Riprendo l'articolo che ho scritto sabato nelle pagine di "Alias", supplemento a "Il Manifesto".
Nel momento in cui la scena mod, nei primi anni Sessanta, prese vigore, aumentò di numero e divenne un evento mediatico, grazie alla luce riflessa della Beatlemania che esplodeva ovunque in Gran Bretagna (e non solo), si avvertì la necessità di dare ai giovani in parka e scooter qualcosa in più da acquistare oltre a vestiti e oscuri dischi di jazz e rhythm and blues.
Si parla di centinaia di migliaia di potenziali acquirenti, abituati ad applaudire band che ripropongono classici della Tamla Motown e della black music più ballabile, da Georgie Fame a Cliff Bennet and the Rebel Rousers. Ci vuole anche qualcuno che componga nuovi brani, più in linea con i gusti dei tempi, sull'onda di Beatles e Rolling Stones.
Pete Meaden taglia i capelli e riveste con fogge mod gli Who, gli cambia addirittura nome in High Numbers e li lancia nella scena. Gli Small Faces sono già mod del West End e fanno meno fatica a indossare le vesti della perfetta mod band. Entrambi i gruppi suonano cover rhythm and blues, adorano James Brown, sono coetanei dei loro fan e ne incarnano (Who in particolare) l'urgenza adolescenziale, mista a una dose di viole
nza, eccitazione e teppismo, mutuati dall'abuso di amfetamine.
Gli Action si muovono su coordinate simili.
The Boys with Sandra Barry.
Formatisi nel 1963 con il nome di The Boys realizzano il 45 "It ain't fair"/I want you" nel novembre del 1964, due brani composti dal leader Reg King ,di stampo Beatlesiano (anche se “I want you” ha un originale e inusuale ritmo ska).
Erano apparsi anche su un 45 giri pochi mesi prima come backing band della cantante pop beat Sandra Barry con i disimpegnati e frizzanti “Really gonna shake” (di cui esiste anche un video) e “When we get married”.
Nel 1965 la formazione si stabilizza e cambia il nome in The Action, molto vicino al concetto tipicamente mod di vivacità, impulsività, giovanilismo.
Arriva il chitarrista Pete Watson che si affianca a Alan "Bam" King (chitarra), Reg King (tra le migliori voci della scena inglese dell'epoca, potente, piena, “nera”), Mike Evans (basso) e Roger Powell (batteria) e la band dal 6 giugno 1965 a Dereham nel Norfolk al Tavern Club inizia il suo giro di concerti con il nuovo nome.
Arrivano al Cavern a Liverpool, al londinese Marquee, al futuro tempio del Northern Soul, il Twisted Wheel di Manchester.
Dividono il palco con future star, David Jones non ancora David Bowie, con i Birds di Ron Wood, Brian Auger, Who, Small Faces, Move, gli Herd di Peter Frampton, Manfred Mann, gli Steampacket di Rod Stewart, con Brian Auger, Julie Driscoll, Creation, i The Syn con i prossimi Yes, gli Episode Six di Ian Gillan.
Sono parte di una scena esplosiva, piena di talento e talenti ancora da sbocciare.
Gli Action trovano un inaspettato appoggio con l'arrivo di, nientemeno che, George Martin, già da anni il “quinto” Beatles che produce una serie di singoli di pregevole fattura, purtroppo mai accarezzati dal successo.
Dalla loro parte anche una ricercatezza estetica inappuntabile che ne risalta l'immagine, vicina all'avanguardia mod, mai banale, sempre elegante e raffinata.
Ci provano da subito, a fine 1965, con una personale versione del classico rhythm and blues “Land of thousand dances” di Wilson Pickett con la deliziosa ballata “In my lonely room” sul retro.
Nemmeno la pur strepitosa cover di “I'll keep on holdin on” delle Marvelettes di qualche mese dopo con un altrettanto vigorosa “Hey Sha Lo Ney” di Mickey Lee Lane dei primi mesi del 1966 e un nuovo omaggio estivo alla black music con “Baby, you've got it” di Maurice & the Radiants e “Since I lost my baby” dei Temptations danno i frutti sperati.
Probabilmente è troppo tardi, gli umori psichedelici sono già nell'aria, la musica cambia di settimana in settimana e affidarsi al pur buon vecchio rhythm and blues non paga più.
“Il nostro è rhythm and blues senza il blues. Una specie di rhythm and soul” (Reg King).
Corrono ai ripari con un singolo finalmente autografo pubblicato nel febbraio 1967.
Il risultato è eccellente: “Never ever” e “Twenty four hour” sono al passo con i tempi, melodici, immediatamente memorizzabili, ritmati, arrangiati alla perfezione, con fiati e cori raffinati.
E' giugno 1967, i Beatles sono appena usciti con “Sgt Peppers”, Jimi Hendrix ha già pubblicato “Hey Joe”, “Purple haze” e l'esordio a 33 giri “Are you experienced”, anche i Cream sono in giro da un po', gli Who lavorano già alle mini opere rock.
Gli Action arrivano con il quinto singolo, la bellissima “Shadows and reflections” (già uscita per mano degli oscuri Lownly Crowde poco tempo prima) dall'incedere alla Kinks con un gusto psichedelico e un grande riff di fiati.
Anche “Something has hit me” ha caratteristiche simili con modalità compositive e arrangiamenti elaborati. Ma ancora una volta il mondo musicale si è ormai spostato altrove, nuove idee si fanno ogni giorno strada, la creatività esplode ovunque, escono capolavori a ritmo serrato, il rock sta diventando/è diventato adulto, da fenomeno adolescenziale e innocuo a pur e propria arte.
Testi impegnati e visionari, citazioni letterarie, sperimentazioni sonore apparentemente impossibili fino a pochi mesi prima. Ci vuole ben altro per impressionare e conquistare il cuore degli appassionati.
L'ultimo singolo con due cover , “Harlem shuffle” di Bob&Earl e “Wasn't it you” di Petula Clark, sono più che fuori tempo massimo.
La band perde il contratto con la Parlphone e l'ala protettrice di George Martin, prova ad autogestirsi e si mette al lavoro per la realizzazione di un album che non vedrà mai la luce e sarà pubblicato solo nel 1995 con il titolo “Rolled Gold”.
Reg King, anima della band, lascia nel 1967, il resto della band forma i Mighty Baby ma, nonostante l'adesione a sonorità finalmente al passo con i tempi (psichedelia, folk, una pionieristica forma di prog in stile Traffic), troverà scarso successo.
La critica sarà benevola, le opportunità non mancheranno (la partecipazione al Festival dell'Isola di Wight del 1970), la musica prodotta nei due album è creativa, stimolante a tratti travolgente.
Nel 1970 avviene un fatto perlomeno curioso, ovvero l'adesione alla corrente religiosa Sufi di gran parte della band che influenzerà le tematiche e parzialmente la musica del secondo e conclusivo album della breve carriera “A jug of love” del 1971, poco prima dello scioglimento.
Successivamente Alan King troverà un discreto successo con la band pub rock degli Ace, Martin Stone si perde in mille altre avventure (tra cui una breve militanza nei 101ers di Joe Strummer e a fianco di Marianne Faithfull dal vivo).
Nel frattempo Reg King dedica tre anni alla realizzazione del suo (unico e omonimo) album solista, pubblicato nel 1971.
Ad aiutarlo alcuni ex membri degli Action e nomi di primo piano della scena rock britannica come Steve Winwood, Mick Taylor (ai tempi con gli Stones) e Brian Auger. Un lavoro di di grande pregio (recentemente ristampato dopo decenni di oblìo), tipicamente figlio dell'epoca, tra rock blues, soul rock, tardi Small Faces, Humble Pie, Traffic con la sua voce, a metà tra Rod Stewart e Steve Marriott, matura, espressiva, potente.
Non ne scaturirà nulla di buono e anche lui sparirà dalle scena che conta. La band si è riunita nel 2000 (suonando anche con Phil Collins) per sporadici concerti.
Reg King ci ha lasciati nel 2010.
“La mia band preferita, la preferita in assoluto. Negli anni 60 andavo al Marquee Club e una sera li ho scoperti. Andavo a vederli ogni volta in cui suonavano.
Poi li ho conosciuti.
Ho suonato con loro, si sono riformati e io ho suonato con loro al 100 club. Fu un sogno diventato realtà. Essere sul palco a suonare tutte le canzoni che sentivo quando ero un teenager." (Phil Collins).
"Ritengo che Reggie King sia uno dei migliori cantanti soul bianchi. In un certo senso la sua voce ricca e morbida suona molto più naturale di quella di Marriott". (Paul Weller)
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