Riprendo l'articolo scritto ieri per "Libertà" con alcune personali considerazioni sulle polemiche innescate dal concerto di Bruce Springsteen a Ferrara, durante l'alluvione in Romagna.
Freddie Mercury nella consapevole imminenza della prossima scomparsa volle incidere con i Queen il suo testamento artistico, con tanto di struggente video, “The show must go on” (lo spettacolo deve continuare), nel 1991 (il cantante morirà circa un mese dopo la pubblicazione del brano), benedicendo la possibilità che il gruppo proseguisse senza di lui (cosa avvenuta e che continua a intermittenza fino ai nostri giorni), senza polemiche da parte di fan e critica.
Lo spettacolo deve continuare?
Sempre e comunque?
A questo proposito non si placano le polemiche relative al concerto di Bruce Springsteen a Ferrara, negli stessi giorni in cui, a pochi kilometri di distanza, la Romagna sprofondava sotto l’acqua e si contavano i morti e danni di immensa portata.
Ingenuamente e in modo velleitario in molti hanno chiesto la sospensione, il rinvio o l’annullamento del concerto.
Una logica e umana reazione a un contrasto così tanto stridente tra una manifestazione ludica e una tragedia.
Nella pratica annullare o anche solo spostare il concerto era praticamente impossibile, se non in caso di cause di forza maggiore. Ferrara era al sicuro e non c’erano ragioni tecniche per provvedimenti di quel tipo.
Se non strettamente “morali”.
Le assicurazioni non avrebbero pagato nessun risarcimento, i cinquantamila biglietti da rimborsare sarebbero stati a carico di un’organizzazione che aveva già investito cifre enormi per l’allestimento, gli anticipi (e il successivo saldo) al management e all’artista, il danno logistico per la città enorme (hotel disdetti, mancati guadagni di ristoranti, bar, parcheggi, merchandising etc).
Parlando con un amico addetto all’organizzazione (aiutante di “seconda fascia”) spiegava come i tre eventi italiani di Springsteen (il prossimo a luglio a Monza) gli fruttassero la metà dello stipendio annuale, se non di più.
Ovvero: dietro a ogni mega concerto c’è un’organizzazione che impiega centinaia, se non migliaia, di lavoratori e lavoratrici che da eventi di questa portata traggono una delle principali fonti di guadagno.
Fermare, seppur con tutte le ragioni del caso, un concerto del genere significava fare crollare le entrate (come abbiamo visto, in certi casi, di portata annuale) per una categoria già così bastonata, precaria e bistrattata come quella della maestranza del settore “artistico” (musicale, teatrale, cinematografico), il più delle volte pensata e considerata come poco più di un hobby.
L’appunto, necessario e ovvio, che si può e deve fare a Springsteen è stata la mancanza di una pubblica sensibilità nei confronti della tragedia, a fianco della quale si è esibito.
Patetiche e pure un insulto all’intelligenza le scuse addotte da organizzatori e entourage del Boss: “non sapeva”. Sorvoliamo.
Una frase, un omaggio, un saluto (accuratamente evitato anche nella successiva data di qualche giorno dopo a Roma) sarebbe bastato a renderlo semplicemente “umano”, partecipe, solidale.
Soprattutto dopo anni di enfasi sulla sua vicinanza ai poveri, ai derelitti, agli ultimi della società.
Un po’ di coerenza non guasta, anche dall’alto di una popolarità mondiale, una devozione sconfinata e acritica dei fan, una vita dorata, facile e spensierata, un conto in banca esagerato.
Un atteggiamento sinceramente incomprensibile.
Di contro è necessario sottolineare come siano spesso gli stessi fan ad attribuire all’idolo di turno una funzione salvifica, “sacerdotale”, un’intoccabilità, sepolta in un immaginario in cui l’artista diventa dispensatore di benedizioni, di capacità risolutive.
A quanto (lontanamente) ricordo, si dice durante la Messa: “Ecco l'Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo. O Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa: ma dì soltanto una parola ed io sarò salvato.”
Senza voler sembrare blasfemo, purtroppo in certi casi l’artista a cui si delega il “Verbo” assume un ruolo che ovviamente non ha e, si spera, in molti casi non vuole avere.
Springsteen era lì per suonare, per svolgere il suo lavoro e una sua parola non avrebbe salvato niente e nessuno.
Sarebbe però stata opportuna, umana e gradita.
Gli Who avevano preconizzato già nel 1969 una visione simile con l’opera rock “Tommy” in cui Pete Townshend, uno che ha sempre visto lontano (non a caso uno dei migliori brani di qualche anno prima della band si intitolava “I can see for miles” – posso vedere per miglia e miglia) e ritraeva l’ascesa a culto messianico di un ragazzo muto, sordo e cieco, di cui tutti diventavano devoti, attribuendogli poteri salvifici.
Per Tommy finirà male.
Gli stessi Who si sono ritrovati frequentemente in casi simili, sfortunati e tragici, in cui la necessità di decidere se andare avanti o meno fu necessaria. Dalla scomparsa del batterista Keith Moon nel 1978 che mise in seria discussione l’opportunità di proseguire la carriera senza di lui e di finire il film “Quadrophenia” in corso di realizzazione.
In entrambi in casi, dopo molti tentennamenti, si decise di andare avanti.
Il peggio accadde il 3 dicembre del 1979 a Cincinnati.
Prima del concerto nella calca per accedere al Riverfront Coliseum rimasero schiacciate e morirono undici persone, la più giovane di quindici anni, la più vecchia di ventisette.
Per evitare ulteriori problemi al gruppo fu tenuta nascosta la tragedia e il concerto ebbe ugualmente luogo. Una volta informata, la band ne uscì moralmente distrutta.
Il cantante Roger Daltrey era deciso a cancellare il resto del tour ma Pete Townshend ebbe la forza di rincuorare il gruppo "Se non suoniamo domani, non suoneremo mai più".
Così fecero e chiusero la serie di concerti.
Ricapitò ancora a loro la necessità di piegarsi alla logica del “The show must go on”.
Il 27 giugno 2002, nell’imminenza di un lungo tour americano, il bassista della band, John Entwistle, decise di anticipare la partenza e di recarsi a Las Vegas, dove, per non annoiarsi troppo, si appartò con una prostituta in un hotel, assumendo all’uopo un po’ di (troppa) cocaina.
Un infarto se lo portò via nel modo più rock ‘n’ roll possibile.
Ci sono ventotto concerti in programma ovvero centinaia di migliaia di biglietti già venduti, un’organizzazione avviata da mesi, decine e decine di lavoratori in attesa di iniziare.
Che fare?
Ancora una volta prevale la necessità di anteporre il lavoro all’emotività, la band recluta il bassista Pino Palladino, che da allora rimane membro fisso del gruppo e la serie di concerti verrà portata a termine.
Tra le rare occasioni in cui la decisione non fu delegata ad artisti o manager, c’è stato il recente periodo del Covid in cui tutti gli eventi legati al mondo dello spettacolo furono tristemente cancellati. “Quando ho capito che i concerti sarebbero saltati mi è crollato il mondo addosso” commentò Vasco Rossi.
Per qualcuno invece lo show poteva anche non andare avanti se non alle loro condizioni.
Nel 1964 i Beatles intrapresero il loro primo tour americano (che decretò il definitivo successo mondiale e grazie al quale e alle relative apparizioni televisive, migliaia di ragazzi e ragazze decisero di impugnare uno strumento musicale e cambiare vita).
Tra i concerti previsti anche uno a Jacksonville in Florida.
Ma appena la band seppe che avrebbero dovuto esibirsi davanti a una platea “segregata”, con bianchi e neri divisi, rifiutarono decisamente e inserirono nel contratto che non sarebbe mai accaduto nel tour, altrimenti non si sarebbero presentati sul palco.
“Non abbiamo mai suonato davanti a un pubblico separato secondo la razza e non inizieremo ora. Preferirei rinunciare ai miei soldi” dichiarò John Lennon.
In un’altra storica occasione, proseguire con lo show fu una decisione opportuna, seppure controversa.
Il 4 aprile, a seguito dell’assassinio di Martin Luther King, in centoventi città americane si verificarono pesanti scontri a causa della rivolta degli afroamericani contro l’ennesimo attentato sulla strada per la rivendicazione dei loro diritti, di cui King era uno dei principali portavoce.
Il giorno dopo era previsto un concerto di James Brown a Boston, sold out da tempo. Per evitare che la cancellazione provocasse ulteriori incidenti, Brown decise di esibirsi e di concedere la trasmissione del concerto in diretta televisiva in modo che più gente possibile rimanesse a casa. Così accadde e la situazione nella città del Massachussetts rimase tranquilla e quando ci fu un accenno di invasione di palco da parte di giovani neri con reazione violenta della polizia bianca, fu lo stesso James Brown a pacificare tutti:
“Vi chiedo di tornare ai vostri posti, siate dei gentlemen. E ora alla polizia chiedo di fare un passo indietro perché sono sicuro di potere avere il rispetto dalla mia gente”.
A volte bastano poche parole per cambiare il corso della (o di una) storia.
Anonimo delle 12,42
RispondiEliminaJames Brown come bartali in francia al tour...e gli who come la Juventus con il Liverpool ( io credo che la squadra non avesse idea della portata el dramma) o i pearl jam