martedì, ottobre 10, 2023
Russia. Febbraio 2023 #3
L'amico SOULFUL JULES, abituale frequentatore, per motivi di lavoro, dell'ex Urss, ci introduce nel clima di alcune zone, tristemente famose in questi giorni.
Ci aiuta a capire e ad approfondire, al di fuori di divisioni ideologiche, polarizzazioni, supposizioni.
Le precedenti puntate di "Tales from ex Urss" sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/Tales%20from%20Ex%20Urss
PARTE #3
Rientrato in albergo accendo la tv e faccio un po’ di addominali prima di cena.
Al telegiornale parlano solo di guerra, vorrei cambiare canale ma devo finire gli esercizi e così rimango bloccato sulla moquette mentre scorrono le immagini dei soldati inginocchiati nelle trincee scavate in qualche bosco del Donbass, le pareti fortificate con tronchi di abeti, le tettoie mezze sepolte dalla neve e dagli aghi di pino.
Il giornalista magnifica gli armamenti in dotazione all’esercito russo e in effetti i fucili sono lucidi e sottili, gli elmetti resistenti ed ergonomici, le attrezzature all’avanguardia ma a parte questo non c’è nessuna differenza con le foto della prima guerra mondiale che ho visto prima al museo.
Il modo di combattere non è cambiato rispetto al secolo scorso, ragazzi di vent’anni o poco più che si fronteggiano per settimane, mesi, in attesa che arrivi la primavera, il terreno si compatti e arrivi l’ordine di assaltare i fossati a pochi metri di distanza dove sono rannicchiati altri ragazzi di vent’anni, e parlano tutti la stessa lingua o quasi, riescono a guardarsi nell’iride azzurra prima di ammazzarsi.
Lunedì mattina mi sveglio che in tv mostrano intere città rase al suolo.
Quartieri ridotti in macerie, grattacieli accartocciati su sé stessi, cumuli di cemento sbriciolato.
Non siamo in Ucraina, nella notte c’è stato un terremoto fortissimo in Turchia, nella parte meridionale, pensare che ci sono passato l’altro ieri.
Per la verità l’epicentro del sisma è abbastanza distante dalla capitale ma adesso l’aeroporto principale è preso d’assalto da migliaia di persone che vogliono raggiungere le zone disastrate per dare una mano, altri non riescono a mettersi in contatto con amici e parenti e stanno andando a cercarli. Destini e casualità che passano e si intrecciano per lo stesso punto.
Dopo colazione passa a prendermi Ol’ga, una ragazza poco più giovane di me, sempre sorridente, gli occhi grandi e verdi sul viso pienotto, la fronte alta, i capelli lisci pettinati all’indietro.
Attraversiamo Mosca per raggiungere un cliente che ha la fabbrica a sud, in periferia. Non c’è tanto traffico, stanno tutti andando nella direzione opposta.
Passiamo accanto allo stadio dello Spartàk, una delle squadre di calcio della capitale, storicamente legata ai sindacati, che poi fai fatica a capire chi è che tutelava chi, da che cosa.
Stavano tutti dalla stessa parte, lo stato come unico datore di lavoro. Osservo la statua del gladiatore che dà il nome al club, un monumento in bronzo alto almeno venti metri, e ascolto le novità di Ol’ga. Probabilmente la figlia a settembre andrà a studiare in Cina, a Harbin, ma ancora non è deciso, la ragazza sta cercando di capire se ci sono i corsi di marketing che le interessano, forse sarebbe meglio fare il primo anno a Mosca, mettersi a posto con gli esami più difficili e poi andare all’estero.
Pensieri, decisioni da prendere.
“Una volta sceglievi la scuola vicino a casa ed eri a posto, adesso è un casino.” commento pensando ai miei figli.
Tempo pieno o mezza giornata alle elementari, indirizzo musicale o linguistico alle medie, a piedi o in auto.
E quella di matematica che forse va in pensione, la prof di inglese non è madrelingua, gli episodi di bullismo sui giornali, tanti stranieri in quell’istituto che non è per essere razzisti ma sai com’è, se non capiscono l’italiano poi la classe resta indietro col programma, vanno alle superiori che non sanno niente e sono penalizzati e all’università fan fatica senza il metodo di studio. Olga libera una risata cristallina, da massaia che le ha viste tutte e non ha neanche quarant’anni.
“Io ho studiato che c’era ancora l’Urss, avevo otto anni quando è crollato.”
“E ti rendevi conto di quello che succedeva?”
“Sì, certo. Prima non avevamo molto ma eravamo tutti uguali, non c’erano grandi differenze. Almeno dove stavo io, in provincia, fuori Mosca. Poi invece è diventato tutto più triste, più grigio. Non c’erano più i pionery, i boy-scout sovietici, bisognava pagare per qualsiasi cosa e i miei non ricevevano più lo stipendio.”
Dice che i genitori lavoravano in una fabbrica di batterie, per i camion o i trattori, roba così.
Era una fabbrica grande, più di cinquemila dipendenti e i suoi avevano passato lì tutta la loro vita, si erano conosciuti lì, non sapevano fare altro ed erano rimasti anche quando lo stabilimento era stato privatizzato. Ma non li pagavano quasi mai e se portavano a casa lo stipendio bastava sì e no una settimana, i prezzi erano schizzati.
“Per fortuna ci aiutava mia sorella.” dice con uno sguardo furbetto.
E ogni volta mi tocca chiedere, che non so se sia giusto o meno fare mille domande con il cellulare in mano e pigiare sul tastierino della sezione note mentre Ol’ga mi racconta le storie della sua famiglia. Forse ha capito e con un sorriso che nasconde un po’ di imbarazzo mi spiega: “Contrabbando. Biancheria, calze, collanine, shampoo, creme, tutto quello che qua non si trovava.”
La roba arrivava dalla Polonia. Sua sorella partiva, stava via delle settimane, poi tornava con le valigie, e i genitori le davano una mano a piazzare la merce.
“C’abbiamo vissuto per qualche anno con i saponi europei.”
Passiamo accanto a un cilindro gigante di metallo opacizzato, inclinato su un basamento di acciaio: lo Snežkom.
Una struttura dove si può sciare o andare in slittino tutto l’anno. Dicono che tra un po’ lo chiudono, troppo costosa la gestione.
“Come va per il resto?” domando sovrappensiero, tanto per dire qualcosa.
“Hanno preso mio marito.” dice con un filo di voce, quasi sussurrando.
“Eh?”
“Hanno arruolato mio marito.”
La guardo mentre scandisce lentamente le parole, senza sentimento, gli occhi fissi sulla strada.
Rispondo con un “Ah” con la bocca arrotondata, come certi angioletti di porcellana, col cero in mano. Non me l’aspettavo, ne avevamo parlato a settembre, l’ultima volta che ci eravamo visti, il rischio c’era ma il compagno va per i cinquanta, difficile lo richiamassero sotto le armi.
“Come stai?”
“Adesso ok ma i primi giorni è stato uno shock fortissimo. Piangevo e basta. Poi per fortuna la sua compagnia è rimasta in Russia, sono stati aggregati a un reparto medico, a Belgorod, al confine con l’Ucraina.”
Fuori non fa troppo freddo, le betulle spoglie con i rami sottili e bagnati ricordano quegli anziani che non si rassegnano al passare del tempo e vanno in giro con ciuffetti di capelli tinti di un marrone che in natura non esiste.
Ol’ga tira su con il naso e deglutisce, non saprei se per l’emozione o per via del riscaldamento, poi continua:
“Il giorno della mobilitazione ci siamo svegliati, abbiamo visto Putin che parlava alla tv mentre facevamo colazione. Poi mio marito è uscito per andare al lavoro, fuori dalla porta c’era uno in divisa, del distretto militare, gli ha subito dato la cartolina con la convocazione. Pensavo non lo avrei più rivisto.” Mi pare che gli occhi siano meno lucidi, la voce più ferma quando dice.
“Lui aiuta la gente, questo mi consola. Ci ho pensato. Siamo stati fortunati, c’è una ragazza che conosco, hanno chiamato anche suo marito e adesso sono due settimane che non riesce a mettersi in contatto con lui.”
L’azienda dove abbiamo appuntamento non è male.
Né grande né piccola.
I capannoni sparpagliati per il territorio delimitato dalle lastre di lamiera ondulata, il gabbiotto del guardiano non puzza da cagnone e i corridoi che ci conducono agli uffici sono abbastanza luminosi.
Ci sediamo a un tavolo con una decina di persone. Troppe. Non è possibile che abbiano tutte lo stesso potere decisionale, lo stesso grado di interesse, lo stesso livello di attenzione. Alla fine si fa solo casino e non sai con chi devi parlare, guardi l’unico che ti sta a sentire e di solito è quello che non decide niente.
In questo caso è semplice, parla sempre e soltanto Marja, una tipa coi capelli corti, t-shirt e jeans che fanno mille pieghe e onde sui fianchi larghi. Ha tutta l’anda del maschio alfa, anche nel tono di voce, secco e perentorio.
Sembra che parli per far vedere chi è che comanda e chi è che sa realmente le cose. Anni fa mi sarei messo in competizione, per non essere da meno, gli incontri diventavano dei match di tecnicismi, due millimetri di regolazione, tre decimi di tolleranza, robe così.
Col tempo ho capito che non serve a niente, anzi, indispettisci e basta. Meglio fregarsene, cederle il trono e fare le mie precisazioni quando mi lascia spazio. Afferra le tavolette dei campioni quasi con ferocia, per ispezionarli, sempre nel dubbio che sotto sotto ci sia la fregatura.
“Ma è davvero roba fatta in Italia?”
“Sì quasi tutto, le cose che non ha senso produrre da noi, come viti e perni, le facciamo in Cina o a Taiwan. Ma quel piedino lì è prodotto in Italia. Occhio alla clip, che si rovina la manicure.” dico apposta, per provocare.
“Non ho nessuna manicure!” ribatte a muso duro.
Definiti i ruoli, andiamo avanti per un’ora con Marija che fa mille osservazioni e battute con quell’energia inesauribile dei bambini iperattivi che sfiancano genitori e insegnanti con domande inutili.
Mi viene il dubbio che abbia il disturbo dell'attenzione, grande entusiasmo e poi non si conclude un cazzo. Accanto a lei c’è una bionda con la frangetta dritta che pare appena uscita dal parrucchiere, ha un naso piegato su sé stesso e la pelle butterata ma si è messa in tiro per l’incontro di oggi, indossa un paio di calze scure e una minigonna bianca, come gli stivali.
Se ne sta zitta e osserva, ogni tanto scrive qualcosa su un’agenda e non reagisce quando Marija le dà una manata sulle cosce ghignando, cosa che capita con una certa frequenza.
Prima di andare via, Ol’ga insiste per fare un saluto al titolare, Dmitrij, un tizio sulla cinquantina, i capelli corti, pettinati all’indietro, e le sopracciglia increspate che gli danno un’aria minacciosa. Lo troviamo nel suo ufficio, uno stanzone di sessanta metri quadri con la scrivania in zebrano, quella superficie striata di nero e marrone chiaro che andava di moda a Dubai negli anni novanta.
Alle sue spalle c’è una libreria stracolma di stronzate. Statuette di guerrieri cinesi, pupazzetti di stoffa, bicchierini colorati, gagliardetti, sciarpe, vasetti di roba da mangiare ancora sigillati. Pare la cameretta di un sedicenne e invece qui ci lavora il titolare di una fabbrica da cinquecento dipendenti.
Ci fa accomodare, fa servire il tè e inizia a parlare, senza chiederci niente, è sottinteso che dobbiamo ascoltare e annuire. Ha lo sguardo autoritario, la pupilla spalancata ricorda un predatore alato, se non proprio un falco o un avvoltoio, quantomeno uno sparviero. Dice che in questo periodo hanno da fare, sono impegnati con i nuovi saloni dei concessionari d’auto cinesi, stanno rimpiazzando quelli occidentali che hanno chiuso.
Poi racconta che ha fatto costruire un centro sportivo vicino alla fabbrica e che tutti i dipendenti partecipano a gare e competizioni che organizza lui di persona.
Ecco il perché di tutte le coppe e gli scudetti sulle mensole della libreria. Vorrei domandargli se ha mai guardato Fantozzi.
Mi mostra il calendario, quasi tutti i fine settimana sono segnati in rosso, per via di qualche torneo cui mi invita a partecipare. Me lo chiede almeno tre volte, le prime due dico di sì senza battere ciglio, perché non ho ben capito cosa voglia, poi quando mi domanda se gioco a calcio, basket o se preferisco fare un po’ di corsa, inizio a ritrattare: “Eh, bisogna che vediamo, sono sempre in giro per lavoro, poi la famiglia, mia moglie… he he he.”
Mi guarda impassibile, col suo occhio da gabbiano e mi racconta di quando ha invitato a un torneo di calcio un suo amico dall’Italia, Giovanni di Ancona, un rappresentante di vernici, e gli ha detto: “Adesso tu vai in mezzo al campo, io ti presento come un arbitro internazionale e dici quattro fesserie in italiano.”
Fa l’imitazione di sé stesso, con grande dignità, e poi fa la voce di Giovanni: “Malto bene, lalalalala.”
E tutti, ovviamente sbalorditi, ci sono cascati.
A un certo punto interrompe la conversazione e ci invita a seguirlo.
Esce dalla stanza e si infila per una serie di corridoi, attraversa il magazzino, sale e scende per scale di legno e metallo che rimbombano a ogni passo, il pavimento in compensato del soppalco ondeggia come i tappetoni del jumping alle giostre. Ci fa entrare in uno sgabuzzino senza finestre, le pareti rivestite da mensole piene di stivali in feltro di lana, i valenki.
Un tizio col camice verde, da tecnico di laboratorio, ne illustra le caratteristiche: vanno benissimo per i mesi freddi ma occhio all’acqua e alla neve, in quel caso meglio usarli con le galosce.
Dmitrij regala a me e a Olga un paio di scarponi ciascuno, non è roba sua ma il titolare del valenkificio gli paga l’affitto e sono in confidenza. Li fa incartare mentre penso a chi è che posso sbolognarli, pesano uno sproposito, in valigia non mi stanno e anche se ci fosse posto col cazzo che in Italia vado a fare l’aperitivo con gli scarponi del nonno Vanja.
Mentre siamo lì, entra una ragazza accompagnata da un funzionario del ministero dell’economia, o almeno così si presenta, chiede come vanno le cose, vogliono capire come se la passano le aziende fuori Mosca, che sono tre in un loculo, un Commodore 64 appoggiato sopra una panca, dei quaderni a righe con i dati contabili scritti a penna e come fai a dire che quella è un’azienda.
Al termine dell’incontro Dmitrij ci accompagna all’uscita, prima di salutarci racconta una storia:
“Quelli lì, i politici, io li conosco.” dice con la bocca piegata verso il basso, “Una volta mi hanno invitato come osservatore a una riunione col ministro dello sviluppo. Erano là che dibattevano sulle difficoltà che hanno le aziende russe a fare export. E tutti dicevano le loro fesserie. A un certo punto ho chiesto di parlare, anche se non ero accreditato, e ho detto: ‘Fateci produrre e non rompeteci le balle con le vostre scartoffie!’ Mi hanno subito spento il microfono ma poi sono venuti tutti a stringermi la mano e a dirmi che avevo ragione, anche un tizio che era stato generale del KGB.” conclude compiaciuto.
E fai fatica a capire se sono balle, fanfaronate o se è davvero andata così ma sta di fatto che quello che da noi verrebbe preso come una macchietta, qua è rispettato o temuto. L’uomo forte al comando.
In macchina alla radio trasmettono Crazy Little Thing Called Love dei Queen, per strada ci sono montagnole di neve sporca un po’ ovunque, il fumo bianco e denso delle centrali idroelettriche offusca i grattacieli in acciaio e vetro.
Passiamo un attimo in ufficio, dove mi aspetta un altro venditore, Nikolaj, salgo nella sua Mercedes, andiamo a visitare un cliente, questa volta a nord. “Come va?”
“Bene, basta che la guerra finisca presto.” risponde tra due colpi di tosse, è uno dei pochi che non è ancora passato alle sigarette elettroniche.
“Non finisce presto.”
“Chiaro che no ma almeno voglio sperarci.” sentenzia con un tono di rimprovero.
Dice che il figlio non fa più il commesso nel negozio di abbigliamento, dopo la mobilitazione le vendite sono crollate e ha perso il posto, adesso vende tabacchi e alcolici all’ingrosso.
Ripete gli stessi discorsi che mi ha fatto sei mesi fa, quando siamo andati a Brjansk, qualche aggiornamento qua e là.
“La specoperacija viene portata avanti in maniera approssimativa.”
“Eh?”
“Dovrebbero far sul serio, andarci giù pesante, mi pare che vadano troppo per il sottile.”
Martella con ostinazione, quasi con rabbia, su ogni parola, poi però si fa più ottimista:
“La cosa buona è che da tutto questo la nostra economia ne uscirà più forte. Abbiamo risorse, materie prime, conoscenze e non riusciamo a produrre niente. Io credo che tra cinque anni staremo tutti meglio.”
“E guiderai un’auto russa.”
Sorride senza dire niente.
“Come la vedi tra la gente comune?”
“Tutto ok, a parte che muoiono persone come e te. Un conto è quando ci vanno quelli che lo fanno di mestiere, altra cosa quando ci va gente senza preparazione, che fino a un mese fa lavorava in ufficio e adesso è a far la guerra. E non si capisce cosa vogliano fare, fino a dove vogliano arrivare.”
“Ma tuo figlio, che ha poco più di vent’anni, cosa dice?”
“Cosa vuoi che dica? Sai come sono i ragazzi… Stanno tutto il giorno a guardare i blog, dove parla gente che non si sa chi sia, mostrano immagini che non si capisce cosa succede e dicono che noi abbiamo invaso una nazione e uccidiamo gente.”
“Mhhh.”
“Forse in questo c’è una parte di verità,” concede magnanimo, “ma bisogna dirgli che se non fossimo andati ci avrebbero messo i missili sotto casa.”
“Ma ci parli di queste cose?”
“Ormai non si parla d’altro!” risponde spazientito. “Lui è contrario a tutto quello che è violenza.”
“I suoi amici? Non sono patrioti?”
“Siamo tutti patrioti!” ruggisce di botto, per chiudere il discorso.
“Ok, tutti amano il proprio paese. Intendo dire, sono abbastanza patrioti da fare la guerra?”
Nikolaj muove le mani sopra il volante.
Per qualche istante pare stia seguendo un flusso, come se stesse dirigendo un’orchestra, poi gesticola in maniera nervosa, forse ha cambiato spartito. Col pollice della mano destra si rigira la fede nuziale, quasi volesse levarsela. Lo osservo tormentare il tondino e gli domando: “È sempre la stessa?”
Kolja ride rumorosamente, contento di pensare ad altro.
“Sì, è quella di Pjatigorsk. Mia moglie non se ne è mai accorta.”
“O non ti ha mai detto niente.”
Per un certo periodo, più o meno quindici anni fa, Nikolaj era stato messo a seguire le vendite in alcune regioni lontano da Mosca, tipo la Siberia e il Caucaso.
In quel periodo organizzammo nello stesso week-end dei seminari a Omsk e a Pjatigorsk, due città che distano tremila chilometri l’una dall’altra, come dire Budapest e Lisbona.
Una sera a Omsk, dopo il lavoro, ci ritrovammo in un palazzone che ospitava diversi locali. Partimmo con la cena a base di spiedini al ristorante al piano terra, poi guardammo una partita di calcio al pub bavarese al terzo piano e per concludere la serata ci spostammo nel loft, che ospitava una discoteca. All’ingresso incrociammo un energumeno rasato che si teneva il volto con le mani, si tastava dei bozzi sulle guance e sulla fronte, lo sguardo confuso e impaurito.
A pochi passi, un tizio basso con i pettorali scolpiti e la maglietta attillata discuteva nervosamente con una ragazza mora. Raccattate in fretta le loro giacche in pvc dal guardaroba, si dileguarono mentre noi stavamo pagando per entrare.
Il club era piccolino, ci saranno state una cinquantina di persone e non ballava nessuno. Il tempo di prendere un drink al bancone e la pista si era animata con una hit del 1992, All That She Wants degli Ace Of Base.
She Leads A Lonely Life.
Sembrava la scena della festa ne La banda del gobbo, il film con Tomas Millian.
Le tipe avevano le zazzere cotonate come certe badanti al parco nel giorno di riposo, si muovevano in orizzontale, da destra verso sinistra, con le braccia staccate dal corpo e le mani che puntavano in direzioni opposte, sculettavano in sincronia, quasi fosse un ballo di gruppo.
Qualche bisteccone in disparte ridacchiava o faceva gesti inconsulti. Nikolaj intanto girava attorno alla pista con una ghigna da furbacchione.
Lo vidi mentre si sfilava la fede dall’anulare e se la metteva in tasca, lo seguii con lo sguardo mentre agganciava una ragazza, neanche tanto bella, e le chiese di ballare con un invito formale, tutto impettito, come a un ricevimento di gala. La tipa si girò dall’altra parte senza rispondergli.
She’s going to get you
All that she wants is another baby
She’s gone tomorrow boy
v Con la mano infilata nella tasca dove aveva riposto l’anello si avvicinò ad altre due o tre tipe, alla fine una biondina tarchiatella accettò. Mentre ero intento a registrare i successi amorosi di Nikolaj, un bestione crollò di peso sulla sedia accanto alla mia rifilandomi una spallata da cento e rotti chili che a momenti mi fece finire per terra.
Per metterlo al suo posto, provai a restituire il favore, con la velleità di uno che pesava quaranta chili in meno. Il tizio chiese subito spiegazioni con sto vocione profondo e incazzato che pareva Shrek. Raggelato dai rischi di una discussione con uno grosso e sbronzo, presi a ripetere servilmente “Prošu proščenja. Ja – italianec.” “Chiedo scusa, sono italiano.” come se il fatto di essere straniero mi giustificasse dal cercar rogna senza potermelo permettere.
Udite le mie parole, l’orco si rallegrò teneramente e iniziò a biascicare cose incomprensibili finché non mi stampò un bacio sudaticcio sulla guancia.
E la gente pensa che in Russia vai a figa.
Assieme a noi c’era anche Vasja, il ragazzo di origine bielorussa che poi è diventato il nostro referente. Osservava perplesso le tipe che si trascinavano in pista quando un omone, da dietro, gli toccò i fianchi con la punta delle dita come a dire: “Levati dalle palle, cocco, che mi copri la visuale.”
Vasja è alto uno e novanta e pesa un quintale, da bambino era gracile e aveva subito le angherie dei suoi compagni finché la madre, stanca di vederselo tornare a casa ogni giorno che frignava, lo aveva iscritto a boxe, sport che ha praticato per quindici anni a buoni livelli. Avendo tirato un po’ di pugni in vita sua, Vasja aveva capito che non era il caso di prendersela, si fece un po’ perculare dal tizio e dai suoi amici e poi chiamò tutti a raccolta: “Ragazzi, meglio che cambiamo posto.”
v La serata terminò in un’altra discoteca, dove le coppiette danzavano avvinghiate sulle note di Nothing Else Matters, la ballata dei Metallica.
Il giorno dopo prendemmo due aerei per andare nel sud, a Pjatigorsk.
Nonostante l’hangover e la stanchezza eravamo tutti ancora su di giri, ridevamo per la nottata appena trascorsa e poi, anche se era settembre, si stava bene all’aperto, c’era un’altra luce e faceva ancora caldo rispetto alla Siberia. L’unico che non se la passava bene era Nikolaj, che pareva giù di morale, anche la cicatrice sulla guancia, rimediata da ragazzino in una rissa di strada, pareva imbronciata.
Messo alle strette, Kolja vuotò il sacco: non trovava più la fede nuziale. Nella tasca dove l’aveva riposta c’era un buco, l’anello aveva ceduto alle lusinghe della forza di gravità ed era rimasto in Siberia.
Io pensavo che la faccenda avrebbe avuto qualche strascico, quantomeno un litigio in famiglia o cose del genere, e invece si risolse il giorno dopo in pochi minuti.
Davanti al nostro hotel c’era un centro commerciale con le vetrate a specchio. Al secondo piano si trovava un negozietto, una specie di bigiotteria dove Nikolaj comprò per pochi rubli un anello uguale a quello che aveva infilato a sua moglie il giorno in cui, mentendo, le aveva giurato fedeltà eterna.
Non aveva iscrizioni e probabilmente non era nemmeno d’oro, fatto sta che a tremila e passa chilometri da dove aveva acquistato la fede qualche anno prima era riuscito a trovarne una copia, se non perfetta, almeno verosimile.
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