lunedì, luglio 04, 2022
70's New York
Riprendo l'articolo che ho scritto ieri per "Libertà".
Si parla della New York degli anni 70 in cui visse e crebbe PATTI SMITH, recentemente santificata a Piacenza in un concerto riservato, più o meno, ad autorità, correntisti della banca che lo ha organizzato, notabili e un pugno di fortunati a caso che hanno avuto l'opportunità di accedervi.
La "santa", la stampa ha dimenticato di ricordarlo, ha iniziato in un ambiente non propriamente borghese ed edificante.
Di questo parla, genericamente (ci vorrebbe un libro) l'articolo.
C'è una narrazione dietro a ogni evento, luogo, epoca.
E' importante che qualcuno racconti le cose come sono state, in modo fedele, prima che qualcuno si prenda la briga di farlo “per sentito dire” e tramandi tutt'altra cosa.
Se pensiamo a New York ci sembrerà impossibile ma negli anni Settanta era una città pericolosissima, violenta, in bancarotta, in totale disfacimento logistico e umano.
Erano tempi in cui la polizia, ai passeggeri in arrivo all'aeroporto JFK, distribuiva un volantino, corredato da minaccioso teschio, con la scritta “Benvenuti nella città della paura”, con un vademecum in cui si consigliava di evitare luoghi come Manhattan (per non parlare di Bronx o Harlem, zone in cui spesso nemmeno le forze dell'ordine avevano l'ardire di entrare), di non avventurarsi in strada dopo le 18 e di lasciare perdere assolutamente la metropolitana. Ci vollero anni per “ripulirla”, spesso utilizzando metodi altrettanto violenti e discutibili.
E' probabilmente una forzatura ma il famoso concetto che esce da “Via del Campo” di De André, “Dai diamanti non nasce niente/ dal letame nascono i fior” ben si addice alla situazione della Grande Mela dell'epoca.
Da cui nacquero tanti fiori.
Alcuni “del male”, per citare Baudelaire, ma che rimangono tutt'ora splendenti opere d'arte.
La suddetta narrazione spesso trascura il clima di degrado e disfacimento, umano e sociale, l'eroina che scorreva a fiumi, la prostituzione diffusa per procurarsela (maschile e femminile), il crimine, le condizioni di vita al limite della sopravvivenza.
Lo ricorda Patti Smith in un'intervista: “Per me, essere affamata e senza un soldo ma essere libera di vivere in un casino e non dovermi preoccupare se non facevo il bagno per una settimana, era sufficiente”.
Da quel calderone infetto emergono nomi destinati ad entrare nella storia della musica e dell'arte e tanti altri rimasti nell'oscurità ma che hanno dato un contributo essenziale alla storia culturale di tutto il mondo. Nel 1978 Jim Carroll scrive il capolavoro “Jim entra nel campo da basket”, libro spietato che spiega drammaticamente il passaggio da un'adolescenza, all'insegna di una promettente attività sportiva, all'inferno dell'eroina. L'amica Patti Smith che da qualche anno bazzica New York, lo spinge a dedicarsi alla musica, che produce un album di incredibile intensità come “Catholic Boy”, del 1980. Patti amoreggia con il fotografo Robert Mapplethorpe, che intanto immortala la fauna dell'epoca con il suo occhio fotografico, e scrive album come “Horses” e “Radio Ethiopia”, prima di trovare il successo mondiale con “Because the night” scritta per lei da Bruce Springsteen, altro personaggio che alla Grande Mela deve molto.
Sono giorni in cui il punk sta aprendo strade insospettabili fino a poco tempo prima, convogliando nella sua scia un grande numero di giovani artisti che trovano finalmente una modalità di espressione, all'insegna del Do It Yourself (il fallo da te) e della possibilità di proporre la propria arte liberamente, senza legami con il mainstream.
Il cosiddetto “punk” new yorkese è in realtà un insieme di influenze e di entità unite dalla stessa attitudine ma spesso lontanissime da un punto di vista musicale e sonoro. Ramones e Dead Boys picchiano duro, Talking Heads e Bush Tetras suonano un funk metroplitano, mentre si fanno notare le devianze latine dei Mink Deville di Willy Deville, il minimalismo psichedelico dei Television, l'apocalisse elettronica dei Suicide e il pop dei Blondie. Wayne County non ha ancora cambiato sesso e nome in Jane e infiamma i palchi con un rock 'n' roll sferragliante, figlio dei padri (madri?) New York Dolls che sublimavano il travestitismo cantato da Lou Reed in “Walk on the wild side”, presentandosi sul palco vestiti da donne.
New York assorbe e restituisce le vibrazioni creative non solo dell'underground eroinomane ma anche nell'ambito più “commerciale” e cocainomane. La fastidiosa sottolineatura non è ricerca sensazionalistica ma la cruda realtà quotidiana dell'epoca e del luogo.
E', ad esempio, nelle discoteche della Big Apple che Mick Jagger trova l'ispirazione per spingere i Rolling Stones verso sonorità più discomusic (“Miss You” e “Emotional rescue”, tra le cause della frattura quasi insanabile, ai tempi, con Keith Richards), quella musica e ambiente tanto bistrattati ma che invece assimilavano nello stesso abbraccio bianchi, neri, portoricani, immigrati, etero, omosessuali, transessuali, senza alcuna distinzione razziale, sociale, sessuale.
Da queste parti, reduci dai capolavori berlinesi con David Bowie, approdano anche Brian Eno, per produrre, nel 1978, i Talking Heads e la mente dei King Crimson, Robert Fripp, pure lui a fianco della band di David Byrne e in “Parallel lines” dei Blondie. Nelle strade pulsano i ritmi dei primi germi del rap che troveranno casa nel nuovo album dei Clash, “Sandinista!” che registreranno proprio in città e faranno da cassa di risonanza mondiale per il nuovo sound. Nel frattempo il “signore di New York” per eccellenza, Lou Reed, incide capolavori tossici che potevano nascere solo qui, come “Street hassle”, il ruvidissimo “Live Take No Prisoners”, “The Bells” che fanno seguito a “Coney island baby”.
Da qualche parte, in appartamenti fatiscenti, nasce il Colab (Collective Projetcs Inc) che organizza mostre (in particolare il Times Square Show. Ai tempi Times Square era luogo pericoloso, di spaccio e delinquenza) con giovani artisti, destinati a diventare celebrità, come Jenny Holzer, Nan Goldin, Keith Haring, Kenny Scharf, Jean-Michel Basquiat e Kiki Smith.
"Stavamo tutti cercando di portare fuori l'arte dalle gallerie e proporla sulla strada. L'importanza del luogo è stato poter camminare per 42nd Street e vedere la cultura pop declinata attraverso film da tre dollari, blaxploitation, negozi di pornografia, prostitute, gang e droghe...ci ha permesso di parlare del ventre della cultura." (Tom Otterness).
Secondo la scrittrice Fran Lebowitz, tutti coloro che leggevano “Interview”, il periodico curato da Andy Warhol e Gerald Malanga, si conoscevano, un piccolo mondo che ha avuto un'influenza duratura sul gusto e sulla musica americana, sulla pittura, sulla poesia e sui divertimenti.
John Lurie è stato un esponente affine alla scena No Wave.
Saxofonista con i Lounge Lizards che destrutturavano il jazz, mischiandolo all'attitudine punk, come i Contortions di James Chance. Poi diventato famoso per i film con Jarmusch e Benigni (“Daunbailò” in particolare) fu diretto protagonista di quegli anni e riesce a rappresentare l'epoca in poche parole: “Eravamo così sicuri di noi stessi, non abbiamo mai dubitato di nulla.
Eravamo potenti, intelligenti, energici, fiduciosi, egocentrici e incredibilmente ingenui. Niente al di fuori del nostro raggio di quattordici isolati aveva importanza. Da Houston alla Quattordicesima Strada, dalla Bowery all'Avenue A, quello era l'unico universo. A quel tempo nell'East Village nessuno faceva quello che sapeva fare”.
Gli artisti della scena collaborano, si incontrano, fondono esperienze, vite, creatività: “ Io e Jean-Michel Basquait dipingevamo spesso insieme e poi, magari, io mi esercitavo al sax e lui tornava a dipingere. C’era una meravigliosa, quasi bambinesca libertà nel modo in cui lavoravamo” (John Lurie). Erano anni in cui gli affitti erano bassi, in cui aspiranti scrittori, cantanti, ballerini potevano permettersi di vivere nel villaggio di Manhattan, prima che tutti i marginali venissero ulteriormente emarginati e sostanzialmente espulsi verso altre zone mentre incominciava la selvaggia gentrificazione.
Negli anni Settanta, creativi di ogni tipo potevano incontrarsi senza dovere per forza avere progetti comuni, scambiarsi consigli o discutere di teorie, mercati o movimenti che stavano esplodendo e crescendo.
Paradossalmente Lurie coglie uno degli aspetti salienti:
“New York ha certamente perso qualcosa. Per esempio: non è più pericolosa come una volta. Male. Prima dovevi essere un duro: ci voleva carattere per viverci.
Adesso sembra un grande shopping mall per gente che si fa pagare l’affitto da papà e mamma”.
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