L'amico SOULFUL JULES, abituale frequentatore, per motivi di lavoro, dell'ex Urss, ci introduce nel clima di alcune zone, tristemente famose in questi giorni.
Ci aiuta a capire e ad approfondire, al di fuori di divisioni ideologiche, polarizzazioni, supposizioni.
Le precedenti puntate di "Tales from ex Urss" sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/Tales%20from%20Ex%20Urss
Russia. Febbraio 2023
PARTE #7 - ULTIMA PUNTATA
“Io arrivo da Mosca. Ferramenta per mobili.”
“E com’è lì adesso?”
“Mah, tranquillo direi. In Ucraina un po’ meno. Ma continuano a comprare.”
“Ma scusa se ti chiedo, ma tu che magari in quei posti ci vai, che senti cosa dice la gente, chi ha ragione?”
Chi ha ragione.
È una delle domande più gettonate, come se fossi il giudice che legge la sentenza, nero su bianco.
Giusto e sbagliato.
Come se lo sapessi davvero.
Certe volte faccio la supercazzola, i mille distinguo, perché mi sta sulle palle tutta ‘sta semplificazione e se uno è filo-russo difendo il punto di vista degli ucraini, se uno è schierato con Zelenskij faccio presente che questa guerra è iniziata nel 2014 con un colpo di stato sostenuto dagli americani.
Poi capitano dei momenti come oggi, due giorni che non dormo e sono senza freni, i pensieri scorrono veloci, fai fatica a starci dietro, a modellarli, ti partono che non sembrano neanche tuoi e non mi pare vero di fare un po’ di show, l’affabulatore, il narratore che ti mostra e ti racconta.
Show AND Tell.
Sono le sette di mattina, in parte a me uno sconosciuto, non so neanche come si chiama, e gli racconto di una sera a Kiev, nel dicembre del 2018.
Ero a cena con Gennadij, un cliente originario del Donbass, in un ristorante tipico ucraino: al centro della sala forno aperto con cappa in pietra bianca e fiori rossi e gialli stilizzati.
Pareti addobbate con sciabole incrociate, dipinti a olio con campi di grano, mensole di legno piene di vasellame e piatti decorati. Eravamo seduti sotto una specie di pergola di tronchi, col tetto di paglia che ricordava quello di una stalla o di una capanna di contadini.
Il personale vestiva abiti tradizionali.
I ragazzi indossavano camicioni bianchi di lino grezzo, senza colletto, l’apertura al centro ornata di ricami colorati, una fascia rossa annodata in vita.
Sotto portavano pantaloni larghi e scuri.
Le colleghe avevano vestiti lunghi ricamati sulla scollatura, sul petto e sull’orlo delle maniche, corpetti e grembiuli verdi o rossi e in testa una ghirlanda di stoffa e fiori.
Abbigliamento comodo e pratico per il lavoro in campagna, il servizio militare e il ballo.
A tavola eravamo una decina: Gennadij, i suoi collaboratori e dei fornitori italiani, tra questi ultimi io ero l’unico che parlava russo. Accanto a me c’era un triestino, Sandro, cinquant’anni ben portati, alto, fisico asciutto, decisamente un bell’uomo.
Era filo-russo e non ne faceva mistero.
Lo ero stato anch’io nel 2014, dopo il Maidan.
Poi mi ero stancato di sostenere una delle due versioni.
Più avevo a che fare con la gente e più mi accorgevo che ogni esistenza aveva la sua storia, ognuno aveva un vissuto, un punto di vista diverso. C’erano decine, centinaia di versioni, la realtà è complessa e sfaccettata.
Secondo Carrère, nel suo romanzo Limonov, questa cosa che la realtà è complessa è un po’ il refrain di quelli che difendono posizioni insostenibili, spesso e volentieri di quelli di destra.
Eppure è così, lo sa anche Carrère, ne sono convinto.
Nelle settimane successive alla cacciata del presidente filo-russo Janukovič, nei telegiornali o nei talk-show in Russia parlavano sempre dei nazisti ucraini - un po’ quello che fanno da un annetto a questa parte - e per un periodo mi ero convinto che fossero tutti seguaci di Hitler.
Poi, quando ero tornato in Ucraina qualche mese dopo la rivolta di febbraio, mi ero reso conto che la gente era la stessa di prima, per le strade manco l’ombra di svastiche o croci celtiche.
In tutti i miei viaggi non avevo incontrato neanche un nazista.
Forse uno, Ruslan, un esaltato di Rivne.
Avevo fatto appena in tempo ad accorgermene che era morto di tumore.
Sandro di Trieste non aveva cambiato idea, era rimasto ancorato alle sue convinzioni e quella sera a tavola con Gennadij ne parlava apertamente, usando me come interprete.
Era un tipo equilibrato, Gennadij.
Il capoccione rasato e lucido, l’espressione serena. Non alzava la voce coi dipendenti, non increspava le ciglia, sorrideva spesso.
Sembrava un monaco buddista.
Raccontava di quando, nel giugno 2014, gli avevano bombardato lo show-room aperto da poco a Doneck, che si sentiva ancora l’odore di nuovo ed era tutto pulito e ordinato, con la boiserie in rovere naturale, come andava di moda allora.
Era una giornata calda di metà giugno, verso sera, che l’esercito di Kiev aveva preso a tirare sui suoi capannoni.
Forse era stato un errore perché poco distante da loro erano dislocate le milizie separatiste o forse ce l’avevano proprio con la sua azienda.
Era stato un mezzo miracolo che non ci fosse nessuno dentro allo show-room. I collaboratori erano in magazzino e lui era appena uscito per tornare dalla sua famiglia.
Quando aveva visto il fumo alzarsi dal tetto si era precipitato in auto, era passato per casa, aveva caricato la moglie e la figlia, preso lo stretto necessario e aveva guidato fino a Kiev senza fermarsi.
Sandro aveva ascoltato quello che gli avevo tradotto e mi aveva obbligato a domandargli: “Chi ha ragione?”
Gennadij aveva sorriso, come se non avesse capito e aveva continuato a parlare.
La situazione nel Donbass si era cristallizzata in una guerra a bassa intensità, quattro o cinque morti al giorno, tutti i giorni, la gente si era abituata, i suoi parenti abitavano ancora lì e ogni tanto li andava a trovare. C’era tornato pochi mesi prima e in occasione di quella visita gli era venuta voglia di rivedere la sua azienda.
Si era avvicinato al terreno, ora era sotto il controllo delle milizie separatiste il perimetro recintato con del filo spinato.
Un soldato lo aveva interrogato con fare aggressivo, cosa stava facendo, dove voleva andare?
Lui gli aveva parlato con deferenza, gli aveva spiegato che una volta quei capannoni erano suoi.
Aveva chiesto se fosse possibile dare un’occhiata, per vedere cosa c’era adesso al posto dei pannelli in truciolare e MDF, delle cerniere e guide per cassetti.
Il soldato ci aveva pensato un po’ su, aveva parlato con un superiore e poi lo aveva accompagnato all’interno.
La sua azienda era diventata un ospedale militare.
Adagiate sopra le scaffalature del magazzino, dove una volta c’erano pallet e scatole di cartone, ora c’erano le brande, disposte in verticale.
E su quelle brande erano distesi dei giovani, sotto i trent’anni, se ne stavano in silenzio, chi cercava di dormire, chi leggeva un libro o guardava lo schermo del telefono.
Non si lamentavano quei ragazzi, tanti erano appena maggiorenni, avevano l’età di sua figlia, probabilmente quel giorno in cui era scappato da Doneck, quel giorno di giugno, caldo e luminoso, erano ancora dei ragazzini in canotta e pantaloncini che giocavano per strada e si rincorrevano in bici. Lui aveva avuto modo di rifarsi una vita, di spostare l’azienda e trasferire i dipendenti a Kiev, di ricominciare.
Quei ragazzi invece non avevano avuto un’altra possibilità, erano rimasti lì, in quella terra pregna di odio per un nemico che fino a poco prima era stato un parente, un compagno di scuola o un vicino.
“Chi ha ragione?” aveva ripetuto Gennadij, allargando le braccia.
Aveva sorriso, alzando le sopracciglia, come a dire:
“Che domanda del cazzo, amico mio”.
Ho imparato molto dal tuo post. Grazie per aver condiviso le tue conoscenze!
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