martedì, agosto 31, 2021

Il meglio del mese. Agosto 2021


Passata la metà dell'anno tante buone cose da segnalare: Sleaford Mods, Bobby Gillespie & Jenny Beth, Paul Weller, Dewolff, Jon Batiste, Sault, Damon Locks Monument Ensemble, The Coral, Sons Of Kemet, Mdou Moctar, Teenage Fanclub,Tom Jones, Chrissie Hynde, Adrian Younge, Flyte, Jay Nemor Electrified, Myles Sanko, Billy Nomates, Alan Vega, Django Django, Aaron Frazer, Bamboos, Arlo Parks, Shame , Vaudou Game, Les Filles De Illighadad, Steve Gunn.
In Italia: Radio Days, Nicola Conte/Gianluca Petrella, A/lpaca, Casino Royale, Gang, SLWJM, Homesick Suni, Bachi da Pietra, Joe Perrino, Amerigo Verardi, Les Flaneurs, The Smoke Orchestra, Homesick Suni, Wendy?!.


JAY NEMOR ELECTRIFIED - Alive
Gioiello soul funk jazz in cui confluiscono le anime di Gil Scott Heron e Marvin Gaye in un'ottica moderna e attuale. Voce calda, sonorità curatissime, arrangiamenti superbi, un groove pazzesco. Una delle vette "black" del 2021.

DURAND JONES AND THE INDICATIONS - Private space
La band americana lascia alle spalle il soul più classico e si sposta verso la disco, il funk più mellow dei 70, addolcisce il tutto, guarda agli Isley Brothers, agli Shakatak e al Curtis Mayfield più sinuoso. Grande classe, eleganza e groove a profusione.

STEVE GUNN - Other you
Stupisce sempre per la capacità di creare splendidi brani con un'ispirazione direttaente in arrivo dai Sixties più folk psichedelici con un tocco di Byrds e di Paisley Underground. Poi aggiunge un sacco di altre cose che rendono il tutto attuale, fresco, moderno. Sempre una garanzia.

FAY HALLAM - Modulations
Fay Hallam torna con uno dei migliori lavori della sua lunga carriera.
Un album strumentale, impeccabilmente prodotto dal maestro ANDY LEWIS, composto e realizzato nei lunghi mesi del lockdown.
Modulations conferma ed esalta la versatilità compositiva di Fay che si destreggia tra le sue tipiche passioni rhythm and soul (vedi la versione strumentale di "Cielo rosa" già incisa con Il Senato), momenti jazz lounge, un avvolgente episodio di enorme classe come "Aural sea" tra ambient e le parti orchestrali di "Quadrophenia".
Un album strumentale è sempre "pericoloso" e arduo da proporre ma in questo caso la varietà della proposta, la cura e lo spessore dei brani, lo rende godibilissimo e interessante.

WILLIE NILE - The day the earth stood still
Al quattordicesimo album il grande loser new yorkese incide un nuovo pregevole lavoro. Sembra facile mettere insieme Bruce Sprinsgteen, Stones e Clash ma non lo è. Wille ci riesxce alla perfezione con un sound crudo, genuino, essenziale, sincero, accorato. E l'ascolto è dei migliori.

BILLIE EILISH - Happier Than Ever
Malinconico, cupo, crepuscolare, il sound elettronico/hip hop/trip hop di Billie si liquefa in struggenti quanto aspre ballate, talvolta claustrofobiche, altre glacialmente romantiche. Interessante.

JACKSON BROWNE - Downhill from everywhere
L'innegabile talento del grande cantautore americano, tra i migliori rappresentanti del sound della West Coast degli anni Settanta, si ripropone intatto nel quindicesimo album della lunga carriera. Canzoni dirette, asciutte, intrise spesso di romantica malinconia ma energiche e convincenti. I riferimenti sono datati ma rimangono efficaci e freschi. Un ottimo lavoro.

GEORGE HARRISON - All thing must pass 50th Anniversary
Prevedibile e consueta super ristampa nel cinquantesimo anniversario dell'uscita di "All Things Must Pass" di GEORGE HARRISON (in realtà l'anniversario cadeva a novembre 2020).
Il tutto con la produzione del figlio Dhani Harrison e il remix di Paul Hicks (che ha lavorato con Beatles, Rolling Stones, John Lennon).
In ottemperanza con una dichiarazione di George Harrison del 2001:
“I still like the songs on the album and believe they can continue to outlive the style in which they were recorded,it was difficult to resist re-mixing every track.
All these years later I would like to liberate some of the songs from the big production that seemed appropriate at the time”.
L'operazione è, come sempre, discutibile ma è innegabile che dona più chiarezza a come lo abbiamo sempre ascoltato, togliendo parte del "riverbero" che aveva messo in abbondanza Phil Spector e che George aveva finito per non tollerare più.
Ci sono ottime versioni diverse e più brevi di "Isn't a pity", il curioso demo iniziale di "My Sweet Lord", varie alt takes e una serie di inediti abbozzati nelle lunghe e fruttuose session del tempo che, come puntualmente accade, non aggiungono nulla di nuovo.
La versione superdeluxe contiene 70 brani, 42 dei quali inediti o alternate takes con 8 CD, 5 vinili, libri, libretti e foto.

CLAUDIO CORONA - Laying it down
Produttore e tastierista di base a Londra, all'esordio con un ep all'insegna del miglior Hammond funk jazz, la cui matrice è tipicamente riconducibile allo spettro sonoro che dai Meters va al James Taylor Quartet ma con un'impronta moderna e attuale, che non pesca solo nel vintage e revival.
Tanto groove, ottimi brani, lavoro interessante e di grande impatto.

TURNSTILE - Glow on
Voce che riporta a Jaz Coleman dei Killing Joke, violento substrato a metà tra Rage Against the Machine, hardcore e post core, atmosfere angoscianti e soluzioni ardite e creative. Non male.

BRANDEE YOUNGER - Something different
Arpista e compositrice, all'esordio su Impulse! con un album molto gradevole ma non sempre facile, in cui si mischiano pop, soul, jazz, funk, elettronica, RnB. Merita attenzione.

RUBY RUSHTON - Gideon's Way
Un altro ottimo ep per la band inglese, tra nu jazz (suonato impeccabilmente e con grande maestria tecnica), sperimentazione, fusion.

LETTO

WOODY WOODMANSEY - Spiders from Mars. La mia vita con Bowie
Gli anni magici degli Spiders From Mars a fianco di David Bowie, da The Man Who Sold The world a Ziggy Stardust, raccontati dal batterista Woodmansey, licenziato bruscamente e con poco garbo il giorno del suo matrimonio.
Ha proseguito poi una discreta carriera da session man con vari nomi, Art Garfunkel incluso.
L'aspetto più gradevole del libro è il piglio divertente del racconto, senza mai indulgere in pettegolezzi o sensazionalismi, rimpianti o rancori.

MARCO DENTI - Forze speciali
Il primo romanzo di Marco Denti, storico critico e scrittore musicale/letterario ci porta in un distopico (ma neanche tanto) racconto blues, in una società sconvolta da una guerra civile, alle prese con un concerto di Bob Dylan (ma sarà proprio lui?).
Il ritmo è veloce, dialoghi serrati, atmosfere plumbee, descrizioni con di contenuto militare da esperto e il Verbo rock a permeare il tutto.
Più che riuscito.

SIMONE FATTORI - Suoni nell'etere
Una dettagliatissima storia della radio, ricca di spunti e rimandi, curiosità, dati fondamentali nella sua lunga vicenda.
Ci sono le implicazioni sociopolitiche (vedi il periodo fascista e quello dello strapotere culturale della Democrazia Cristiana, relativamente all'Italia), l'arrivo delle radio libere/private, del web e di tutte le innovazioni tecnologiche che non ne hanno mai scalfito il ruolo sia comunicativo che di accompagnamento alla quotidianità.
Un lavoro lungo e certosino, ampiamente esaustivo sull'argomento.
Renzo Arbore, Linus e Claudio Cecchetto completano il quadro con tre interessanti interviste.

PIER FRANCESCO LIGUORI / FRANCESCO BUCCI - Ultime voci dai fondali profondi
Una storia misteriosa, intricata e intrigante che viaggia nel tempo, partendo dal naufragio (veramente avvenuto) di un piroscafo in acque pugliesi nel 1880.
Da qui si innescano strani fenomeni, antiche maledizioni ma anche momenti più che divertenti, soprattutto nelle caratterizzazioni dei personaggi, molto riuscite e cinematografiche. Un ottimo lavoro, frutto anche di ricerche storiche interessanti.

PETER GURALNICK - Sweet Soul Music
Ho riletto per motivi professionali il classico di Guralnick, spesso ritenuto "la Bibbia" del soul.
Effettivamente la prima parte definisce con estrema chiarezza e profondità il concetto di SOUL MUSIC e la sua collocazione socio politica e artistica.
Il resto del libro NON è enciclopedico, nonostante siano abbondantemente citati e approfonditi i principali (e anche i secondari) nomi della scena, incluse le intricate vicende dell'etichetta Stax ma un insieme di storie, spesso dettagliatissime, ricche di bellissimi aneddoti, che ci portano in quell'incredibile clima degli anni 50 e 60.
Il libro fu pubblicato nel 1986 (in Italia da Arcana nel 2001) e si ferma sostanzialmente agli anni 70 (Guralnick decreta l'inizio della fine con l'assassinio di Martin Luther King).
Rimane una lettura importantissima per i cultori del genere.

COSE VARIE
Ogni giorno mie recensioni italiane su www.radiocoop.it (per cui curo ogni settimana un TG video musicale - vedi pagina FB https://www.facebook.com/RadiocoopTV/).
Ogni domenica "La musica ribelle", una pagina sul quotidiano "Libertà", ogni mese varie su CLASSIC ROCK.
Ogni sabato un video con aggiornamenti musicali sul portale https://www.facebook.com/goodmorninggenova
Periodicamente su "Il Manifesto" e "Vinile".

IN CANTIERE
A metà settembre (il 16) il terzo volume edito da COMETA ROSSA EDIZIONI (http://tonyface.blogspot.com/2020/12/cometa-rossa-edizioni.html).

In autunno altre due uscite letterarie.
NOT MOVING LTD live a "Spazio 4" - Piacenza - sabato 4 settembre + RADIO DAYS
NOT MOVING LTD live al "Bloom" di Mezzago (MI) il 25 settembre @GoDown Festival.


Uscito per la GoDown Records la ristampa in vinile (trasparente) di "Live in the 80's" (+DVD) dei NOT MOVING con codice per scaricare il DVD originariamente allegato.
Dettagli qua: https://www.godownrecords.com/not-moving


Ancora disponibili copie (edizione limitata di 200, numerate) della biografia degli SMALL FACES, pubblicata da Cometa Rossa Edizioni.
Qui: hellnation64@gmail.com
e qui:
https://www.facebook.com/roberto.gagliardi.9828

lunedì, agosto 30, 2021

Charlie Watts. Il modernista

Nell'ultima foto con Alexis Korner e Cyril Davies, pre-Stones.

Riprendo l'articolo che ho firmato sabato scorso per IL MANIFESTO, doveroso omaggio "modernista" a CHARLIE WATTS.

"Quasi tutti i batteristi scandiscono il tempo sul charleston, ma sulla seconda e la quarta battuta, e cioè sul backbeat, componente fondamentale del rock’n’roll.
Charlie, anziché battere il colpo, solleva il piatto superiore. Finge di suonare e si ritrae. Affida tutto il suono al rullante invece di lasciare un’interferenza in sottofondo. A guardarlo puoi rischiare un’aritmia cardiaca.
In quelle due battute si concede un altro gesto del tutto inutile, e in questo modo tira indietro il tempo, perché è costretto a fare uno sforzo in più. Così, la sensazione di languore generata dalle percussioni di Charlie è in parte dovuta a quel gesto gratuito che ricorre ogni due battute."


Forse è un po' complicato per chi non mastica del tutto faccende di batteria e ritmi ma Keith Richards, che con Charlie Watts ha diviso quasi sessanta anni di dischi, concerti e tanto altro, ha descritto al meglio e con la maggiore precisione possibile il mondo del batterista dei Rolling Stones.

E anche il breve necrologio di un affranto Pete Townshend degli Who aggiunge un'ulteriore descrizione che in due righe riassume tutto:
“Charlie Watts non era un batterista rock ma un vero batterista jazz. Per questo gli Stones hanno sempre suonato con lo swing della band di Count Basie”.

Strano destino per un aspirante jazzista fare carriera con la rock 'n' roll band più famosa al mondo, suonando inizialmente blues e poi “costretto” a condividere le varie direzioni intraprese dalla band, dal beat, al rock, alla psichedelia, a deviazioni quasi hard e glam, senza dimenticare le infatuazioni per reggae e discomusic.
Ma nel suo tipico stile, Charlie non si è mai scomposto.
E ha continuato imperterrito ad accompagnare, apparentemente in sordina e secondo piano, le scelte artistiche dei Glimmer Twins, Interpretando al meglio il classico ruolo del batterista jazz che sostiene incessante e instancabile la band e i suoi leader mentre creano bellezza con gli assoli.
Talvolta ai batteristi più virtuosi viene concesso un breve spazio per mettere in mostra le capacità tecniche.
Ma a Charlie non è mai interessato. Trovare negli Stones momenti in cui la batteria è in primo piano è raro ma l'aspetto interessante è proprio la capacità, comune a pochi, di lasciare un segno indelebile in brani epocali, attraverso la semplicità e la concretezza.
Basti ricordare l'indimenticabile incipit di Honky Tonk Woman che in due secondi di introduzione con il campanaccio rende il brano immediatamente riconoscibile, ancora prima che entrino gli altri strumenti.
O la pulsante, proto punk ma allo stesso tempo mutuata dal groove soul della Tamla Motown, Satisfaction.

Charlie Watts nasce musicalmente con il jazz, con Miles Davis, Dexter Gordon, Charlie Parker, nella loro prima esplosione di creatività degli anni Cinquanta. Con lo stesso spirito dei primi Mod inglesi, i cosiddetti Modernisti che abbracciarono il Be Bop, in contrasto con i Trad, i Tradizionalisti che restavano al classicismo delle orchestre di Count Basie e Duke Ellington, coltiva la passione per questi nuovi suoni rivoluzionari, in cui si osa, in modo inaudito, andare oltre, sperimentare, creare nuovi standard.
Di quel mondo ama anche l'estetica, elegante, ricercata, cool. Nel tempo si lascerà talvolta andare, seguendo i compagni, tra capelli lunghi, calzoni a zampa d'elefante, magliette trasandate ma recupererà velocemente lo stile che lo ha sempre contraddistinto, riabbracciando impeccabili completi, giacche, cravatte, capelli curati, che si adattavano alla perfezione a quell'espressione facciale ieratica, distaccata, riflessiva che lo accompagnava anche sul palco, davanti magari a mezzo milione di persone. Non a caso è stato ammesso all' International Best Dressed List Hall of Fame di Vanity Fair. Nel 1955, a 14 anni impugna per la prima volta le bacchette, impara velocemente a suonare la batteria e fino al 1962 si diverte con gruppi di jazz, fino a quando, a Londra, il blues e il rhythm and blues, portati dai Mod, fanno breccia nella sua anima musicale, soprattutto quando la Blues Incorporated di Alexis Korner e Cyril Davies, dimostra che non è solo musica per neri. Ai concerti della band, al “Flamingo” si accalcano tanti giovani ragazzini affamati di nuovi suoni.
Gente che si chiama Mick Jagger, Keith Richards, Brian Jones, Jack Bruce, Ginger Baker, Jimmy Page, Robert Plant, Rod Stewart, John Mayall.
Ascoltano ma spesso suonano, imparano, si conoscono, si perdono in jam session e poi a casa dell'uno o dell'altro ad ascoltare dischi, scambiando opinioni, crescendo. Soprattutto formando nuove band.

E così i Little Boy Blue and the Blue Boys di Jagger, Richards e Jones diventano i Rolling Stones, da un brano di Muddy Waters e debuttano nel luglio del 1962. Ma è solo il 14 gennaio 1963 che al “Flamingo” suonano il primo concerto con un nuovo batterista, il jazzista Charlie Watts che sostituisce Mick Avory, poco tempo dopo dietro ai tamburi dei Kinks. E qui inizia la lunga storia che un po' tutti, più o meno, conosciamo, fatta di una prima lunga gavetta, dell'aiuto provvidenziale dei “rivali” John Lennon e Paul McCartney che, già piccole star, scriveranno per loro I Wanna Be Your Man, nel 1963 e con il manager Andrew Loog Oldham che, intuendo dove sta andando la musica, impone a Jagger e Richards di smetterla con le cover blues e rhythm and blues e di incominciare a comporre brani propri. Se i primi tentativi non saranno epocali, ben presto la band infilerà la nota e infinita serie di successi che li ha resi celeberrimi.

In tutto questo Charlie Watts ha sempre giocato un ruolo artisticamente indispensabile. Altrettanto con il suo naturale accettare lo strapotere mediatico dei due leader che, dopo avere drammaticamente affossato il debole Brian Jones, hanno avuto buon gioco con l'altrettanto remissivo Bill Wyman e i chitarristi sostituti, per occupare per intero la scena con i ben conosciuti eccessi, litigi, costanti primi piani sotto i riflettori.
Charlie ha sempre partecipato al circo Rolling Stones in maniera jazzisticamente compassata, “ritirandosi poi nei suoi appartamenti”, con la moglie Shirley (sposata nel 1964), la figlia Serafina, la nipote Charlotte.
Negli anni ha collezionato batterie e allevato cavalli arabi. Ma ha anche reso importanti servizi alla band, mettendo a frutto le sue reminescenze da grafico (suo primo lavoro), disegnando le scenografie dei palchi della band in vari tour come quello di Steel Wheels, del Bridges to Babylon Tour, del Bigger Bang Tour e il Tour Of Americas del 1975, il primo con Ron Wood, con la particolare forma del palco a fiore di loto. Parallelamente alla carriera con gli Stones ha continuato a suonare jazz con il Charlie Watts Quintet con cui ha pubblicato mezza dozzina di album e con gli A,B,C.D's Of Boogie Woogie.

Ha combattutto una dura battaglia contro un cancro alla gola, nel 2004 e precedentemente ha lottato, negli anni Ottanta, contro la dipendenza da alcol e droga, sempre in sordina, senza lasciare trapelare alcunchè.

Pochi giorni fa aveva annunciato la sua momentanea assenza dai prossimi concerti del gruppo, specificando però che non se ne era andato.
Purtroppo la realtà era un'altra. Il jazzista prestato al rock ci ha lasciati. Curiosamente e iconicamente, quasi uno sberleffo programmatico, in uno dei brani simbolo, sin dal titolo, del rock e degli Stones, It's Only Rock 'n' Roll, non è lui a suonare la batteria ma l'ex Small Faces, Faces e Who, Kenney Jones.

venerdì, agosto 27, 2021

Not Moving LTD + Radio Days live a Piacenza



Sabato 4 settembre a Piacenza, Spazio 4, Not Moving LTD+Radio Days LIVE.
Ingresso gratuito.

https://www.facebook.com/events/857158891904464

Fay Hallam - Modulations



FAY HALLAM torna con uno dei migliori lavori della sua lunga carriera.
Un album strumentale, impeccabilmente prodotto dal maestro ANDY LEWIS, composto e realizzato nei lunghi mesi del lockdown.

Modulations conferma ed esalta la versatilità compositiva di Fay che si destreggia tra le sue tipiche passioni rhythm and soul (vedi la versione strumentale di "Cielo rosa" già incisa con Il Senato), momenti jazz lounge, un avvolgente episodio di enorme classe come "Aural sea" tra ambient e le parti orchestrali di "Quadrophenia".

Un album strumentale è sempre "pericoloso" e arduo da proporre ma in questo caso la varietà della proposta, la cura e lo spessore dei brani, lo rende godibilissimo e interessante.

L'album esce in 300 copie numerate in vinile, reperibile qui:
https://www.fayhallam.co.uk/product-page/modulations-lp-limited-edition-300-hand-numbered-lps

Window
https://www.youtube.com/watch?v=da7C5G1a53g&t=52s

giovedì, agosto 26, 2021

Marco Denti - Forze speciali



Il primo romanzo di Marco Denti, storico critico e scrittore musicale/letterario ci porta in un distopico (ma neanche tanto) racconto blues, in una società sconvolta da una guerra civile, alle prese con un concerto di Bob Dylan (ma sarà proprio lui?).

Il ritmo è veloce, dialoghi serrati, atmosfere plumbee, descrizioni con di contenuto militare da esperto e il Verbo rock a permeare il tutto.
Più che riuscito.

Marco Denti
Forze speciali
Fragile Libri
25 euro

The Buggles - Video killed the radio stars



I Buggles si formano gà nel fatidico 1977 con l'unione del cantante e bassista Trevor Horn e del tastierista Geoffrey Downes.
Con l'aiuto di Bruce Woolley incominciano a lavorare al nuovo progetto musicale, attraverso demo delle prime composizioni tra cui "Video killed the radio stars".

Woolley lascia presto la band (anche se la sua firma rimane sulla futura hit) per dedicarsi a un nuovo percorso sonoro nei Camera Club e comporre nel 1985 "Slave to the rhythm" di Grace Jones (della quale produrrà brani e album).

I Camera Club (di cui fa parte anche Thomas Dolby) incidono per primi "Video killed the radio stars" ma esce solo nel novembre del 1979 nell'album "English Garden".
https://www.youtube.com/watch?v=3v7PHoCYmts

Il singolo dei Buggles è invece di due mesi prima, raggiunge velocemente la testa delle charts inglesi e in quelle di altri sedici paesi al mondo, vendendo in totale circa 5 milioni di copie.
E' stato il primo video tramsesso da MTV, il 1° agosto del 1981.
https://www.youtube.com/watch?v=W8r-tXRLazs

Sull'onda dell'imprevisto successo del singolo il duo scrisse velocemente l'album d'esordio "The age of plastic", un'opera rock sull'imminente strapotere della tecnologia nella società umana.
Un lavoro particolare e interessante che mischia synth pop, new wave, elettronica con un'impronta prog mlto evidente.
Non a caso Trevor Horn e Geoffrey Downes si uniranno poco dopo agli Yes, con Downes successivamente in pianta stabile negli Asia con John Wetton, Carl Palmer, Steve Howe.

Il duo si è saltuariamente riunito per qualche esbizione e ha riproposto il brano in varie nuove versioni.

lunedì, agosto 23, 2021

Peter Guralnick - Sweet Soul Music



Ho riletto per motivi professionali il classico di Guralnick, spesso ritenuto "la Bibbia" del soul.

Effettivamente la prima parte definisce con estrema chiarezza e profondità il concetto di SOUL MUSIC e la sua collocazione socio politica e artistica.

"La soul music rappresentava un'altra possibilità di ascesa sociale, come lo erano stati per più di cinquanta anni lo sport e il mondo dello spettacolo in genere...i cantanti vedevano nella soul music un passo in avanti rispetto al blues, un taglio netto con i canti e gli hollers dei campi di cotone, il raggiungimento di un livello più alto dal punto di vista tematico e armonico."

Il resto del libro NON è enciclopedico, nonostante siano abbondantemente citati e approfonditi i principali (e anche i secondari) nomi della scena, incluse le intricate vicende dell'etichetta Stax ma un insieme di storie, spesso dettagliatissime, ricche di bellissimi aneddoti, che ci portano in quell'incredibile clima degli anni 50 e 60.

Il libro fu pubblicato nel 1986 (in Italia da Arcana nel 2001) e si ferma sostanzialmente agli anni 70 (Guralnick decreta l'inizio della fine con l'assassinio di Martin Luther King).

La soul music ha avuto una breve fioritura: fece capolino verso la metà degli anni Cinquanta ponendosi, come il rock 'n' roll, quale alternativa all'assimilazione, prese coscienza di sé non prima del 1960, varcò le barriere razziali tra il 1965 e il 1966 e, nonostante lasciasse tracce della sua influenza in ogni ramo della cultura, cessò di essere una forza guida all'inizio degli anni Settanta.

Rimane una lettura importantissima per i cultori del genere.

La storia della musica soul è in buona parte la storia dell'ingresso della musicalità gospel nel mondo profano del rhythm and blues...allo stesso tempo è anche tutta un'altra storia, quella dell'associazione tra neri e bianchi.

venerdì, agosto 20, 2021

Simone Fattori - Suoni nell'etere


Una dettagliatissima storia della radio, ricca di spunti e rimandi, curiosità, dati fondamentali nella sua lunga vicenda.

Ci sono le implicazioni sociopolitiche (vedi il periodo fascista e quello dello strapotere culturale della Democrazia Cristiana, relativamente all'Italia), l'arrivo delle radio libere/private, del web e di tutte le innovazioni tecnologiche che non ne hanno mai scalfito il ruolo sia comunicativo che di accompagnamento alla quotidianità.

Un lavoro lungo e certosino, ampiamente esaustivo sull'argomento.
Renzo Arbore, Linus e Claudio Cecchetto completano il quadro con tre interessanti interviste.

Molto lucida l'analisi finale di Cecchetto:
Le radio sono per lo più omologate, trasmettono quasi tutte la stessa musica, i successi, le hit, i dischi coi quali sai di andare sul sicuro. Una volta si sperimentava, si rischiava, adesso quello che conta è non fare cambiare frequenza all'ascoltatore, tenerti i tuoi numeri da mostrare alla concessionaria della pubblicità e possibilmente incrementarli.
Non svegliare l'ascoltatore dal suo torpore.
Lasciarlo nel limbo del flusso, un flusso che non lo scuota con qualcosa di inedito, nuovo o diverso.
Non assumerti il rischio che non gli piaccia.
Questa regola trasforma la radio in filodiffusione, segue il mercato, non lo anticipa, non propone nulla.
Fa un servizio.


Simone Fattori
Suoni nell'etere. 100 anni di musica e radio
VoloLibero Edizioni
20 euro

giovedì, agosto 19, 2021

Pier Francesco Liguori / Francesco Bucci - Ultime voci dai fondali profondi


Una storia misteriosa, intricata e intrigante che viaggia nel tempo, partendo dal naufragio (veramente avvenuto) di un piroscafo in acque pugliesi nel 1880.
Da qui si innescano strani fenomeni, antiche maledizioni ma anche momenti più che divertenti, soprattutto nelle caratterizzazioni dei personaggi, molto riuscite e cinematografiche. Un ottimo lavoro, frutto anche di ricerche storiche interessanti.

Pier Francesco Liguori / Francesco Bucci
Ultime voci dai fondali profondi
Les Flaneurs Edizioni
16 euro

mercoledì, agosto 18, 2021

George Best



Riprendo un articolo che ho pubblicato da poco su "Libertà".

George Best é stato un dio del calcio, soprannominato il Quinto Beatle (band che amava molto, al pari dei Kinks e Fleetwood Mac), talento innato, probabilmente la prima grande star del pallone, che arrivò sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo sfruttando non solo le capacità sportive ma la sua immagine. Affascinante, costantemente circondato da belle donne, dedito all'alcol, al gioco d'azzardo, a una vita glamour e scintillante, l'esatto opposto della consueta apparenza dello sportivo irreprensibile, poco incline alle luci della ribalta, se non quando entra su un campo di gioco.

George Best sparigliò completamente le carte e divenne un'icona che ancora oggi, a tanti anni di distanza, resiste immutata.
Nasce nel 1946 nei sobborghi squallidi e ancora distrutti dai bombardamenti tedeschi di Belfast, capitale della tribolatissima Irlanda del Nord, divisa dall'odio atavico tra protestanti e cattolici, tra unionisti e sepratisti dalla “madre/matrigna” Inghilterra.
Padre tornitore e madre operaia, George scoprì presto di avere un talento ben superiore a quello dei compagni con cui divideva ore e ore di partite nelle strade umide della periferia cittadina.
Restando poi da solo a palleggiare contro un muro per ore, un esercizio che gli tornerà utilissimo nel padroneggiare riflessi e movenze nel controllo della palla.
A 15 anni viene notato da un osservatore del blasonato Manchester United che lo vuole in squadra. Esordisce giovanissimo con una delle migliori squadre inglesi di sempre, segnalandosi subito per il carattere totalmente anarchico, incurante e insofferente alle rigide regole degli allenamenti, ritiri, orari in cui andare a letto.

A 19 anni vince lo scudetto e raggiunge l'apice a 22, quando, nel 1968, conquista la Coppa dei Campioni e il Pallone d'Oro.

Paradossalmente, inizia proprio da qui una progressiva, sempre più veloce, caduta negli inferi dell'alcol e della sregolatezza, tra mille donne e approfittatori, che lo porteranno a dibattersi in apparizioni imbarazzanti e sempre meno autorevoli. La sua classe lo aiuta a restare ad alti livelli. I suoi irresistibili dribbling, difficilissimi e spettacolari gol, la poco conosciuta e considerata capacità di incassare botte e falli omicidi che nei campi inglesi dei Sessanta e Settanta erano la prassi, rialzarsi e proseguire la partita senza troppi problemi (se non quello di restituire, con gli interessi, il dovuto al responsabile). Spesso immarcabile, grazie anche alla sua non altissima statura (1.75), sgusciava facilmente tra i difensori, portando scompiglio nelle aree avversarie. Dopo dieci anni di attività nel Manchester United, nel 1974 lascia la squadra e incomincia un penoso peregrinare (già abbondantemente minato dall'alcolismo e ovviamente bollato come totalmente inaffidabile) in squadre di infima categoria, in cambio di cospicui gettoni di presenza.
Tra il 1974 e il 1976 gioca 11 partite negli sconosciuti Dunstable Town, Stockport County e con gli irlandesi del Cork Celtic.
Finisce anche nel Sudafrica segregazionista per una serie di partite con il Jewish Guild, affiancato, fuori dal campo, da una bionda mozzafiato locale. Sono anni in cui il Sudarfrica é globalmente boicottato ed evitato.
Ma i soldi hanno un sapore più gustoso di ogni opinione sociale e politica. Addirittura Manchester United e Tottenham, per aggirare le sanzioni per chi andava a giocare tra i razzisti, organizzeranno tre partite nel minuscolo Swaziland (una sorta di San Marino locale).

Ogni sua presenza comporta tribune piene e folle in delirio.
E soprattutto ingaggi molto lucrosi, lusso e ogni tipo di richiesta accontentata. George é sempre più impegnato a capitalizzare il suo “brand”, dando il nome a vari prodotti (che immancabilmente giocano sul suo cognome, Best, “migliore”).
Il resto sono interminabili sbronze di giorni e giorni, party infiniti, donne a profusione (si vanterà spesso di avere conquistato ben sette Miss Mondo e averne sposata una). In questo senso rimane celebre la sua frase: “Ho speso un sacco di soldi per alcol, donne e macchine veloci…tutti gli altri li ho sperperati.” rimarcata da un altro suo detto entrato nella storia: “Nel 1969 ho dato un taglio a donne e alcool. Sono stati i 20 minuti peggiori della mia vita”.

In realtà dietro a queste divertenti boutade c'era un dramma a cui non é mai riuscito né ha mai cercato di porre rimedio.
Nella stagione 1974/75 trova casa in America che cerca disperatamente di fare decollare il calcio (senza troppo successo), reclutando campioni in declino a suon di dollari. Al Cosmos di New York approdano Pelé e il nostro Giorgio Chinaglia, dalla costa Ovest replicano i Los Angeles Atzecs (nome scelto non a caso, per attirare l'attenzione della numerosa comunità messicana presente in California) con George Best e altre ex star del calcio inglese.
Tornerà a fasi alterne in Usa, anche a fine carriera con i San Jose Earthquakes. Torna a giocare più o meno seriamente nella serie B inglese con la londinese Fulham, squadra comunque di un certo prestigio storico. Solo 10 partite e due gol, un incolore decimo posto per la squadra.
Siamo al declino totale.
C'è ancora spazio per una stagione in Scozia con l'Hibernian dove prova ancora una volta a stare lontano dai guai.
Ma invano.
La lista di problemi, serate trascorse al pub fino a mattina inoltrata, pulmann per andare in trasferta con la squadra persi e inevitabili rincorse allo stadio con la sua auto o in taxi ormai non si contano.
Sempre tratto dal repertorio di aneddoti, in un albergo prima di partire per la prossima partita, appena tornato da una delle solite nottate: "Signor Best, a che ora desidera la sveglia?"
"Alle 7.30 in punto".
"Ma Signor Best, sono le otto meno venti".

I tabloid fanno a gara a sparare in prima pagina il suo pietoso declino.
Anche la nazionale dell'Irlanda del Nord, di cui era stato bandiera e con cui aveva contribuito ad allentare la tensione di quegli anni, in cui bombe, morti, violenze erano all'ordine del giorno e durante i quali subì minacce neanche troppo velate (la sua famiglia era solidamente protestante), lo abbandona. Non c'è più spazio per un calciatore che solo a sprazzi tira fuori il suo talento ma che nella maggior parte dei casi non è più in grado di gestire se stesso.

Finisce la carriera in modo grottesco e triste in Australia, con parentesi in prigione, ritrovandosi coinvolto in mortificanti interviste televisive ubriaco fradicio, in cui gli intervistatori lo trattavano come il “freak” da esibire al ludibrio pubblico.
Le conseguenze di una vita così al limite alla fine, inevitabilmente, si pagano. E come drammaticamente prevedibile, nel 2002 Best é costretto a sottoporsi a un trapianto di fegato, le cui funzioni erano ormai ridotte a solo il 20%. Non servirà, George riprende le solite abitudini, lasciato anche dalla moglie Angie che non può più sopportare il solito stillicidio di scandali giornalistici e l'inarrestabile corsa verso l'inferno del marito. "Se settantamila persone vogliono farsi una bevuta con George, loro se ne faranno una, George settantamila". (Angie Best).

Best muore il 25 novembre 2005 a 59 anni, lasciando una foto drammatica nel letto d'ospedale, irriconoscibile, con la sua ultima frase “Non morite come me”. Belfast lo celebrerà con libri, una lunga serie di murales, l'Ulster Bank stamperà un milione di banconote da 5 sterline con la sua effige, il Belfast City Airport prenderà il suo nome.
Recentemente Stefano Friani gli ha dedicato il libro “Belfast Boy” in cui ne riprende le gesta e approfondisce in chiave tecnica la sua dimensione calcistica.
Interessanti i capitoli sulla complicatissima e drammatica situazione Nord Irlandese degli anni 70, a cui Best non poteva sottrarsi, sull'evoluzione/involuzione/scomparsa di un certo tipo di calcio (abitualmente derubricato a "visione romantica", in realtà il "vero calcio" che si trasforma in uno spettacolo circense).

"Eroe sessantottino, incarnazione del trito tropo genio e sregolatezza, ha finito per rappresentare una generazione, quella dei boomer che avevano capito di poter vivere per sempre, bruciando le tappe e se stessi mentre attorno a lui, nell'intrico di strade e collinette di Belfast, si consumava la Storia con la esse maiuscola."

martedì, agosto 17, 2021

Woody Woodmansey - Spider from Mars. La mia vita con Bowie



Gli anni magici degli Spiders From Mars a fianco di David Bowie, da The Man Who Sold The world a Ziggy Stardust, raccontati dal batterista Woodmansey, licenziato bruscamente e con poco garbo il giorno del suo matrimonio.

Ha proseguito poi una discreta carriera da session man con vari nomi, Art Garfunkel incluso.

L'aspetto più gradevole del libro è il piglio divertente del racconto, senza mai indulgere in pettegolezzi o sensazionalismi, rimpianti o rancori.

Woody Woodmansey
Spider from Mars. La mia vita con Bowie
Officina di Hank
20 euro

lunedì, agosto 16, 2021

Gerd Muller



ALBERTO GALLETTI ricorda la triste scomparsa del grande GERD MULLER.

L' idea di centravanti, il più grande bomber di sempre.
Un fisico da anatleta, un coraggio da leone.
un fiuto da super goleador, un destro fulminante.
Il re dell'area di rigore.

Scompare oggi a 75 anni Gerd Muller, icona del calcio tedesco e mondiale.
Il miglior centravanti tedesco di ogni tempo, uno dei più grandi di ogni epoca in qualsiasi posto.
Sgraziato secondo i soloni esperti, parecchio fiuto e voglia secondo me e quelli come me che riconoscono che si possa far fatica anche dentro ad un campo da calcio.

1,75 kg x 77 kg: tozzo, ma veloce e potente.
E soprattutto sveglio, molto sveglio e questo fece la differenza.

Vinse qualsiasi tipo di classifica possibile. 

Cominciò con 180 gol messi a segno per l'Under 18 del Nordlingen nel 1962-63 che gli valsero l'interessamento del Bayern che all'epoca voleva uscire dall'anonimato e dall'ombra dei rivali cittadini del TSV 1860. Andò a Monaco, nonostante fosse un tifoso del Norimberga, al tempo di fatto ancora 'Der Klub'.
Capocannoniere ai mondiali; 1970 10 reti;
capocannoniere agli europei: 1972. 5 reti;
capocannoniere in Coppa dei Campioni: 1973, 74, 75 e '77;
capocannoniere in Coppa delle Coppe: 1967, 8 reti;
Bundesliga 1968 (25), 1969 (30), 1970 (38), 1972 (40), 1973 (36), 1974 (30),
Deutsche Pokal 1967, 69 e 71.

Rimane a tutt'oggi il miglior marcatore in Bundesliga (365) e in Deutsche Pokal (78), miglior marcatore di sempre nel Bayern (568/611), credo che lo rimarrà.

In nazionale ha segnato più gol, 68 che partite giocate, 62, il che lo mette secondo dietro a Klose che ha segnato tre gol in più ma ha giocato 130 partite, più del doppio.
Ai suoi tempi S.Marino, Gibilterra, Faer Oer, Andorra e Lichtenstein non esistevano.
Non giocò mai contro Malta o Lussemburgo, solo una volta contro Cipro che è come dire la Scozia adesso. 

In tutto mise dentro 730 gol in 788 partite a 0,93 a gol/partita di media.

I numeri non dicono mai tutto nel calcio, ma nel suo caso vanno elencati perchè dicono tanto.
Quello che però vale la pena ricordare è il come venivano i suoi gol, quando venivano e cosa succedeva quando segnava.
In una parola gol pesanti, decisivi, chiedere agli olandesi e soprattutto ai loro profeti.
I gol di Gerd Muller significavano vittorie: Mondiale 1974, europeo 1972, Coppa dei Campioni 1974, 57 e 76, Coppa Intercontinentale 1976, Coppa delle Coppe 1968, Bundesliga 1969, 72, 73 e 74; Deutsche Pokal 1966, 67, 69, 71. 

Con i numeri vanno ricordati anche i modi.
Quel destro al fulmicotone, quel suo buttarsi a catapulta su ogni palla, quella voglia di colpire che gli vedevi stampata in faccia durante le partite, quell'esultanza incontenibile dopo ogni gol. 
Un giocatore che ha saputo entusiasmare come pochi altri, e forse un uomo che non è riuscito a fare i conti proprio con quell'entusiasmo che aveva e regalava giocando a chi lo seguiva.

La malattia purtroppo è stata un'altra storia, e l'Alzheimer purtroppo non ha pietà.
Gli piombò addosso dopo la riabilitazione a depressione e alcolismo in cui cadde a fine carriera.

Sono rattristato oggi, seppur remotamente come lo si può essere per un vecchio idolo calcistico, e come sono stato e sarò quando se ne sono andati e se ne andranno quei 5/6 che volevamo emulare su campi senza erba, senza porte, con qualsiasi pallone si riuscisse a rimediare, le scarpe che capitavano e tutta la fantasia e l'entusiasmo del mondo che ti facevano pensare di essere Gerd Muller e urlare gooool.

venerdì, agosto 13, 2021

Summer Of Soul + Amazing Grace



Riprendo l'articolo che ho firmato per IL MANIFESTO lo scorso sabato con un'analisi sull'importanza delle due pellicole appena uscite e di cui avevo già parlato in queste pagine: Summer of soul (http://tonyface.blogspot.com/2021/07/summer-of-soul-or-when-revolution-could.html) e Amazing Grace (http://tonyface.blogspot.com/2021/06/sidney-pollack-amazing-grace.html)

"We are black, we are beautiful, we are proud" urla il Reverendo Jesse Jackson durante lo svolgimento del The Harlem Cultural Festival a Mount Morris Park (ora Marcus Garvey Park), a Harlem, New York, una serie di concerti che andarono in scena dal 29 giugno al 24 agosto del 1969.
Un festival che, svoltosi in contemporanea al ben più rinomato, famoso e storicizzato Woodstock, venne rinominato, sbrigativamente e superficialmente, “Black Woodstock”.
Parteciparono circa 300.000 persone al cospetto di nomi come Stevie Wonder, Nina Simone, B.B. King, Sly and the Family Stone, Chuck Jackson, Abbey Lincoln & Max Roach, The 5th Dimension, Gladys Knight & the Pips, Mahalia Jackson, Chambers Brothers e tanti altri, presentati da Tony Lawrence.
Il tutto venne accuratamente filmato e i nastri archiviati in attesa di un produttore che ne facesse buon uso.
Ma il materiale è stato a lungo (mezzo secolo...) "dimenticato", abbandonato, ogni tentativo di farne un film rifiutato.

Ahmir "Questlove" Thompson (membro dei The Roots) è riuscito alla fine a mettervi mano e a ricavarne un documento spettacolare, realizzando probabilmente il miglior film musicale di sempre, “Summer of soul (or when the revolution could be not televised)”, il cui titolo, che riecheggia Gil Scott Heron, riassume alla perfezione contenuto e vicissitudini della pellicola.
A esibizioni mozzafiato (un incredibile Stevie Wonder che si esibisce anche in un funambolico solo di batteria, Nina Simone, catartica, solenne, spietata, Sly and the Family Stone che confermano essere stato uno dei migliori act della fine dei Sessanta, Gladys Knight & the Pips con una versione unica di "I heard it through the grapevine" e che salutano ballando con il pugno chiuso, mentre poi Mavis Staple duetta con Mahalia Jackson in un gospel da brividi, David Ruffin incanta con "My girl", Ray Barreto e Mongo Santamaria portano il latin sound sul palco, Max Roach il jazz, Mahalia Jackson lo spiritual) si uniscono interventi di spessore socio politico, interviste alle persone e agli spettatori, immagini della New York dell'epoca.
Il reverendo Jesse Jackson parla alla folla, usa parole chiare, dure, incisive, sui diritti degli afroamericani.

Gli artisti sono sempre elegantissimi, con look impeccabili, ricercati e raffinati.
Uno dei principali protagonisti è però il pubblico, quasi totalmente nero e autoctono.
Elegante, composto, sorridente, partecipe, consapevole. Fossero membri dei Black Panthers o coppie di anziani, famiglie della borghesia nera più agiata, bambini che giocano, giovani di varia estrazione sociale, sfoggiano tutti estetiche esuberanti e raffinatissime, pulite, essenziali, fresche. Ridono e si divertono.
La gente è coinvolta ma rispettosa, non si accalca, applaude, pensa, riflette, ha sguardi e sorrisi solari.
E' una festa.
Immagini antitetiche al contemporaneo Woodstock, tra giovani persi in un utopico edonismo escapista, droghe, fango e finto ribellismo.
Un vuoto che, alla luce, di quanto si è poi verificato, appare oggi ancora più sconsolatamente evidente.
Ad Harlem c'era invece consapevolezza, sguardo al futuro, necessità di cambiamento.
Uno dei momenti topici che riassume la divergenza tra il significato di Woodstock e dell'Harlem Festival, è quando Sly Stone alza il pugno gridando il refrain di "I want to take you higher": "Higher!". Il pubblico nero di Harlem risponde con il pugno, “Higher!” simboleggiando la speranza di riuscire a innalzarsi dalla precarietà e dalla diseguaglianza.
Quando Sly lo urla a Woodstock la platea bianca lo prende come invito a "volare alto", grazie alle droghe.
Stessi giorni, stessi luoghi, più o meno.
Forse c'è un motivo di fondo per cui per tanto tempo è stato in qualche modo snobbato il contenuto culturalmente eversivo di questi filmati. I tanto vituperati afroamericani che dal 1964, proprio da Harlem, avevano incominciato devastanti e sanguinose rivolte per acquisire diritti ed equità sociale, si mostrano in queste immagini molto più "civili", rispettosi e avanti rispetto a chi, nello stesso momento, mandava a morire migliaia dei suoi giovani in Vietnam o reprimeva le più che legittime istanze di parità.

Lo stesso regista Questlove sintetizza bene il concetto: “Non volevo confrontare e contrastare l'originale Woodstock, ma è stato solo facendo questo film che ho pensato: ohhh, ho capito. Woodstock in sé non è stato l'evento che ha cambiato la vita. L'evento che ha cambiato la vita è stato il film di Woodstock. Ciò che ha reso grande Woodstock è stato il fatto che ci è stato detto che Woodstock era fantastico.”

Forse sarebbe stato lo stesso con il “Black Woodstock” se avessimo potuto vederlo ai tempi.

Contemporaneamente viene pubblicato per la prima volta un altro film mitizzato e, ancora una volta, tra i migliori mai apparsi sullo schermo in ambito musicale. “Amazing Grace”, di Sidney Pollack e Alan Elliott, documenta le due serate del 13 e del 14 gennaio 1972 in cui Aretha Franklin, artista di ormai enorme successo, tornò a cantare nella chiesa battista del New Temple Missionary di Los Angeles, dove aveva esordito con le sorelle, sotto la guida del padre, C.L. Franklin.
Ad accompagnarla il Reverendo James Cleveland con il Southern California Community Choir e la sua band, con eccellenze come Bernard Purdie alla batteria, Chuck Raney al basso, Cornell Dupree alla chitarra, tra gli altri.

L'album ricavato dal concerto,"Amazing Grace", venderà due milioni di copie diventando il disco gospel di maggior successo di sempre. Insoddisfatta dalla resa delle riprese e da problemi tecnici (solo recentemente sistemati con le nuove tecnologie) Aretha impedì l'uscita del film. Solo dopo la sua morte, nell'agosto 2018, gli eredi concessero il permesso. Le telecamere riprendono il concerto, diviso in due serate, ma soprattutto il pubblico, i musicisti, restituendo un'atmosfera incredibile. A partire dall'estetica dell'epoca, proseguendo con sporadiche riprese a Mick Jagger e Charlie Watts, presenti nella seconda serata, suggellando momenti di pura estasi mistica, in cui cadono coristi, James Cleveland, la stessa Aretha, componenti del pubblico, posseduti, in trance, mentre il sudore solca il volto dei protagonisti. L'esecuzione di "Amazing Grace" é qualcosa che ci porta nell'irrazionale, nel divino, nel sopranaturale, "Old Landmark" travolge, "You'll never walk alone" toglie il fiato. I colori, il montaggio (diretto, grezzo, immediato), il contenuto artistico e culturale fanno il resto. Anche in questo caso l'elemento principale che traspare è l'adesione unanime del pubblico a un rito partecipato, collettivo, inclusivo, concreto e reale, in cui religione, spiritualità, musica, superlativa tecnica esecutiva, arrangiamenti, significato dei testi, si mischiano insieme e creano un concime culturale che nutre teste, cuori e anime.

I due film sono, artisticamente e da un punto di vista documentaristico, di portata epocale.
Paradossalmente ancora di più considerandoli, nell'ottica attuale, come testimonianza a posteriori di un'ennesima truffa e furto nei confronti dei diritti degli afroamericani, deprivati, più o meno consapevolmente, del conforto di una visione reale di quello che veramente era la loro cultura ed essenza, antitetica a una narrazione giornalisticamente “ufficiale”, “bianca”, che raccontava un'altra realtà.
Solo parzialmente, in modo superficiale e approssimativo, corrispondente alla verità.

mercoledì, agosto 11, 2021

Calcio d'agosto



ALBERTO GALLETTI e il calcio d'agosto.

Calcio d’agosto si diceva una volta.
Tutta la fase iniziale della stagione che comprendeva ritiri, amichevoli, qualche torneo e la prima fase della Coppa Italia (a gironi) coincideva con il mese principe delle vacanze italiane.
Un rituale sempre uguale, ma sempre atteso che riempiva d’attesa le giornate sotto gli ombrelloni.

Oggi ad agosto la stagione è già nel vivo da un po', la preparazione comincia a metà luglio, il campionato a metà agosto e nel mezzo le squadre più grosse giocano amichevoli e tornei in Asia, negli USA o nei nuovi megastadi, incassano fior di milioni perdendo un po' il contatto con il pubblico originario.

Le coppe europee sono già nel vivo a metà luglio e squadre di un certo passato e di una certa importanza ma partecipanti a campionati degradati dall’UEFA per far posto alle prime quattro dei soliti campionati avranno già concluso la loro Champions League prima della fine del mese.
Già il 6/7 luglio con l’Europeo in pieno svolgimento, si è giocata l’andata del primo preliminare cui hanno partecipato tra le altro anche Ferencvaros, Dinamo Tbilisi (già vincitrici di trofei europei) e Malmoe.
E’ in corso di svolgimento il secondo turno preliminare che già ha in programma partite del calibro di Slovan Bratislava-Young Boys; Celtic-Midtyilland (campione di Danimarca semifinalista derubata all’Europeo); Rapid Vienna -Sparta Praga e Galatasaray – PSV Eindhoven.
Juve e Inter, per dire, sono ancora in ritiro.

Qualcuno che cominciava a luglio a dire il vero c’è sempre stato: ricordo i francesi il cui campionato, anche allora a 20 squadre, cominciava l’ultimo sabato di luglio, adesso il 6 agosto.
Partiti in Scozia e subito col botto.
I neopromossi, ma sempre nobili, Hearts battono 2-1 il Celtic.
I campioni in carica dei Rangers regolano agevolmente il Livingston 3-0.

In Italia novità di qualche rilevanza:
per la prima volta il calendario della Serie A non vedrà più ripetersi la sequenza di partite nel medesimo ordine in due tornate identiche a campi invertiti, ma avrà 38 giornate una diversa dall’altra.
Spassoso il comunicato della Lega che celebra l’evento citando ad esempio Premier League, Ligue 1 e Liga.
Bravi, l’unico esempio da copiare in Europa rimane comunque la Bundesliga.
Evento storico ad ogni modo, si giocava con giornate di andata e ritorno dal 1921/22, cento anni!

La Lega di Serie A ha proibito alle squadre di indossare completi verdi, non si distinguono a sufficienza dal prato in tv.
Mi chiedo perché nessuno abbia mai proibito ad una squadra di andare a giocare in completo nero in casa di una squadra che gioca in completo rosso e simili.
Mi chiedo inoltre se sarebbero pronti a fare la stessa cosa per impedire alle squadre di scendere in campo con completi vomitevoli che si distinguono benissimo dal prato ma sono vomitevoli e inguardabili, oltre ad un’offesa per gli appassionati e per i quali però gli sponsor tecnici hanno pagato i club fior di milioni per farglieli indossare e vedere in mondovisione.
Pagliacci.
Le nuove maglie dell’Inter?
Le divise del Barcellona?
Pantaloncini metà blu metà granata?
Belli eh? Al palio di Siena dovrebbero andare, pagliacci.

Scongiurato (per ora) lo spezzatino tv, cioè almeno una partita in programma per ogni giorno della settimana per ciascuna giornata di calendario ma è chiaro che l’abolizione dell’andata e ritorno è ad esso propedeutica.
Più prima che dopo arriverà.

Finisce la parabola del Chievo ai vertici del calcio italiano.
Alla base dell’esclusione qualche decina di milioni di debiti col fisco.
Non mi dispiace, mai stata una favola.
Ho celebrato poche settimane fa il ritorno dei grigi in Serie B dopo una vita.
Una promozione che ridà lustro al vecchio quadrilatero, quadrilatero che però perde un vertice, il Novara è stato escluso dalla Serie C.
E’ doloroso, anche qui irregolarità nei pagamenti che sembrano però stati effettuati.
In 113 anni di storia, la compagine piemontese aveva sempre e solo giocato in campionati professionistici; 10 anni fa esatti si apprestava a giocare il suo tredicesimo e ultimo campionato di Serie A.
Ci sarà da esser contenti se il sindaco riuscirà ad iscriverli alla Serie D.

Grottesca la situazione del Gozzano che vince il campionato di Serie D e rinuncia ad iscriversi alla Serie C.

Requiem anche a Livorno, dove la società, dopo l’ultimo disastroso campionato di Serie C chiuso all’ultimo posto è stata messa in liquidazione.
Il sindaco ha fatto i passi per l’iscrizione in Serie D, ma Spinelli non molla e la situazione è in pieno caos tra documentazioni integrative e fidejussioni da presentare, questione stadio, altri debiti e, piccolo particolare, squadra da rifare in quanto credo che messa in liquidazione abbia svincolato tutti i giocatori.

Fuori anche il Carpi, ex squadra-parcheggio di alcuni procuratori, sedotta e poi abbandonata dato che quei procuratori avevano da posteggiare i giocatori in A o in B al massimo, non in C.
Cinque anni fa era arrivato in Serie A.
Probabilmente ripartirà dall’Eccellenza.

Poi rimane il TAR….

Infine, meno male, l’era della bolla speculativa del calcio pare avviarsi a conclusione.
Secondo il Deloitte Review of Football Finance, gli stipendi dei calciatori sembrano aver ormai oltrepassato il picco massimo ottenibile, così come i diritti tv, il Covid-19 ha fatto il resto azzerando quasi del tutto gli introiti da stadio.

I ricavi del calcio sono calati del 13% su scala europea, 11% per i cinque campionati principali con una perdita secca di 3,7 miliardi di euro.
In un campionato come la Premier il calo delle entrate, ha fatto salire al 73% medio il valore degli stipendi pagati rispetto agli introiti realizzati.
Gli stipendi dei giocatori hanno subito una crescita esorbitante negli ultimi vent’anni e sono oggi attestati a 3,3 miliardi di sterline valore che ha portato 14 club su 20 a sforare abbondantemente il limite suggerito dall’ UEFA.
Mi chiedo per quanto tempo ancora riusciranno ad andare avanti.
Quel che è peggio è che fungono pure da modello e pessimo esempio per altri campionati: nel Championship quello stesso valore è al 120%, in Francia all’ 89%.
Si salva la Bundesliga, ma non c’erano dubbi, con un sano 56%.
Particolarmente esemplificativo riguardo a ciò che potrebbe accadere nel futuro prossimo quello che è capitato in Francia dove la cancellazione del contratto tv con Media Pro ha fatto calare gli introiti globali del 40% a fronte di stipendi pagati all’89% per cento degli interi introiti teorici.

Crollerà tutto?
Magari……un ridimensionamento considerevole sarebbe auspicabile, specialmente nella percezione generale di cosa è il calcio oggi, prima ancora della dimensione finanziaria.
Probabilmente però non crollerà un bel niente.
Probabilmente il calcio d’elite si staccherà dal resto e si isolerà nella propria torre d’avorio.
La super lega europea non solo non è finita, ma è un modello d’idea che finirà per coinvolgere molte e molte più squadre delle 12 originali.
Con la formazione o radicale modifica di altre competizioni, chiaramente.

lunedì, agosto 09, 2021

Tokyo 2020



Un inaspettato trionfo azzurro alle Olimpiadi di Tokyo, uno spettacolo inimitabile in cui passi da uno sport all'altro, attraversando specialità che non ti sogneresti mai di seguire normalmente, al cospetto delle più esotiche, strane e inconsuete provenienze geografiche.

La bistrattata Italia, protagonista di exploit individuali, lontani da una programmazione sistemica, vince in sport di primaria visibilità (atletica e ciclismo in primis), cade in quelli di squadra ma porta a casa un'edizione storica con 40 medaglie in 19 discipline.

Con ragazze e ragazzi freschi e puliti, che davanti ai microfoni sfoggiano un eloquio fluido, grande proprietà di linguaggio, spontaneità.

Quell'Italia palesemente multi etnica, alla faccia di una narrazione politica ampiamente superata dalla storia.

Medagliere vinto dagli USA, davanti a Cina, Giappone, Australia. Italia decima.
93 le nazioni andate sul podio con la prima volta per San Marino, con un argento e due bronzi.

venerdì, agosto 06, 2021

George Harrison - All things must pass



Prevedibile e consueta super ristampa nel cinquantesimo anniversario dell'uscita di "All Things Must Pass" di GEORGE HARRISON (in realtà l'anniversario cadeva a novembre 2020).

Il tutto con la produzione del figlio Dhani Harrison e il remix di Paul Hicks (che ha lavorato con Beatles, Rolling Stones, John Lennon).
In ottemperanza con una dichiarazione di George Harrison del 2001:
“I still like the songs on the album and believe they can continue to outlive the style in which they were recorded,it was difficult to resist re-mixing every track.
All these years later I would like to liberate some of the songs from the big production that seemed appropriate at the time”.


L'operazione è, come sempre, discutibile ma è innegabile che dona più chiarezza a come lo abbiamo sempre ascoltato, togliendo parte del "riverbero" che aveva messo in abbondanza Phil Spector e che George aveva finito per non tollerare più.

Ci sono ottime versioni diverse e più brevi di "Isn't a pity", il curioso demo iniziale di "My Sweet Lord", varie alt takes e una serie di inediti abbozzati nelle lunghe e fruttuose session del tempo che, come puntualmente accade, non aggiungono nulla di nuovo.

La versione superdeluxe contiene 70 brani, 42 dei quali inediti o alternate takes con 8 CD, 5 vinili, libri, libretti e foto.

mercoledì, agosto 04, 2021

Raffaella Carrà



Un ricordo di RAFFAELLA CARRA', scritto per "Libertà" all'indomani della sua scomparsa.

Difficile accostare il nome di Raffaella Carrà a una rubrica che si chiama “Musica Ribelle”.
Eppure la ribellione non è esclusiva pertinenza di chi agita bastoni e forconi, urla slogan o presume di percorrere strade alternative quando invece sono state ben tracciate e previste, proprio ad appannaggio di chi crede di essere controcorrente.
Le rivoluzioni sono spesso silenti, discrete, cambiano le cose, partendo dal basso o dall'interno.

La Raffa nazionale è stata l'epitome del cosiddetto “nazionalpopolare”, con trasmissioni dedicate a un pubblico il più possibile generalista ma durante la lunghissima carriera ha introdotto i germi del cambiamento, a volte precedendolo, altre affiancandolo e sapendolo portare alla massa in modo poco eclatante ma ancora più efficace. Impensabile, ad esempio, ai nostri giorni considerare un ombelico (femminile, ovviamente) un elemento di audacia, quando ogni forma di pornografia è accessibile da chiunque e in qualunque età (alla faccia di un'educazione sessuale consapevole e armonica) da un qualsiasi computer.
Ma nel 1971 il sensuale ballo, unito all'ammiccante brano “Tuca Tuca”, messo in scena a “Canzonissima” che la showgirl conduceva, fu fonte di scandalo e grida all'osceno nella retriva mentalità italiana dell'epoca.
Come sempre di pura facciata, per meri motivi politici e “religiosi”, Democrazia Cristiana e Vaticano insorsero contro l'esibizione.
Che venne accettata solo quando intervenne il “monumento nazionale” Alberto Sordi ad affiancarla in un'esibizione divertentissima e storica.
Il brano era stato scritto da Gianni Boncompagni e il ballo ideato da Don Lurio.
Raffaella però si presentò con un vestito attilatissimo e con l'ombelico in bella vista. E lo scandalo esplose.

La Carrà ricordò così l'episodio: “Il Tuca tuca' ha una storia incredibile. Lo ballai con Enzo Paolo Turci e fu considerato troppo trasgressivo, così lo cancellarono dalla televisione. Ci fu anche un articolo dell'Osservatore Romano e così tolsero il brano anche dalla classifica. Dopo un po' di tempo, una sera invitai a cena Alberto Sordi e gli feci riascoltare il 'Tuca tuca': fu lui a volerlo riportare in tv. E a lui non potevano dire di no".

Un piccolo passo pubblico che faceva da megafono a quello che accadeva già nelle strade, tra le ragazze e le donne, che si liberavano faticosamente da anni di mentalità opprimente e retrograda, dando il viatico alle imminenti conquiste, divorzio e aborto, in particolare. Senza mai schierarsi con slogan o dichiarazioni sopra le righe ha veicolato messaggi femministi chiari e precisi.
Ad esempio in relazione alla tanto desiderata maternità a cui non ha potuto sopperire con l'adozione (pur facendone numerose a distanza):
“Non essendo sposata, come donna single in Italia, adottare un bambino è impresa impossibile. Io sono figlia di genitori separati e mia mamma ha ricoperto nei miei confronti anxche il ruolo di padre. Se c'é l'amore non dovrebbero esserci ostacoli nel crearsi una famiglia”.

Le sue non erano mai provocazioni volgari, esagerate, plateali ma un semplice e naturale modo di porsi, mostrando che una modalità nuova era possibile, che non c'era nulla di male a osare, a essere sé stesse.
I vestiti sempre più attillati o corti erano finalizzati a una migliore mobilità per i balli, spesso complessi e tecnicamente difficili.
Il caschetto biondo, suo inconfondibile marchio di fabbrica, era un'ulteriore aggiunta a un'estetica sensuale, accattivante ma mai aggressiva. I testi, proposti su musiche facili, coinvolgenti, artisticamente trascurabili, hanno spesso aggiunto un ulteriore elemento distintivo.

Con ritornelli contagiosi invitava le donne a prendere l'inziativa e a lasciare perdere troppi romanticismi: “Se lui ti porta su un letto vuoto / Il vuoto daglielo indietro a lui / Fagli vedere che non è un gioco /Fagli capire quello che vuoi / A far l'amore comincia tu”.
In “Tanti auguri”, uscita nel 1978, é adamantina nel suo concetto di amore e di autoconsapevolezza sessuale: “Com'è bello far l'amore da Trieste in giù / L'importante è farlo sempre con chi hai voglia tu / E se ti lascia lo sai che si fa? / Trovi un altro più bello /Che problemi non ha”. Raffaella Carrà è una che rifiutò cortesemente le avance di un signore di nome Frank Sinatra, durante le riprese del film “Il colonnello Von Ryan”, che interpretò nel 1965. Non dimentichiamo il rispetto incondizionato che le ha sempre riservato la comunità LGBT, di cui era, da tempo, diventata un'icona di riferimento.

Con la sua innata allegria aveva commentato: “Sulla tomba lascerò scritto: perché sono piaciuta tanto ai gay? La verità è che morirò senza saperlo.” Forse perché già nel 1978 aveva affrontato la questione, in modo molto scanzonato e ironico, nel brano “Luca”: “Eri un ragazzo dai capelli d'oro / E ti volevo un bene da morire / Io ti pensavo tutto il giorno intero / Senza tradirti neppure col pensiero / Ma un pomeriggio dalla mia finestra / Ti vidi insieme ad un ragazzo biondo / Chissà chi era, forse un vagabondo / E da quel giorno non ti ho visto proprio più.” Più probabilmente è stato il suo aspetto decisamente “camp”, spesso imitato dalle drag queen e nei Gay Pride. Già nel 1979 Raffaella si espose senza problemi in merito: “Vorrei che la gente smettesse di guardare male i gay. Hanno diritto al rispetto e anche a un po’ di compassione, visti i problemi umani e sociali che devono affrontare.”

Più recentemente ha approfondito di nuovo il tema, circostanziando meglio: “Ho iniziato a informarmi, anche perché molte persone dei cast dove ho lavorato erano gay. Mi sono sempre chiesta com’è possibile che esista questo gap tra genitori, figli, amici e società di fronte a delle creature? Sono diventata icona gay mio malgrado, non ho fatto nulla: mi chiedono di essere presente a diverse sfilate e così qualche anno fa sono andata al Gay Pride di Madrid (dove ha anche ricevuto un premio) e li ho beccati tutti. Il miglior premio per me è che la gente mi voglia bene.”

E proprio in quell'occasione ha lasciato un messaggio inequivocabile: “Vivete questa settimana in allegria, ma le lotte non sono finite. C’è ancora ‘mucho camino’ da compiere per abbattere i pregiudizi… Ci riusciremo. La mia frase preferita recita: ‘Puoi togliere tutti i fiori, ma non puoi togliere la primavera’“.

A livello discografico ha pubblicato l'enorme numero di 198 album e 272 singoli, sparsi in tutto il mondo, conquistando le classifiche ovunque, in particolare nei paesi latini. Ma anche nell'impossibile Inghilterra dove nel 1975 piazza “Do it do it again” (traduzione in inglese di “A far l'amore comincia tu”) al nono posto e ci resta per dodici settimane consecutive, impresa rarissima per un artista italiano.
In questa incredibile discografia anche gli amanti del rock (inteso nel suo senso più ampio) possono trovare cose gradevoli.

Il brano più interessante è senz'altro “Rumore”, uscito nel 1974, un potentissimo brano disco/rock, arrangiato da Shel Shapiro, ex membro dei Rokes e pubblicato, in lingua locale, anche in Francia, Spagna e Inghilterra.
Tra i suoi primi 45 giri, nel 1970, c'é il curioso “Reggae rrrr” che in realtà non ha nulla a che fare con la musica giamaicana ma che è invece un notevole brano funk.
Sempre lo stesso anno pubblica il 45 giri “Chissà chi sei”, rifacimento in italiano di un classico minore di rhythm and blues di Don Convay, “Sookie Soookie”, ripreso poco tempo prima dagli hard rocker Steppenwolf , famosi per la celebre “Born to be wild”.
Sempre nel suo primo periodo troviamo anche una “I say a little prayer”, già di Aretha Franklin ma il confronto è ovviamente impari e una versione carina di “Where did your love go” delle Supremes di Diana Ross.
Più riuscita la sua “She's looking good” di Wilson Pickett mentre dall'album “Scatola a sorpresa”. a fianco di “Romagna mia”, spuntano una versione semi jazz funk di “Satisfaction” degli Stones e un medley di classici rock 'n' roll facilmente dimenticabile.

Raffaella se ne è andata.
E' sempre stata un idolo personale e per anni ho coltivato il progetto e la speranza di potere scrivere un libro su di lei attraverso una lunga intervista.
Ma la cosa, ovviamente velleitaria ma sperare non costa nulla, non è mai andata in porto e mai più sarà possibile.

lunedì, agosto 02, 2021

Tommy

Riprendo l'articolo che ho scritto per IL MANIFESTO di sabato scorso.

Si riaprono le porte della percezione.
Senza scomodare Aldous Huxley e i Doors, più semplicemente, locali, teatri, concerti, provano a rimettere la testa fuori dall'incubo appena vissuto (speriamo che la declinazione al passato sia permanente).
Annunciata, tra le tante, la ripresa del musical, in scena a Broadway, di “Tommy”, tratto dall'opera degli Who, ormai declinata, tra musica, teatro, letteratura in ogni versione artistica possibile (manca ancora, a quanto mi risulta, la scultura).
Diventata nel tempo un classico della cultura britannica ma non solo. Erano un po' di anni che Pete Townshend ci provava.
Dimostrando, nonostante la giovane età, una maturità artistica comune a pochi, con uno sguardo a 360 gradi, pensando alla composizione sonora come a un'opera completa, vicina al concetto di musical, di interazione tra musica, teatro, letteratura.

L'“opera rock”, poco dopo la metà degli anni 60, era un'idea ancora insolita in ambito pop.
I primi tentativi risalgono al secondo LP proprio degli Who, “A Quick One”, del 1966, con il brano omonimo in cui Townshend lega varie canzoni in una, raccontando, ironicamente e innocuamente, una storia di tradimento e perdono.
Gli va male con “Quads”, idea solo abbozzata e mai conclusa, ci riprova nel 1967 in “Sell Out” con “Rael”.
Originariamente concepita in ventidue movimenti poi tagliati e ridotti a poco più di 5 minuti di musica. Intanto l'idea prende piede intorno a lui.
Se già nel 1960 il jazzista Mose Allison (peraltro amatissimo da Townshend, gli Who ripresero la sua “Young Man Blues” trasformandola in un'aggressione sonora proto hard rock) aveva inciso una specie di concept strumentale con “Transfiguration Of Hiram Brown”, nel 1967 i soliti Beatles avevano suggerito la via con “Sgt. Peppers”, da un'idea di McCartney di proporre la band come se fosse un altro gruppo, con tanto di costumi adeguati (vedi la copertina).
Del concept rimase solo la ripresa del tema principale dell'album poco prima della chiusura con la solenne “A Day In The Life”. Arrivarono appena prima i Pretty Things con “S.F.Sorrow” nel dicembre del 1968.

Ma l'idea di “Tommy” era già da tempo nella testa di Townshend e le registrazioni iniziarono ben prima dell'uscita dell'album dei colleghi inglesi.
L'album fu la definitiva consacrazione per la band (grazie anche all'epica esibizione a Woodstock) che uscì dalla dimensione confusa e adolescenziale degli inizi e diventò un riferimento per il rock di tutto il mondo. Intriso di riferimenti musicali post psichedelici, che si spingevano fino alla musica classica (vedi l' “Ouverture” dell'album), l'utilizzo di strumenti anomali per la band (fiati, archi, timpani, armonie vocali ricercate) e un mood semi acustico prevalente che strideva con l'abituale violenza sonora portata sul palco.

La storia drammatica e complessa del protagonista, Tommy, muto, cieco, sordo, gli abusi sessuali espliciti e morali che subisce, la disabilità di cui approfittano madre e patrigno, nel momento in cui diventa campione di flipper, unica modalità sensitiva per “comunicare” con il mondo, ci trascinano in un climax morboso e inquietante.
L'album ebbe successo critico e commerciale anche se non furono poche le voci di biasimo, sia sui contenuti lirici che musicali.
Divenne in ogni caso un classico della musica rock. La potenzialità dell'opera, concepita in chiave artistica “totale”, ebbe la sua sublimazione e un secondo successo nel 1975 quando il visionario ed estremo regista Ken Russell ne fece un film che esaltò ancora di più gli aspetti psichedelici, violenti e malsani.

Un cast di primo livello con personaggi come Ann Margret, Oliver Reed, Jack Nicholson, Robert Powell e le apparizioni degli stessi Who, Elton John, Eric Clapton, Tina Turner.
Il tutto in chiave musical, senza dialoghi ma solo cantato. Rislata soprattutto il ruolo di Tommy, affidato al cantante della band, Roger Daltrey. “Ken Russel per me era un'icona, un eroe, un idolo, ero un suo grande fan.
Quando mi chiese di interpretare “Tommy”, di cui era un immenso estimatore, non tanto della musica, odiava il rock, quanto del soggetto, risposi che potevo tranquillamente affrontare centinaia di migliaia di persone da un palco ma che non avevo alcuna esperienza da attore. Ma Ken rispose che io sarei stato Tommy. Punto”
.

Townshend lavorò a lungo a una nuova colonna sonora che si adattasse ai cambiamenti decisi da Russell, rispetto alla versione discografica, per rendere il tutto meno nebuloso e più cinematografico.
Dal canto suo Roger Daltrey ricorda nella sua autobiografia “Thanx a lot Mr. Kibblewhite” una serie di gustosi, esilaranti e rocamboleschi aneddoti.
Anche se ci tiene a sottolineare che l'esperienza é stata talmente anomala, coinvolgente e travolgente da essersi dimenticato buona parte di quanto accaduto.
In particolare la scena in cui é coricato sotto le gambe della Acid Queen, Tina Turner, che aveva appena coinvolto il giovane Tommy in un viaggio con l'LSD.
“Ero non solo con Tina Turner, per me un idolo assoluto, che ascoltavo religiosamente da anni ma ero anche sotto le sue gambe. Per girare quella scena ci vollero ore e io ero sotto le sue gambe e non ricordo nemmeno di che colore avesse le mutande o se le avesse. Non mi ricordo, ti rendi conto?”.
Andò peggio alla protagonista Ann Margret (che nel film, nonostante avesse solo tre anni in più di Daltrey impersonificava sua madre!). Nella scena in cui, ubriaca, lancia un bicchiere contro uno specchio della sua lussuosa, immacolata, bianchissima casa, facendone uscire una valanga di liquame e fagioli, si tagliò con un vetro e fu costretta a ben ventuno punti di sutura.
Ma mentre il sangue schizzava ovunque, tra lo sconcerto e il terrore della crew, lei continuò a recitare fino a concludere la sua parte. Portata d'urgenza all'ospedale, il giorno dopo era di nuovo sul set.
A proposito di ubriachezza (reale e molesta).
Anche Keith Moon, batterista degli Who, ebbe una piccola parte, impersonificando il disgustoso Uncle Ernie che abusa del nipote Tommy.
Fece subito amicizia con Oliver Reed, il patrigno del protagonista. A parte che mentre la troupe era alloggiata in un hotel di Portsmouth dove si girò la quasi totalità del film, entrambi scelsero il Grand Hotel del posto, il loro divertimento preferito era sfidarsi a gare su chi beveva di più.
Una mattina Keith Moon stracciò Reed che dopo due bottiglie di brandy collassò sul tavolo. Keith, guardando Roger, non disse altro: “Non sei proprio un tipo divertente, Ollie”.

Il clima durante le riprese era esasperato dal perfezionismo quasi sadico di Ken Russell, le cui parole abituali erano “Ottima scena, adesso ripetiamola un'altra volta!”.
L'esperienza più traumatica in cui fu coinvolto Daltrey fu quella in cui appare chiuso in un sarcofago in cui é circondato da serpenti.
Russell lo tenne una giornata intera tra serpenti, grosse farfalle, scarafaggi, prima di scegliere i rettili. Che per difesa emettevano secrezioni maleodoranti di ogni tipo.
“Mi ritrovai coperto da ogni schifo di merda di serpenti o insetto e per giorni fui costretto a sopportare un odore disgustoso che non se ne voleva andare”.

La colonna sonora fu registrata totalmente di nuovo con il contributo di star come Eric Clapton, Elton John, Nicky Hopkins, Ron Wood e Kenney Jones (ex Faces e Small Faces che qualche anno dopo sostituirà il defunto Keith Moon negli Who).
Townshend aggiunse qualche nuovo brano mentre gli arrangiamenti sono caratterizzati dall'introduzione massiccia di parti di sintetizzatore.
Il risultato é comunque eccellente, pur se colpevolmente spesso trascurato. Il film ricevette ampi consensi, sia a livello di critica che di successo commerciale, diventando un gioiello della filmografia rock.
Ken Russell lo ha sempre definito come “il film più commerciale che abbia mai fatto”.
Ann Margret vinse un Golden Globe Award per sua splendida interpretazione, Pete Townshend fu candidato all'Oscar per la miglior colonna sonora, il film vinse il Rock Music Awards nel 1975 e fu presentato al Festival di Cannes.