giovedì, maggio 25, 2023
Tashkent novembre 2022
L'amico SOULFUL JULES, abituale frequentatore, per motivi di lavoro, dell'ex Urss, ci introduce nel clima di alcune zone, tristemente famose in questi giorni.
Ci aiuta a capire e ad approfondire, al di fuori di divisioni ideologiche, polarizzazioni, supposizioni.
Colgo l'occasione per ringraziarlo una volta di più per avere concesso il privilegio a questo blog di entrare con gli occhi di una persona colta, preparata, informata, dalla mente aperta e fresca, in un mondo sconosciuto, andando oltre alla rinnovata "cortina di ferro", riportando la voce della gente, le impressioni, gli sguardi, i colori.
Spero presto di ritrovare buona parte di questi contributi in un libro.
Le precedenti puntate di "Tales from ex Urss" sono qui:
https://tonyface.blogspot.com/search/label/Tales%20from%20Ex%20Urss
Tashkent novembre 2022
PARTE UNO (prossima settimana la seconda puntata).
A novembre ritorno in Uzbekistan.
In aeroporto a Istanbul è pieno di russi, sui monitor sono indicati gli orari dei voli per Kazan’, Mineral’nye Vody e Novosibirsk.
In sei mesi la Turchia è diventata il principale hub internazionale per la Russia.
Atterro a Taškent che sono le due di notte, fuori mi aspetta Svjatoslav, un ragazzo biondo che lavora per il nostro distributore. Prima di partire mi ero sentito con Ravšan, gli avevo detto di non preoccuparsi, avrei prenotato un taxi.
Non c’è stato verso:
“Tu sei l’ospite, arrivi dall’Italia e veniamo a prenderti!” ha sentenziato il mio referente, che è rimasto a dormire.
L’albergo è a pochi minuti di strada, in un quartiere periferico, edifici bassi, scheletri di palazzoni in costruzione e un campo di calcetto con dei ragazzi sudati che corrono come dannati sotto le luci dei riflettori.
“Ma questi giocano alle tre di mattina?”
“Chissà, magari di giorno lavorano…” risponde serafico Svjatoslav.
Poco prima di pranzo passa a prendermi per portarmi nella sede centrale, dove ho in programma due seminari per i clienti del nostro rivenditore.
In Russia ormai non fa quasi più effetto se dici che alla conferenza viene uno dall’Italia, qua invece è un evento, c’è un sacco di gente.
Ravšan mi presenta un tot di uomini barbuti con i nomi impronunciabili, sono venuti da lontano e mi salutano con un mezzo inchino e la mano sul cuore.
Nessuno ha il capo coperto, un terzo sono donne coi capelli in libertà, vestite bene, all’occidentale, quasi tutte con lineamenti asiatici.
Fanno domande, si interessano e prendono nota perché tanti articoli li vedono per la prima volta.
Reggicristalli squadrati, con la finitura nero nickel che riflette la luce dei faretti led all’interno delle vetrine; le attaccaglie per basi sospese, con le regolazioni 3D e il sistema di fissaggio brevettato.
La sala ospita un centinaio di persone, l’ambiente curato e pulito.
A fine giornata vorrei tornare in albergo ma Ravšan non vuole sentire ragioni.
“Sei in Uzbekistan, non si rifiuta un invito a cena!”
Lo dice sorridendo, i denti bianchissimi e regolari, con quel modo seducente che hanno certi medio-orientali, ce l’hanno nel sangue questa cosa di vendere e negoziare ad ogni costo.
In auto, nel tragitto verso il ristorante, chiacchiero un po’ con Marina, la ragazza che segue i nostri ordini.
Capelli a caschetto, occhi a mandorla scuri, labbra carnose e figura minuta. È di etnia coreana ma è nata in Uzbekistan, dove si è laureata in economia.
Poi ha deciso di cambiare aria, ha trascorso un periodo a Seul per studiare la lingua (“ma è troppo difficile, la capisco un po’ ma faccio fatica a parlare”) e sei anni fa si è trasferita col marito a Mosca, dove sono rimasti fino a febbraio.
“Appena è scoppiata la guerra abbiamo deciso di tornare a Taškent.
Là stavamo bene ma in quei giorni erano tutti nel panico, c’era un clima di angoscia che mi viene male a pensarci.”
Increspa le labbra, un velo opaco le oscura lo sguardo.
“Cosa facevate?”
“Mio marito lavorava in banca, io ero responsabile della logistica per un’impresa edilizia, una delle più grandi a Mosca.”
“E adesso com’è qua?”
Sospira prima di rispondere: “Più comodo, tutto più compatto.” stringe le mani come a formare una pallina.
“Non perdi la giornata per andare e tornare dal lavoro ma è difficile trovare un appartamento. Negli ultimi mesi gli affitti sono raddoppiati, è pieno di russi che sono scappati e quelli che cercano casa pagano bene.”
Al ristorante veniamo accolti da una ragazza immagine con labbra e occhi grandi, sorride in modo impostato e ci accompagna al nostro tavolo, le spalle dritte e i menu sotto il braccio. L’ambiente è sobrio, arredamenti eleganti senza eccessi.
L’unica cosa che rompe è la musica alta, quasi ci impedisce di parlare.
Ravšan si accorda col cameriere per una cena veloce, menu già definito. Anche se siamo in tre, ordina roba per otto persone, tutte cose buonissime.
Si parte con insalata di pomodori e antipasti georgiani come pkhali, polpette vegetariane con chicchi di melograno, e involtini di melanzana con un ripieno di noci e verdure. Io sarei anche a posto ma qua un pasto senza carne è come un compleanno senza torta.
A un certo punto si avvicina al tavolo un ragazzo traccagnotto, si distingue dagli altri camerieri perché indossa un grembiule di pelle nera e ha l’aria compiaciuta di chi gode di una certa autorità. Confabula un po’ con Ravšan e si allontana annuendo.
Dopo qualche istante si spengono le luci e le casse iniziano a pompare un pezzo rock blues un po’ rozzo, roba da biker con i capelli lunghi, gli stivali in cuoio e il chopper che sgasa su una strada polverosa.
Un ragazzo mingherlino spinge verso di noi un carrello con sopra un piatto illuminato da due tubetti con le estremità scintillanti, tipo le stelline di Capodanno. Ecco servito il montone con i fuochi d’artificio.
Tutti gli ospiti del locale interrompono cene e discorsi per guardare verso il nostro tavolo, Marina tira fuori il cellulare e fa un video, l’espressione meravigliata di una bambina al luna park.
Finalmente si riaccendono le luci e cambia la musica, si avvicina il tizio con il grembiule in pelle e inizia a preparare la carne. Una volta fatte le porzioni, alza il braccio in maniera teatrale e sparge il sale sfarfallando con le dita come Salt Bae, il polso inarcato che ricorda il collo di un cigno. Sorride soddisfatto e si allontana.
Ravšan mi guarda come per dire “E tu che volevi andare in albergo…”
La mattina successiva mi alzo presto perché dobbiamo prendere un treno per Samarcanda, trecento chilometri a sud-ovest di Taškent, per visitare dei clienti.
L’albergo dove mi sono sistemato è recente ma piccolino, due piani e una decina di stanze in tutto, nel complesso ben tenuto.
Nel corridoio che funge da lobby fa freddo e tira aria, il ragazzino che sta alla reception mi osserva mentre mi abbottono il trench e sistemo la sciarpa attorno al collo. Si avvicina alla porta spalancata e allunga la mano verso l’esterno.
“Ho aperto tutto, così si sente il profumo della pioggia.” dice con un candore disarmante che annulla le maledizioni prima ancora che si materializzino nella corteccia cerebrale.
Ravšan arriva un po’ in ritardo, aria sbattuta, faccia grigia. Increspa la fronte, deglutisce con fatica.
“Mi sa che ieri sera ho mangiato troppo.”
“Ehhh” commenta il grillo parlante.
Albeggia, scende una pioggerellina fine e gelida, per strada ci sono poche macchine, davanti alla stazione lavori in corso, una donna che indossa un giubbotto catarifrangente spazza la strada bagnata con una ramazza di saggina.
La sala di attesa è piena di gente, Ravšan fa un salto al bar a prendere due caffè prima della partenza e mi lascia da solo raccomandandosi di non allontanarmi, come se avessi sette anni.
Davanti a me una decina di anziani vestiti di bianco dalla testa ai piedi, le donne hanno i baffi più radi degli uomini.
Fanno parte di un coro di tosse asinina, Gli Espettorati. Scatarrano a turno o in coppia, senza sosta, nessuno che faccia il gesto di mettersi una mano davanti alla bocca, se ne restano lì a boccheggiare, imperturbabili.
Finalmente arriva il nostro treno, un convoglio recente, in testa la motrice con il muso a punta. Sulla banchina ci raggiungono Askar e Marija, due colleghi di Ravšan.
Il controllore guarda i nostri biglietti prima di farci salire, è un ragazzo alto con i capelli corti, gli occhi a mandorla e l’aria distinta per via del cappotto di Astrakan con la spilletta delle ferrovie uzbeke.
Abbiamo tre ore di viaggio e vorrei dormire un po’ ma Ravšan continua a parlare, mi chiede se ho un profilo Instagram, gli spiego che non lo uso da due anni. Insiste perché glielo mostri e quando vede il numero di follower si mette quasi a gridare “Wow! Ma sei una celebrità!”. Scrolla verso il basso, osserva le immagini della pagina finché non compare un primo piano di Vladimir Majakovskij, i capelli rasati e lo sguardo torbido.
“Grande! Anche la poesia russa.”
“Ho studiato lingue a Venezia. Come pensi che sappia il russo?”
“Conosci Turgenev?” non mi dà neanche il tempo di rispondere che subito precisa: “Tu non lo sai ma io sono suo bis-bis nipote.”
“Eh?”
“Ivan Turgenev era mio bis-bis nonno, da parte di madre.”
Sembra improbabile che il ragazzo seduto al mio fianco sia il discendente di uno dei più famosi scrittori russi ma in realtà non ho motivo di dubitare, Ravšan mi ha già detto varie volte che sua madre era di origine russa e non è uno che racconta balle.
“Ho fatto la tesi su Turgenev.”
Risparmio a Ravšan i dettagli della mia tesi e provo a dormire.
Solo che il mio vicino si muove e si agita, allarga i gomiti, batte il piede sul pavimento in maniera ossessiva, telefona in continuazione. Apro gli occhi, guardo fuori. Cielo color cemento, campi bagnati, verdi, selvatici, qualche villaggio.
I passaggi a livello sono presidiati dalla polizia, le macchine in attesa ai lati della ferrovia, i conducenti fuori, appoggiati alle portiere, fumano e guardano il treno che passa. Alla nostra destra si alzano delle colline, montagne sullo sfondo, ogni tanto una casetta dalle pareti grigie, senza intonaco, tutto attorno cespugli, capre che pascolano, montoni, qualche mucca, un trattore parcheggiato.
Poi lo skyline si infittisce, edifici sempre più alti, il treno inizia a rallentare e il nostro vagone si inclina, stiamo arrivando alla stazione di Samarcanda.
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