lunedì, marzo 07, 2022

Racconti dall'ex Urss: Ucraina - Febbraio 2022


L'amico SOULFUL JULES, abituale frequentatore, per motivi di lavoro, dell'ex Urss, ci introduce nel clima di alcune zone, tristemente famose in questi giorni.
Ci aiuta a capire e ad approfondire, al di fuori di divisioni ideologiche, polarizzazioni, supposizioni.


Febbraio 2022

Da un paio di mesi sto preparando una trasferta a Kiev.
Il primo marzo inizia la fiera del mobile KIFF, appuntamento del settore molto sentito e partecipato che mi permette oltretutto di incontrare clienti provenienti dal resto del paese, in particolare da Kharkov, L’vov, Odessa e Dnipropetrovsk.

Oltre ad una serie di incontri, sto pianificando una giornata di training con il cliente di Kiev.
Il mio referente è Maksim, un ragazzo originario di Lugansk, città nell’est del paese da otto anni congelata in una guerra quotidiana di cui non parla nessuno e di cui importa solo a chi ci vive o ci combatte.
Lugansk si trova a circa 40 km dal confine con la Russia, è stata fondata da un imprenditore britannico che nel 1795 ha iniziato la costruzione di una fabbrica metallurgica in prossimità di un insediamento di cosacchi e prende il nome dal vicino corso d’acqua Lugan.
Il campione olimpico di salto con l’asta Sergej Bubka è originario di Lugansk, che dal 2014 è diventata la Repubblica Popolare di Lugansk.
Oggi è sotto la giurisdizione dei separatisti filorussi e ogni giorno è teatro di scontri armati, sparatorie e bombardamenti da parte delle forze filogovernative di Kiev che cercano di riprendere il controllo dell’area a cui rispondono le milizie locali. Conta circa 400.000 abitanti.

Maksim vive a Kiev da una decina di anni, alcuni parenti sono rimasti a Lugansk e li sente regolarmente.
Si sono ormai abituati alla colonna sonora a base di esplosioni, scoppi e detonazioni, sirene e allarmi.
Passano giorni in cui pare sia tutto sospeso, fino al prossimo boato.
Maksim parla in russo, non credo sappia l’ucraino. E’ corpulento e bonaccione, ci sentiamo quasi ogni giorno quando sono in ufficio.
Ci siamo conosciuti a dicembre dello scorso anno, durante il mio ultimo soggiorno in città. Guida una Golf, usa un Iphone e si veste in maniera abbastanza curata, piumino leggero, jeans Calvin Klein, camicia e maglioncino.
Look casual da ufficio. Ha una moglie e due figli che sono coetanei dei miei bambini, conosce bene l’Italia e la Russia perché ha frequentato entrambi i paesi per lavoro e credo che si consideri a tutti gli effetti ucraino. Sua madre si è risposata con un italiano ed abita a Parma da diversi anni.

Il 10 febbraio ci sentiamo:
”Maks, com’è lì da voi? La fiera è confermata?”.
Mi risponde con una certa veemenza, quasi con sdegno:
“Non credere a quello che senti in tv, non ci sarà nessuna invasione! Qua è tutto tranquillo. La gente va fuori, ai concerti, nei ristoranti, al cinema. Tutto a posto”.
Convengo con lui, un’invasione militare del paese è inconcepibile. Compro un biglietto aereo, volo di andata il 28 febbraio e ritorno il 3 marzo.
Prenoto una stanza nello stesso albergo del mio primo soggiorno.

Ormai da qualche anno l’hotel Bol’shevik, così come il complesso commerciale annesso, ha cambiato nome.
Dopo le rivolte dell’euro maidan del 2014, culminate con le dimissioni del presidente filo-russo Janukovich, nel paese è stato avviato ufficialmente un accurato e metodico processo di de-comunistizzazione (“dekommunizatsja”) che ha portato alla rimozione ed alla sostituzione di buona parte dei simboli, della toponomastica e dell’iconografia che richiamano al socialismo sovietico.
Le strade sono state rinominate, i monumenti di Lenin e dei generali sovietici abbattuti e, ove possibile, i bassorilievi ripuliti da falce e martello.
Bol’shevik si è così internazionalizzato in Kosmopolìt prima per poi essere risucchiato nell’orbita del gruppo francese Mercure che fa tanto capitalismo globale: fluido e impalpabile ma pur sempre a base di metallo pregiato.
Per il resto, l’hotel è rimasto invariato con gli arredi eleganti e sobri Made In Italy delle stanze ed un uso tutto sommato attenuato del velluto nella reception e nel ristorante dove servono piatti gourmet della cucina europea e locale.

Il 13 febbraio parto per Mosca.
Mentre attendo di imbarcarmi su un volo Aeroflot, controllo il sito della Farnesina relativamente agli spostamenti in Ucraina. Dal giorno precedente sono sconsigliati viaggi nel paese a qualsiasi titolo.
Non mi preoccupo più di tanto, mancano due settimane alla partenza e le cose si sistemeranno.
Il volo per Mosca è mezzo vuoto.
I collegamenti aerei diretti tra Italia e Russia sono stati interrotti per la pandemia da marzo 2020 a giugno 2021, i viaggi sono consentiti per motivi personali o di lavoro, al momento non vengono concessi visti turistici per cui la rotta è poco trafficata.
Sono l’unico passeggero della mia fila.

Atterro in orario a Sheremetevo, il principale aeroporto della capitale, a nord di Mosca.
Da qualche anno è stato intitolato al più famoso poeta russo, Aleksandr Pushkin.
E’ curioso che uno dei massimi esponenti della cultura russa, tipo top 3 nella classifica assoluta, fosse un mulatto pronipote di un nobile di origine sub-sahariana, Abrahm Petrovich Gannibàl, rapito nella sua terra dagli ottomani e consegnato in dono allo zar Pietro Il Grande che lo fece battezzare secondo rito ortodosso nel 1705 conferendogli così il patronimico di Petrovich, figlio di Pietro.
Del resto, cosa puoi regalare ad uno zar che ha già tutto?

Prendo i bagagli e raggiungo a piedi il mio albergo, il Novotel adiacente al Terminal D.
In tv deridono “l’isteria” dei media occidentali che annunciano l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ma non è questo l’argomento principale.
Il focus è sulle olimpiadi invernali e sulla performance del team femminile di pattinaggio su ghiaccio. Tutti gli occhi sono puntati sulla giovanissima Kamila Valjeva, star nascente classe 2006, grande favorita per la medaglia d’oro della finale del 17 febbraio.
La Valjeva ha già contribuito alla vittoria dell’oro nella competizione a squadre il 7 febbraio ma è risultata positiva qualche giorno dopo a controlli antidoping effettuati a dicembre.
L’entourage della ragazza si oppone e fa ricorso. La giuria deve decidere nelle prossime ore se squalificarla o farla gareggiare in finale accogliendo il ricorso del team della ragazza che chiede contro-analisi.
L’accusa è che la Valjeva abbia usato dei farmaci per aumentare il flusso di sangue al cuore in modo da favorire la performance agonistica che le consente di effettuare un salto con quadruplo avvitamento.
E’ tra le pochissime donne al mondo in grado di compiere questa prodezza, complice la corporatura minuta da adolescente.
La difesa sostiene che la Valjeva abbia inavvertitamente bevuto dal bicchiere del nonno...

Non si sta male a Mosca.
L’atmosfera è rilassata.
I contagi e le ospedalizzazioni per covid sono molto elevati ma la gente per buona parte fa finta di niente.
Pochissimi mettono la mascherina, ancora meno quelli che la indossano correttamente.
In albergo e al ristorante gli stranieri li riconosci perché sono gli unici coperti sopra il naso.
Fa parte della indole russa, una sorta di fatalismo cazzone per cui è inutile sbattersi troppo, tanto non cambia nulla.
Aggiungi un pizzico di sano machismo per cui “non abbiamo paura di nulla” con due cucchiaini di scazzo in salsa “ormai siamo stanchi della pandemia” e il mix è servito.
L’unica vera fonte di stress per me sono i tamponi.
Siccome i vaccini occidentali e lo Sputnik non sono reciprocamente riconosciuti, sono tenuto a fare un tampone molecolare prima dell’arrivo e della partenza, con il rischio di dover restare in Russia a fare la quarantena in caso di positività conclamata…

A parte questo, avere a che fare coi russi in questo momento storico mi rilassa.
Il giorno seguente, lunedì 14 febbraio, trascorro la festa degli innamorati con il mio referente di lavoro.
Pranzo con Vasilij, un ex pugile di origine bielorussa che abita a Mosca da quasi 20 anni.
Ci troviamo in una “stolovaja”, una tavola calda/bistro senza pretese vicino all’ufficio.
Prendiamo un vassoio ciascuno, ci posiamo sopra una tazza di schi, una zuppa di verdure lesse tagliate a listelle, poi Vasilij si fa posare sul piatto una bistecca innondata da una salsa densa e marrone.
Io prendo il ploff, un piatto di origine uzbeka a base di riso, verdure e montone cucinato al forno. Il tutto innaffiato da un bicchiere di mors, una bevanda a base di mirtilli bolliti che fa parte della tradizione culinaria russa da almeno 600 anni.

Parliamo del mercato del lavoro, a Mosca è difficile trovare figure specializzate e professionali, il settore che va per la maggiore, come dappertutto, è l’IT dove lo stipendio è più alto della media offerta nella capitale che si aggira attorno ai 90.000 rubli (poco più di mille euro).

Ovviamente si discute delle minacce di guerra; cerco sempre di soppesare tutte le informazioni e di confrontare varie fonti locali e occidentali in due o tre lingue ma voglio sentire cosa ne pensa il mio interlocutore che ha una laurea in economia, collabora con aziende europee e cinesi e sta studiando per ottenere un MBA.
“Credi che ci sia davvero la possibilità di un’invasione russa dell’ucraina?” domando.
Vasja (diminutivo di Vasilij) arrossisce, si anima, prende fiato, la camicia già stretta sulle spalle larghe mette ancora più in crisi i bottoni e con tono appassionato mi spiega:
“Ma quale guerra?!? Quale invasione?!?
Nessuno in Russia vuole una guerra contro un popolo slavo.
Almeno un terzo dei russi ha legami di parentela col popolo ucraino.
Mia moglie è ucraina!”

Vasilij è sposato con Katja, una giovane che proviene da Donetsk.
E’ sostanzialmente una profuga di guerra, arrivata in Russia allo scoppio delle ostilità nel Donbass nel 2014.

Ho visitato Donetsk in un paio di occasioni nel 2013. Era una bella città, moderna e vibrante, che contava una popolazione di un milione di persone nel nucleo urbano, quasi il doppio considerata l’area circostante.
Donetsk si trova a meno di 100 km dal confine russo, viene fondata nel 1869, anno in cui l’imprenditore gallese John Hughes apre un’acciaieria e diverse miniere di carbone nella zona.
La città viene nominata Juzovka, come riconoscimento al ruolo di Hughes, di cui Juz è l’armonizzazione in russo.
Sempre in termini di armonizzazione, nel 1929 prende il nome di Stalin per poi diventare Donetsk nel 1961 durante il processo di de-stalinizzazione avviato da Khruschev.
Donetsk era la capitale della regione del Donbass che sta per Donetsk Ugolnyj Bassejn, ossia giacimento di carbone di Donetsk. Era una città ricca e in fase di sviluppo animata economicamente dall’oligarca Rinat Akhmetov, il presidente della squadra di calcio Shaktar.
Lo stadio, completamente rivestito da un’enorme schermatura LED, era immediatamente visibile appena si entrava in città, simbolo di modernità al pari dell’aeroporto nuovo di zecca costruito da Thissen per gli europei di calcio del 2012.

Oggi lo stadio e l’aeroporto sono dei ruderi, cumuli di macerie teatro di scontri a fuoco e bombardamenti.

Dal 2014 la città fa parte di un’area più ampia denominata Repubblica Popolare di Donetsk che il governo ucraino, al pari di Lugansk e della Crimea, definisce “territori temporaneamente occupati”.
La capitale del Donbass ucraino è stata inizialmente spostata a Mariupol e successivamente a Kramatorsk.

Prima della guerra scoppiata ad aprile 2014, il padre di Katja era benestante.
Gestiva due negozi di elettrodomestici, guidava una BMW e un’Audi e aveva due case. Per non restare intrappolato nei bombardamenti, è scappato in Russia con la figlia mentre la nonna è rimasta là.
Adesso si arrangia facendo l’elettricista a Mosca e guida una Lada del 2008.
Dopo pranzo ho un incontro con il capo di Vasilij, Konstantin, uno dei titolari del nostro distributore in Russia.
L’azienda conta circa 30 filiali sparse tra San Pietroburgo e Vladivostok. Nel corso degli ultimi 17 anni le ho visitate quasi tutte. Parliamo di previsioni di vendita, andamento del mercato e pagamenti.
Konstantin ha 50 anni passati ma ne dimostra di meno. Ha un faccione con le guance gonfie che gli spingono le labbra all’infuori come se fosse sempre pronto a gonfiare un palloncino
Assomiglia al papà dei Griffin con la barba incolta e i capelli più corti. Indossa un maglioncino girocollo blu scuro sotto il quale traborda un addome sorretto da due gambette magre.

E’ originario di L’vov, in Ucraina occidentale, al confine con la Polonia. Alla fine degli anni 80 è stato spedito a fare il servizio di leva a Krasnodar, nel sud della Russia, per poi trasferirsi stabilmente a Mosca all’inizio degli anni 90.
E’ un esempio di self-made man, un imprenditore di medio livello decisamente benestante rispetto allo standard della classe media ma ancora lontano dai lussi e agi da oligarca.

Parliamo della sua famiglia, che per buona parte è a L’vov.
Il padre ha 90 anni e vive con la sorella di Konstantin, sono molto preoccupati dalle notizie che trasmettono i media locali, si aspettano il peggio e la gente sta facendo razzia di prodotti alimentari, nei supermercati ci sono scaffali vuoti.
Sorridiamo entrambi di questa isteria, il pensiero rivolto alla razzia di carta igienica, lievito e farina a marzo 2020.
Dopo l’incontro prendo un taxi per tornare in albergo.
Lungo il tragitto vedo un banner enorme con la Valjeva cristallizzata in una posa con le braccia aperte, la bandiera russa sullo sfondo e la scritta “Kamila my s toboj”, “Kamila siamo con te” in primo piano.

Il 15 febbraio arriva a Mosca il cancelliere tedesco Scholz, segue di qualche giorno la visita di Macron e, in buona parte, le rassicurazioni offerte durante l’incontro con Putin sono le stesse: “L’ingresso dell’Ucraina nella Nato non è un argomento attualmente sul tavolo”.
Il Cremlino annuncia ufficialmente il ritiro delle truppe dal confine, tiro un sospiro di sollievo.
Probabilmente riuscirò ad andare a Kiev.
I telegiornali, con una certa ironia, trasmettono le immagini della fuga di massa di oligarchi dall’Ucraina, spaventati dall’allarme invasione.
Non solo miliardari e deputati abbandonano il paese, c’è anche una forte emorragia di capitali che porta al deprezzamento della moneta locale, la grivnia, che perde circa il 10% in pochi giorni.
Il comitato olimpionico decide di ammettere la Valjeva alla finale in attesa del risultato del ricorso da parte della squadra russa.

Il 16 febbraio ho un incontro presso uno dei maggiori produttori di mobili all’interno della federazione russa.
E’ un’azienda enorme, fondata nel 1961. Le prospettive per il 2022 sono di un trend in crescita fino all’estate, poi dovrebbe esserci una fase di assestamento.
La pandemia ha dato un impulso formidabile al settore del mobile in tutto il mondo. La gente che si è ritrovata a casa con introiti garantiti e senza possibilità di viaggiare ha investito nella casa.
A dispetto dall’impostazione rigida e neanche tanto post sovietica, il direttore generale dell’azienda è un italiano che vive in Russia da oltre 10 anni.
E’ originario di Rimini, parla male il russo ma si è ben adattato alla realtà che lo circonda. Indossa un maglione blu assolutamente anonimo e jeans grigi, unico sprazzo di mondanità la montatura squadrata in tartaruga degli occhiali da vista.
L’ufficio buio e disordinato, arredato con mobili scuri dal design pesante. E’ il secondo italiano residente a Mosca con cui parlo in poche ore.
Il giorno prima mi ha contattato un designer di Pesaro che cura progetti di architettura di interni per clienti molto ricchi. Arreda ville nella zona di Rubljovka, il quartiere del lusso fuori Mosca con strade private, concessionari Ferrari e ville protette da vigilantes armati.

Nonostante tutte le difficoltà, l’instabilità del rublo, le sanzioni e le contro-sanzioni introdotte a seguito della contestata annessione della Crimea nel 2014, il mobile ed il design italiano sono tutt’ora uno dei settori maggiormente in crescita in questo paese, i Russi amano incondizionatamente il nostro gusto, il nostro stile e design.

Il 17 febbraio rientro in Italia con un volo diretto Aeroflot.
Lo stesso giorno si disputa la finale di pattinaggio femminile. Kamila Valjeva fallisce clamorosamente. Probabilmente non ha guardato l’ultimo film di Sorrentino o il messaggio principale è andato perso nella traduzione.
Si disunisce.
Dopo il primo axel triplo molla il colpo, non riesce a completare nessuno dei salti quadrupli che aveva eseguito nella finale a squadre.
Il peso della squalifica per doping, le aspettative di una nazione intera e forse i dubbi sorti dopo la caduta occorsa al termina della gara precedente si frantumano sul corpo e sulla mente di una quindicenne minuta che si scioglie in un pianto inconsolabile.
La Russia vince comunque la medaglia d’oro e d’argento ma non basta.
Non bastano all’allenatrice Eteri Tutberidze che puntava al trionfo sul podio.
La rimprovera appena esce in lacrime dalla pista.
“Chto ty voobsche perestala borot’sja?”
“Perché hai smesso di lottare?”

La Tutberidze è un’allenatrice molto discussa.
La critica principale che le viene rivolta è di sfruttare atlete molto giovani che, in virtù della corporatura non ancora sviluppata, riescono a fornire performance agonistiche non replicabili da atlete più mature.
Eteri, nata a Mosca, per metà georgiana, un quarto russa e un quarto armena, è una bella donna dai capelli ricci e biondi.
Sarebbe perfetta nel ruolo di matrigna in un film d’animazione.
E’ spietata, dal viso teso e levigato non traspare la benché minima traccia di empatia nei confronti della ragazzina che piange disperata per il fallimento appena consumatosi davanti al suo paese e al mondo intero.

Il 19 febbraio alla Conferenza della Sicurezza di Monaco interviene il presidente ucraino Zelenski, parla nella lingua ufficiale del suo paese.
Lamenta l’ammassamento di truppe russe ai confini. Accusa l’Europa di non dare seguito concretamente alle promesse di aiuto fatte nel corso degli anni.
“L’architettura della sicurezza mondiale ed europea è fragile e deve essere adeguata”. Chiede all’UE di accettare l’ingresso del suo paese in Europa, sollecita nuovamente la Nato ad accettare l’Ucraina come membro dell’alleanza a fronte di modalità e tempistiche certe. Rivendica la territorialità di Donbass e Crimea che devono essere ritornati all’Ucraina attraverso un processo di pace.
Pone un ultimatum per la revisione del Memorandum di Budapest del 1994 in base al quale Ucraina, Bielorussia e Kazakistan rinunciavano alla proliferazione nucleare in cambio della garanzia di integrità territoriale.

E’ il quarto e ultimo tentativo, promette Zelenski:
“Se le richieste di revisione del Memorandum non verranno accettate o se il loro risultato non garantirà la sicurezza al nostro paese, l’Ucraina avrà tutto il diritto di ritenere che il Memorandum di Budapest non funziona e tutto il pacchetto di decisioni prese nel 1994 è in discussione” (1)

https://kyivindependent.com/national/zelenskys-full-speech-at-munich-security-conference/

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