giovedì, marzo 03, 2022
Jack Johnson
Riprendo l'articolo che ho firmato domenica per "Libertà".
La musica si è spesso intrecciata con lo sport.
Esaltando i campioni, tributando omaggi alle squadre preferite, non di rado gli stessi artisti hanno intrapreso carriere (para)agonistiche o provenivano da tentativi in ambito sportivo finiti male.
A cui supplirono con il canto o una chitarra.
D'altronde molto spesso l'unica strada per uscire da condizioni sociali disagiate e per riscattare situazioni precarie era (e ancora sovente sono) affermarsi come musicista o sportivo.
Tanta gavetta e sacrifici ma anche un potenziale improvviso successo planetario. In tal senso il pugilato è stata un'ispirazione costante per tantissimi artisti che da un immaginario, ormai purtroppo decisamente decaduto e passato in secondo piano, hanno tratto spunto per scrivere brani epici.
Bob Dylan contribuì non poco alla liberazione di Robin Carter, detto “Hurricane”, ingiustamente incarcerato e alla fine prosciolto, grazie anche all'omonimo brano che gli dedicò nell'album “Desire” e a una serie di concerti che peroravano la causa.
Muhammad Alì e Joe Frazier non sono stati solo omaggiati da vari brani ma sono diventati anche, spesso e volentieri, cantanti e autori di dischi, non cavandosela nemmeno troppo male.
Ma l'elenco è davvero lungo.
In questo caso è interessante soffermarci sulla figura di un mito del pugilato, dimenticato, se non rimosso.
Ma talmente importante che venne ricordato da un altro mito, della musica, Miles Davis e immortalato in un album. E che tra le altre cose, incarnò, tra i primi, modalità comportamentali che ritroveremo successivamente nelle abitudini delle rockstar.
Spendaccione, esibizionista, donnaiolo, sfacciato, provocatore, in costante aperta sfida con le autorità e le leggi segregazioniste.
Ma andiamo per ordine.
Jack Johnson era un ragazzo nero, nato in Texas nel 1878 da ex schiavi. Uno e ottantacinque (in un'epoca in cui l'altezza media era notevolmente inferiore a quella attuale) per 90 kili, soprannominato “Il gigante di Galveston” iniziò la carriera di pugile combattendo nelle Battle Royal, incontri in cui vari pugili si incontravano contemporaneamente fino a quando uno non rimaneva in piedi e in gare clandestine che gli costarono anche un arresto, in quanto illegali. In galera finì anche per avere combattuto con l'idolo texano dei bianchi Joe Choynski, in quanto pratica proibita nello stato.
L'avversario però fece amicizia con Jack durante la permanenza in prigione e ne divenne l'allenatore. Nel 1902, dopo cinque anni di professionismo, Johnson aveva già cinquanta incontri alle spalle, quasi tutti vittoriosi.
Conquista il titolo mondiale dei massimi per pugili di colore nel 1903 e nel 1908, in un epico incontro disputatosi in Australia, strapazza il campione in carica, canadese bianco, Tommy Burns (il cui vero nome, Noah Brusso, tradiva chiare origini italiane).
L'incontro si disputa per la prima volta nel nuovo continente perché in America, nazione in cui la boxe è uno degli sport più seguiti e praticati, nessuno è disponibile a ospitare un confronto tra razze miste.
Di fronte a 15.000 persone assiepate in una struttura fatta appositamente costruire, mandò più volte al tappeto l'avversario, irridendolo spesso (come prese a fare sessanta anni dopo il suo emulo Cassius Clay) e costringendo la polizia a intervenire sul ring alla quattordicesima ripresa per evitare conseguenze irreparabili per il malcapitato Burns.
La reazione degli americani alla notizia è isterica.
I giornali, nella migliore delle ipotesi, la ritengono scandalosa e inaccettabile, perfino uno scrittore illuminato come Jack London, già aderente alle idee marxiste, scrisse righe offensive e infuocate sul “New York Herald”. Da parte sua Jack Johnson non faceva nulla per rientrare negli schemi dell'uomo di colore sottomesso, docile e “al suo posto”.
Ostentava una sicurezza sbruffona, si prodigava per farsi notare, dalla guida di auto lussuose, talvolta con autista bianco al suo servizio, a una dentatura d'oro che farebbe impallidire i rapper attuali, fino alla, scandalosa e inaccettabile ai tempi, predilezione per le donne bianche (le sue tre mogli ad esempio).
Apre un night club, il “Deluxe”, che rivenderà anni dopo al gangster Owney Madden, che lo trasformerà nel mitico e celeberrimo “Cotton Club”.
Jack Johnson diventa simbolo di riscatto per tutti i neri, ancora trattati, nella maggior parte degli stati americani, come cittadini di rango inferiore, ma anche per tutti gli immigrati (italiani, irlandesi, est europei, orientali) che non avevano un ruolo sociale migliore.
Per anni sarà un ossessione per la comunità (sportiva e non) bianca anglo sassone trovare uno sfidante che potesse togliere il titolo a quell'indecenza.
Ma sono pochi quelli in grado di opporsi con qualche speranza di successo a un simile fuoriclasse. Ci prova nel luglio del 1910 Jim Jeffreys, “The Grizzly Bear”.
In realtà si è ritirato da tempo ma una bella borsa di dollari lo convince a incarnare la “grande speranza bianca”. Viene anche lui spazzato via da Jack. Già al terzo round Jeffreys è alle corde, sanguinante, mentre Jack continua a martoriarlo con i pugni e le parole, prendendolo in giro. Intorno la folla è in tumulto. Uno spettatore estrae una pistola e spara contro il ring.
Johnson indifferente continua la sua opera di demolizione, umiliando avversario e spettatori. Al quindicesimo round lo spedisce fuori dalle corde. La notizia provoca nuova indignazione, scontri, proteste in strada e perfino qualche linciaggio.
Alla fine si conteranno ventitrè morti e cento feriti.
Incomincia una vera e propria persecuzione giudiziaria contro Johnson che viene arrestato e condannato per motivi pretestuosi (sfruttamento della prostituzione ad esempio, per essere stato trovato in auto con una donna bianca mentre passava da uno stato all'altro).
Per sfuggire ai continui guai si rifugia in Messico e pare finisca per trattare il ritorno in patria con l'FBI, in cambio della cessione del titolo mondiale.
Così nel 1915 viene sconfitto, all'Avana (ai tempi cortile, o meglio bordello, degli Stati Uniti) in un incontro, si suppone concordato concordato, da Jeff Wilard, pugile di scarsa caratura che restituisce alla “dignità bianca” il titolo mondiale dei pesi massimi.
Bisognerà attendere fino al 1937 per rivedere un nero campione, Joe Louis. Sono anni in cui il Ku Klux Klan spadroneggia in America, non solo negli stati del sud, spesso gestendo cariche di vertice, con le immaginabili conseguenze per la popolazione nera.
Il mito di Johnson rimane comunque immutato e continua a raccogliere fan e interesse da parte del pubblico anche se ormai capisce l'impossibilità di potere aspirare ai vertici.
Continua così a combattere sul ring in situazioni meno nobili ma comunque sempre discretamente redditizie e necessarie per mantenere intatto il suo alto tenore di vita prima e per sopravvivere poi, ormai in progressive precarie condizioni economiche.
Incrocerà i guantoni fino a sessant'anni!
Muore in un incidente stradale a 68 anni.
Alla figura di Johnson sono stati dedicati film, documentari, libri.
Nel 2018 Donald Trump, sollecitato da Sylvster Stallone, gli tributò un “perdono” ufficiale in quanto vittima di pregiudizi razziali (curiosamente non accettò di farlo Barack Obama).
Nel 1971 Miles Davis, grande appassionato di boxe e lui stesso solito a salire sul ring per praticare la “nobile arte”, compose la colonna sonora del documentario “A tribute to Jack Johnson”, facendosi accompagnare da nomi stellari del jazz come John McLaughlin, Herbie Hancock, Billy Cobham, tra gli altri.
“Sono nero. Non mi hanno mai permesso di dimenticarlo. E non permetterò mai che lo dimentichino!”.
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