venerdì, settembre 30, 2022
Settembre 2022. Il meglio del mese
A tre mesi dalla fine dell'anno buone cose con gli album di Fantastic Negrito, Ben Harper, Lazy Eyes, Graham Day, Miles Kane, Hoodoo Gurus, Liam Gallagher, Jonathan Jeremiah, Martin Courtney, Viagra Boys, Tambles, Black Midi, Spiritualized, Yard Act, Elvis Costello, JP Bimeni and the Black Belts, Godfathers, Shirley Davis and the Silverbcaks, Dedicated Men of Zion, Electric Stars, St.Paul and the Broken Bones, Abiodun Oyewole, York, PM Warson, Joe Tatton Trio, Jamie T.
Mentre tra gli italiani Bebaloncar, Pierpaolo Capovilla e i Cattivi Maestri, Sacromud, Assalti Frontali, Temporary Lie-Cesare Malfatti e Georgeanne Kalweit, Bastard Sons of Dioniso, Verdena, Organ Squad, The Cleopatras, Dear, White Seed, Tin Woodman, Alternative Station, Massimo Zamboni, Dear, Agape, Almamegretta, Ossi, Kicca e Path.
THE GODFATHERS - Alpha Beat Gamma Delta
Della line up originale della favolosa band che imfiammò gli anni 80, rimane il cantante Peter Coyne ma il sound e la freschezza di questi dodici brani rimangono inalterati, chitarre abrasive, voce lirica, allo stesso tempo sfacciata e profonda. Un lavoro di classe e rara forza sonora, avvalorato da una produzione eccellente e da una band che suona a livelli altissimi.
JONATHAN JEREMIAH - Horsepower for the Streets
Al quinto album il cantautore londinese fa un grande centro con uno stupendo lavoro pop soul che unisce in un solo abbraccio Michael Kiwanuka e Paul Weller, una buona dose di funk, il northern soul groove ("Youngblood"), grandi ballate di gusto 60's alla Bill Withers.
NEW MASTERSOUNDS - The deplar effect
Difficile pensarlo ma la band di Leeds firma il 17° album (in 22 anni d icarriera). Lo sono andati a registrarein Islanda ma il sound rimane un caldissimo, anzi, bollente omaggio alla tradizione Hammond funk cara ai Meters. Alla voce in molti brani Lamar Williams Jr. a rendere il tutto ancora più groovy e rhythm anmd soul.
SCONE CASH PLAYERS - From Brooklyn to Brooklin
Gustosissimo album dell'Hammondista Adam Scone per la Daptone, accompagnato da Jimmy James (True-Loves, Delvon Lamarr Organ Trio) alla chitarra e Neal Sugarman (Sugarman 3, Sharon Jones and the Dap-Kings) al sax, alle prese con un hammond groove di gusto 60's funk dalle influenze brasiliane e un pizzico di gospel. Originale e ultra cool.
MARS VOLTA - s/t
Strano album del duo, tornato dopo un lungo silenzio.
Il loro scorbutico "new prog rock e tanto altro" vira verso sonorità latine, tribalismo, mischia, attinge, sconvolge schemi e suoni.
Tanti i riferimenti, la lista sarebbe lunga e fuorviante.
Un lavoro molto interessante perché "aperto" e senza limiti.
Necessita di numerosi ascolti per essere compreso e assorbito.
EDDA - Illusion
Al sesto album il cantautore milanese conferma il suo passo artistico atipico, sempre sorprendente, non solo personale ma unico e inimitabile. Una sorta di Syd Barrett nostrano a braccetto con Rino Gaetano, più semplicemente Edda. Nel nuovo lavoro è affiancato da Gianni Maroccolo alla produzione che dona un nuovo carattere e tratto artistico alla sua scrittura.
Canzone d'autore, un'impronta jazzy in molti brani ma anche impennate rock/post wave, a cui si uniscono le consuete criptiche liriche malinconico/romantiche e una voce inconfondibile. Un nuovo album che si pone tra i migliori dell'anno in corso.
VERDENA - Volevo magia
Torna dopo un silenzio discografico durato sette anni, una delle migliori band del panorama nostrano, raro esempio di immediata riconoscibilità e personalità. Dal piccolo capolavoro di "Wow" del 2011, prova di assoluta e totale maturità, a cui seguirono i due ottimi volumi di "Enkadenz", si arriva al nuovo atteso album che conferma le qualità compositive della band, la capacità di spaziare tra diverse influenze (dalla psichedelia, allo stoner in chiave noise, a evoluzioni ritmiche quasi prog, rock, post wave e tanto altro) con grande versatilità e competenza.
Non il migliore episodio della lunga carriera ma pur sempre un ottimo lavoro.
JOHN DOE - Fables in a foreign land
Mentre gli X continuano imperterriti a fare su e giù per l'America (California in particolare), John Doe si prende uno dei consueti spazi solisti ((una dozzina di album alle spalle oltre a numerosissime collaborazioni). Come spesso accade a base di un mix semi acustico di country, blues, rockabilly, tex mex. Ottime canzoni, tutto sempre molto gradevole, pur se non indispensabile.
THE BUZZCOCKS - Sonics in the soul
Dopo la morte di Pete Shelley, Steve Diggle decide di portare avanti lo storico nome con un nuovo album.
Non avendo però, in tutta evidenza, le capacità vocali e compositive di quello che era la mente del gruppo.
Il disco raggiunge solo raramente la sufficienza e si lascia dimenticare velocemente.
THE CHATS - Get fucked
La band australiana spacca con un punk rock dalle svariate influenze (dall'hardcore al funk punk al classico 77 sound) attraverso 13 brani tiratissimi, rabbiosi, furiosi. Grande disco!
THE MANGES - Book Of Hate For Good People
Alle soglie del trentennale di carriera la band spezzina firma il sesto album (oltre a vari 45, ep, raccolte e un live), confermandosi una delle migliori punk rock band in circolazione.
Compatti, i Ramones (da sempre) nell'anima, potenti, grandi brani e melodie, totale padronanza della materia. Un nuovo grande lavoro.
HAKAN - Manifesto
Quarto album per la band bergamasca, come sempre a base di un sound che viaggia dritto e spedito, tra punk rock di gusto Ramones e rock 'n' roll ruvido e abrasivo con una vena melodica che caratterizza ogni brano che riporta ai primi Buzzcocks ("Jas is moving to town" su tutti). Il disco funziona dall'inizio alla fine con tredici brani che restano costantemente sul minuto e mezzo di durata. Ottimo.
STINKING POLECATS - s/t
Mancavano su album da 17 anni! Festeggiano il ritorno con un grande lavoro, dieci nuovi brani fiammanti, puro punk rock dalle tinte 90’s con sprazzi 77 in odore di Stiff Little Fingers (“Go get ready”), energia e freschezza intatte. L’album fila via arrembante, preciso, potente, al limite dell’eccellenza.
SUEDE - Autofiction
Il brit pop in salsa Bowie dei Suede giunge al nono album. Più diretto, crudo e urgente, conserva la classica epicità del cantato di Brett Anderson e si compone di ottime canzoni, spesso particolarmente ispirate.
STEVE PILGRIM - Beautiful blue
Già batterista con Stands e Cast e dal 2008 di Paul Weller, Steve Pilgrim giunge al suo sesto album. Paul produce e co firma cinque dei dodici brani, tutti in un mood acustico, intimista e malinconico che inevitabilmente porta alla memoria "True meanings" del Modfather.
Un ottimo lavoro, molto gradevole e pieno di buoni brani.
AFGHAN WIGS - How do you burn?
Torna la creatura di Greg Dulli con un ottimo album, lirico, oscuro, duro, con pennellate soul e dark deep blues. Canzoni ispirate, groove malato, il compianto Mark lanegan e tanti altri tra gli ospiti.
JULIAN LENNON - Jude
Torna dopo 11 anni di silenzio il primogenito di John con un album in cui (fin dal titolo) rimanda a padre e Beatles incentrando il lavoro esclusivamente su malinconiche (e un po' sciape) ballate pianistiche.
Paradossalmente finendo per sembrare più Liam Gallagher che John Lennon...
RINGO STARR - EP3
Nuovo ep con quattro brani di Ringo.
Con tutti i distinguo del caso e l'opportunità di incidere ancora cose sostanzialmente inutili, alla fine una/due volte si lascia ascoltare, per poi tornare nell'oblio.
NERO KANE - Of knowledge and revelation
Il terzo album dell'artista milanese ci porta in un viaggio psichedelico fatto di atmosfere sospese, oscure, solenni, malinconiche, drammatiche, in cui abbraccia folk apocalittico, post wave e una sorta di canzone d'autore goth/dark dall'attitudine ambient, screziata dalle molteplici anime dei Velvet Underground.
Spiccano originalità e personalità, che sublimano una maturità artistica di primo livello.
OSSI - s/t
Simone Tilli e Vittorio Nistri (anime degli sperimentali e avanguardisti Deadburger) alle prese con una nuova creatura artistica e 12 brani autografi, registrati con Andrea Appino, Dome La Muerte e Bruno Dorella. Un album che esplora psichedelia, garage beat ma anche e soprattutto quell'anima dissacrante che porta da Zappa e Captain Beefheart ai nostri Skiantos (erroneamente sempre derubricati a "demenziali"), inserendo riferimenti ben precisi al concetto, troppo dimenticato, di controcultura. Splendida la confezione vinilitica gatefold, con all'interno, posizionato in una speciale tasca fustellata, un booklet fumettistico di 28 pagine a colori, stampato nel formato originale degli albi dei Freak Brothers, e colmo di invenzioni, In copertina un disegno di Andrea Pazienza. Album importante e originalissimo.
KICCA - Call me sugar
Brillante ritorno della cantante veneta/parigina con un album ultra groovy di funk, soul, disco, bluesy, perfino un salto nel reggae e nello ska, con la consueta stupenda voce che spazia tra inglese, francese e italiano. Arrangiamenti sontuosi, brani (tutti autografi) sempre frizzanti e pulsanti, disco delizioso.
SOUL BASEMENT - Do no wrong
Nuovo elegantissimo, raffinato, super groovy ep per la band di Fabio Puglisi, aiutato dalle stupende voci di Alvin Le-Bass e Lana Gordon. Soul funk con un retrogusto disco, quattro brani di altissima qualità compositiva e artistica, splendidi arrangiamenti, sonorità calde e avvolgenti, un piccolo gioiello nu soul.
C'AMMAFUNK - Bouncing
La band salernitana rinnova la tradizione campana dell'amore per il funk e la fusion (da Napoli Centrale e James Senese in poi) con un album di altissimo livello qualitativo, soprattutto nei termini di un'impeccabile esecuzione e un gusto sopraffino per suoni e arrangiamenti. Brani ispiratissimi, groove a pioggia, influenze mediterranee per un album di pura eccellenza.
MARIA MESSINA - Non siamo mai quelli di una volta
Dopo un esordio in inglese la musicista/cantautrice veneto/piemontese si cimenta con un lavoro in lingua italiana, raggiungendo vette liriche e compositive di primissimo livello.
Il mood (pianistico/semi acustico) si muove tra un approccio classico (dalle parti di Tori Amos ma anche Nada, un pizzico di Carmen Consoli e Luigi Tenco ) e una vena più sperimentale che riporta a Debora Petrina e Mimosa Campironi.
Messina compone benissimo, canta ancora meglio, gli arrangiamenti sono personali e il risultato finale è originale e ben riconoscibile.
I MITOMANI BEAT - Ciononostante
Terzo capitolo per il quintetto romano che ribadisce la sua predilezione per le sonorità beat di ispirazione anni Sessanta. La band in realtà approfondisce il suo percorso nell'ambito spaziando anche in atmosfere jazzy (di sapore Buscaglione), blues, soul (la bellissima cover di "Rescue me").
Tanta ironia, ottimi brani, suoni sapientemente pertinenti, vari ospiti, un disco godibilissimo.
BAG OF SNACKS - Love songs for work haters
Il trio piemontese torna con un nuovo sparatissimo album, a base di punk rock e hardcore di ispirazione californiana dei primi anni 80. Il tutto condito da attitudine e spirito garage. Undici brani eseguiti con la giusta attitudine, grande potenza e precisione tecnica.
FABIO MACAGNINO - Sangu
Il cantautore e performer teatrale italo-tedesco stende l'ascoltatore con il potentissimo nuovo album in cui travolge con un folk tribale di matrice calabrese/mediterranea dall'attitudine quasi punk tra Cesare Basile e Il Pan del Diavolo. Ma che ha il garbo di diventare una ruvida ninna nanna nella struggente "Janestra mi fici" (uno dei migliori episodi dell'album) o un malinconico blues ("Fortuna"). Interessantissimo e crudo.
DEAD CAT IN A BAG - We've Been Through
Prosegue il cammino fangoso di Luca Swanz con la sua creatura Dead Cat In A Bag, giunta al quarto album. Le sue canzoni ci portano nel terreno paludoso, fumoso, dai miasmi blues, in cui camminano abitualmente le anime di Nick Cave (anche nei suoi retaggi Birthday Party, vedi il riff di "Wayfiring stranger", Tom Waits (il riferimento più diretto e palese dell'album), il Mark Lanegan più oscuro, fino al punk blues dal timbro balcanico e Pogues di "Fiddler, the ship is sinking". Grande lavoro di arrangiamento e di ricerca del suono, ottime composizioni, giusta attitudine.
BLONDIE - Against the Odds: 1974 - 1982
Mega cofanetto di 124 brani con i primi sei album della band e 36 inediti (di cui alcuni notevoli e molto interessanti come la "Heart of glass" il cui primo demo del 1974 con il titolo "Disco song" è in chiave reggae funk e una bella versione di "Moonlight drive" dei Doors). Essenziale per i fan.
BRIAN AUGER, JULIE DRISCOLL & the TRINITY - Far horizons
Credo che BRIAN AUGER sia il più sottovalutato tastierista, autore, musicista di sempre.
Tecnicamente eccelso, ottimo compositore, collaboratore di Jimi Hendrix, Rod Stewart (gli splendidi Steampacket con Julie Driscoll e Long John Baldry), Eric Burdon e mille altri, ha inciso splendidi album.
Una delle sue molteplici creature fu la BRIAN AUGER & THE TRINITY (con Julie, Vic Briggs - poi con Eric Burdon & the Animals - già con Shel Carson Combo, futuri The Rokes con Shel Shapiro - e Micky Waller poi con Jeff Beck e John Mayall) con cui incise quattro stupendi album.
Il box "Far Horizons" raccoglie i loro quattro album "Open" (1967), "Definitely what" (1968), "Streetnoise" (1969), "Bafour" (1970).
Per avere una conoscenza dei SIXTIES occorre passare da BRIAN AUGER.
Questa è una buona occasione.
ASCOLTATO ANCHE:
STELLA DONNELLY (ottimo cantautorato senza brividi ma dignitoso), SOL SET (jazz, Brazil e un po' di altre spezie. Buono), LINDSEY WEBSTER (pop soul con tracce di funk e hip hop. Godibile)
LETTO
ALBERTO ZANINI - Storia di una pantera
L'esordio letterario di Alberto Zanini è stato un botto!
Un viaggio dei Funk Investigators tra dischi, artisti, funk, soul, blues nel profondo degli States (ne ho parlato qui: https://tonyface.blogspot.com/2021/02/alberto-zanini-funk-investigators.html).
Il proseguio batte sempre strade "black" ma qui la musica è solo un sottofondo (tra citazioni dell'esoirdiente Gil Scott Heron, Nina Simone, i Dramatics al "Bogeyman", gli stessi Funk Investigators) che accompagna le pericolose avventure, alla fine degli anni Sessanta new yorkesi, tra crimine di strada, politica, polizia corrotta, mafiosi di Jalon Perry, ragazzo di strada affiliato alle Black Panthers.
Jalon sfugge a una retata della polizia e ricomincia una vita altrove.
Lo "ritroviamo" nel 2021, nella seconda parte del libro.
Un lavoro intenso che affianca alla finzione del raccontro molti elementi storici e una perfetta visione (molto sapiente e cinematografica) dell'America in fermento di fine Sixties.
La scrittura è frenetica e avvincente, la trama intrigante, i personaggi sempre stimolanti e credibili.
Alberto scrive benissimo, con grande padronanza della materia e dei tempi per permettere al racconto di fluire velocemente e in modo trascinante.
ANTONIO PELLEGRINI - The Who. Long live rock
Agile storia degli WHO, tra fatti salienti e aneddoti poco conosciuti, intervallata da una lunga serie di testimonianze dalla stampa italiana (dagli anni Sessanta ad oggi), con recensioni di concerti, interventi di fan testimoni a vari concerti (incluso il "classico" Carlo Verdone), interviste alla band, una esclusiva a Kenney Jones, foto d'archivio e tante altre interessantissime aggiunte per i fan della band.
Che non si potranno esimere ad aggiungere questo nuovo titolo alla lunga serie.
MATTEO TORCINOVICH - 1977. Don't call it punk
Il 1977 è il momento cruciale per il punk.
Matteo Torcinovich in questo mounmentale libro (di 500 pagine) si addentra con una minuziosa ricerca storica in quell'anno fatidico, stilando un vero e proprio calendario, annotando, giorno per giorno, tutti gli eventi relativi alla scena punk rock.
Un dettagliatissimo ritratto di quello che fu il punk, corredato da un'ampia mole fotografica di materiale d'epoca, liste di concerti, copertine di dischi, fanzines.
A cui si aggiunge il contributo di una lunga serie di protagonisti dell'epoca che rispondono alla domanda:
“Quale è stato il tuo personale momento/evento più significativo del 1977 che ha contribuito alla storia del punk?”.
Dalle risposte di membri di Sham 69, Boys, Adverts, X Ray Spex, Generation X, Vibrators, PIL, Chelsea, tra i tanti ricaviamo un quadro ancora più dettagliato e approfondito di un'epoca irripetibile quanto decisiva e ancora artisticamente attuale.
SIGMUND FREUD - Psicopatologia della vita quotidiana
Leggere Freud può apparire attività complessa e ardua.
Nel caso di questo saggio, del 1901, pubblicato all’interno di una rivista, poi stampato come volume nel 1904, il neurologo, filosofo e psicoanalista austriaco si diverte, in chiave sorprendentemente agile, fresca e leggera a portarci all'interno dell'interpretazione dei lapsus, degli errori, delle parole usate, in un modo piuttosto che in un altro, in cui incorriamo quotidianamente.
Spesso dicendo, inconsciamente, "una verità" nel momento in cui commettiamo un errore lessicale o una maldestra sostituzione di una parola.
Esempio: “È per me una vera noia (anziché gioia) enumerare le qualità del mio collega…”.
Tanti esempi (anche personali), spiegazioni semplici, argute, talvolta naif, se relativizzate al periodo (fine 1.800) a cui fa riferimento, attinte dal suo lavoro e dai suoi pazienti. Consigliato, lettura mai (troppo) impegnativa.
VISTO
Pistol di Danny Boyle
Difficilmente i biopic musicali (e anche quelli calcistici aggiungerei) riescono a restituire un'immagine adeguata dei personaggi rappresentati, diventando, nella maggioranza dei casi, inattendibili se non caricaturali.
Non sfugge alla regola "Pistol", basato sull'autobiografia di Steve Jones, che ripercorre la breve e convulsa vita dei SEX PISTOLS, in sei episodi in onda su Disney+.
L'astiosa e totale opposizione al progetto di John Lydon conferma i timori e la sua, come sempre, lucida e arguta previsione è pienamente centrata:
"La Disney ha rubato il passato e ha creato una fiaba, che ha poca somiglianza con la verità. Sarebbe divertente se non fosse tragico".
Personaggi caricaturizzati, macchiettistici (il Johnny Rotten con la stessa identica espressione in ogni sequenza, occhi sbarrati, mascella tirata, la Chrissie Hynde derubricata a saccente e saggio "grillo parlante", il Sid Vicious tonto, la timida cameriera dell'hotel in cui suonano che dopo due brani corre in bagno e diventa punk, un inverosimile Malcolm McLaren), situazioni improbabili e francamente grottesche (i brani che nascono in dieci secondi, i musicisti incapaci che, dopo un duro, tenace, caparbio sforzo e lavoro, imparano a suonare).
Le cose migliori sono nelle intro, in cui compaiono immagini dell'Inghilterra dell'epoca e nella colonna sonora che inquadra bene il periodo pre Pistols.
E se la partenza è accettabile la serie si dilunga poi in modo quasi irragionevole, inserendo sdolcinature, lunghi dialoghi insostenibili, sceneggiatura traballante.
Perla della serie, tra i sottotitoli in italiano, "ho visto Johnny Rotten al Marquee", tradotto con "ho visto Johnny Rotten, il Marchese"...
COSE VARIE
° Ogni giorno mie recensioni italiane su www.radiocoop.it (per cui curo ogni settimana un TG video musicale - vedi pagina FB https://www.facebook.com/RadiocoopTV/).
° Ogni domenica "La musica ribelle", una pagina sul quotidiano "Libertà"
° Ogni mese varie su CLASSIC ROCK.
° Ogni sabato un video con aggiornamenti musicali sul portale https://www.facebook.com/goodmorninggenova
° Nel sito www.goodmorninggenova.org curo settimanalmente una rubrica di calcio "minore".
° Periodicamente su "Il Manifesto" e "Vinile".
IN CANTIERE
Ultime due date ad ottobre dei "corsi" sulla storia della musica pop/rock.
Otto appuntamenti, con ospiti, proiezioni, ascolti in cui si cercherà di contestualizzare tutto ciò che è accaduto dal blues alla trap, evidenziando i momenti salienti ma anche quelli più oscuri e meno noti.
Il tutto al
Raindogs House, Piazza Rebagliati 1 - Savona.
Ingresso gratuito.
Dalle 19 alle 21.
Info: raindogshouse@gmail.com
Il programma:
- SABATO 1 ottobre: Elettronica, rap, house, trap, hip hop, new jazz. Ospiti: Black Stax ( Live from Seattle )
- MERCOLEDI' 12 ottobre: L'apparato produttivo della musica rock. Ospite: Stefano Senardi
E' uscito il nuovo album dei NOT MOVING LTD "Love Beat" per Area Pirata con otto inediti e una cover
Si trova nei negozi, ai nostri concerti e qui:
http://www.areapirata.com/dettaglio.php?cod=5490
Prossimi concerti NOT MOVING LTD
Venerdì 14 ottobre: Bologna "Frida"
Venerdì 4 novembre: Vicenza "Lucky Brews"
Sabato 5 novembre: Como "Joshua Club"
Sabato 12 novembre: Viareggio "Gob"
giovedì, settembre 29, 2022
Matteo Torcinovich - 1977. Don't call it punk
Il 1977 è il momento cruciale per il punk.
Matteo Torcinovich in questo monumentale libro (di 500 pagine) si addentra con una minuziosa ricerca storica in quell'anno fatidico, stilando un vero e proprio calendario, annotando, giorno per giorno, tutti gli eventi relativi alla scena punk rock.
Un dettagliatissimo ritratto di quello che fu il punk, corredato da un'ampia mole fotografica di materiale d'epoca, liste di concerti, copertine di dischi, fanzines.
A cui si aggiunge il contributo di una lunga serie di protagonisti dell'epoca che rispondono alla domanda:
“Quale è stato il tuo personale momento/evento più significativo del 1977 che ha contribuito alla storia del punk?”.
Dalle risposte di membri di Sham 69, Boys, Adverts, X Ray Spex, Generation X, Vibrators, PIL, Chelsea, tra i tanti ricaviamo un quadro ancora più dettagliato e approfondito di un'epoca irripetibile quanto decisiva e ancora artisticamente attuale.
“La musica (punk rock) assume un ruolo primario nel processo legato al cambiamento generazionale e diventa, quasi inconsapevolmente, il veicolo per eccellenza sul quale viaggia ad alta velocità il nuovo concetto artistico del “Fai da te” (Do It Yourself) che approda alla fotografia, alla moda, al teatro, alla grafica, alla poesia ma anche alle idee politiche/non politiche, scandali e verità!
Straordinariamente questo nuovo approccio si diffonde tra la generazione del ’77. Alcuni piccoli studi di registrazione così come certi negozi di dischi e i musicisti stessi, creano importanti etichette discografiche indipendenti che sfornano migliaia di vinili di centinaia di nuove bands.
I protagonisti sono di certo i musicisti ma anche i produttori di concept originali e gli inventori di nuove idee. Per forza di cose servono grafici, fotografi, nuovi giornali capaci di trasmettere un nuovo stile di comunicazione”.
Matteo Torcinovich
1977. Don't call it punk. Storia illustrata dell'anno che cambiò per sempre la musica
Goodfellas Edizioni
496 pagine
39 euro
mercoledì, settembre 28, 2022
Tashkent – Uzbekistan - Giugno 2022 #1
L'amico SOULFUL JULES, abituale frequentatore, per motivi di lavoro, dell'ex Urss, ci introduce nel clima di alcune zone, tristemente famose in questi giorni.
Ci aiuta a capire e ad approfondire, al di fuori di divisioni ideologiche, polarizzazioni, supposizioni.
Le precedenti puntate sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/Tales%20from%20Ex%20Urss
Tashkent – Giugno 2022
PRIMA PARTE A inizio anno avevo programmato una serie di viaggi nell’Asia centrale, nei vari stan dell’ex Urss dove parlano russo.
Già mi vedevo accovacciato su un tavolino nella lounge dell’aeroporto di Šeremetevo a rimpinzarmi di salsicce e uova idrogenate prima dell’imbarco per Almaty, Taškent o Baku.
E poi, a cinque minuti dalla chiusura del gate, superare con passo agile gli altri passeggeri in fila e sventolare la tessera di frequent traveller a chi avesse qualcosa da obiettare.
Ogni tanto ci sarebbe scappato un upgrade per la business class, dove le hostess sorridono in modo diverso che in economy, come fossero davvero felici di prendersi cura di te.
Appena ti siedi ti servono un calice di solfiti effervescenti che chiamano šampanskoe e per una o due ore ti illudi che Ksenja stia sorridendo a te e non al tuo biglietto.
Poi niente, a fine febbraio Aeroflot ha interrotto i servizi verso questi paesi.
Per andare in Uzbekistan devo passare per la Turchia.
Biglietti carissimi, zero privilegi.
Nel volo Venezia – Istanbul, la signora accanto a me fa una decina di telefonate prima del decollo.
Tutte uguali.
Parla in veneto, urla come quelli attanagliati dal dubbio che dall’altra parte non li sentano bene.
“No go dormio gnint. A me so svejada che jera l’una e ventiquattro. Ghe jera dei tosi coi cani, i faseva un rumooor. No so più stada bona de dormir.”
Per sopportare queste situazioni, anni fa ho comprato un paio di cuffie col noise cancelling, la riduzione del rumore esterno.
Riduzione che non blocca lo scambio tra la mia vicina e la signora seduta al suo fianco, verso il corridoio, una donna con la carnagione olivastra e i capelli ricci, lunghi e grigi.
Ha un accento straniero marcato e indefinito, arrotonda le r fino ad addolcirle. Parla bene in italiano ma la mia vicina decide che non è così e le si rivolge scandendo le parole ad alta voce, lentamente. Semplifica le frasi in maniera grottesca, come se parlasse ad un marziano che ha appena iniziato a studiare la nostra lingua, con quei corsi online di italiano per extraterrestri.
Assisto a una conversazione surreale tra un’italiana che si esprime come un troglodita e una straniera che parla sciolta.
“Io andare Istanbul… una settimana. Tenere mio nipote. Io baby-sitter.” Gesticola, le mani sincronizzate che pare una coreografia di Heather Parisi, le dita che schizzano da tutte le parti come cicale impazzite.
“Ah bene. Io sto tornando a casa mia, in Iran. Vedo mia mamma, i miei fratelli, cugini e tutti i parenti. Erano tre anni che non andavo per il covid...”
Il modo di viaggiare è peggiorato dopo la pandemia. Spazi più stretti tra una fila e l’altra così ci ficcano qualche passeggero in più.
Per me non è un problema ma certi bistecconi non ci stanno proprio sui sedili.
Non se la passano meglio quelli sopra il metro e ottantacinque, che devono viaggiare rannicchiati, le ginocchia appoggiate al mento.
Molti vettori non offrono più pasti o snack per tratte brevi e le hostess e gli steward sono più scazzati e sbrigativi di prima, il tragitto scandito dalla voce del maître de cabine che pubblicizza panini e bevande a pagamento.
Dopo i primi lock-down, le compagnie aeree hanno ridotto fino al 50% il personale di terra, licenziamenti che si traducono in controlli più lenti ai varchi di sicurezza, decolli e atterraggi sfasati, bagagli non consegnati. Tariffe più alte, voli cancellati, gente sclerata.
Atterro a Istanbul con un po’ di ritardo, dopo qualche ora riparto per Taškent.
La mia vicina ha gli occhi a mandorla, parla con la ragazza seduta davanti a lei.
Grida, si agita, fa dei video e ascolta la musica senza cuffie dal telefonino.
Non c’è noise cancelling che tenga e non so mica se resisto quattro ore in parte a questa.
Non parla né inglese né russo.
Solo uzbeko o turco, che sono simili.
Le chiedo se posso cambiare posto con la ragazza davanti.
Per comunicare usa un’applicazione di traduzione simultanea di Google, sul cellulare.
È un progetto che ha sviluppato un ingegnere italiano della Silicon Valley.
Mio fratello.
Quando me ne ha parlato la prima volta ho pensato fosse una minaccia per il mio lavoro.
Uno studia cinque anni, va in posti assurdi per imparare una lingua, comunicare e vendere.
Tutto ok per un decennio o poco più e poi un giorno arriva tuo fratello col suo team di ingegneri indiani o francesi e ti mette in competizione con un telefonino.
Per testare il programma ho fatto tradurre dall’italiano al russo una frase del tipo “Sono tre giorni che ti aspetto.”
La traduzione era sbagliata e questa cosa mi ha rincuorato.
Poi non ci ho più pensato ma a distanza di qualche anno è chiaro che il team di nerd indo-francesi ha sistemato l’applicazione perché la mia vicina accetta di cambiare posto e io volo tranquillo.
Atterro a Taškent che sono le due del mattino.
Dopo il controllo passaporti, ritiro la valigia, segnalata all’anti-terrorismo con un nastro adesivo arancione, subito riconosciuto da un funzionario di dogana che esamina accigliato campioni di ferramenta e camicie stirate.
Dopo qualche minuto mi trovo nella zona degli arrivi e incrocio lo sguardo dell’autista mandato dall’hotel, un ometto assonnato con la pelle olivastra e gli occhi un po’ allungati che mi aspetta con un foglietto di carta stropicciato tra le mani, il mio nome stampato in caratteri latini.
Fatto il check-in, il ragazzino alla reception esce da dietro il bancone per raccontarmi la storia dell’albergo.
Devo alzarmi tra poco e vorrei evitare ma il giovane fa tenerezza, non ha neanche diciotto anni.
Magrissimo, la peluria e la voce incerta dell’adolescente.
“Ci vogliono solo cinque minuti” mi rassicura in russo, con un accento marcato.
Incomincia dal portone d’ingresso, un arco triangolare in metallo e legno scuro decorato con foglie e fiori intarsiati.
Una moltitudine di dettagli raccolti dentro una cornice intrecciata di motivi geometrici.
“È tutto fatto a mano da artigiani locali.”
Sbuffo dalle narici, perché si muova.
Entriamo nel cortile interno, che porta alle stanze, disposte su piccoli edifici separati.
Parla velocemente.
“Sulle mura all’ingresso ci sono dei bassorilievi.” si tira la manica della camicia sopra il polso sinistro, a disagio per la mia insofferenza “Sono mercanti cinesi, indiani, persiani e africani, sopra un cammello. Attraversano la via della seta. Queste sono le mura di un caravanserraj.”
“Cos’è un caravanserraj?”
“È… è un caravanserraj.” risponde sorpreso, quasi gli avessi chiesto cos’è il sole.
Mi ricorda Caravan, lo standard jazz di Duke Ellington.
Si apre con l’incedere sinuoso dei timpani, poi entra il fraseggio sognante e malinconico del trombone, il contrappunto un po’ sfacciato della tromba con la sordina e quell’effetto ua-ua che ti pare di vederli i cammelli, in fila nel deserto.
I mercanti, le teste fasciate che dondolano al ritmo ipnotico del convoglio.
Il problema è che neanche Duke Ellington ti spiega cos’è un caravanserraj.
Il ragazzino continua a parlare di pietre antiche, del muro o del pavimento, ho smesso di ascoltarlo.
Tiro fuori il telefonino dalla tasca, cerco su Wikipedia e leggo che in italiano si dice caravanserraglio.
Ha origini antiche, era un’area di sosta, una specie di autogrill nel deserto che offriva ristoro a viandanti e animali lungo la via della seta, l’itinerario che dalla Cina portava a Roma.
L’articolo non specifica se anche nel Medio Evo vendessero il Camogli o la Rustichella a peso d’oro ma spesso, in queste strutture d’accoglienza, erano presenti delle biblioteche che contribuivano a diffondere conoscenze tra viaggiatori di culture e latitudini differenti.
Alzo la testa dallo schermo, il portiere mi indica un basso rilievo con uno degli edifici simbolo di Samarcanda, un portale in pietra con l’apertura ad arco, due colonne ai lati, cupola sullo sfondo. Afferro il manico della mia valigia e il giovinetto capisce che è il momento di chiudere la visita guidata al chiaro di luna.
Allarga le braccia e fa un mezzo giro per abbracciare tutto il complesso.
“Il proprietario ha curato tutto il progetto personalmente. È un esperto di storia e architettura.”
Anche un po’ egocentrico, se ha istruito il ragazzino a magnificarne la persona con gli ospiti sfiniti da una giornata di viaggio.
Salgo gli scalini per raggiungere la mia stanza al secondo piano.
Con tutta l’attenzione per la cultura locale e i bassorilievi, si son dimenticati degli ascensori.
La camera è piccola e spartana, il pavimento rivestito da una moquette blue elettrico. Mi lavo i denti e crollo sul letto ad una piazza appoggiato al muro.
Alle nove sono già in piedi per la colazione, allestita in una sala con le pareti rivestite di specchi, pacchiani ma ingrandiscono l’ambiente.
Non c’è nessuno, la temperatura fuori supera già i trenta gradi e chiedo alla cuoca, una signora pienotta con occhi a mandorla e fazzoletto sui capelli, se può accendere il condizionatore.
Annuisce e si ritira in cucina.
Nello stesso istante, senza fare rumore, compare sulla porta un uomo vestito di bianco, indossa una specie di tunica sopra i pantaloni, il capo coperto da un cappello intrecciato.
Se non fosse un musulmano direi che è una papalina.
Avrà settanta anni, la carnagione olivastra e i tratti mediorientali.
Armeggia col telecomando e regola la temperatura.
“Prima di lei c’erano degli anziani. Sa com’è, quelli hanno sempre freddo.”
Parla in russo con un forte accento.
Si chiama Murat, si presenta con un mezzo inchino e la mano destra sopra il cuore.
Ha un modo di fare ospitale e autorevole da padrone di casa, esperto di storia e architettura.
È convinto che io sia russo e si eccita quando dico che sono italiano, gli si illumina il volto.
“Nella Roma gioca un calciatore uzbeko! El’dor Šomurodov.” dice con orgoglio.
“Io…”
“Lei è un calciatore?!?” mi interroga con gli occhi sbarrati, incredulo di fronte alla seconda rivelazione in pochi istanti.
“Non seguo il calcio, ma adesso ci farò attenzione.”
Murat sorride compiaciuto.
Si avvicina mentre mi servo dal buffet e riempio il piatto con mandorle e albicocche essiccate, un uovo sodo e dei pezzetti di una sfoglia con miele e noci, dolce presente in mille variazioni nella cucina nordafricana, araba e centro-asiatica.
“Guardi qua, quanta roba buona.” accompagna le parole con un gesto della mano
“C’è anche la kaša. Nessuno mangia la kaša. Chissa perché?” domanda con aria di rimprovero.
Col caldo che fa, sai che voglia il porridge fumante.
“A me piace la kaša, fa bene.” commenta mentre si riempie una ciotola con la pappetta di riso bianco “Non le dà mica fastidio se mi siedo con lei?”
Ho dormito poco e col fuso sono indietro di tre ore, c’è una sala vuota e questo si vuole piazzare accanto a me nell’unico momento di solitudine della giornata.
“Lei è una persona interessante, con cui si può parlare.”
Murat legge nel pensiero “Io sono un pensionato, mi annoio. Lasci che le faccia compagnia.”
Gioca la carta della compassione con dolcezza.
Impossibile rifiutare, anche perché si è già accomodato di fronte a me.
Raccoglie la kaša col cucchiaio e ci soffia sopra, il suo alito caldo mi arriva in faccia.
Poi aspira rumorosamente per raffreddare il pastone incandescente, quel risucchio vibrato per cui ti sgridavano da bambino “Mangia senza far rumore!”
Ci tiene a raccontarmi la storia della città, che ha origini antiche.
Inizialmente parte di un’area più vasta denominata Turkestan, viene poi conquistata dagli arabi nell’ottavo secolo dopo Cristo.
Occupata e distrutta da Gengis Khan all’inizio del 1200, nel 1865 è annessa all’Impero russo per diventare la capitale della Repubblica Socialista Sovietica dell’Uzbekistan nel 1924.
Quando gli dico che questa è la terza volta che vengo a Taškent si alza in piedi e fa tre inchini di ringraziamento, credo.
“Lei cosa ha studiato?” mi chiede con la bocca mezza piena mentre sguscia un uovo sodo.
“Lingue.”
“È qua per insegnare italiano?”
“No, sono un venditore.”
“Ah business!” commenta ispirato.
“Anch’io sono un businessman. Non avrei mai pensato di occuparmi di affari e invece Allah…” mi confida alzando gli occhi verso il lampadario, la mano destra sul cuore.
Per molti anni è stato professore di storia all’Università, dopo il crollo dell’Urss è diventato consulente del governo per il turismo.
Continua con la lectio magistralis, l’algebra e i numeri vengono dall’Uzbekistan.
Sono erroneamente attribuiti alla cultura araba perché i testi sono scritti in arabo ma in realtà sono frutto dell’ingegno di matematici uzbeki.
Mi tira un pippone sull’importanza degli scienziati locali che mi ricorda Evgenij, il cliente di Odessa che osserva il mondo dalla lente di ingrandimento della cultura ucraina, anche se si sente russo.
Attiro sempre questo tipo di persone.
Provo a cambiare argomento.
“Sotto l’Urss potevate pregare?”
“Ufficialmente sì. C’erano due moschee anche se in realtà era scoraggiato, troppe difficoltà.” muove in cerchio la mano con amarezza “Adesso è meglio, a Taškent stanno costruendo una moschea grandissima, verranno da tutta l’Asia centrale per pregare.”
Fine Prima Parte
martedì, settembre 27, 2022
Bono è una seccatura / Bono is a pox
L'amico MICHELE SAVINI, che vive da tempo a DUBLINO ci introduce a una serie di particolarità interessanti made in Irlanda, nella nuova rubrica The Auld Triangle: narrazioni dalla Repubblica d'Irlanda.
La precedente puntata qui: https://tonyface.blogspot.com/2022/08/bohemians-fc.html
Riprendiamo da dove ci eravamo lasciati l’ ultima volta.
Venerdì sera, ore 19:00, Dalymount Park.
Fervono i preparativi per la partita dei Bohemian FC e i tifosi si avvicinano frettolosi ai tornelli dell’ entrata, pregustando un’obbligatoria sosta al bar prima del fischio d’inizio.
Il mio amico irlandese Stevo, è oggi l’ addetto alla selezione musicale pre-partita al Phoenix Bar, uno dei 3 pub all’interno dello stadio di Dalymount, e mentre sorseggiamo le nostre rispettive “nere”, frugo curioso nella sua borsa di dischi in vinile. Whipping Boys, Bob Marley, Fontaines DC, Thin Lizzy, The Dubliners e tutto il “Bohemian FC Starter Pack “ sembra essere presente.
Stevo si rivolge a me e, indicando il bancone del bar con la testa, sussurra “ E’ un piacere vedere il figlio del vecchio uomo qui a Dalymount, non è vero?”
Mi volto verso il bar leggermente confuso e, oltre al numero di persone che iniziano ad aumentare visibilmente, noto un ragazzo sulle ventina che aspetta pazientemente di essere servito.
Il suo viso mi suona leggermente familiare, ma non del tutto conosciuto.
Poi finalmente un lampo di memoria e, anche grazie a quanto detto da Stevo, riesco a ricollegare la sua faccia ad un nome: è Elijah Hewson, cantante e chitarrista della band Irlandese Inhaler, un gruppo indie rock emerso negli ultimi anni, e suo padre, Paul David Hewson, è meglio noto a tutti come Bono Vox, leader degli U2.
“Ecco dove l’avevo già visto” penso ridacchiando tra me e me vista l’incredibile somiglianza tra padre e figlio, mentre mi volto verso Stevo ed annuisco in senso di approvazione.
Il fatto che il ragazzo possa tranquillamente andare in un bar senza essere importunato è abbastanza normale in Irlanda, vista la sua parziale notorietà a cui va aggiunta la scarsa venerazione che gli irlandesi nutrono per le celebrità locali, ma non posso evitare di pensare alla contrastata relazione tra suo padre e il resto del Paese.
Gli U2 sono, senza ombra di dubbio, la band Irlandese di successo più conosciuta al mondo, ma il consenso ricevuto in patria è decisamente diverso da quello percepito nel resto del mondo.
In una personale e del tutto fantomatica classifica dei musicisti Irlandesi più amati in patria, ai primi posti direi che troviamo senza dubbio i The Dubliners di Luke Kelly e i The Pogues di Shane McGowan, due band che hanno saputo reinterpretare in chiave moderna, rispettivamente negli anni 60 e 80, la musica tradizione irlandese portandola ad un nuovo splendore.
Una statua del frontman dei Thin Lizzy, Phil Lynott si trova in Harry Street a Dublino e ci sono sculture e targhe dedicate a Rory Gallagher sparse per tutta l’isola, il che la dice lunga sull’ amore e l’affetto che i loro connazionali nutrono per loro.
Potrei inoltre citare il nordirlandese Van Morrison, Sinéad O'Connor, Christy Moore e perfino i The Cranberries della compianta Dolores O'Riordan , tutti artisti che in termine di gradimento, vengano prima di Bono e compagni.
Se un paese di poco di poco più di 4 milioni e mezzo di persone, dà i natali ad una delle più famose Rock band del mondo, ti aspetteresti di trovare in patria Aeroporti con il loro nome, statue o comunque un qualche tipo di celebrazione.
E Invece, ad eccezione di una loro foto nel muro della Irish Music Wall of Fame di Temple Bar, in compagnia dei musicisti sopra citati, non troviamo praticamente nessun tipo di encomio o glorificazione per la band del “Northside” di Dublino.
E allora come mai la più grande band di successo del paese non è poi così considerata o ben voluta in patria? Ci stai dicendo che gli Irlandesi odiano gli U2?
Non esattamente.
E’ importante puntualizzare che i concerti degli U2 a in patria, in strutture come Croke Park che contiene circa 80.000 persone, vanno solitamente “Sold Out” in pochi minuti e poco importa che le date siano 2 o 3, perché L’ Irlanda e Dublino non fanno mai mancare il proprio sostegno ed affetto alla band in termini di presenze.
Nonostante tutto, il rapporto con la band e in particolare con il suo leader, è tutt’altro che idilliaco.
Al contrario, uno dei pochi segni che puoi trovare in citta, spesso e volentieri scarabocchiata frettolosamente dentro i tutt’altro che accoglienti bagni di molti pub a Dublino, è la scritta “Bono is a Pox ”.
La parola “POX” significa letteralmente “Vaiolo” e , se nel resto del mondo è percepito come il nome di una malattia dal sapore vagamente medioevale, in Irlanda significa essere “una seccatura” e l’espressione gergale “Bono è una seccatura” penso rappresenti al meglio il rapporto travagliato tra il cantante e il resto del paese.
Uno dei motivi principali dello scarso livello di gradimento della band deriva della storia relativa alle tasse. Nel 1969 infatti , l'Irlanda rese i diritti d'autore sulle opere artistiche completamente esentasse per sostenere scrittori e artisti in difficoltà , schema che attirava molti nomi famosi nell’ isola con l’obbiettivo di beneficiarsi della favorevole tassazione.
Nel 2006 il governo ha imposto un tetto massimo di € 250.000 esentasse, che permetteva alle band di richiedere lo sgravio fiscale come cantautori, programma che pero non copriva le entrate derivanti da tour e spettacoli.
Come risultato gli U2 hanno prontamente spostato le loro operazione finanziare ad Amsterdam, nei Paesi Bassi, dove l'aliquota fiscale sui guadagni delle royalty è più favorevole per gli artisti e quando operi sulla scala finanziaria degli U2, questo è un dettaglio abbastanza rilevante.
Due anni dopo, in concomitanza con la recessione dovuta al crollo finanziario globale del 2008, la povertà per l’Irlanda è diventata una sorta di “vicina di casa” e questa decisione ha assunto un'aria di ipocrisia che sembrava del tutto in contrasto con la nota figura di Bono come benefattore e filantropo, aumentando la nomea di “evasori fiscali” della band.
La filantropia e l’impegno sociale di Bono sono innegabili: dal suo lavoro con ONE, l’organizzazione internazionale contro la diffusione dell'AIDS e per la cancellazione del debito in Africa, alle partecipazioni a concerti di raccolta fondi come il Live Aid ( per la Carestia etiope del 1983-1985) o le sue numerose donazioni ad enti di beneficenza, come One in Four Ireland , che aiuta le vittime di abusi sessuali. E potremmo proseguire all’infinito.
(Bono, Paul McCartney e Freddie Mercury, durante il finale del Live Aid Concert allo stadio di Wembley, 1985). Ma quando si parla di evasione fiscale ( e questo noi lo sappiamo bene), moralmente non si fa sconti a nessuno e quanto successo è probabilmente quel genere di cose che mette Bono nella stessa categoria di quelle grandi multinazionali che si adoperano nel fare beneficenza : sì, entrambi fanno cose brillanti e dedicano sforzi sinceri a migliorare il mondo attraverso sforzi filantropici, ma le ambiguità morali sotto la superficie mantengono parecchie persone accigliate con sospetto.
Lo stesso sospetto che generavano gli stretti rapporti del cantante con George W. Bush e Tony Blair, come se le indubbie e genuine preoccupazione del cantante per i poveri, finissero in qualche modo per giocare a favore dello sfruttamento neoliberale e della guerra imperialista.
E gli Irlandesi, si sa, tendono a diffidare di chi si siede ad un tavolo a trattare con gli Inglesi…
"Inutile quindi aggiungere che la sua nomina a Cavaliere dell’ Impero Britannico nel 2007 non abbia proprio giocato a suo favore"
Dal suo lato , lo stesso Bono, oltre a commentare che in realtà loro pagano tantissime tasse senza avvalersi di nessun privilegio fiscale, ha più volte dichiarato come secondo lui siano ben altre le ragioni per cui parte dei suoi connazionali non lo vedono di buon occhio.
“Ci sono Pub e altri posti in città in cui prima eravamo i benvenuti e ora siamo considerati persone non gradite. Posti dove la gente ci guarda come se li avessimo traditi”.
Bono infatti, crede che parte del “vetriolo irlandese” possa risalire all'opposizione della band al Noraid, un'organizzazione irlandese-americana che finanziava l'IRA e altri gruppi della comunità nazionalista durante i Troubles.
Quando nel 1983 viene pubblicata la famosissima “Sunday Bloody Sunday”, canzone dedicata al strage di Derry del 1972, quando le truppe britanniche aprirono il fuoco su una parata di manifestanti disarmati provocando la morte di 14 persone, la percezione iniziale è che l’inno sia una sorta di “chiamata alle armi”.
Al contrario, la band si affretta subito e specificare che la canzone è un’universale rifiuto alla violenza, attraverso la reazione incredula e scandalizzata di un giovane di fronte all'odio e alla guerra fratricida a cui assiste.
Il film “Rattle and Hum” del 1988, è forse l’esempio documentato più eclatante. La performance, girata a Denver l’ 8 novembre 1987, avviene poche ore dopo che una bomba dell'IRA uccida involontariamente 11 civili durante una cerimonia di commemorazione per i militari britannici caduti in guerra avvenuta nella città nordirlandese di Enniskillen (Remembrance Day Bombing).
Durante l’esibizione di Sunday Bloody Sunday, Bono (ancora scioccato per gli avvenimenti avvenuti poche ora prima) condanna l’episodio con un furioso sfogo a metà canzone, in direzione di chi giustifica l’uso della violenza come unico mezzo per ottenere l'unione dell'isola sotto un unico governo irlandese repubblicano:
“…. E lasciate che vi dica una cosa.
Ne ho abbastanza di irlandesi-americani che non tornano nel loro paese da 20 o 30 anni e che vengono da me a parlarmi di Resistenza, della rivoluzione che abbiamo ora a casa.
La gloria della rivoluzione, la gloria di morire per la rivoluzione ….FANCULO LA RIVOLUZIONE !!!
Non parlano della gloria di uccidere per la rivoluzione…..
Qual è la gloria nel togliere un uomo dal suo letto e sparargli davanti a sua moglie e ai suoi figli…
Dov'è la gloria in questo? Dov'è la gloria nel bombardare una parata del giorno della commemorazione….
Una parata di pensionati, con le loro medaglie tirate fuori e lucidate per l’occasione.
Dov'è la gloria in questo?
Per lasciarli morire, o paralizzati per tutta la vita, o morti sotto le macerie della rivoluzione che la maggioranza delle persone nel mio paese NON VUOLE … “
Qui di seguito anche il video della performance e il prezzo sopra citato al minuto 3:36:
https://www.youtube.com/watch?v=5Chq5PY-TzE
La band ha riflettuto a lungo se includere questa parte nella versione definitiva del film e alla fine sembra che le decisione sia ricaduta su Bono e sua moglie Alison, visto l’esposizione mediatica e il possibile rischio che questo avrebbe potuto comportare.
Infatti, quando Rattle and Hum esce nei cinema l’anno successivo, il nome di Bono si dice sia nella “lista nera” dell’ IRA, proprio per i commenti inclusi nel documentario e il “mancato supporto alla causa”. Difficile dirlo con certezza, ma sicuramente l’ episodio rappresenta un’ ulteriore spunto di riflessione per capire meglio l’interessante rapporto tra Bono e i più convinti repubblicani dell’ isola.
Nel dubbio, mi rivolgo al mio amico Stevo, tentando di fare chiarezza nell’ ingarbugliata matassa di ragioni per cui “agli irlandesi non piace Bono…”
“ Steve, perché non vi sta simpatico Bono?
La sua risposta mi sorprende:
“ Non è lui il problema, siamo noi. Hai mai sentito parlare della Tall Poppy Syndrome? ”
La “Tall Poppy Syndrome” ( Sindrome del papavero alto) è un fenomeno culturale in cui le persone criticano o sabotano coloro che abbiano raggiunto un notevole successo in uno o più aspetti della vita, in particolare la ricchezza intellettuale o culturale ( nel gesto appunto di “abbattere il papavero troppo alto”). Una sorta di gelosia e rancore nei confronti di chi ce l’ha fatta.
Niente di nuovo insomma, forse un fenomeno abbastanza comune anche in Italia o nel resto del mondo, ma mi sorprende la sua sincera autocritica e la totale ammissione di colpa, cosa non molto comune di questi tempi. Poi conclude aggiungendo:
“ Come se non bastasse, oltre a sembrare Gesù Cristo ogni volta che apre bocca, ce l’ho ancora con lui per la storia dell’ album gratuito.
Ricordi qualche anno fa?
Quando aggiornando le impostazione di sicurezza dei nostri IPhone, e ci ritrovammo con il loro nuovo album?
A sorpresa. Gratuito. Non richiesto …
What a fucking pox …!!! ”
(Che non traduco perché a questo punto penso sia chiaro un po’ a tutti).
Come dargli torto.
lunedì, settembre 26, 2022
Jean Luc Godard e la musica
Riprendo l'articolo che ho scritto per "Il manifesto" sabato scorso, nell'inserto "Alias".
La recente scomparsa del Maestro Jean Luc Godard è stata ampiamente onorata da articoli e ricordi della sua mirabile opera.
In questa sede andiamo ad esplorare una sua particolarità che ha reso il suo cinema molto affine al mondo del pop rock, dell'avanguardia sonora, della sperimentazione. Un percorso apparentemente solo parallelo al suo ruolo di regista, in realtà parte integrante della sua visione artistica.
Gli appassionati di rock lo ricordano per l'emozionante e importantissimo occhio sui Rolling Stones, intenti a lavorare a uno dei loro brani più iconici e importanti.
Il film si chiamerà come il brano, “Sympathy for the devil” (conosciuto anche come “On plus one”).
Siamo nel caotico e pulsante 1968, e il 20 aprile di quell'anno, Godard volò a Londra per fare un film sul tema dell'aborto.
Una volta rilevato che non era un argomento particolarmente sentito, decise di lavorare su qualcosa di nuovo, a patto che avesse come protagonisti Beatles o Rolling Stones.
Non era una novità.
Antonioni aveva già utilizzato Yardbirds (in “Blow Up”) e Pink Floyd (in “Zabriskie Point”), vari gruppi inglesi erano apparsi in pellicole di secondo piano, gli Zombies avevano collaborato con Otto Preminger, gli stessi Beatles erano veterani della filmografia con due film da protagonisti, “A hard day's night” e “Help” oltre al discusso e fallimentare “Magical Mistery Tour” uscito pochi mesi prima.
Il quartetto di Liverpool era al lavoro su un altro progetto visivo, molto affascinante, il cartone animato “Yellow Submarine” e, subissato di proposte cinematografiche di ogni tipo, rifiutò così la proposta di Godard, mentre gli Stones furono ben felici di accettare il nuovo ruolo di attori.
“È un film che è stato girato contemporaneamente ai fatti del maggio '68 a Parigi, un momento in cui mi si rinfacciava di essere andato a lavorare all'estero mentre tutto il popolo francese era in sciopero. Era un momento in cui ero sempre più sperduto. E cercavo di incollare dei pezzi, di trovare altri pezzi, cominciavo a filmare delle cose in modo separato.
E visto che in giro c'era della musica, questo poteva offrirmi una buona occasione.
In un primo momento dovevamo farlo con i Beatles, poi non si è più fatto e abbiamo chiesto ai Rolling Stones e loro hanno accettato. Era una produzione tutta inglese, io facevo solo il regista, e così sono andate le cose.”
Godard filma la composizione e registrazione del brano, inizialmente intitolato “The devil is my name”.
Che nasce con un ritmo da ballata blues e si trasforma lentamente nella versione demoniaca che conosciamo.
In mezzo immagini di Black Panthers e messaggi esplicitamente politici, di impronta marxista, che si alternano alle session di registrazione del brano.
Particolare drammatico la figura di Brian Jones, che morirà l'anno successivo, ormai completamente avulso dalla vita del gruppo che segue lucidamente l'evolversi del brano, con Mick Jagger direttore creativo, mentre il chitarrista appare come inutile e mal sopportato comprimario dalle ormai scarse capacità esecutive.
Il film ebbe fin da subito vita difficile, con la casa di produzione spiazzata dalla scarsa comprensibilità del prodotto che si attendeva si potesse vendere ai fan degli Stones.
Lo stesso gruppo non fu tenero nei confronti di Godard. Jagger dichiarò di non avere idea di che cosa parlasse il film, concludendo con un lapidario giudizio su Godard, definendolo “twat” (la cui traduzione varia da cretino a coglione), Keith Richards, nella sua autobiografia “Life”, va ancora oltre.
“Il film documenta di come un brano folk dalle influenze Dylanesche, piuttosto pomposo, si fosse trasformato in un samba rock. Sono felice che abbia ripreso quelle session, ma Godard! Non riuscivo a crederci. Da vedere sembrava un impiegato di banca francese.
Dove credeva di andare?
Non aveva un piano coerente se non di lasciare la Francia e introdursi nella scena londinese. Il film era un cumulo di stronzate. Fino ad allora Godard aveva firmato opere ben congegnate, quasi Hitchcockiane.
Era uno di quegli anni in cui qualsiasi cosa poteva prendere quota. Che poi avesse successo era un altro paio di maniche. Perché proprio Jean Luc Godard doveva interessarsi alla rivoluzione minore di un gruppetto di hippy londinesi, volendone fare qualcos'altro? Qualcuno gli aveva passato sottobanco dell'acido, credo, e lui era piombato nell'enfasi retorica e fasulla di quell'anno”.
Il film non ebbe pace nemmeno nella prima al London Film Festival del 1969. I produttori lo avevano ribattezzato, in contrasto con il regista, "Sympathy for the Devil" e doppiato l'ultima sequenza con la registrazione completa della canzone. In risposta, Godard aggredì il produttore sul palco, invitando il pubblico a chiedere un rimborso.
Il “Cinema per le orecchie” di Godard ha avuto numerose altre connessioni con il pop rock. La cantante (che si definiva “ragazza yè yè”) Chantal Goya interpreta Madeleine, a fianco di Jean Pierre Leaud, l'Antoine Doinel di vari film di Truffaut, una giovane promessa della musica, in “Il maschio e la femmina” del 1966, sguardo sulla nuova gioventù francese.
In “La cinese” del 1967, nella colonna sonora Godard inserisce “Mao Mao” di Claude Channes (che aveva aspettato il regista sotto casa per consegnargli il provino del brano) che mette in musica una serie di frasi di Mao Ze Dong.
Nel surreale “Cura la tua destra”, del 1987, è protagonista il duo francese dei Les Rita Mitsouko che interpretano se stessi in studio di registrazione e sala prove.
Una splendida, algida e conturbante Marianne Faithfull, musa dei Rolling Stones (più in particolare di Mick Jagger), canta una versione a cappella di fronte a un'altrettanto stupenda Anna Karina in “Made in Usa” del 1966.
E' del 1997 la pubblicazione della colonna sonora completa - musica, dialoghi, suoni – da parte della prestigiosa ECM del film "Nouvelle Vague", del 1990.
"Nel realizzare questo film ho sentito molta musica; musica prodotta da Manfred Eicher (fondatore nel 1969 della ECM) Posso ben immaginare come i musicisti siano ispirati e influenzati da questi suoni. E anch'io mi sono immerso in questa musica, e mi sono sentito, nel mio lavoro, come un musicista. Manfred ha iniziato la nostra relazione mandandomi della musica. E ho avuto la sensazione, nel modo in cui produceva il suono, che fossimo più o meno nello stesso paese: lui con i suoni, io con le immagini. E la musica che mi manda è musica che mi porta ad alcune idee nel cinema. In effetti, alcuni dei dischi mi hanno portato a un film chiamato Nouvelle Vague e poi ad altri... e ho iniziato a immaginare cose dovute a quel tipo di musica”.
Nel disco ci sono brani e musiche di Paolo Conte, Patti Smith, Gabriella Ferri e le voci di Alain Delon, Domiziana Giordano, Roland Amstutz, Laurence Cote, Jacques Dacqmine, Christophe Odent, Laurence Guerre, Joseph Lisbona e altri.
Da ricordare la compilation omaggio al regista, pubblicata nel 1986, “Godard, ca vous chante?”, con contribuiti della scena noise/avanguardia da parte di Jon Zorn e Arto Lindsay.
In una conversazione con Wim Wenders del 1992, Godard dichiarò:
“Comincio guardando le immagini senza suono. Quindi riproduco il suono senza le immagini. Solo allora li provo insieme, nel modo in cui sono stati registrati. A volte ho la sensazione che ci sia qualcosa di sbagliato in una scena e che forse un suono diverso lo potrà risolvere. Allora magari potrei sostituire un po' di dialogo con l'abbaiare di un cane. Oppure metto una sonata. Sperimento le cose finché non sono felice”.
Il film integrale "Sympathy for the devil"
https://www.youtube.com/watch?v=ISAyqrxTY4w
Il film integrale "Machio e femmina"
https://www.youtube.com/watch?v=CO2pREcnQ0I&t=4865s
"Masculin feminin" Trailer
https://www.youtube.com/watch?v=pRiVKoW18Fw
Claude Channes "Mao Mao"
https://www.youtube.com/watch?v=k4mrkP3xgdc
Marianne Faithfull "As tears go by" - "Made in Usa"
https://www.youtube.com/watch?v=mXD8l8JFk6E
domenica, settembre 25, 2022
Rockerilla negli anni'80
Piaccia o meno ROCKERILLA è stata la prima e principale fonte di riferimento per chi aveva abbracciato punk e new wave nei primi anni 80.
Il bollettino mensile delle principali (e oscure) novità nell'ambito, con recensioni, interviste, segnalazioni, fu una rivista che aprì mille strade in un'epoca in cui trovare certi dischi e nomi era pressoché impossibile, in Italia.
Ricordano quel periodo, grazie al documentario di DARIO RADIO DARIO (https://www.facebook.com/dariovideobuco), vari protagonisti dei primi anni della rivista (Claudio Sorge, Alba Solaro, Luca Frazzi, Vittore Baroni, Guido Chiesa, Daniela Giombini).
Il documentario qui:
https://www.youtube.com/watch?v=o7qbdsXVTnA
venerdì, settembre 23, 2022
Antonio Pellegrini - The Who. Long live rock
Agile storia degli WHO, tra fatti salienti e aneddoti poco conosciuti, intervallata da una lunga serie di testimonianze dalla stampa italiana (dagli anni Sessanta ad oggi), con recensioni di concerti, interventi di fan testimoni a vari concerti (incluso il "classico" Carlo Verdone), interviste alla band, una esclusiva a Kenney Jones, foto d'archivio e tante altre interessantissime aggiunte per i fan della band.
Che non si potranno esimere ad aggiungere questo nuovo titolo alla lunga serie.
Antonio Pellegrini
The Who. Long live rock
Arcana Edizioni
208 pagine
16 euro
giovedì, settembre 22, 2022
Pistol
Difficilmente i biopic musicali (e anche quelli calcistici aggiungerei) riescono a restituire un'immagine adeguata dei personaggi rappresentati, diventando, nella maggioranza dei casi, inattendibili se non caricaturali.
Non sfugge alla regola "Pistol", basato sull'autobiografia di Steve Jones, che ripercorre la breve e convulsa vita dei SEX PISTOLS, in sei episodi in onda su Disney+.
L'astiosa e totale opposizione al progetto di John Lydon conferma i timori e la sua, come sempre, lucida e arguta previsione è pienamente centrata:
"La Disney ha rubato il passato e ha creato una fiaba, che ha poca somiglianza con la verità. Sarebbe divertente se non fosse tragico".
Personaggi caricaturizzati, macchiettistici (il Johnny Rotten con la stessa identica espressione in ogni sequenza, occhi sbarrati, mascella tirata, la Chrissie Hynde derubricata a saccente e saggio "grillo parlante", il Sid Vicious tonto, la timida cameriera dell'hotel in cui suonano che dopo due brani corre in bagno e diventa punk, un inverosimile Malcolm McLaren), situazioni improbabili e francamente grottesche (i brani che nascono in dieci secondi, i musicisti incapaci che, dopo un duro, tenace, caparbio sforzo e lavoro, imparano a suonare).
Le cose migliori sono nelle intro, in cui compaiono immagini dell'Inghilterra dell'epoca e nella colonna sonora che inquadra bene il periodo pre Pistols.
E se la partenza è accettabile la serie si dilunga poi in modo quasi irragionevole, inserendo sdolcinature, lunghi dialoghi insostenibili, sceneggiatura traballante.
Perla della serie, tra i sottotitoli in italiano, "ho visto Johnny Rotten al Marquee", tradotto con "ho visto Johnny Rotten, il Marchese"...
mercoledì, settembre 21, 2022
Sigmund Freud - Psicopatologia della vita quotidiana
Leggere Freud può apparire attività complessa e ardua.
Nel caso di questo saggio, del 1901, pubblicato all’interno di una rivista, poi stampato come volume nel 1904, il neurologo, filosofo e psicoanalista austriaco si diverte, in chiave sorprendentemente agile, fresca e leggera a portarci all'interno dell'interpretazione dei lapsus, degli errori, delle parole usate, in un modo piuttosto che in un altro, in cui incorriamo quotidianamente.
Spesso dicendo, inconsciamente, "una verità" nel momento in cui commettiamo un errore lessicale o una maldestra sostituzione di una parola.
Esempio: “È per me una vera noia (anziché gioia) enumerare le qualità del mio collega…”.
Tanti esempi (anche personali), spiegazioni semplici, argute, talvolta naif, se relativizzate al periodo (fine 1.800) a cui fa riferimento, attinte dal suo lavoro e dai suoi pazienti. Consigliato, lettura mai (troppo) impegnativa.
martedì, settembre 20, 2022
"Glory Of The Day” - Mosca 17 settembre 2022
Un resoconto molto interessante dalla scena Mod di MOSCA, a cura del nostro grande Soulful Jules.
A Mosca per lavoro, sabato 17 settembre sono andato alla serata mod “Glory Of The Day” che mi era stata segnalata da un amico dj.
Sono arrivato verso le nove di sera al Newada, un pub in centro.
Fuori dal locale c’era un bel gruppo di gente che beveva e chiacchierava, parcheggiati sul marciapiede una decina di scooter, tutte Vespa, per metà modelli nuovi.
Sulla strada arrivava il sound della prima band, Kosmonavtika (Космонавтика), un quartetto di ragazzi che fanno indie rock con brani originali cantati in inglese.
Non mi hanno fatto impazzire ma la gente, all’interno, li seguiva con partecipazione.
Come pezzo di chiusura una bella cover di Supersonic degli Oasis.
Sono uscito con una birra in mano a fare due chiacchiere e ho avuto modo di conoscere diverse persone, con alcuni avevamo già avuto contatti sui social.
Il presidente del Vespa club di Mosca parla un po’ di italiano e, come molti, ama il nostro paese al punto che è venuto in Italia varie volte in scooter da Mosca e ha girato tutto lo stivale sulle due ruote, dalla Lombardia alla Sicilia.
Parlando di Vespa, mi hanno mostrato la versione sovietica, prodotta in Urss col brand di Vjatka (Вятка), come il fiume che attraversa la regione di Kirov, negli Urali, in cui era assemblata.
La Vjatka che ho visto era sostanzialmente una copia di un GS, prodotta all’inizio degli anni ’60 senza autorizzazione da parte di Piaggio.
Rispetto a una Vespa è leggermente più grande e ha la carrozzeria più spessa per via delle condizioni stradali e climatiche sovietiche.
Tra il pubblico qualche parka, bomber e cappottini.
Per la maggior parte si trattava comunque di appassionati di musica senza particolari connotazioni di stile.
Tra una band e l’altra una ragazza che metteva dei classici di garage, tipo Blues Magoos.
Per il secondo live un gruppo che suona da oltre vent’anni e che gode di buona fama, The Crushers, a suo tempo si sono esibiti su MTV Russia.
Bravi e precisi, han fatto un set di cover sixties come Painter Man, Midnight To Six Man dei Pretty Things, un brano degli Small Faces e qualche pezzo originale.
Concerto piacevole e molto partecipato, balli attorno alla band e grida di entusiasmo.
Dopo il live un altro dj set con classici tipo Nobody But Me, The Loco Motion, Cool Jerk e ballerini in visibilio.
Sono rimasto colpito dall’entusiasmo del pubblico, dal modo diretto e intenso di stare insieme e ascoltare la musica.
Una serata minore secondo i nostri standard, in realtà a Mosca è stata vissuta come un evento importante con appassionati arrivati apposta anche da San Pietroburgo e da Ekaterinburg.
lunedì, settembre 19, 2022
Quelli che non piangono la regina, da Brixton a Notting Hill
Nel numero di "Alias" nel "Manifesto" di sabato scorso, ampio spazio alle connessioni tra musica e regina Elisabetta.
Mi sono occupato della relazione tra la figura reale e le comunità nere delle West Indies.
Non tutta la Gran Bretagna piange la dipartita della regina, non tutta si stringe commossa intorno al ricordo della longeva sovrana.
E non si tratta solo di anti monarchici, indipendentisti scozzesi o nord irlandesi, antagonisti politici.
La comunità nera e caraibica non ha particolari motivi per rimpiangerla e non sembra che in questi giorni abbia dissimulato la sua indifferenza se non aperta ostilità.
Che dura da quando nel 1948 arrivò a Londra la nave Windrush con 1.027 abitanti dalle West Indies, seguiti fino al 1961 da altri 172.000 migranti, prima che venissero introdotte barriere e restrizioni.
Persone cresciute cantando l'inno che invitava Dio a proteggere la loro Regina, a cui seguì lo straniamento di essere rifiutati da quella che erano stati educati a considerare la "madre patria" e i cui figli, nati in Inghilterra, vedono un potenziale ritorno nelle terre dei genitori come un'emigrazione in terra straniera.
Gli attacchi alla popolazione nera a Notting Hill nel 1958 certificano "l'esistenza del razzismo" e sferrano un colpo simbolico a quel “sogno inglese” custodito dai migranti afro-caraibici che per la maggior parte della popolazione inglese rimangono comunque stranieri.
Realizzano di essere semplicemente "negroes, blacks o West Indians".
E che i combattenti neri caduti e protagonisti nelle due Guerre Mondiali non hanno lo stesso peso nei ricordi e nelle celebrazioni dei commilitoni bianchi.
Constatano che in ogni città del Regno Unito sono confinati in periferie malsane, relegati ai lavori più umili, smembrati e divisi in altre sobborghi, quando la loro comunità diventa troppo coesa e “pericolosa”. Ricordano che per le sanguinose repressioni nelle colonie occupate dagli inglesi sotto il regno di Elisabetta, non hanno mai ricevuto scuse né c'è mai stata un'opera di revisione della politica imperialista perpetrata nel secolo scorso.
Dalle parti di Brixton, il quartiere black per eccellenza a Londra, sono in pochi a piangerla. L'ex calciatore del Manchester City, Trevor Sinclair, è stato quello più esplicito in tal senso (sollevando un gran polverone e ricevendo una valanga di insulti) quando ha twittato (prima di essere costretto a rimuovere il post):
“Il razzismo è stato bandito in Inghilterra solo negli anni ’60 ma gli è stato permesso di prosperare, quindi perché i neri e i mulatti dovrebbero piangere?”.
Quei neri che si sono faticosamente aperti una strada, hanno costruito una propria identità all'interno della società inglese, hanno creato lavoro, arte, comunità, cultura, una nuova dimensione sociale, affrontando anche duri momenti di scontro (vedi, tra i tanti, i famosi incidenti al Carnevale di Notting Hill il 30 agosto del 1976 che vide protagonisti anche i Clash (che ne ricavarono il brano “White riot”) e il DJ Don Letts, divenuto figura chiave della scena punk e reggae inglese).
Interessante la disamina di Fabio Fantazzini nel libro “Dread Inna England” (Red Star Press/HellNation Libri):
"La decostruzione e, in qualche modo, la distruzione del mito del ritorno è un passo fondamentale per la formazione delle identità delle "seconde generazioni" e, non secondariamente, per la loro mobilitazione politica. Nate o cresciute nel paese di emigrazione dei genitori, le nuove generazioni sono maggiormente recalcitranti all'idea di accettare quello scambio basato sulla manodopera a basso costo e sullo sfruttamento offerto ai primi migranti, rimettendo in discussione l'insieme delle loro condizioni sociali. La condizione di "ospite temporaneo" che rendeva più accettabile la rassegnazione rispetto ai sacrifici e alle difficoltà in vista di un futuro rimpatrio, viene eliminata rendendo le nuove generazioni più esigenti nell'ottenere come "diritti" quelle che fino ad allora erano state "concessioni".
In Gran Bretagna, dunque, non tutti piangono la regina.
Soprattutto nell'imminenza di un inverno problematico, nella drammatica constatazione che le disparità razziali non sono cambiate, che le periferie non sono migliorate e nemmeno le condizioni di vita di buona parte della popolazione nera inglese. Non ci sono lacrime da sprecare.
domenica, settembre 18, 2022
Rock around the book
Si è conclusa la rassegna Rock Around the Book, organizzata dal sottoscritto e da Gianni Fuso Nerini con il patrocinio del Comune Alta Valtidone.
Dieci appuntamenti sparsi in Val Tidone in provincia di Piacenza oltre a tre a Rivergaro, Gragnano e Pontenure, in piccoli centri e borghi, al fine di valorizzarne la (spesso poco conosciuta) bellezza e le peculiarità culinarie, il cui filo conduttore è stato conciliare letteratura e musica (suonata e parlata).
Obiettivo riuscito con affluenza locale ma spesso arrivata da paesi linitrofi, dalla città da centri anche lontani come Milano, Torino, Bologna,Parma, Cremona, Pavia, Brescia.
Un percorso faticoso e impegnativo ma ricco di soddisfazioni in cui si è voluto (e spesso dovuto per esplicita richiesta del luogo ospitante) conciliare una proposta culturale con l'esigenza di proporre iniziative più a carattere "nazional popolare" per rivolgersi a un pubblico tendenzialmente "generalista".
Pubblico sempre piuttosto numeroso e attento, anche quando la proposta non è stata facile.
La rassegna è iniziata a fine maggio sotto una pioggia torrenziale con le preziose memorie MICHAEL PERGOLANI, proseguita poi con le parole e la musica di CRISTANO GODANO, il Rino Gaetan inedito racconntato da MICHELANGELO IOSSA, la verve ironica di ERALDO PECCI e ANDREA PAVAN, un'intensissima due giorni di mostre e concerti con i BEATLES DAYS e l'apporto di Rolando Giambelli e i Beatlesiani d'Italia (con tanto di auguri a Ringo Starr da parte dei bambini delle scuole locali - a cui con Gianni abbiamo fatto alcune piccole "lezioni" di Fab Four - poi trasmessi sul suo sito).
Poi a Gragnano l'incontro con LAURA CARROLI, LAURA PESCATORI e CHIARA FERRARI, coordinate da Elisabetta Pallavicini sulle donne e la musica, una serata dedicata a Lucio Battisti con FRANCESCO PARACCHINI e ROBERTO GARIONI, una per Franco Battiato con Francesco Paracchini e GIUSEPPE GARAVANA, una dedicata al Piacenza Calcio e alla sua scalata alla serie A con il giornalista GIACOMO SPOTTI, uno sguardo al fenomeno delle prime Radio Libere con lo staff di RADIO MELODY, una splendida notte di San Lorenzo dedicata alla DiscoMusic con i DJ FRANCESCO VACCARI e CARLO MAFFINI, di nuovo Lucio Battisti protagonista a Rivergaro con FABIO MIANI, lo spettacolo "Amore, Morte e Rock n Roll" con EZIO GUAITAMACCHI, ANDREA MIRO' e BRUNELLA BOSCHETTI e finale a Pontenure a narrare di Beatles con ROBERTO GARIONI e GIANMARIA SESENNA.
Tanti i collaboratori che ci hanno aiutato da Oliviero Marchesi a Denis Cassi, da Mary Anselmi e Rita Lilith Oberti.
Grazie e alla prossima.