mercoledì, novembre 21, 2018

Giacomo Losi, Core de Roma



ALBERTO GALLETTI ci porta alla scoperta di un personaggio "minore" del calcio italiano ma di incredibile spessore

Core de Roma è un soprannome piuttosto inconsueto per uno che viene da Soncino (CR), ma 386 presenze in giallorosso, di cui 299 da capitano, in quindici anni di militanza non passano inosservati nella capitale e forse neanche altrove.

Un personaggio di quelli di una volta, si direbbe e in effetti lo è stato, e lo è.

Losi ha personificato tutto quello che si pensa che un calciatore della sua epoca debba essere stato, e sicuramente ci piacerebbe fosse ancora, almeno a me personalmente.
Lombardo, ragazzo di campagna.
Umili origini, la classica infanzia materialmente difficile ma umanamente felice.
Mamma operaia della filanda, papà, facchino al consorzio agrario, un socialista, rifiutò di prendere la tessera del PNF, e fu deportato in un campo di lavoro nazista.
Due anni senza sapere niente, prima del ritorno a casa dopo la fuga. Mio nonno fece uguale, preso due volte, scappò due volte.

Giacomo gioca tutto il giorno, questo possibilmente fanno i bambini,anche in tempo di guerra, tutto il giorno fuori di casa. Rimarrà così anche da calciatore,intrepido, paura di nessuno, pensare poco, agire sempre, impegno massimo e quel che si prende si prende, siano essi gambe o palloni.
Va detto ad onor del vero che non è mai stato classificato tra i picchiatori.
Ed infatti non lo fu.
Era correttissimo, semmai molto irruento, il classico prodotto italiano dell’epoca.

Nel ’45 ha dieci anni.
La Wermacht in ritirata abbandona la rocca di Soncino, vi si insediano i partigiani che prendono controllo della riva destra dell’Oglio.
Il piccolo Giacomo, forse anche amante dei giochi pericolosi aiuta a trasportare armi, granate e altro materiale bellico, abbandonato o sequestrato ai tedeschi, ai partigiani nella Rocca.
Di sicuro pesò più la deportazione del padre. A guerra finita continuano i giochi, anche quelli pericolosi: un pomeriggio a fare i bulli con le bombe inesplose nel fiume gli costa una falange del pollice, andrà peggio ad un amico che ci lascerà le penne, 16 anni.
Lascia perdere le armi, e anche la scuola, mollata senza rimpianti al termine della quinta elementare.
Subentrano le sue due grandi passioni sportive: calcio e ciclismo, il Torino e Fausto Coppi.
Non ha mai dimenticato chi fosse e da dove venisse Giacomo Losi, nemmeno a Roma, nemmeno quando diventa capitano della squadra e uno delle persone più in vista delle capitale.
Rimane sempre uno che viene da Soncino, praticamente vùn qualsiasi.
Se la bicicletta è un sogno, un pallone, quasi sempre di stracci, lo si rimedia sempre. Inizia con gli amici fondando la Virtus, squadra alla quale cucirà i pantaloncini, essendo diventato apprendista di un sarto appena lasciata la scuola.

A quattordici anni la Soncinese lo preleva dalla piccola Virtus dopo averlo visto in azione, esordisce quasi subito nel campionato lombardo di Prima Categoria. Lo fanno giocare col cartellino di un altro perché legalmente non ha l’età.
Gli attributi calcistici invece ci sono tutti: 17 gol in 12 partite valgono a lui l’ingaggio della Cremonese e mezzo milione di lire alla società. Non cresce molto Mino, come lo chiama la mamma Maria, ma è di corporatura massiccia, un fascio di muscoli scattanti da 72 chilogrammi all’interno di un involucro ben proporzionato di un metro e 68.

Arriva allo Zini come attaccante e diventa titolare per caso quando, non convocato, va a Brescia a vedere la partita della Cremo. Il figlio dell’allenatore si infortuna e l’altoparlante chiama il suo nome negli spogliatoi. Quando si dice il destino: schierato terzino sarà tra i migliori così, a dispetto della statura, il suo destino calcistico si compie, sarà difensore.
Due ottime stagioni con la Cremo gli valgono l’interessamento dell’Inter che lo aggrega alle riserve, con i nerazzurri si presenta al Torneo di Sanremo del 1953, una sorta di pre-Viareggio, vincono il torneo, suo un gol in finale. Nonostante questo l’Inter lo scarta, troppo piccolo, e il suo scopritore, Montanari, lo segnala alla Roma.
Quando annuncia ai genitori che deve andare a Roma per giocare a pallone, non c’è sorpresa ma quella tipica reazione lombarda che ben conosco, un misto tra indifferenza e rassegnazione, entusiasmo zero, che accompagna l’ineluttabilità degli avvenimenti legati al pratico. Quel che c’è da fare si fa. Mi raccomando, gli dice suo padre. La mamma gli preparò la valigia, gli comprarono il vestito nuovo visto che non lo aveva e bisogna essere a posto per una roba del genere.
Suo padre lo accompagnò a Milano e lo mise sul treno per Roma.
Alla Cremonese andarono sette milioni, soldi per una squadra di serie d nel 1954.

Fu amore a prima vista, una città abbagliante e magnificente, gente completamente diversa, un calore inaspettato visto che era un calciatore della Roma.

Lo misero in una pensione, nessun problema per lui, e lo aggregarono alle riserve.
Nessun problema anche qui, nel giro di poco tempo emerse grazie al suo impegno, alla sua grinta e alle sue doti di marcatore inesorabile. Jesse Carver, allenatore della prima squadra, come tutti gli inglesi, lo apprezzò da subito. Dove passare tu non crescere erba, gli disse: a vent’anni era titolare
. Sarosi l’anno dopo, da gran intenditore ed ex-sublime campione qual’era, gli limerà la tecnica rendendola accettabile alla Serie A.

Saranno quindici anni indimenticabili per lui e per la tifoseria giallorossa che lo elesse a proprio indiscusso beniamino. Dal 1961 sarà anche capitano, l’unico giallorosso ad alzare un trofeo internazionale: la Coppa delle Fiere conquistata proprio quell’anno.

Bella la sua vicenda di ragazzo semplice che in quell’Italia della ricostruzione e del primo boom, si trasferisce da un posto qualsiasi in fondo alla provincia alla capitale senza bisogno di cambiare i comportamenti, non credo gli sia mai passato per la testa, per guadagnarsi l’affetto e l’ammirazione dei nuovi tifosi in una realtà così completamente diversa da quella che lo aveva visto crescere. In una parola per affermarsi.
Stessa cosa dicasi del pubblico che lo accolse, non fu mai un problema: Losi dava tutto, amava la maglia, la sua squadra e la sua città d’adozione così, semplicemente. E fu ricambiato. Accettarsi per quello che si è dando il massimo, sinceramente. Una storia semplice,per gente semplice e seria, com’era Losi e così come era il calcio, e probabilmente anche la vita a quel tempo. E così come dovrebbe essere ancora oggi, se non proprio la vita, almeno il calcio. Non è più così purtroppo.
Oggi anche nel calcio si sente parlare di lavoro, quasi esclusivamente lavoro, con tutto il suo corollario di esasperazioni e miserabilità.
Una bestemmia, tristissimo.

Chi, come Losi, tra gli strapagati-sopravvalutati-insopportabili malati di protagonismo di oggi, sarebbe disposto a girare per un Teatro Sistina stracolmo di tifosi chiamati a raccolta dall’allenatore, col cappello in mano, per far di persona la questua per poter pagare la trasferta a Vicenza per la squadra?
Lui lo fece, perché pensava fosse suo dovere, anche se non era d’accordo e pensava che fosse una buffonata.
Quando il presidente trovò i soldi per pagare la trasferta, Losi in qualità di capitano decise di devolvere i soldi raccolti quella sera in beneficenza.
Giù il cappello.

Palletta, così lo soprannominarono a Roma, merito della sua esplosività muscolare che gli consentiva movimenti agilissimi e di rimbalzare qua e la in campo come una palla di gomma. Sembrava scoordinato, forse lo era anche, sempre proteso in avanti fino al limite dell’equilibrio, pur di arrivare prima sulla palla, o sulle gambe di qualcuno.

Fedele a se stesso, giocava per la Roma con la stessa incoscienza e temerarietà con la quale da ragazzo recuperava le bombe nel greto dell’Oglio. Si guadagnò l’appellativo di ‘Core de Roma’ quando, in occasione di un incontro casalingo contro la Sampdoria, realizzò il gol della vittoria di testa (lui!) su angolo di Lojacono.
Si era stirato l’inguine della gamba con la quale saltava mezz’ora prima ed era rimasto in campo perché già erano in dieci per infortunio precedente ad un compagno che non ce l’aveva fatta a rimanere in campo.
Chiese a Lojacono in battuta di guardare dove si sarebbe messo e di crossargliela li.
L’argentino perplesso fece come disse il capitano, Losi saltò con l’altra gamba, senz’altro ignorato dai difensori ciclisti che pensavano non fosse in grado di muoversi, e incornò perfettamente il 3-2 facendo esplodere l’Olimpico.

Ancora, si immolò nella semifinale di Coppa delle Fiere contro l’Hibernian.
Convocato in Nazionale, aveva giocato il giorno prima per l’Italia.
A riposo per regolamento, Losi rese visita ai compagni in ritiro l’indomani mattina.
Mentre s’intratteneva con loro Foni, l’allenatore, gli chiese se non se la sentiva di giocare alla sera.
Nessun problema sono sempre pronto per giocare, fu la risposta.
Così Losi andò in campo, si stirò un’altra volta e compì un salvataggio miracoloso sulla linea che servì a mantenere il 3-3 che mandò la Roma in finale.
Oggi sospendono i campionati per 15 giorni anche in serie B per far giocare due partite in quindici giorni ad una squadra composta di 22 giocatori.
Cioè ne tengono fermi più o meno mille.

In carriera ha marcato quasi tutti i migliori della sua epoca Angelillo, Lorenzi, Sivori, Altafini, Bobby Chalrton, Di Stefano e persino John Charles, al quale rendeva quasi trenta centimetri: vita dura per tutti col ‘Palletta’. Persino il grande Gento disse, mai visto un terzino così forte e veloce. Lui aveva già vinto cinque Coppe dei Campioni di fila, Losi era all’esordio in Nazionale.
Proprio li stava la sua forza, non si faceva mai impressionare.
Era sempre il Giacomo Losi di Soncino.
Anche quando strinse amicizia con il grande Alfredo Di Stefano, per lui Il Più Grande.
Ospiti nello stesso albergo prima di uno Spagna-Italia, durante il pranzo il fuoriclasse ispano-argentino chiese a Losi , cosa è che mettete voi italiani sulla pasta?

Formaggio grana gli rispose Losi, grattandogliene un po sul piatto.
La freccia bionda dopo aver assaggiato esclamò che era una delizia e come avrebbe potuto averlo.
Dammi l’indirizzo, gli rispose Losi, che te lo spedisco a Madrid.
Ne nacque una grande amicizia tra il grandissimo fuoriclasse e l’umile figlio del facchino di Soncino e onesto sfangatore della pedata italica assurto ai massimi livelli grazie all’esclusiva forza di volontà e ad una semplicità d’animo che gli permetteva di ben figurare in qualsiasi occasione. E merito anche a Di Stefano, educato fuoriclasse e giramondo.
Fatico ad immaginarmi qualcosa del genere nel calcio di oggi.

Chiuse la sua parabola con la Roma e col calcio nel 1969.
Dissapori col mago Herrera, che lo voleva a Milano quando allenava l’Inter, ma probabilmente geloso della grandezza di Losi nell’ambiente Roma, portarono alla sua esclusione dalla squadra.
Così a 34 anni smise perché , secondo lui: non potevo giocare per un’altra squadra.

Fedele al core de Roma.

Mai espulso in carriera ne ammonito , il 24 novembre 1968 a Verona contro l’Hellas, Losi era in affanno per contenere Bui e Traspedini, i due attaccanti gialloblu da 1,86m ciascuno, chiaramente in qualche modo ci riuscì, ma ad un certo punto l’arbitro scusandosi con lui tirò fuori il taccuino.
Mentre annotava il nome gli disse, mi spiace Losi devo farlo. Giusto così, rispose lui, ma sti due marcantoni in qualche modo li dovevo fermare.

Fu l’ultima partita della sua carriera in serie A, e la sua unica ammonizione.

Rimane un monumento dell’ AS Roma e, perché no del calcio italiano, nonché un’arzillo ultraottantenne che dirige una scuola calcio in cui predica valori antichi (chissà che fatica) e si occupa sempre delle cose della Roma nel cui ambiente gode sempre di grandissima considerazione.

13 commenti:

  1. Storia d'altri tempi..magari fosse attuale.Bella

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  2. Puntualizzano su Facebook:
    Paolo Bertuccio In realtà la leggenda del "mai ammonito" è un po' labile. Ai tempi di Losi non esistevano i cartellini, e l'ammonizione avveniva solo verbalmente, sicché difficilmente essa veniva registrata nei tabellini delle partite, quindi non può esserci prova del fatto che Losi non fu mai ammonito prima di quella partita del 1968.

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  3. Vero, non esistevano. Infatti quel giorno l'arvitro non estrasse il cartellino ma annotò il nome di Losi sul taccuino. I cartellini arriveranno nel 1970
    L'ammonizione era verbale in termini di avvisare il giocatore ma l'arbitro annotava il provvedimento sul taccuino il cui contenuto venica poi messo a referto. Quindi imossibile che non sia vero.
    Non compariva nei tabellini dei giornali, questo è vero ma tutto era registrato.
    Gli inglesi ancora oggi usano il termine booking (scrivere sul libretto) per indicare l'ammonizione. Se ci finivi due volte uscivi, come adesso.
    Il cartellino è solamente un mezzo visibile per notificare un provvedimento, ammonizione o espulsione che sia, che esisteva anche prima.

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  4. Occhio cazzoni!!!! Non mettete in discussione il gallo su questi argomenti. Calcio, Georgie fame, Manfred Mann, Sergio Caputo e storie della piccola provincia sono il suo pane. Quindi, tutti sull'attenti. Giusto?

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    1. Giusto! Il Gallo non si discute PUNTO.
      A chi lo discute lo annotiamo sul taccuino senza ammonirlo,per ora..
      Ma a chi gli trova ancora da dire sono legnate..cazzoni!
      C

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  5. Il tizio vuol fare il sapientone.
    Ammonizioni ed espulsioni esistono da ben prima del 1970. Sicuramente risultano da ogni referto di ogni partita. Sicuro ci saran stati episodi siscutibili tipo il gol dato al Bologna nel '25 contro il Genoa a Torino, ma se Losi dice che non era mai stato ammonito prima di quel giorno lo saprà, perché dovrebbe contar balle a ottant'anni. I

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  6. O no? Tenuto conto della sua proverbiale correttezza.

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  7. Viene da piangere a vedere questi qui, adesso. Boh... L'ultimo rappresentante della correttezza è intelligenza chi è stato? Damiano Tommasi?

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    1. Qualcuno c'era di quella genarazione. Magari qualcuno c'è ancora, non saprei, non seguo quasi più. Mi sembra diventato un contesto in cui la coglionaggine è ormai un requisito primario.

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  8. https://www.youtube.com/watch?v=n00tQUZ83mg

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  9. Gallopedia. Hats off

    Charlie

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