Riprendo l'articolo scritto sabato per "Alias" de "Il Manifesto", dedicato al doc su Sly Stone.
Grazie a Pier Tosi.<BR>
Il trailer:
https://www.youtube.com/watch?v=PeKg69eOsAk&t=1s
La figura di Sly Stone, tra i più grandi (e non sempre appieno compreso e adeguatamente valutato) innovatori della musica pop rock moderna, ha ultimamente avuto un progressivo riconoscimento.
Dalla discreta “storia orale” di Joel Selvin “Sly & the Family Stone: An Oral History” in cui raccoglie le testimonianze di una lunga serie di collaboratori più o meno stretti ma senza la voce del protagonista principale, a “Thank you (Falettinme be mice elf agin)” biografia (recentemente tradotta in Italia da Jimenez Edizioni), created in collaboration con Sly, dello scrittore Ben Greeman (e l'ex fidanzata di Sly, Arlene Hirschkowitz) in cui il musicista si descrive con dovizia di particolari.
Giunge ora sugli schermi “Sly Lives! (aka The Burden of Black Genius)” di Ahmir "Questlove" Thompson, musicista, produttore, regista, autore di quel capolavoro che è stato “Summer of Soul”, affascinante documentario che sintetizza il “The Harlem Cultural Festival, a New York, una serie di concerti che andarono in scena dal 29 giugno al 24 agosto del 1969.
Il documentario ripercorre in maniera dettagliata ed esaustiva la sua ricca (quanto artisticamente breve) carriera, con dovizia di particolari e filmati inediti (spesso rarissimi e favolosi), estratti di interviste e il consueto elenco di testimoni dell'epoca, tra cui vari membri della band oltre a pareri interessanti di Andre 3000, D'Angelo, Chaka Khan, Q-Tip, Nile Rodgers, Jimmy Jam and Terry Lewis, George Clinton, Ruth Copeland e Clive Davis.
Un doc esaustivo, sgargiante come i vestiti di Sly e della band, che rimarca una volta in più, quanto fosse geniale la sua musica e quanto sia ancora attuale e moderna. Sly Stone, già in epoca infantile/adolescenziale, è una sorta di bambino prodigio.
A undici anni suona tastiere, chitarra, basso, batteria e usa la voce in modo perfetto. Poco dopo forma i Viscaynes, che si fanno notare per la scelta, ai tempi inusuale, fino ad essere provocatoria, di essere composti da due uomini, due donne, un uomo di colore, Sly, e un filippino, in un'epoca in cui l'idea di integrazione, razziale e di genere, era ancora un concetto astruso e improbabile, in gran parte degli States.
Si segnala come ottimo e innovativo DJ radiofonico alla KSOL per poi intraprendere l'attività di compositore e produttore, arrivando fino a nomi altisonanti come i Beau Brummels e i Great Society della futura leader dei Jefferson Airplane, Grace Slick.
Nel frattempo compone e sperimenta e quando è giunto il momento nasce la nuova creatura, Sly and the Family Stone.
"Facevamo tutte le cose sempre insieme, eravamo come un "Chiesa".
La selezione dei musicisti non è casuale.
Sono tutti eccellenti strumentisti ma Sly sceglie in base a un concetto socio/politico ben preciso: uomini e donne, bianchi e neri, insieme, suonando una musica il più possibile contaminata e libera da preconcetti. Le radici sono nel blues e rhythm and blues ma c'è spazio anche per rock, latin sound, jazz e tanto altro. I filmati ci mostrano uno Sly puntiglioso, insistente nel trovare il suono o il ritmo giusti, provando e riprovando.
Siamo a cavallo tra il 1966 e il 1967, vedere su un palco bianchi e neri insieme è prerogativa rara anche nel jazz, ancora meno nel rock e più in generale nella black music.
Non a caso l'album d'esordio, nello stesso anno, si intitola “A whole new thing” (“una cosa completamente nuova”).
Il seme è stato piantato, si intuisce che qualcosa di effettivamente nuovo sta arrivando, pur essendo ancora ancorato solidamente ai classici schemi rhythm and blues.
Con il successivo “Dance to the music” si passa a un sound sempre più tribale, con il basso, quasi distorto, di Larry Graham che introduce un ritmo pulsante che diventerà un marchio di fabbrica della band. Il resto è un mix di gospel, rock e psichedelia, spesso suonato a ritmi forsennati, con tastiere acide e intrecci strumentali originali e imprevedibili. Altrettanto innovativo e sorprendente è il gioco delle voci che si alternano, dialogano, sovrappongono, uscendo dai canoni del solista ma diventando uno strumento aggiuntivo.
I testi sono un altro aspetto di importanza primaria, un costante inno al pacifismo, alla convivenza senza barriere di razza o genere, l'invito a stare insieme.
I successivi “Life” e “Stand!” quest'ultimo pubblicato poco prima della mitica apparizione al Festival di Woodstock dell'agosto 1969 e all'Harlem Cultural Festival nello stesso periodo, ne sublimeranno popolarità e personalità.
“I Want To Take You Higher” diventa un inno, vende centinaia di migliaia di copie, “Stand!” è la summa della loro carriera, tra proto funk, soul, rock, psichedelia.
Sly non teme di affrontare temi caldi come il razzismo ma lo fa in modo sempre colloquiale, con costanti inviti alla reciprocità, in funzione della tolleranza e amicizia.
E' in questo periodo che rigetta l'invito delle Black Panthers a un sostegno alla loro causa, liquidata in modo sprezzante.
In questi lavori ci sono le radici sonore che ritroveremo presto nei Funkadelic e Parliament di George Clinton e nella breve carriera di Betty Davis. Sarà lei, moglie di Miles Davis, a spingere il marito verso altre sonorità e cultura musicale. Ne farà tesoro soprattutto in “On The Corner” del 1972. Ma è da qui che, inequivocabilmente (attingendo a piene mani anche dalle modalità di esibizioni live), Prince che assorbirà tantissimo dalla loro esperienza, aspetto evidenziato spesso nel doc di Questlove.
Il successo devasta Sly che sprofonda in un abisso di abusi di ogni tipo, cocaina, alcol, sesso. Le sue finanze si assottigliano, i concerti che saltano sono più di quelli portati a termine, si chiude nella sua casa di Los Angeles in una nebbia di eccessi, circondato da spacciatori, consumatori, gente di malaffare.
Ne riemergerà a stento nel 1971 con un capolavoro assoluto della black music, “There’s a riot goin’ on”, una visione pessimista, cruda e decadente del presente (suo e della società), registrato suonando quasi tutto da solo e utilizzando, tra i primissimi, una batteria elettronica, su cui ne reincide una acustica, mischiando i due suoni, creandone uno unico e all’avanguardia.
I brani sono spesso lunghi e ipnotici, intrisi di funk ma ricoperti da una patina paranoica e malata. Gli anni successivi sono un declino costante con ancora qualche discreto album solista (in cui sono intuibili il genio e lo spessore artistico ma male utilizzati) e il congedo definitivo nel 1982, sopraffatto da scelte di vita inconciliabili con una normale carriera musicale.
Scompare dalla scena, a parte sporadiche apparizioni come nel 1993 quando Sly and the Family Stone entrano nella Rock n Roll Hall of Fame. Rimane sul palco un minuto, saluta e se ne va. Tornerà a farsi vedere nel 2007 con una serie di apparizioni (in stato di salute evidentemente molto precario) con la Family Stone. Si ritira dalla vita pubblica, soggiorna a lungo in una roulotte, sopravvivendo a stento, intenta cause per diritti non pagati, spesso perse o rigettate.
Il documentario ce lo mostra ora in foto, ultra ottantenne, sorridente, apparentemente sereno, abbracciato ai figli. Un talento artistico incredibile, auto distruttosi per l'incapacità di gestire il successo e la notorietà e la conseguente disponibilità economica spropositata.
Un visionario innovatore che avrebbe potuto dare ancora tantissimo alla musica ma, come peraltro accaduto a molti altri artisti dell'epoca, che è riuscito ad esprimere la propria creatività solo per un contesto temporale limitato.
Sufficiente però a consegnarlo alla storia tra i musicisti più influenti di sempre.
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