Riprendo l'articolo pubblicato sabato scorso nelle pagine di "Alias" de "Il Manifesto".
I Beastie Boys sono stati tra i gruppi più rappresentativi di un’epoca, di un concetto progressivo e progressista di fare musica, partendo dall’hardcore punk, passando al rap e hip hop, in modo naturale e armonico perché, pur in antitesi sonora, erano generi che all’origine rispecchiavano la stessa attitudine.
Poi diluita in una commercializzazione artistica, estetica e culturale che ha omologato entrambi gli ambiti portandoli a musica d’ascolto, togliendo la pressoché totalità dell’anima antagonista con cui erano nate.
Non dimenticando che parliamo di una band di ragazzini bianchi new yorkesi che entrava a gamba tesa a “impossessarsi” di un linguaggio del ghetto nero ma che nel tempo è riuscita a costruirsi credibilità e autorevolezza.
Rapper che sapevano suonare, piuttosto bene, i loro strumenti, geniali, sempre alla ricerca del nuovo, dell’esperimento, con una maturazione progressiva da sciocco gruppo di nerd, con provocatori testi omofobi e sessisti, a trio di uomini consapevoli, impegnati, politicamente e socialmente.
Michael Diamond e Adam Horowitz, qualche anno dopo la scomparsa dell’amato compagno di avventure Adam Yauch, nel 2012, trovarono la forza di riprendere in mano l’album dei ricordi e scrivere un magnifico libro che ora Rizzoli pubblica in italiano, “Beastie Boys. Il libro”.
Oltre 500 pagine con un accurato e raffinato progetto grafico degli autori in cui si alternano stupende e rare foto, ricordi, follie di ogni tipo, inserti, playlist, ricette di cucina (!) e considerazioni profonde, analisi dettagliate degli album, aneddoti, testimonianze di amici e collaboratori. Non è solo la storia della band ma un ritratto sociale e un pezzo di storia della musica recente.
L’incipit è affascinante:
“E’ il 1981 a New York City: un pianeta lontano, difficile da riconescere ora.
I Beastie Boys sono appena stati fondati in una sala prove da qualche parte. Altrove Butthole Surfers, Cro-Mags, Motley Crue, Napalm Death, Run DMC, Sonic Youth e Wahm! stanno analogamente prendendo forma.
Ronald Reagan è il quarantesimo presidente della nazione. L’apparecchio per l’ascolto individuale delle musicassette conosciuto come walkman è in vendita negli Stati Uniti dall’estate precedente ma non è a buon mercato e ce l’hanno in pochi.
Piuttosto la musica risuona ovunque in città. E’ ovunque, che ti piaccia o meno...Cammini per strada e senti una radio diversa uscire da ogni singolo apparecchio, passi all’isolato successivo e senti la charanga da una parte, il Philly Soul dall’altra, un po’ di ska sopra e di doo wop sotto. La strada stessa funziona come un banco del mixer.
E’ un mondo fondato sulla radio.
In città la radio è un elemento centrale del panorama, tanto quanto i palazzi, i camion, i cartelli stradali e la gente per strada... Quello che non passano mai è il rap. Ma l’hip hop è ormai nelle strade. Quegli stereo boombox non sparano solo la musica delle radio. I mixtape trionfano”.
E’ in questo clima che i tre ragazzini crescono.
Non solo artistico e musicale ma anche sociale.
New York è una città in bilico, allo stremo.
“Per anni dalla fine della guerra è stata sempre più lasciata in mano ai poveri.
Interi distretti sono stati abbandonati, interi isolati dati al fuoco. I servizi sociali funzionano a malapena, le strade sono luride e piene di spazzatura.
Le droghe si mangiano la città a una velocità incredibile.
Eroina e cocaina sono ovunque e costano pochissimo. Gli amici rubano agli amici. E c’é anche questa nuova malattia, sconosciuta, che inizia a diffondersi tra gli omosessuali. Ma sono proprio questi i motivi per cui la città è diventata il luogo ideale per artisti e musicisti, per i giovani che cercano di combinare qualcosa e sono disposti a rinunciare alle proprie abitudini e a ogni regola del buonsenso”.
E’ una vita dura, difficile e pericolosa ma questi giovani surfer di un’esistenza spericolata cavalcano le onde più alte e impervie e faticosamente ce la fanno. I Beastie Boys lasciano l’hardcore, incominciano a frequentare il “Negril”, nel West Village, un locale reggae che si vota all’hip hop, dove si vedono Terry Hall degli Specials, Billy Idol, il DJ Don Letts alla ricerca di nuove idee e suoni, scoprono Afrika Bambaataa, “il primo che vedemmo prendere piccole porzioni da una serie di dischi e mixarle insieme per farne una canzone completamente nuova, creata da lui. Una micidiale combinazione di ruoli: curatore, improvvisatore, musicista. Piuttosto comune oggi ma ai tempi non avevamo mai visto né sentito qualcosa del genere”.
Iniziano a lavorare sulla nuova dimensione di band hip hop, provano (e vivono) in situazioni più che disagiate e trovano il battesimo di fuoco in un tempio del rap come il “Disco Fever”, culla del genere.
“E’ questa la cosa grandiosa dell’essere adolescenti: ti senti indistruttibile. Stupidità e arroganza battono realismo e paura”.
Inutile dire che il concerto passò inosservato nell’indifferenza del poco pubblico presente. Ma il battesimo era avvenuto.
Approdano alla Def Jam di Rick Rubin e incomincia una nuova storia, ancora lunga e irta di ostacoli, sconfitte e scoramento. Ma nel 1986 con l’esordio di “Licensed to ill” e il brano “(You gotta) Fight for your right (to party)”, con tanto di video che passa a ripetizione su MTV ottengono il grande successo e la possibilità di andare in tour con nomi come Run DMC e Madonna.
I testi sono scanzonati ma anche estremi e decisamente “sopra le righe” quando fanno riferimenti pesantemente sessisti e omofobi di cui si pentiranno e per cui non esiteranno successivamente a scusarsi:
“Non ci sono scuse. Ma il tempo ha sanato la nostra stupidità. Abbiamo imparato e sinceramente cambiato dagli anni Ottanta. Speriamo vogliate accettare queste scuse tanto attese”.
La band ha il grande pregio di non adagiarsi sugli schemi che hanno dato loro il successo ma di osare immediatamente e andare oltre, riprendendo in mano gli strumenti e spostando con “Paul’s Boutique” il sound verso soul e funk e con il successivo “Check your head” spingendosi, con venti brani, a jazz, hardcore, sperimentazione, funk, rap.
Una caratteristica che sarà il filo conduttore delle opere successive, in cui non ci saranno mai limiti alla loro grande creatività.
“Hello Nasty” nel 1998 li consacrerà ulteriormente, con primi posti in vari paesi del mondo e milioni di copie vendute.
Il tutto sotto il loro totale controllo artistico, grazie all’etichetta che fondano, la Grand Royal, e con la quale portano avanti lo spirito autoproduttivo delle origini. Come dice nel libro il regista, che ha collaborato a lungo con la band, Spike Jonze:
“Non incidevano solo, creavano mondi. Hanno sempre fatto a modo loro. Non c’era nessuno di un’etichetta discografica a dirgli cosa fare. I Beastie Boys andavano per la loro strada e quando finivano un lavoro – le foto, il video, l’album – consegnavano tutto alla casa discografica”.
Interessante anche l’evoluzione e il cambiamento sistematico della loro estetica che ha spesso precorso le mode e le tendenze, che assemblavano dalla strada.
Significativa la scelta per incidere “Mix Up” del 2007 in cui abbracciano un funk soul jazz strumentale.
“Se avete intenzione di incidere un album strumentale dovete vestirvi in maniera adeguata, come dei jazzisti. Gli abiti che indossate sono importanti, cazzo”.
E così fecero, ogni giorno in studio di registrazione.
Un brutto male portò via Adam Yauch nel 2012 e il suo ricordo è malinconicamente costante nel libro.
“La band non si è sciolta. Adam ha avuto il cancro ed è morto. Se non fosse successo, probabilmente staremmo registrando un album mentre state leggendo queste righe”.
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RispondiEliminaSabrosa!
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