificio degli anni settanta, un bell’esempio di modernismo sovietico, i finestroni con gli angoli stondati e i fascioni centrali in legno. Prendo un taxi per raggiungere Garage, il museo di arte contemporanea fondato dall’oligarca Abramovi .
La struttura è adiacente al Gor’kij Park, quello del film anni ottanta.
Per raggiungere l’area espositiva percorro una stradina poco frequentata, nel cuore di Mosca. Gli scheletri di edifici sovietici sono pronti per essere restaurati e gentrificati.
Parcheggiati sotto il sole, tre o quattro container in lamiera ondulata ospitano la manovalanza che trasformerà questi ruderi in appartamenti, negozi, uffici con vista sul Gor’kij Park.
Quanto al metro quadro? Si sente la voce a scatti di un ragazzo dell’Asia centrale, indossa pantaloni della tuta e ciabatte di plastica.
È accovacciato, il torso definito di chi fa un lavoro di fatica, parla rivolto allo schermo del telefonino e allarga un sorriso gentile.
Il piazzale dell’area espositiva è in cemento liscio, un gruppo di trentenni salta e sculetta su pattini a rotelle e skateboard, caschetti e protezioni per gomiti e ginocchia.
Nessuno indossa i roller blades.
Al museo non c’è nessuna mostra, lavorano soltanto il bar e il negozio di libri.
Ne approfitto per fare una passeggiata nel parco.
I vialetti sono in ordine, non ci sono cartacce o mozziconi sul ghiaino, nel laghetto si spostano dei pedalò gialli, più squadrati rispetto a quelli che vedi da noi al mare.
Ci sono bar e ristoranti di ogni tipo: quello specializzato in formaggi; un altro propone cucina georgiana; il bistrot con piatti francesi; il chiosco che vanta cento miscele di caffè e la pagoda orientale con il sushi. La tranquillità dell’ora di pranzo viene ogni tanto interrotta dai gridolini dei bambini o dal cicalare delle biciclette, il manico di una borsa che sporge dal portapacchi e tocca i raggi. Tanti giovani distesi sull’erba a prendere il sole.
Esco dal parco e mi ritrovo sul Leniniskij Prospekt, passo accanto ai negozi di Hugo Boss, Paul & Shark e Boggi, le vetrine allestite con la collezione estiva. Alla fine della strada svetta la statua in titanio lucido di Jurij Gagarin, le braccia staccate dal corpo e rivolte verso il basso, le gambe che proseguono nel basamento cilindrico e striato, alto più di trenta metri. Un supereroe pronto al decollo.
Prendo un taxi e vado al museo Puškin a vedere una mostra sugli impressionisti, appena inaugurata. C’è un sacco di gente in fila, aspetto un’ora per entrare. Renoir, Picasso, Paul Sinjak, Gauguin e Monet. Potente l’impatto dei colori, della luce, delle macchie e dei puntini ma sono stanco e c’è troppa gente. Le didascalie e le descrizioni accanto ai quadri sono solo in russo. Quelle in inglese di solito non le guardo nemmeno ma questa cosa, il fatto che in uno dei principali musei della capitale non sia nemmeno contemplata la presenza di visitatori stranieri, è un tratto di questa estate calda, luminosa e tragica.
Lunedì parto da Mosca per visitare un’azienda nella regione di Brjansk, quattrocento chilometri a sud della capitale.
Mi passa a prendere Nikolaj, detto Kolja, un venditore del nostro distributore. Poco più che quarantenne, fuma, mangia e beve senza moderazione, sembra più vecchio. È un tipo arguto e simpatico, anche se un po’ dispersivo, devo sempre ricordargli di mandare un’offerta o dei campioni ai clienti visitati.
Lavoriamo assieme da diversi anni e siamo in confidenza, vorrei chiedergli cosa ne pensa della guerra ma non siamo neanche usciti da Mosca che mi anticipa.
“Io ti considero una persona intelligente, giri il mondo, parli le lingue. Cosa pensi tu di questa situazione?” domanda con un po’ di imbarazzo.
“La guerra? Beh chiaro che sono contro. La guerra è una merda. Uomini uccisi e donne stuprate, quando va bene.”
“E quando va male?” mi chiede Kolja sorpreso.
“Torture e violenze su bambini e anziani.”
“Da voi cosa dicono?” insiste.
“Da noi nessuno supporta la guerra ma allo stesso tempo la gente vuole vivere tranquilla, col gas e l’inflazione sotto controllo.”
Nikolaj sorride mentre guarda la strada, le mani sul volante della sua Mercedes coupe.
“Ma in tv cosa dicono della Russia?”
“Dipende da dove vivi.
In Italia senti spesso in tv esperti o giornalisti che riportano la versione di Mosca.
Ma se vai in Scandinavia per esempio, la gente vive la cosa diversamente, sono mesi che parlano di una possibile invasione russa, dell’ingresso nella Nato, c’è un’altra atmosfera perché il livello di allerta è più alto.”
Poi lo interrogo io. “Ma tu cosa ne pensi?”
“Come hai detto, nessuno vuole la guerra. La situazione è difficile ma credo che Putin non avesse altra scelta e buona parte di quelli conosco supportano questa decisione.”
“Ma se fosse dichiarata una mobilitazione generale tu potresti essere richiamato?”
“Sì, ho fatto l’ufficiale e potrebbero richiamarmi. Se mi tocca io ci vado perché questa è la mia terra.” Eto – moja zemlja, tre parole, con quel tono fatalista che hanno tutti ma con un grado di convinzione che non mi aspettavo da un venditore pragmatico come lui.
Con la pancia e il fiato corto che si ritrova, non ce lo vedo a saltare fossi e a sparare per salvarsi la vita.
Parliamo dei miei figli, il maschio ha undici anni e la bambina ne ha nove, anche se ogni tanto crede di averne diciannove.
Suo figlio ha ormai ventidue anni e ha appena terminato l’università, anche se qua non si capisce mai quale sia il livello effettivo perché dopo le superiori c’è il kolledž che corrisponde grosso modo ad una laurea breve, oppure l’institut che equivale ad una laurea ed offre una formazione in un’area specifica a differenza dell’universitet che tratta almeno otto discipline diverse.
Il ragazzo vorrebbe lavorare nel settore della moda, fa il commesso in un negozio di vestiti ed è contento, anche se non guadagna molto.
“Ha già fatto il militare?” chiedo con un po’ di malizia.
“No, adesso stiamo cercando farlo riformare.” risponde Kolja candidamente.
Parliamo del più e del meno mentre percorriamo quattrocento chilometri attraverso boschi e distese di campi.
L’erba e i cespugli vicino alla strada sono di un verde più chiaro rispetto agli alberi e agli arbusti sullo sfondo, tendenzialmente i colori sono più scuri rispetto alla macchia mediterranea e danno una connotazione cupa, selvatica alla natura di questi posti. Lasciamo alle nostre spalle migliaia di betulle, cespugli grandi come case, prati incolti spruzzati di viola e lilla, qualche puntino bianco. Nel complesso una massa eterogenea, erbacce alte più di un metro e piante enormi, mai toccate dall’uomo nel corso di decenni.
Il panorama è diverso, all’inizio non ci fai caso ma col passare delle ore ti accorgi della profondità della prospettiva, con un’estensione insolita in Italia e soprattutto nel nord-est, dove lo sguardo è sempre contenuto tra le Alpi e l’Adriatico. Come succede nelle metropoli, con milioni di metri cubi di cemento e asfalto, così anche in aperta campagna le proporzioni sono altre, è tutto smisurato.
Sono paesaggi senza età, come nei quadri di Šiškin, ogni tanto passi accanto a una stazione di servizio, una tettoia sopra una pompa di benzina e una baracca di lamiera dove ti guardano male se non hai le banconote contate. Sul telefono ricompare una tacca di connessione per poi sparire dopo qualche centinaio di metri.
Attraversiamo un paesino, una manciata di casette di legno e qualche edificio a cinque o sei piani, uomini in salopette che pedalano senza fretta su bici sgangherate.
Davanti a noi una moto degli anni ottanta ci obbliga a rallentare e a inalare un fumo bianchissimo e fetente, una puzza insostenibile anche per i filtri della Classe E di Nikolaj.
Sui palazzoni grigi piastrellati, è indicato in rosso l’anno di costruzione.
I condomini del 1974 sono uguali a quelli del 1990.
Una coppia di ragazzini brufolosi cammina lungo il ciglio polveroso tenendosi per mano, in quella libera stringono il collo di una bottiglietta di Coca Cola. I tubi del gas, grossi e arrugginiti, attraversano la città e ogni tanto si intrecciano in un groviglio geometrico che ricorda i quadri di Mondrian.
Poi la strada si immerge nel folto degli alberi, in distanza sembra una rasoiata su una capigliatura afro.
Arriviamo finalmente a destinazione, l’ingresso del paese è segnato da un pannello grigio sgangherato con la falce e il martello, ha almeno trent’anni.
Passiamo davanti alla fabbrica che dobbiamo visitare domani, un capannone verde con una copertura a listelli in legno scuro, in stile scandinavo. Tutto attorno, casette in legno della prima metà del novecento, un sentiero in polvere al posto del marciapiedi, lungo la strada che porta al centro qualche palazzina a tre piani con il tetto di eternit. Dal senso opposto di marcia procede arrancando un autobus arrugginito, la parte frontale scrostata che ricorda il volto smunto di un vecchio sdentato. Il nostro albergo è nella via principale ed è stato costruito prima della pandemia. Le camere sono ordinate e i mobili chiari, moderni, anni luce rispetto al pensionato dall’altra parte della strada dove eravamo obbligati a fermarci in passato. Una notte di inverno di sei o sette anni fa, la signora che stava alla reception, un banchetto nel sottoscala, chiese a me e agli altri due colleghi russi:
“Per chi è la camera più grande?”
“Per lui!” risposero in coro.
Era la stanza più fredda, il termosifone a muro non riusciva a scaldare l’ambiente e bisognava accendere la stufetta elettrica. Il mobilio in stile anni cinquanta mi ricordava quello di mia nonna Jolanda, una vetrina in ciliegio accanto al letto piena di animali impagliati, per ravvivare l’ambiente. La colazione non era prevista e bisognava ordinare qualcosa di sera alla pizzeria di sotto.
Mettiamo giù la roba in camera prima di andare a cena.
La signora che prende i nostri documenti per fotocopiarli alza un sopracciglio quando vede il passaporto di Kolja.
“Lei è quello del bagno?”
“Che memoria!” ribatte Nikolaj, che prova a fare il simpatico.
“Guardi che ‘sta volta le faccio pagare i danni. Lo dica al suo amico.”
Kolja sospira, tra il divertito e l’imbarazzato, prende fiato e poi mi spiega.
“Quando in bagno c’è scritto di non buttare la carta igienica nel water… non è come dalle altre parti, qua la devi buttare nel cestino!”
Altrimenti si intasa il cesso.
Il centro del paese corrisponde a due strade che si incrociano, sull’intersezione c’è la piazza con il monumento di Lenin, a lato il municipio e un altro edificio amministrativo.
Sulla sinistra c’è un parco, l’erba tagliata di fresco, in mezzo un obelisco di pietra che ricorda la lotta partigiana della grande guerra patriottica.
Sulle panchine gruppetti di adolescenti silenziosi in jeans e maglietta, la schiena piegata verso gli schermi dei cellulari che tengono in mano. Mangiamo all’aperto in uno dei tre ristoranti del paese.
Finito di cenare il sole è ancora alto e facciamo due passi.
L’asfalto presto si trasforma in sabbia che scricchiola sotto i nostri piedi, oltrepassiamo la stazione della polizia con le auto parcheggiate all’esterno, hanno tutte la lettera Z tracciata con lo scotch di carta bianco sui finestrini posteriori e sui bagagliai, gli sbirri con i mitra in mano ci osservano silenziosi.
Proseguiamo fino a un bivio, guardando in basso sembra di essere in spiaggia, il silenzio interrotto dal rumore di una moto con le ruote piccole, la scritta Gladio sul serbatoio, in sella un vecchio con le gambe inarcuate, la camicia aperta per prendere un po’ di fresco.
Rientriamo in albergo, sulle aiuole accanto alla strada giocano i bambini, le mamme mangiano un gelato e le ragazzine truccate e pettinate passeggiano a gruppetti, gli occhi sul cellulare, urletti e risatine.
La mattina dopo prendiamo la Mercedes di Kolja per andare dal cliente, saranno un paio di chilometri ma procediamo lentamente, davanti a noi un furgoncino verde mezzo arrugginito con l’insegna dell’ambulanza, all’interno due tipi in canotta che sembrano usciti da una miniera.
Accanto all’ingresso, nei posti riservati ai titolari e ai quadri, sono parcheggiate BMW, Audi e Lexus.
Ci viene incontro Leonid, un signore sulla sessantina, spettinato, in braghette e infradito, che ci conduce dai suoi colleghi con cui abbiamo appuntamento.
“Han mandato il ragazzino?” lo percula Kolja con la voce roboante da un pacchetto di Marlboro al giorno.
Dall’esterno l’azienda sembra ben tenuta, poi gli infissi all’ingresso sono scrostati, i corridoi all’interno sono bui e il linoleum si stacca dal pavimento. Gli uffici sono stanzette che ospitano fino a otto persone.
Veniamo ricevuti in una sala riunioni.
Il mercato è stabile e anche se non c’è il boom di marzo e aprile sono tutti contenti degli ordini che arrivano dai negozi. La preoccupazione è per le sanzioni che potrebbero toccare la nostra categoria e per la stabilità dei fornitori europei.
“Come va da voi col gas?” si informano i responsabili degli acquisti.
“Al momento è tutto ok, la gente si gode l’estate, le prime vacanze dopo il covid. Poi in autunno si vedrà.”
A metà riunione ordiniamo il menu per il pranzo, al ristorantino sotto il nostro albergo non sono abituati a servire dieci persone in un colpo solo e si devono preparare.
Io prendo un’insalatona, gli altri pizza e pasta ai frutti di mare, con panna. Poco dopo mezzogiorno saliamo in auto e raggiungiamo il locale.
Già all’ingresso c’è odore di fritto e cipolla, scendiamo le scale e ci accomodiamo in un seminterrato illuminato artificialmente, la luce dei led proiettata dietro schermi rettangolari a forma di finestre con un paesaggio urbano sovraimpresso che ricorda un borgo medievale del centro Italia.
Si è unito a noi il direttore generale, un signore che ha superato la cinquantina coi capelli tinti di castano.
Si chiama Gennadij e parla velocissimo senza muovere la bocca, gli occhi impallati che sembra uno dei Simpsons. Ci tiene a fare buona impressione, anche se ci conosciamo da più di quindici anni vuole stupirmi.
“Senti che buona la pizza. Senti che bravi i nostri pizzaioli. Mi han detto che è come quella italiana, senza differenza.”
È una focaccia molle con sopra di tutto. Wurstel, salamino, bacon, formaggio verde, peperoni e qualcosa di dolciastro. Potrebbe essere balsamico o sciroppo di acero.
“Mmmhh, sì è buona.” risponde il commerciale che vuole portare a casa gli ordini.
Gennadij è seduto davanti a me, siamo leggermente defilati rispetto al resto della tavolata, me lo becco in esclusiva mentre gli altri ridacchiano per i fatti loro.
“Come va con il covid in Europa? Dicono che i casi stanno salendo.”
“Bah mi pare sia così dappertutto…”
“Forse non lo sapete ma qua abbiamo il vaccino Sputnik. Da quando lo hanno introdotto stanno tutti bene.”
“Mi sembra che in Russia sia vaccinato meno del 50% della popolazione.”
“E questo ti dice quanto è efficace lo Sputnik!”
Gli altri mangiano senza fiatare, il volto inespressivo e un lampo di perculo che attraversa lo sguardo.
“Come va con gli ordini?” chiedo tanto per cambiare discorso, anche se conosco già la risposta.
“Adesso va bene, non come in primavera, ma siamo coperti fino a fine estate. Poi ad agosto finisce la guerra e speriamo vada ancora meglio.”
“Ma ad agosto non finisce la guerra.” mi permetto di obiettare.
“Ah no?” mi osserva impassibile, come se gli avessi detto che il mio colore preferito è il rosso. Che poi è il blu.
“Da quando è incominciata l’operazione speciale e hanno distrutto tutti quei laboratori biologici, il covid è scomparso.” conclude.
Mi guardo in giro per capire se sono scemo io o cosa. Sono tutti concentrati sul proprio piatto, come se stessero recitando le preghiere.
“Avete mai visto la fabbrica di cristallo?” domanda Gennadij rivolto a me e Kolja. “La proprietà è la stessa del mobilificio. Dovete visitarla. È interessante!” dispone senza possibilità di replica. “Noi qua abbiamo tutto, non come a Mosca.”
Nikolaj maschera un sorriso dietro al tovagliolo.
Montiamo in auto che ci sono quasi trentacinque gradi in strada, raggiungiamo un negozio di oggetti di cristallo accanto a un centro commerciale.
È un edificio recente, pulito, ordinato, la merce ben disposta all’interno di vetrine e teche illuminate.
Gennadij ci presenta il direttore commerciale, Slava, un bisteccone che avrà la mia età. Indossa una camicia azzurra elegante, tutta chiazzata di sudore sulla schiena.
Ha il fuoco negli occhi, che poi è un’espressione russa che sta per “invasato”. Se avessi un euro per ogni volta che un mobiliere o un falegname ha guardato i miei articoli “con il fuoco negli occhi”, oggi le mie avventure le scriverebbe Ken Follett, forse le parti più truci le lascerei a Stephen King. Slava ci tiene incollati per un’ora e mezza, senza pietà.
Racconta che ai tempi dell’Urss la fabbrica produceva vetro, occupava circa 5000 dipendenti e riforniva tutto il paese di suppellettili, caraffe e bicchieri per le grandi occasioni.
Il problema è che facevano roba mediocre, secondo il gusto della famiglia Addams, erano monopolisti e se lo potevano permettere. Quando poi si sono trovati a fare i conti con l’economia di mercato, la concorrenza e l’import cinese, han dovuto chiudere in poco tempo.
È soltanto da qualche anno che la proprietà del mobilificio ha rilevato la fabbrica di vetro e ha iniziato a lavorare il cristallo, quest’ultimo ha un grado di durezza e trasparenza più elevato rispetto al primo. Hanno coinvolto designer stranieri che hanno sviluppato linee moderne, più eleganti. Da quando è iniziata la guerra, molti concorrenti stranieri hanno lasciato il paese e questo offre qualche opportunità in più ai loro articoli.
Slava è un grande venditore, spiega bene ogni aspetto, riesce a catalizzare l’attenzione e a trasmettere entusiasmo.
“Quando la produzione ha chiuso, abbiamo rischiato di perdere artigiani che si tramandavano il mestiere di padre in figlio da generazioni.” commenta col volto abbattuto. “La nuova proprietà invece ha deciso di recuperare questa ricchezza e di investire su di loro.” conclude con tono brillante, per marcare il lieto fine.
Andiamo a vedere lo stabilimento produttivo, poco distante dal negozio.
Passiamo accanto a un centro commerciale, anche questo della stessa proprietà.
Nel parcheggio c’è un gruppo di zingari che si contendono gli scarti di carne e ortaggi vicino a un cassone. Le donne col fazzoletto in testa e i canini dorati sono più aggressive degli uomini in ciabatte, la pancia che sbuca dalle braghette.
Passiamo per uno spiazzo sterrato pieno di erbacce e polvere, camminiamo sopra travi di legno adagiate sul terreno, passerelle in caso di pioggia, entriamo in un capannone che fa parte di un enorme complesso, in buona parte abbandonato.
All’interno una situazione da rivoluzione industriale.
Al centro della stanza c’è una fornace che emana un calore soffocante già a cinque o sei metri di distanza, almeno una trentina di gradi che si aggiungono a quelli dell’ambiente.
Attorno alle pareti di pietra, operai in canottiera armeggiano tubi di metallo avvolti da coperte di amianto, attaccate alle estremità palline incandescenti che poi vengono schiacciate su una lastra di pietra per essere lavorate.
Proseguiamo la visita guidata in un laboratorio male illuminato dove una dozzina di uomini e donne, grigi e impassibili, passano il loro tempo maneggiando vasi, calici e animaletti di cristallo per esaminarne la purezza, tracciare linee o scavare dei puntini sulla superficie con il tornio.
Per cena ci troviamo nel ristorante dove abbiamo mangiato la sera prima, ci accomodiamo in una veranda di travi di legno nero.
Al nostro tavolo si accomodano i clienti con cui abbiamo pranzato, tranne Gennadij, che ha un altro impegno.
Seduto di fronte a me c’è un vecchietto ossuto che si chiama Valentin.
Ha la voce stridula e un modo di fare untuoso, quasi servile.
Non è cattivo, cerca soltanto di scroccare un invito in Italia, a spese della mia azienda.
Fino a una decina di anni fa organizzavamo questi viaggi per trasmettere ai clienti il valore aggiunto dei nostri prodotti, le caratteristiche tecniche, la qualità dei materiali e l’attenzione nei controlli di qualità che caratterizzano la nostra offerta.
Poi abbiamo smesso perché era peggio che gestire degli scolaretti in gita.
La gente si ubriacava, faceva casino al ristorante, mangiavano come disperati e poi si addormentavano durante le spiegazioni.
Le gite a Venezia trascorse a cercare qualcuno che rimaneva indietro o si perdeva nelle callette, un incubo a pranzo la traduzione del menu, che bisognava ripetere piatto per piatto almeno tre o quattro volte.
Non me la sento di deludere le speranze di Valentin, che mi tempesta di domande sul costo della vita in Italia.
“Quanto è uno stipendio medio? Quanto costa un affitto? A che età andate in pensione?”
Per quanto cerchi di vendere il suo ruolo in azienda come essenziale, gli altri lo bullizzano ogni volta che apre bocca.
È originario della Crimea, il figlio aveva problemi respiratori a causa del clima e verso la fine degli anni ottanta si è trasferito nella regione di Brjansk.
Gli chiedo se ha ancora parenti in Crimea, quando dice che i russi l’hanno “conquistata” nel 2014, i suoi colleghi gli danno sulla voce, con tono minaccioso.
“Perché conquistato? Cosa vuoi dire?”
Valentin incassa la testa tra le spalle, ridacchia e non risponde.
Cambia argomento, alza la gamba da sotto il tavolo e mi mostra una scarpa nera, sembrano quelle di Lurch...
“Queste le ho comprate in svendita. Sono europee. Ho speso trenta dollari.” sottolinea con orgoglio.
“In Italia con trenta dollari non ci compri neanche le stringhe.” lo sfotte Vladimir, quello col grado più alto tra i commensali.
Gli altri ridono con le lacrime agli occhi. Valentin sorride e si concentra sul piatto.
C’ha messo un sacco a scegliere, non gli capita spesso di mangiare al ristorante.
Come per il pranzo, ho optato per un’insalata. Tutti gli altri hanno ordinato piatti rivestiti di formaggio fuso, pesce incluso. Qua il criterio non è buono o cattivo ma vkusnyj, gustoso, saporito.
A tavola, si scherza con la propensione che abbiamo noi in Italia per il cazzeggio, lasciare scorrere il tempo in maniera leggera. Mi mancava questa cosa in America, tutti cerebrali, impegnati a dire la cosa più intelligente, forse era il giro degli studenti universitari.
Anche in Scandinavia sono asettici, lineari.
Ti trovi a pranzo con questi che parlano mezz’ora del tempo, la neve, la pioggia.
A tavola Kolja ha ordinato un distillato al mirtillo, se lo beve praticamente da solo, ingolla dei bicchierini in un colpo secco, a seguire una sorsata di succo di pomodoro, per annegare l’acidità. Gli altri scherzano sui missili ucraini caduti qui vicino un paio di settimane fa, con il solito fatalismo.
Tanto non ci possiamo fare niente. Penso a mia madre, a come reagirebbe se sapesse che sono a pochi chilometri dal fronte di guerra, al tono di voce, quell’aria di rimprovero da prof di lettere.
“Caspita! Ma non avevi altri posti dove andare?”
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