martedì, novembre 07, 2023

Russia. Febbraio 2023 #6

L'amico SOULFUL JULES, abituale frequentatore, per motivi di lavoro, dell'ex Urss, ci introduce nel clima di alcune zone, tristemente famose in questi giorni. Ci aiuta a capire e ad approfondire, al di fuori di divisioni ideologiche, polarizzazioni, supposizioni.

Le precedenti puntate di "Tales from ex Urss" sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/Tales%20from%20Ex%20Urss

Russia. Febbraio 2023
PARTE #6


Il Nagorno-Karabakh è un’area contesa tra Armenia e Azerbaigian.
La maggior parte della popolazione che vive nella regione è di etnia armena ma territorialmente fa parte dell’Azerbaigian dal 1920, quando Lenin ne ha sancito la cessione agli azeri.
Con il crollo dell’Urss, tra il 1992 e il 1994 si è combattuta una vera e propria guerra, da una parte Baku a rivendicare l’integrità territoriale, dall’altra Yerevan che faceva appello all’autodeterminazione dei popoli.
Per trent’anni il conflitto è rimasto congelato, qualche sparatoria qua e là ma tutto sommato Mosca era riuscita a mantenere l’ordine.
Finché nel settembre del 2020 sono ripartiti gli scontri lungo la linea di confine, dalla parte azera.
Il conflitto si era prolungato per due mesi, a novembre era stato firmato un cessate il fuoco che di fatto sanciva un avanzamento delle posizioni sotto il controllo di Baku.

(Come sappiamo, recentemente l'Azerbaijan ha riconquistato il territorio con un'azione militare, scacciando di fatto la quasi totalità della popolazione armena. La capitale Stepanakert è stata ribattezzata Khankendi e dal 1 gennaio 2024 il Nagorno Karabakh ufficialmente non esisterà più NdR).

“Ormai sono due anni che sparano e che fanno finta non succeda niente.”
Commentava Garry, mio coetaneo, sposato e con una figlia piccola. Nel 2020 era stato mobilitato, aveva combattuto.
“Hai sparato?”
“Ho sparato.”
Aveva risposto, come a dire che sì, qualcuno lo aveva anche colpito e non aveva aggiunto altro mentre passavamo accanto a un cimitero su una collina, cumuli di terra smossa di recente, di un marrone più scuro rispetto alle altre tombe, le ghirlande di fiori freschi e gli stendardi colorati, che sembrava li avessero appena deposti.
Cinquemila armeni erano morti nell’arco di quarantaquattro giorni, prima che i due governi firmassero un cessate il fuoco negoziato da Mosca.

Tra una presentazione e una cena al ristorante venivano fuori i paragoni con la guerra in Ucraina, ero curioso di sapere cosa ne pensassero gli armeni.
“L’Ucraina ha sostenuto l’Azerbaijan contro di noi.
Hanno fornito le bombe al fosforo ma non serbiamo rancore. Poi se mi chiedi della guerra cosa ti dico… centocinquantamila immigrati dalla Russia. Giovani, istruiti. Da un lato è un bene ma considera che qua è diventato tutto più caro. Tra qualche anno tireremo una linea e vedremo. A qualcuno è andata bene ma non al mio popolo.”
aveva commentato Garry con amarezza.

L’insonnia, i voli notturni, il fuso orario, il rientro a casa il venerdì, il tempo di disfare e rifare la valigia e poi lunedì ero andato in Moldavia, a Chisinau.
Dicono che sia uno dei paesi più poveri d’Europa e basta vedere le strade piene di buche, le case basse con gli infissi in legno, come nella provincia russa, e il colore del cemento dappertutto, dai campi sporchi di neve e terra al cielo coperto di nuvole.
Se invece fai caso alle auto che ci sono in giro, par di essere in qualche quartiere esclusivo di Londra o Milano.
Bmw, Mercedes, Audi, Porsche, mega cilindrate, carrozzerie opacizzate e vetri oscurati.
Lo status dell’auto costosa che ti riporta agli anni novanta, quando la Moldavia, appena proclamata l’indipendenza dall’Urss, introdusse l’economia di mercato.

Il territorio attuale corrisponde alla parte orientale della Dacia, per oltre un secolo provincia romana, ed è uno di quegli staterelli un po’ sfigati che si trovano a essere periodicamente invasi e sottomessi dai big di turno.
Prima i romani, poi i barbari, in seguito la Rus’ di Kiev fino alle invasioni dei Mongoli e negli ultimi secoli una spartizione continua tra gli ottomani, gli austro-ungarici, i russi e infine i sovietici.
Nel 1940 venne istituita la Repubblica Socialista di Moldavia che rimase tale fino al 1990.
Oggi nel paese ci sono tre milioni di abitanti, quindici etnie e i principali credo religiosi.
A Chisinau parlano tutti almeno tre lingue, nei ristoranti trovi i menu in inglese, russo, rumeno, tedesco e francese.
Qualche parola comprensibile qua e là, alimentara, strada, farmacia, sens unic e le insegne in russo e rumeno.
In quei giorni, mentre ero a Chisinau, c’erano state delle proteste davanti al parlamento, contro il caro vita dicevano i clienti; come provocazione da parte dei partiti filo-russi, dicevano il Corriere e La Repubblica.
Avevano tutti ragione.

Una sera ero andato a cena con Evgenij, il cliente di Odessa.
Si era fatto due ore di strada per venire a trovarmi, alla frontiera non era rimasto a lungo in coda; lo avevano fatto uscire senza problemi quando avevano capito che aveva superato da un pezzo i sessant’anni.
A tavola parlavamo della loro guerra, c’era anche la moglie di Evgenij.
Ol’ga aveva iniziato a studiare l’ucraino, a sessanta e passa anni, non so se per convinzione o per convenienza, quando tutto sarebbe finito avrebbe parlato un’altra lingua, si preparava a vivere in un paese cambiato.
Evgenij non ci pensava nemmeno a imparare una lingua diversa dal russo, nonostante i missili di Mosca gli avessero sfiorato la casa e l’azienda in un paio di occasioni, continuava a mettere in discussione qualsiasi cosa, sempre questa capacità di spiazzarti con le sue verità alternative, lui unico illuminato in grado di decifrare la realtà.

“Non c’è nessuna guerra. Fanno vedere che sono là, fermi nelle trincee e non succede niente. Dimmi se questa è una guerra.”
“Beh ma c’è una differenza rispetto a prima, no?” provavo a riportare il discorso sui fondamentali.
“Da noi adesso è tutto a posto, non ci sono più problemi con l’elettricità o il riscaldamento.”
Evgenij l’aveva prevista questa guerra, era dal 2014 che continuava a chiamarla, prima o poi sarebbe scoppiata.
“È andata come dicevi tu.” avevo riconosciuto tra un antipasto e l’altro.
“Solo che poi non è andata come diceva lui.” aveva aggiunto ridendo sua moglie.
No, i russi non avevano preso Kiev in pochi giorni e Odessa era ancora in Ucraina.

Questa la sintesi dell’ultimo mese, sicuro ho tralasciato qualcosa, le domeniche al parco con i bambini, le feste di compleanno dei compagni di scuola e ogni ora di veglia rubata al lavoro o alla famiglia dedicata a registrare viaggi, conversazioni, paesaggi e odori.
Forse c’è un motivo se ho la pressione alta.
È il caso di rallentare, anche gli occhi me lo stanno dicendo.

Vengo visitato da donne giovani, i nomi di origine musulmana e le sopracciglia spesse.
Prima mi fanno un elettrocardiogramma, le ventose non si incollano al petto per via dei pelazzi neri e folti.
Amira mi depila con un rasoio bilama, giusto due striscette ma ci sta una vita.
Poi mi mette il gel, freddo e viscido.
Dà un’occhiata al grafico tracciato sulla carta, in generale è tutto ok ma c’è qualcosa che non la convince.
Meglio fare anche un ecocardiogramma.
Mi passa delle salviette di carta, per togliermi il gel dal petto.
Mi rivesto e passo in un laboratorio al piano inferiore.
Nafisa mi aggancia delle pinzette sui peli dei pettorali.
Dà un’occhiata al risultato e aggrotta la fronte, lo sguardo serio. Mi invita a rimettere la camicia, mi fa uscire e chiama la collega per un consulto.
Nel corridoio, accucciati su una panchina, ci sono ancora Elena e Rafael, il vecchio autista sonnecchia con la bocca aperta, la biondina guarda il cellu. Rafael apre gli occhi scuotendo la testa, come a dissimulare la stanchezza, Elena mi guarda senza dire niente.
Provo a tranquillizzarli, va tutto bene, è ora che vadano a casa ma non c’è niente da fare, restano qua finché non ho terminato.
Dopo pochi minuti Nafisa apre la porta dell’ambulatorio e fa cenno di entrare.
Volto inespressivo. Mi fa accomodare e mi spiega che ho un prolasso della valvola mitralica, un soffio al cuore.
Ci metto un paio di minuti a capire cosa sta dicendo, mai sentito parlare di mitral’nyj kapàn, ci vuole il traduttore online e ancora non ho ben chiaro che cosa sia di preciso.
La cardiologa cerca di rassicurarmi.
Niente di grave, può essere una cosa congenita, c’è un sacco di gente che ci convive senza problemi ma bisogna stare attenti.
Mi consiglia di comprare uno di quegli aggeggi per misurare la pressione e prendermi nota di tutti i valori perché non ho idea di quale sia il mio standard, l’ultima volta che il medico me l’ha controllata è stato dieci anni fa.
Quando le chiedo se devo proprio farla ‘sta cosa, di misurarmi due volte al giorno, Nafisa fa un sospiro e mi spiega con tono paziente:
“Può essere pericoloso avere la pressione alta, per l’effetto che ha sul cuore. Prenda gli animali. Di solito le bestie più grandi vivono a lungo perché hanno la pressione bassa. Invece quelli piccolini, che sono sempre tutti agitati” imita l’espressione concitata di certi cagnolini, “beh quelli muoiono prima.” conclude conciliante, convinta, a torto, di avermi tranquillizzato.
Il prolasso della valvola mitralica, guarda te se lo devo scoprire a Mosca.
E taci che mi è andata bene, qua in poche ore mi hanno fatto tutte le analisi.
In Italia mi sarei fatto una giornata intera al pronto soccorso prima di essere ricevuto e la prima visita specialistica, a pagamento, l’avrebbero fissata dopo due settimane.

Progetti, idee, viaggi per lavoro e per divertimento già programmati fino a quest’estate, gli ordini da inserire per garantire le consegne, il fatturato da tenere sott’occhio per capire le dinamiche di crescita, le ferie con la famiglia ad agosto, finalmente torniamo all’estero con i bambini. E sempre questo pensiero strisciante in sottofondo, questa preoccupazione dai contorni velati che possa succedere qualcosa quando sei in Russia e, tra tutti i rischi che avevo messo in conto, quello dell’ictus o dell’infarto non l’avevo mai considerato.

Usciamo dalla clinica che sono le nove di sera, portiamo Elena alla fermata della metro, è il mezzo più economico per tornare a casa. La saluto con riconoscenza e un po’ mi vergogno di essermi segnato tutti quei dettagli nel corso della giornata. L’aspetto fisico, certe imperfezioni che solo gli stronzi notano, le sue banalità sulla guerra e le lagne per non riuscire a vedere certi film al cinema, perché tu sei quello più intelligente, acuto, tanto cervello e poco cuore, e oggi te l’ha detto anche la dottoressa.

Rafael pare sollevato, forse perché non gli sono schiattato tra le braccia, inizia a raccontarmi dell’ultimo viaggio che ha fatto in Armenia, per i novogodnje prazdniki, le festività natalizie, che in Russia iniziano il 31 dicembre e finiscono il 7 gennaio con il Natale ortodosso.
È andato a trovare le sorelle, abitano lì dal 1985, quando la famiglia di Rafael è scappata dall’Azerbaijan, dove avevano sempre abitato. Vivevano a Sumgait, una delle città più grandi del paese, armeni trapiantati da diverse generazioni, c’era una grossa comunità nel paese.
Poi negli anni ottanta il clima di insofferenza da parte degli azeri, in prevalenza musulmani, era cresciuto a dismisura nei confronti degli armeni, che sono cristiani, e a un certo punto Rafael aveva deciso di trasferirsi a Mosca con la famiglia mentre le sorelle avevano raggiunto dei parenti a Yerevan.

Stava bene in Azerbaigian, era direttore di un negozio di alimentari, prima di lui il direttore era stato il padre.
In quegli anni si stava bene dappertutto, continua.
“Andavi al lavoro e sapevi che alla sera saresti tornato a casa. E la casa era gratis.” Ridacchia, “Pensati adesso, ma quale casa gratis!” ragiona ad alta voce e infatti oggi è una cosa inconcepibile ma per quasi trecento milioni di persone fino al 1991 questa è stata la norma, con tutti i vantaggi e le scomodità del caso.
“L’unica cosa è che eravamo chiusi qua. Non potevamo uscire.”

Non era mai stato all’estero, Rafael, aveva girato per tutto l’Urss, aveva fatto il militare in Cecoslovacchia, vicino a Praga, nel 1972.
“Là era diverso. Era meglio, a partire dalle cose semplici. Il dentifricio, i dolcetti che vendevano nei negozi. Qua non avevamo neanche la gomma da masticare. La prima volta l’ho provata a Praga.” ricorda con un sorriso che gli alza le punte dei baffi. “E prima di tornare a casa avevo comprato una camicia arancione, di tessuto goffrato. Me la invidiavano tutti. È lì che ho capito che non vivevamo in paradiso.”

Mi pare di vederlo Rafael, fresco di congedo, che balla le ultime hit sovietiche in qualche balera di Sumgait con la sua blusa di importazione. Il primo pensiero frivolo che mi è passato per la testa nelle ultime ore.

Arriviamo in albergo che sono le dieci di sera, Rafael esce dall’abitacolo per sincerarsi che mi reggo in piedi, lo ringrazio e ne approfitto per liberarmi dei valenki, gli stivali in feltro che mi trascino dietro da due giorni.
Rafael è contentissimo, mi stringe la mano tra le sue e continua a fare un mezzo inchino.
“Quando ci rivediamo?” mi domanda.
“Penso in aprile, vediamo come va.” rispondo indicandogli l’occhio.
“Daj bog, daj bog.” se Dio vuole. “La cosa più importante è la salute.” commenta prima di congedarsi.
Mi butto a letto che sono stanco e abbacchiato. Dal corridoio arrivano delle grida, parole che hanno un suono familiare, con un ritmo cadenzato. È un tipo che parla al telefono in bergamasco ad altissima voce. “E allora io ci ho detto, guarda che così non portiamo a casa il bisinèss, cala di un venti percento o qua salta tutto. Balabiòt!”
Preferivo la tipa che scopava.

L’indomani mi alzo e per prima cosa mi guardo allo specchio.
Il taglietto, che poche ore fa era appena visibile, si è trasformato in una chiazza rossa che copre metà della sclera, roba da film horror.
Una delle dottoresse mi ha assicurato che entro cinque giorni tornerà a posto ma la vedo dura.
Prima di pranzo ho un incontro in una grossa azienda fuori Mosca. Nikolaj, il venditore che mi viene a prendere, non si accorge neanche che ho l’occhio sinistro arrossato.
Gli racconto delle visite e dello spavento che mi sono preso, annuisce giusto per darmi un po’ di soddisfazione, mi pare che non gliene freghi molto. Veniamo ricevuti in uno stanzone adibito a sala riunioni, un tavolone al centro e uno schermo da cinquanta pollici appeso a una parete. Viktor Andreevič, il responsabile degli acquisti, ha chiesto espressamente di incontrarci. Mi osserva qualche secondo dopo i convenevoli di rito e alza il mento come a domandare: “Che è successo?”
“Ho litigato con un cliente.” rispondo sorridendo.
Parliamo dei miei viaggi, mi lagno perché mi tocca stare attento ai soldi, devo cambiare i contanti, come quando ero studente.

Viktor Andreevič mi osserva con l’aria severa e ribatte: “C’è una guerra, con tutto quello che succede… questo è il problema minore.”

“Sì, certo.” Ammetto con un po’ di vergogna.
Viktor Andreevič è un omone brizzolato con la barbetta curata, l’ultima volta l’ho visto un anno fa, prima della guerra. Mi sembra che sia dimagrito, più tranquillo. Non beve te né caffè, giusto un bicchiere d’acqua.
Seco che anche lui c’ha la pressione alta. Ci racconta dell’ultimo viaggio che ha fatto in Italia per lavoro, delle visite ai fornitori.
In alcuni casi ha scoperto che la roba che comprava era fatta in Cina e si è sentito preso in giro. Adesso vuole vederci chiaro e mi chiede dov’è che produciamo noi.
Mi guarda dritto negli occhi, come un padre che interroga il figlio e non vuole sentire cazzate. Mi viene da ridere, poteva venire anche da noi, gli avrei mostrato gli stampi per la plastica, i cassoni con i semilavorati che poi sono assemblati di fronte alla nostra sede, in un capannone col pavimento lucido, da quanto è pulito.
In magazzino gli avrei fatto vedere l’area dove è stoccata la sua merce, pronta per essere caricata, poi saremmo andati a pranzo, pesce o crostacei e vino bianco.
v Provo a convincerlo mentre lui mi fissa l’occhio arrossato, in maniera insistente, forse per mettermi a disagio ma casca male perché mi focalizzo sul neo che ha sotto il labbro inferiore, una pallina di carne marroncina che non c’entra niente con il resto del mento, i peli della barba fanno capolino da sotto, è chiaro che lì il rasoio non ci arriva e sembra un’aiuola contornata da ciuffetti d’erba.
Viktor Andreevič pare soddisfatto dalle mie spiegazioni, sposta lo sguardo sull’occhio buono e riporta il discorso sulla guerra, senza motivo, a dire il vero. “Io sono cresciuto in strada e quando ero bambino la regola era che quello che colpisce per primo colpisce più forte.”
Annuisco senza dire niente, perché non ho niente da dire. Anch’io sono cresciuto nel marciapiede davanti a casa, mai tirato né preso un pugno.
Alla sera prendo un taxi che sono le undici per andare in aeroporto. Ho il volo per Istanbul alle due e mezza del mattino, un’ora di attesa e poi la coincidenza per Venezia.

L’autista ha un testone che pare una palla da basket coi capelli a spazzola. È originario del Kirgizistan e mi fa i complimenti per il russo:
“Lei abita qua?”
“No, ci vengo per lavoro. Adesso torno a casa da mia moglie e i miei figli.”
“Maschi o femmine?”
“Un maschio e una femmina.”
“Io ho un bambino, ha tre anni. Lo stiamo viziando tantissimo. Gli compriamo tutto quello che vuole. L’altro giorno voleva un camion, preso il camion blu. Se vede la pizza non c’è verso, tocca comprargli la pizza, anche se sta mangiando il gelato. Ma sa,” prova a giustificarsi, anche se io non ho detto una parola, “è ancora piccolo, non capisce. Quando crescerà un po’ allora gli dirò di no, sarà tutto più facile.”

Certo, come no.
Dice che questa è l’ultima corsa della serata, non gli piace lavorare di notte, troppi rischi.
“Una volta una donna mi ha offerto dei soldi per andare a casa sua. Voleva che dormissi con lei.” mi spiega con una punta di imbarazzo. Dopo qualche attimo di silenzio mi fa una domanda. “Senta ma mi spieghi una cosa, lei che viene dall’occidente, che parla le lingue. Perché ce l’hanno tutti con la Russia?”
“Beh… perché ha invaso l’Ucraina.”
“Ma non l’ha invasa, stanno distruggendo le armi, stanno combattendo contro i nazisti ma nessuno vuole invadere l’Ucraina.”
“Sì ma di fatto sono in un altro paese. Sparano, bombardano, la gente muore.”
“Ma gli Stati Uniti lo hanno fatto in tutto il mondo. Se lo fanno loro nessuno dice niente. Lo fa la Russia una volta e tutti si lamentano. Perché?

Parla come un bambino, con un po’ di accento, argomenta in maniera semplice, schematica eppure non ho risposte da dare a questo tassista mezzo asiatico, non così, su due piedi, e mi sento anch’io un bambino, senza parole, senza argomenti.
In aeroporto c’è un sacco di gente in partenza per le vacanze, famiglie, coppie di giovani e di anziani.
Molti sono diretti in Turchia e discutono dei programmi di viaggio, degli itinerari modificati, le visite cancellate o spostate. Al solito c’è un tono fatalista, nessuno pare preoccupato del fatto che ci possa essere un’altra scossa.
Il volo è in ritardo, forse per i disagi del terremoto o per via della guerra, capita che ogni tanto l’aereo faccia una deviazione e allunghi un po’ la tratta.
Fatto sta che a Istanbul non riesco a prendere la coincidenza per Venezia. Al banco assistenza mi danno un biglietto per il volo successivo, mi tocca aspettare quattro ore in aeroporto. Poteva andare peggio.
Trovo una poltrona libera in un’area comune, è posizionata davanti a un maxischermo sintonizzato sul primo canale della tv turca, l’audio azzerato, trasmettono in diretta le operazioni di salvataggio.
Uomini barbuti raccolti attorno a cumuli di macerie, strati di cemento e laterizi, ammassi di intonaci, calcinacci, nuvole di polvere.
Ogni tanto la regia ritorna in studio e inquadra una speaker vestita di nero. Stacco, segue la vista dall’alto di una zona residenziale, la regia mostra il prima e il dopo, una linea si sposta da un lato all’altro dello schermo. Man mano che si avvicina all’estremità opposta, i tetti delle case si trasformano in rovine.
In basso a destra, dentro un riquadro, l’interprete per i non udenti gesticola con enfasi e pare stia tirando una tendina che separa la vita dalla morte.
Sono a pochi centimetri dalla tv, la larghezza del monitor risucchia la visione periferica, impossibile girare lo sguardo altrove, c’è solo questo, tipo Arancia Meccanica.
La Turchia come l’Ucraina, gli stessi ruderi, qua le case sono crollate e là sono state abbattute ma a parte questo non cambia molto, l’angoscia, la paura, il dolore e lo sconforto sono gli stessi.
Solo che qua il terremoto ha fatto un lavoro più accurato, non è rimasto niente in piedi. Tutto distrutto, in maniera più articolata, certosina, c’è una cura meticolosa nella devastazione che l’opera dell’uomo ancora non riesce a eguagliare, come se la natura avesse detto: “Adesso vi faccio vedere io.”

Guerra, distruzione, un occhio rosso, la pressione alta. Ho bisogno di dormire, riesco quasi a perdermi via che arriva uno spilungone, fa per avvicinarsi alla poltrona accanto alla mia e mi fa: “Excuse me? Can I take this chair?” Ha un tono altalenante, ogni parola un interrogativo, secco che questo viene da Udine.
“Sei italiano? Comunque sì, è libera.”
Il tipo tira indietro il capoccione di ricci neri un po’ sorpreso. Ci scambiamo qualche parola, dice che doveva prendere il mio stesso volo per Venezia ma anche lui ha fatto ritardo. È appena atterrato da Teheran.
“Ero lì per lavoro, abbiamo appena costruito un impianto di verniciatura per l’automotive.”
“Quanto sei stato via?”
“Quasi due mesi, abbiamo tirato su un capannone da duemila metri quadri.”
Duemila metri quadri, macchinari, linee di verniciatura, impianti, tonnellate di acciaio, plastica e tecnologia in uno dei paesi più sanzionati al mondo. “E coi pagamenti come fate?”
“Ah non so. Turchia o paesi arabi. Tu invece?”
“Io arrivo da Mosca. Ferramenta per mobili.”
“E com’è lì adesso?”
“Mah, tranquillo direi. In Ucraina un po’ meno. Ma continuano a comprare.”
“Ma scusa se ti chiedo, ma tu che magari in quei posti ci vai, che senti cosa dice la gente, chi ha ragione?”

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