lunedì, marzo 14, 2022
Canzoni per l'8 marzo
Riprendo l'articolo scritto per "Libertà" in occasione dell'8 marzo.
Una triste garanzia che con malefica costanza si ripete ogni anno, senza significativi cambiamenti.
Una donna uccisa ogni tre giorni in Italia, incalcolabili i casi di violenze domestiche, soprattutto in due anni di pandemia che hanno acuito il problema, impedendone però l'effettiva emersione a causa degli ovvi problemi logistici.
Difficile da dire, ma cerchiamo di farlo esplicitamente, come è uso in questa rubrica, senza finti buonismi: non dimentichiamo quanto il problema sia altrettanto o ancora più drammaticamente diffuso all'interno di alcune comunità straniere, culturalmente ancorate a concezioni ataviche che non contemplano la parità tra uomo e donna e che mantengono una chiusura ermetica e impermeabile rispetto alla possibilità di evoluzione socio culturale.
Un dramma cui si cerca di fare fronte con la legge, le regole, la punizione ma che finisce per scontrarsi con un retaggio culturale che nonostante lenti progressi non riesce a mutare lo stato delle cose.
Alla base c'è il solito concetto: educazione, cultura del rispetto, condivisione, egualitarismo.
Che si impara in famiglia, a scuola, leggendo, ascoltando il prossimo, gli amici, le amiche, confrontando opinioni (non polarizzando le posizioni, sport preferito nei social, passati da mezzo di incontro a campo di battaglia in cui sfogare i peggiori istinti). Ma anche la musica può aiutare. Se non altro a capire.
In questa sede propongo una serie di canzoni adatte all'Otto Marzo ma che non tutti conoscono e che spesso arrivano da un lontanissimo passato in cui alle donne era perfino vietato votare o vivevano in luoghi in cui il colore della pelle era ulteriore motivo di discrimine o ancora in cui la violenza subita era prassi quotidiana e “normale”.
Non solo quella fisica ma quella psicologica, a casa, sul posto di lavoro, nel tessuto sociale.
Nel 1924 la blues woman Gertrude Ma Rainey in “Cell Bound Blues” ribalta la consueta narrazione in cui un uomo uccide la sua donna e sostanzialmente racconta che quando il suo compagno le comunica che l'avrebbe abbandonata e incomincia a picchiarla, lei, stanca dei soprusi, impugna una pistola, gli spara e lo uccide. Conseguenza, estrema e drammatica, ovviamente inaccettabile nelle modalità ma che cento anni fa, cantato da una donna nera, ancora più scandalosa da un punto di vista antropologico.
Più sottile Billie Holiday nel 1935 nel brano “You let me down” in cui in modo algido lamenta la fine di una relazione, imputando al compagno di averla semplicemente delusa, “quanto mi hai delusa”, dopo averle fatto credere di essere “un angelo”, che l'avrebbe sposata e l'avrebbe ricoperta di diamanti e portata in paradiso.
L'attivista politica e studiosa Angela Davis ne ha fatto un'analisi molto approfondita, rilevando come le parole siano in realtà una critica al maschilismo e ai suoi cliché, demistificando il ruolo della donna concepita come “angelo”, da ricoprire di ricchezza e da mettere su un piedistallo, come un oggetto, deprivato di anima e contenuti.
Un'altra grande voce del blues è stata quella di Bessie Smith che nel 1923 liquidava il marito in modo perentorio nel brano “Sam Jones Blues” dichiarando palesemente la propria indipendenza:
"Sono libera e vivo sola ora.
Non ho bisogno dei tuoi vestiti, non ho bisogno del tuo affitto, anche se non sono ricca. Mi sono guadagnata le mie scarpe scintillanti.
Dammi la chiave della mia porta.
Perché quel campanello non dice più Sam Jones, no.
Non stai parlando con la signora Jones.
Stai parlando con la signorina Wilson, ora”.
Già negli anni Trenta le donne avevano problemi a conciliare maternità e lavoro.
Lo rileva Marilyn Major nella canzone “Ballad of a working woman” con parole esplicite, durissime e tristementi attuali:
“I miei figli erano solo bambini, quando il loro papà è andato via. Così ho appeso il mio grembiule e sono andata a lavorare. Mi hanno messo nel turno di notte, a lavorare su una grande macchina.
Sono una madre lavoratrice, che lavora sodo per guadagnare a modo mio. Dormo quasi metà della giornata. Dicono che dovrei essere felice, che la mia paga non è troppo male.
Dimenticano che sono l'unico genitore, che i miei figli abbiano mai avuto.
Con il passare degli anni ho imparato il mio lavoro e anche metà del lavoro maschile.
A loro piaceva farmi usare i loro strumenti, solo per vedere cosa sapevo fare.
Mi avrebbero dato una pacca sulla figa e mi dicevano che ero bella.
Sono andata dal caposquadra e gli ho detto delle mie capacità, se potevo ottenere quel lavoro, mi avrebbe aiutato a pagare i miei conti. Il caposquadra, ha detto, tesoro, non possiamo farlo.
Vedi, quel lavoro è per un lavoratore che ha una famiglia”.
Ma se andiamo ancora più indietro arriviamo addirittura nel 1.880.
Sulle note di una canzone country tradizionale, “Auld lang Syne”, D.Estabrook scrisse “Keep the woman in her sphere”. Anche in questo caso, 150 anni dopo, le parole sono tremendamente attuali:
“Ho un vicino, uno di quelli non molto difficili da trovare, che sa già tutto senza bisogno di un dibattito e senza cambiare mai idea. Gli ho chiesto "E i diritti delle donne?" Ha risposto severamente "La mia mente ha già deciso, mantieni la donna nella sua sfera.
Gli ho chiesto "Non dovrebbe votare la donna?"
Ha risposto con un ghigno: "Ho insegnato a mia moglie a conoscere il suo posto, mantieni la donna nella sua sfera".
Ho incontrato invece un uomo serio e premuroso, alcuni giorni fa, che ha meditato in profondità su tutta la legge umana e la verità onesta da sapere.
Gli ho chiesto "Che ne è della causa della donna?" "I suoi diritti sono gli stessi dei miei, lascia che la donna SCELGA la sua sfera."
Nel 1963 Lesley Gore ottenne un grande successo negli Stati Uniti ancora parecchio bigotti e refrattari a particolari aperture. “You don't owe me” è una canzone dal taglio risolutamente femminista:
“Tu non mi possiedi.
Non sono solo uno dei tuoi tanti giocattoli.
Non dire che non posso andare con altri ragazzi.
E non dirmi cosa fare.
Non dirmi cosa dire.
Non cercare di cambiarmi in alcun modo.
Tu non mi possiedi.
Sono giovane e amo essere giovane.
Sono libera e amo essere libera.
Per vivere la mia vita come voglio.
Per dire e fare quello che mi pare.
Quindi lasciami essere me stessa”.
In Italia la tradizione dei canti in cui i diritti delle donne sono in primo piano, spesso attraverso metafore, altre volte in modo più diretto, è forte e lunga.
“Mamma vi l’haiu persu lu rispettu” è tra i grandi successi di Rosa Balistreri, cantautrice siciliana, ribelle, una vita disastrata e violenta, spesso vittima di soprusi dei compagni, del padre, dei parenti.
E' un canto tradizionale, storia di una ragazza disperata, per avere mancato di rispetto alla madre, avendo fatto salire il suo innamorato dalla finestra di nascosto.
“Ma si sappia che me lo terrò stretto, perché nubile e vecchia non voglio restare. Vorrà dire che faremo la “fujtina” (la fuga d’amore). Poi, se Dio vorrà, ci sposeremo”.
Voglio concedere un breve spazio anche a un uomo.
Il grande poeta e musicista Gil Scott Heron nell'album “I'm new here” del 2010 interpretò il brano del bluesman Robert Johnson “Me and the devil”, in cui il protagonista descrive il demonio che si impossessa di lui quando è ubriaco e che lo porta a picchiare la sua compagna.
Ma Gil sostituì il verso “picchierò la mia donna finché non sarò soddisfatto”, con “vedrò la mia donna...” perché, disse, “sono stato allevato da mia nonna e da mia mamma e ho sempre avuto un profondo rispetto per le mie compagne e per tutte le donne. Anche se metaforica, non avrei mai potuto cantare una cosa così orribile”.
Lasciamo la conclusione a quella che, nella sua semplicità, è la canzone simbolo del rispetto per le donne.
La cantò Aretha Franklin nel 1967, si chiama “Respect”.
Ma nacque due anni prima dalla penna di un altro grande esponente della black music, Otis Redding, che la intendeva come metafora del rispetto nei confronti degli afro americani.
L'interpretazione di Aretha, declinata al femminile, divenne un inno femminista:
“Tutto quello che chiedo è un po' di rispetto quando torni a casa.
Non ho intenzione di farti dei torti mentre sei via.
Non ti sbagli perché non voglio.
Rispetto, scopri cosa significa per me.
Inizia quando torni a casa o potresti entrare e scoprire che me ne sono andata”.
Sarebbero sufficienti queste poche parole per risolvere buona parte del problema. Un concetto molto semplice e non particolarmente difficile da applicare nella quotidianità.
Rispetto.
Reciprocità, unità di intenti, obiettivi comuni, diversi corpi ma la stessa mente.
E molto probabilmente le tristi statistiche con cui abbiamo iniziato sarebbero solo un lontano ricordo di un passato primitivo e dimenticato.
Nessun commento:
Posta un commento