martedì, febbraio 07, 2023

Gli ospiti internazionali al Festival di Sanremo


Riprendo l'articolo che ho scritto domenica per "Libertà".

Il Festival di Sanremo è raramente e solo occasionalmente interprete dei gusti degli italiani, in realtà un’entità a sé stante con vita propria.
Ma che contribuisce a risanare le casse esangui delle case discografiche e a ridare luce a qualche nome di cui si sente parlare solo in occasione dell’evento oltre a lanciare ogni anno qualche nome.
Per citarne alcuni esempi recenti basti pensare a Maneskin e alle coppie Mahmood Blanco e Di Martino Colapesce, che a Sanremo hanno preso il lancio verso il successo.

L’imminente edizione non promette nulla di buono, soprattutto dando un’occhiata al parterre degli ospiti che annovera un’infinita sfilza di vecchie glorie presumibilmente inserite per soddisfare i gusti di quel pubblico che non si perderà nemmeno una puntata.
Una platea molto avanti con l’età e di discutibile gusto musicale se è in attesa, con tutto il rispetto, di Albano, Peppino Di Capri, Pooh, Gino Paoli, Massimo Ranieri, artisti che hanno dato tanto alla musica italiana ma che non sono certo l’esaltazione della freschezza.

Eppure il Festival ha avuto sul palco dell’Ariston fior di eccellenze del rock, geniali protagonisti della storia musicale, inarrivabili cantanti e artisti.

In qualità di concorrenti ricordiamo Stevie Wonder in gara a fianco di Gabriella Ferri nel 1969 e gli Yardbirds di Jeff Beck con Lucio Dalla e Bobby Solo ma anche Wilson Pickett, Paul Anka, Ben E.King (quello di “Stand by me”), Cher (nel 1967).
Famosa la partecipazione di Louis Armstrong nel 1968 con “Mi va di cantare” (in un improbabile e incomprensibile italiano letto da un foglietto sistemato a terra) e che venne interrotto dal giovane conduttore Pippo Baudo che non poteva contravvenire alle rigide regole del festival.
Lo spaesato Armstrong (all’oscuro di tutto) pensava di dover suonare un normalissimo concerto e non solo tre minuti di canzone e al momento della conclusione del suo brano provò a ripartire suscitando il panico nell’organizzazione.
Altrettanto curiose le partecipazioni di Lene Lovich, proveniente dal giro new wave inglese e del Banco del Mutuo Soccorso, tra i principali esponenti della scena prog italiana oltre a quella di Yossou N Dour.
Molti i nomi del giro “nuovo rock” che non hanno resistito alla platea mediatica che concede il festival, dagli Afterhours a Marlene Kuntz, Subsonica, Statuto, La Crus, Marta Sui Tubi, Perturbazione, Bloody Beetroots, Zen Circus.

Se la lista di concorrenti “anomali” è già nutrita ancora più sorprendente quella degli ospiti. Ad esempio quando nel 1988 due ex Beatles si ritrovarono a poca distanza nella riviera ligure.
George Harrison e Paul McCartney furono infatti protagonisti del festival con la non improbabile recondita ipotesi di un incontro ed esibizione congiunta.
I rapporti tra Paul e George erano andati deteriorandosi nel tempo ma negli ultimi anni sembravano essere migliorati. Ma non bastò a farli incontrare (perlomeno non ufficialmente).
Paul salì sul palco dell’Ariston con Linda mentre George suonò la sua “When we was fab” nel dopo festival al Palarock.

Sono anni in cui arrivano nomi storici, eccellenti, di levatura mondiale. Niente meno che Whitney Houston, talento sopraffino, voce divina, destinata a una vita triste pur se coronata da un successo incredibile ma che finirà malamente in un abisso di abusi, droghe e una morte prematura.
Ma anche i Kiss, nel 1981 (pur se in collegamento da New York), gli idolatrati, al massimo del loro successo, Duran Duran nel 1985, con “Wild boys”, i Depeche Mode (nel 1986), alieni, algidi, dandy e super cool, gli Smiths nel 1987 nello spazio destinato al “nuovo rock” e ai quali viene riservato un piccolo special con tre brani in playback e un’intervista conoscitiva, i Van Halen dalle chiome fluenti nel 1981 con la loro versione hard rock di “Pretty Woman” di Roy Orbison, addirittura i metallari inglesi Saxon che si esibirono in un brano di hard rock melodico davanti a un pubblico perlomeno perplesso, Tina Turner e Bono con The Edge nel 2000.

Nel 1984 addirittura i Queen si esibiscono in playback con “Radio Ga Ga”, dimostrando che cosa significa professionismo e sapere stare su un palco, esibendosi come se fossero davanti a decine di migliaia di persone.
Freddie Mercury canta in perfetto sincrono ma con la bocca ben lontana dal microfono, giusto per non ingannare nessuno con finte mosse.
Si infila l’asta del microfono tra le gambe con gesti non lasciano spazio all’immaginazione, il fumo invade il palco, piovono fiori che rilancia in platea.
Date al pubblico ciò che il pubblico vuole.

Anche David Bowie non si fece mancare l’opportunità di passare dalle parti di Mike Bongiorno che lo presentò per il suo “Little wonder” nel 1996. Il brano finirà sul successivo album “Earthling”, non esattamente uno dei suoi capolavori.
Il magnetismo di Bowie rimase comunque inalterato, Sanremo o meno.

Uno dei momenti rimasti epici del festival è l’esibizione di Peter Gabriel, nel 1983. L’ex leader dei Genesis, passato, con la carriera solista, a una forma artistica ben diversa, molto più personale e innovativa, propone uno dei suoi maggiori successi di classifica, “Shock the monkey” librandosi nelle due esibizioni (fu ospite per due sere consecutive) con una corda/liana sul pubblico, terminando il volo su un monitor del palco.
La seconda volta però, finito il volo, cammina sulle poltrone delle prima file, riprende la liana e si schianta di schiena contro il palco.
Piaccia o meno, la sceneggiata funziona e il singolo (non esattamente un brano commerciale) finirà ai primi posti delle classifiche italiane.

Nel 1994 arrivò Elton John che si esibì con la drag queen Ru Paul nel suo classico “Don’t go breaking my heart” in versione dance prodotta dal genio di Giorgio Moroder. Ru Paul sfornò tutto il repertorio scenografico del caso che probabilmente, trent’anni dopo, nell’odierna Italia bigotta e reazionaria subirebbe gli strali di qualche politico o mezza calzetta in cerca di un minuto di popolarità.

Sicuramente un momento cult della televisione nazionalpopolare nostrana.
Pare incredibile ma arrivarono anche, nel 1998, metà dei Led Zeppelin.
Niente meno che il cantante Robert Plant e il chitarrista Jimmy Page, come sempre in playback, a presentare un brano tratto dall’album che li aveva visti ritornare insieme. Pubblico ingessato e Raimondo Vianello che li liquida con un “grazie grazie thank you”.

Nel 1981 è la volta della nuova ondata ska. Niente Madness o Specials ma i Bad Manners, guidati dal corpulento cantante Buster Bloodvessel che alla fine della loro hit “Lorraine” si tolse la tuta bianca da meccanico, rimase in mutande che alla fine abbassò leggermente lasciando intravedere le terga.
Piccolo scandalo, titoli sui giornali e il brano che arriva alle soglie dei venti singoli più venduti in Italia.

Quella del 2001 non fu un’edizione fortunata per la conduttrice Raffaella Carrà che si trovò qualche gatta da pelare di troppo.
Prima con Eminem con cui ci si premurò di concordare che i brani proposti non contenessero parole volgari e offensive (che difficilmente sarebbero state intese dal pubblico sanremese, non troppo avvezzo allo slang newyorkese) e poi con la band inglese dei Placebo.
Probabilmente ignari del contesto e con il cantante Brian Molko “su di giri” che chiude la breve esibizione tentando di rompere, molto goffamente, la chitarra, senza peraltro riuscirci.
La band se ne va dal palco a suono di “scemo scemo” e “buffoni”. La Raffa nazionale si scuserà contrita per l’accaduto.

Nel 1996 arriva addirittura il Boss, Bruce Springsteen, con la sua canzone migliore di sempre, “The ghost of Tom Joad”. Pochi minuti di chitarra acustica e voce, stretta di mano a Pippo Baudo e se ne torna nei camerini. Due presenze anche per Madonna nel 1995 (quando improvvisa qualche ringraziamento in italiano con Pippo Baudo) e nel 1998 con la stupenda “Frozen” quando invece un imbarazzato Raimondo Vianello la liquida velocemente tra gli applausi del pubblico.
E infine i Blur, introdotti da Pippo Baudo come “i nuovi Bittels” che salgono sul palco senza il chitarrista Graham Coxon, sostituito da una sua sagoma di cartone e il bassista da una controfigura.
Due anni dopo tocca ai “rivali” Oasis, arroganti e indifferenti, presentati da Fabio Fazio.

L’elenco non è completo ma sufficiente per fare comprendere come probabilmente è solo una questione di scelte (e anche di budget a disposizione, senza dubbio) per nobilitare un pizzico in più un evento così importante dalle nostre parti, invece di farlo diventare una patetica vetrina revivalistica avulsa da ogni contatto con la realtà europea e mondiale.
Ma forse è solo lo specchio della decadente Italia di oggi.

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