mercoledì, novembre 09, 2022

Alan Sorrenti


Riprendo l'articolo scritto per "Libertà" domenica scorsa.

Uno degli artisti italiani con maggiore successo negli anni settanta con la travolgente popolarità di un brano come “Figli delle stelle” che lo lanciò nel firmamento del pop e della disco music, diventando un classico della musica nostrana, Alan Sorrenti, nonostante il suo nome rimanga ancorato a quell'episodio, ha una vita artistica (e non solo) variegata e particolarmente interessante.

ALAN SORRENTI nasce nel 1950 a Napoli da padre partenopeo e madre gallese, trascorre buona parte della sua infanzia e adolescenza nel paese britannico per poi stabilirisi nel capoluogo campano e incominciare a frequentare, fin da giovanissimo, la scena musicale locale. Gli inizi della carriera artistica lo colgono alle prese con un'originale e personale via al prog e al cantautorato più psichedelico.

I primi due album “Aria” e “Come un vecchio incensiere all'alba in un villaggio deserto” (era frequente, in quegli anni, utilizzare lunghi titoli per i dischi e per i gruppi), rimangono dei piccoli classici nel loro genere, pur se necessariamente da contestualizzare al periodo (vedi la suite di venti minuti che dà il titolo al primo album, molto sperimentale, onirica, coraggiosa, sospesa tra progressive e free jazz).
I dischi avranno molto riscontro critico ma non particolarmente nelle vendite, lasciandolo confinato al circuito più colto e lontano dal commerciale.

“Era un periodo di movimenti e di sogni di rivoluzione, in qualche modo mi sono trovato a parteciparvi e a trasmettere le mie osservazioni ed emozioni. Ma sempre filtrando attraverso le mie emozioni”.

Prova una strada meno complessa e più cantautorale con l'omonimo “Alan Sorrenti” del 1974, cogliendo un primo successo con la versione del classico napoletano “Dicitencello vuje” che entra nelle parti alte della classifica italiana.

Ma Alan è uno spirito inquieto.
L'esperienza in Galles e Inghilterra (in cui aveva assaporato la rivoluzione estetica e culturale degli anni Sessanta e lo aveva portato ad approfondirne l'aspetto artistico, potendo vedere gruppi storici e girare locali in cui si suonava la migliore musica in circolazione) lo portano a ricercare cose nuove, a scapito della voglia di successo.
“Non volevo per nulla diventare popstar: volevo solo sfuggire alla politicizzazione della musica italiana e capii come provarci dopo aver scoperto il fascino del ritmo durante un viaggio in Africa. Ci ero andato a registrare musica tribale per un professore di etnomusicologia dell’Università di Bologna”.

Vola in California, si circonda di “signori musicisti” del luogo e incide, nel 1976, un album ancora oggi affascinante, “Sienteme, it's time to land” in cui convergono le sue principali influenze, musica mediterranea, funk, discomusic, soul.
Cantando un po' in napoletano, italiano e inglese.
“Sono un outsider. Spesso ho fatto scelte che parevano incomprensibili ai miei stessi fan, che mi accusavano di tradimento.
Nel 1977, dopo la rivelazione delle potenzialità del ritmo, andai in California a lavorare col gotha della musica di allora, da Graydon, produttore di Diana Ross, a David Foster che lavorava coi Bee Gees: lì la bozza del brano originariamente concepito come Heaven diventò Figli delle stelle lanciando il messaggio ancora valido che siamo tutti fatti della stessa materia prima e che non dobbiamo mai rinunciare alla gioia di vivere. Ma anche dopo Figli delle stelle ho fatto scelte di segno opposto, non volendo sottostare a un modo di far musica che non era il mio: e penso che proprio questo indichi che sono ancora quello degli inizi. Un artista che entra ed esce dalle situazioni, approfondendole ma superandole tutte"
.

Ed ecco arrivare il grande successo. “Figli delle stelle” esce nel momento in cui il suono discomusic sta esplodendo ovunque. In Italia supera agevolmente il milione di copie.
Come ha recentemente spiegato in un'intervista al “Corriere”:
“Non è nata all’improvviso, l’ispirazione arrivò in America. Ero nelle stelle non soltanto in senso fisico, prendevo parecchi aerei, ma anche per l’energia e la magia che trasmetteva Los Angeles.
Quell’anno uscì Star Wars di George Lucas, feci la fila a un cinema, il Sunset Boulevard era un luccichio continuo. In Italia la presentai per la prima volta al Divina di Milano, un club gay.
Quella sera c’era anche Grace Jones che cantava la Vie en Rose. Per me quella canzone rimane una rivelazione, sono ancora un figlio delle stelle”.


La svolta commerciale viene accolta come un tradimento da parte dei fan e con ostilità dagli amanti del rock (sta esplodendo il punk proprio in quei giorni).
La musica è leggera e facile ma la produzione è a livelli di assoluta eccellenza, si respira il classico groove funky americano dell'epoca, la composizione è raffinata, elegante e curatissima.
Non è finita.
Due anni dopo torna con “L.A.&N.Y” (in cui compaiono musicisti di pura maestria come Steve Lukather e Mike Porcaro dei Toto, tra i tanti) e non solo riesce a bissare il recente successo ma lo incrementa con “Tu sei l'unica donna per me”, con cui vince il Festivalbar e rimane primo nella classifica italiana per quattordici settimane consecutive, risultando il singolo più venduto dell'anno.
L'album è di sorprendente levatura artistica, suonato benissimo, arrangiato alla perfezione, disco soul funk di eccelsa qualità. Il successo è bello, regala soddisfazioni e privilegi ma può portare anche molti guai:
“Volevo gestire la mia vita e non ci riuscivo più. All’inizio la fama è un gioco divertente, un bel film di cui sei il protagonista. Dopo viene fuori una follia autodistruttiva, cominci a essere così incasinato e fatto che non puoi più creare quello che vuoi”.

Incide ancora un paio di album poco interessanti e non particolarmente ispirati e nel 1983 finisce, pur brevemente, in carcere dopo una spiacevole vicenda in cui viene accusato di possesso e spaccio di stupefacenti.
Le conseguenze sono le consuete e drammatiche per un artista: snobbato dagli “amici”, epurato da radio e televisioni, ignorato dalle etichette discografiche.

La strada salvifica sarà l'adesione al Buddismo di Nichiren Daishonin che lo allontanerà dalle “cattive compagnie”, lo riporterà alla spiritualità che lo aveva sempre contraddistinto e gli farà ritrovare il giusto equilibrio e la voglia di ripartire. Non sarà facile, le mode e le tendenze arrivano, passano e ti lasciano indietro.

Nel 1992 si ripresenta con “Radici”, una rivisitazione dei brani più famosi in una nuova versione ma pur se i nuovi arrangiamenti sono pregevoli, gli ospiti prestigiosi, da Tony Esposito all'ex Roxy Music Phil Manzanera, l'album lascia scarse tracce. Un lungo silenzio interrotto da sporadici ritorni (tra cui l'ovvio inserimento del suo brano più famoso nel film “Figli delle stelle” con Pierfrancesco Favino e Fabio Volo del 2010), alcuni remix dello stesso brano, qualche premio, varie compilation con i soliti successi.

Giunge ora un' inaspettata ricomparsa con un album nuovo di zecca, “Oltre la zona sicura” che ce lo consegna ancora all’insegna della freschezza e della creatività, con nove inediti che si muovono in perfetto equilibrio tra un pop moderno e attuale e chiari quanto voluti agganci con il sound che lo portò al successo negli anni 70, tra funk e disco. Scrittura elegante e raffinata, produzione curata impeccabilmente da Stefano Ceri, un ritorno di grande qualità.
E' un piacere e sollievo ascoltarlo ancora in forma eccellente e in grado di esprimersi al meglio. L'auspicio è di ritrovarlo presto ancora protagonista nelle classifiche e non solo con “Figli delle stelle” a cui rimane indissolubilmente legato:
“C’è proprio bisogno di ricordarla, è una canzone che parla di persone sole, che si incontrano ma poi si perderanno. Parla della gioiosa solitudine che tutti abbiamo dentro di noi. I giovani la amano: una sera camminavo per la strada vicino casa mia dove ho incrociato un gruppo di ragazzi che cantava Figli delle stelle senza avere la minima idea di chi io fossi”.

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