La storia del rock ci ha abituati a leggende, dicerie, vicende epiche o incredibili che si sono tramandate nel tempo, spesso arricchite da ulteriori (finti) particolari dagli stessi interessati o da chi riportava la notizia.
Il famoso pipistrello addentato sul palco da Ozzy Osbourne, le ceneri del padre aspirate con il naso da Keith Richards, la consueta “morte” di Paul McCartney nel 1966, prontamente sostituito da un sosia mancino, polistrumentista, raffinato ed eccezionale compositore e altre infinite storie di sesso, droga e rock'n'roll. In questa sede parliamo di una delle più grottesche e gustose.
Partendo da un'annotazione importante.
Negli anni Settanta, quando il rock non aveva ancora compiuto vent'anni, l'editoria relativa era ancora un fenomeno pionieristico.
Libri sui gruppi (che speso avevano avuto un'attività ancora limitata) erano molto rari, le stesse riviste specializzate talvolta molto imprecise e poco approfondite.
Soprattutto l'Italia era ancora un luogo molto lontano dal fulcro degli eventi, Inghilterra e Stati Uniti.
Una periferia musicale in cui l'interesse e la conoscenza per il mondo del rock era comunque molto alto e anche la produzione nostrana incominciava ad essere a livelli più che dignitosi.
Per supplire alla mancanza di informazioni ci si arrangiava con quello che si poteva.
I Pink Floyd erano già parecchio seguiti dalle nostre parti, un gruppo di culto per i fan più accaniti ma anche un nome che arrivava agevolmente in alto nelle classifiche (non a caso dopo cinquant'anni “The dark side of the moon” continua a stazionare imperterrito ogni fine anno tra i primi cento o anche cinquanta posti tra i più venduti).
Dopo gli inizi caratterizzati dalla follìa geniale di Syd Barrett, avevano intrapreso strade più cerebrali, mantenendo uno stretto legame con la sperimentazione ma aprendosi anche a sonorità più dilatate e a momenti fruibili e meno ostici.
Avevano suonato nel 1968 al “Piper” di Roma, ancora semi sconosciuti e nel 1971 nell'insolita Brescia.
Sempre lo stesso anno si erano esibiti, senza pubblico, per una registrazione nell'Anfiteatro romano di Pompei, concerto da cui venne tratto il film musicale “Live at Pompei”, uscito nelle sale nel 1974.
Ricordo personalmente che alla proiezione della pellicola, qualche anno dopo, molti spettatori evitavano di guardare le immagini, chiudendo gli occhi, per assaporare meglio il fluire della musica e immergersi nelle atmosfere avvolgenti del suono, ascoltato con l'impianto di un cinema dai volumi ben più alti di quello di uno stereo casalingo.
A metà degli anni Settanta uscirono, su fogli ciclostilati realizzati da appassionati, le traduzioni (come vedremo, abbastanza approssimative) di alcuni testi del gruppo.
Nel settembre del 1978 la prestigiosa casa editrice Arcana pubblica “la prima raccolta italiana ufficiale di tutti i testi dei Pink Floyd, con traduzione a fronte”.
Si va dall'esordio del 1967, “The piper at the gates of dawn” al recente “Animals” del gennaio 1977 (il successivo “The wall” sarà pubblicato nel 1979).
A questo punto incomincia la nostra storia.
Nel 1971 era uscito il sesto album in studio dei Pink Floyd, “Meddle”, accolto bene dalla critica ma che poi nel corso della storia della band, ricca di capolavori e grandi exploit artistici, è retrocesso nell'ipotetica classifica dei loro migliori episodi.
Anche perché contiene ben due tra i brani che anche i fan più fedeli al gruppo ritengono tra i peggiori della loro storia. Il primo è “Seamus”, un breve blues acustico “cantato” da un cane! E' Seamus, il cane di Steve Marriott degli Small Faces (che, ironicamente, lo affidava spesso al loro ex chitarrista Syd Barrett, quando era impegnato in concerto) che ulula sulle note della chitarra.
Lo strazio dura per fortuna solo un paio di minuti.
Subito dopo parte “San Tropez” (pure il titolo è sbagliato), ispirato alla (quasi) omonima località balneare francese.
Il brano è uno swing scanzonato e gradevole senza alcuna pretesa, composto e cantato da Roger Waters, della cui presenza si poteva facilmente fare a meno.
E' proprio da questo brano che si muove la vicenda. La traduzione, evidentemente “a orecchio”, del testo, finita nel suddetto libro, viene estrapolata dai famosi fogli ciclostilati, e riportato il (presunto) verso “I hear your soft voice calling to me / making a date for Rita Pavone” ovvero “Odo la tua voce morbida che mi chiama per fissare un appuntamento con Rita Pavone”.
Effettivamente con questo testo sotto gli occhi, all'ascolto del brano sembra veramente che il brano si chiuda con la parola Rita Pavone, pronunciato “Rita Pavfòn” (peraltro difficilmente un anglosassone lo pronuncerebbe in quel modo, più probabilmente direbbe “Rita Pavoni”).
In mancanza di altre fonti e con l'autorevolezza di un libro (la traduzione è firmata Valter Binaghi, redattore della rivista “Re Nudo”, allora ventenne) la notizia passò per veritiera. In realtà il testo, si scoprì poco tempo dopo, dice “I hear your soft voice calling to me / Making a date later by phone” ovvero “Odo la tua voce morbida che mi chiama per fissare un appuntamento più tardi al telefono”. Niente omaggio alla nostra artista, da parte della grande band inglese.
Ma Rita Pavone non sembra sentirci.
Forse per vanagloria o per attirare l'attenzione su di sé dichiara pubblicamente:
“Sì, sono io quella Rita Pavone che i Pink Floyd cantano nel loro brano 'San Tropez' e ne sono modestamente molto orgogliosa.
Ho conosciuto il gruppo nel 1976 durante un mio spettacolo in Francia. Loro si trovavano in sala e ricordo che applaudirono con molto calore durante la mia esibizione”.
Particolare un po' improbabile considerando che trascorsero otto mesi in studio di registrazione quell'anno per la realizzazione di “Animals” (uscito nel gennaio 1977) e che, come un po' tutti i gruppi, non è che andassero in vacanza o a vedere i concerti insieme in giro per l'Europa.
Nella sua autobiografia del 1997, “Nel mio 'piccolo” rimarca: “Sulla Costa Azzurra durante la tournée estiva del '73, mi dissero che tra il pubblico in sala c'erano i Pink Floyd, a cui non devo essere affatto dispiaciuta come artista se anni dopo, nel brano 'Saint Tropez' del loro 33 giri 'Meddle', arrivarono a cantarmi in una loro canzone."
Il problema è che Rita fa un po' di confusione.
Probabilmente ricorda male (ma il tempo per una verifica c'era e poteva evitare una magra figura) o forse ha reputato che l'occasione fosse buona per fare parlare del libro, in un periodo in cui il successo era un ricordo lontano.
L'album “Meddle” in cui è inclusa “San Tropez” fu pubblicato il 5 novembre del 1971. Il che fa apparire abbastanza improbabile la ricostruzione della Pavone che parla una prima volta del 1976 e la successiva del 1973. I Pink Floyd fecero un mini tour in Francia ma nel 1974. Probabilmente per fugare ogni dubbio Rita Pavone aggiunse pure, in interviste successive: "Non nego che in seguito la canzone sia stata reincisa e proposta con un’altra versione in cui non compariva più il mio nome".
Nel 2005 il giornalista Claudio Zambini intervista il batterista Nick Mason: "Una curiosità: a chi è venuta l'idea di citare Rita Pavone nel testo di "San Tropez"?". “Oh, suppongo a Roger: la canzone era stata composta mentre eravamo in tour, a Saint Tropez. Devo ammettere che dovrei dare un'occhiata al testo perché non ricordavo proprio questo particolare: non saprei dirti per quale motivo ha inserito il suo nome nel pezzo, dovresti chiederlo a lui."
A suggellare la vicenda ci pensò però proprio una risposta di Roger Waters, a precisa domanda di un temerario giornalista italiano (il bassista non è mai stato particolarmente tenero con la stampa):
Who the hell is Rita Pavone? (chi diavolo è Rita Pavone?).
La verità sembra piuttosto evidente e palese ma le leggende e i misteri non sono fatti per essere risolti o svelati.
Esisterà sempre qualcuno che proverà a portare avanti la storia.
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