sabato, gennaio 22, 2022
Intervista a Francois Regis Cambuzat
Ho intervistato FRANCOIS REGIS CAMBUZAT poco tempo fa e utilizzato le sue risposte per un articolo su "Libertà".
Qui: https://tonyface.blogspot.com/2022/01/francois-regis-cambuzat.html
Ma reputo le sue risposte davvero interessanti.
Così credo sia utile leggerle nella loro completezza.
Partiamo dalla regina delle banalità: cosa entra nel calderone bollente e venefico del vostro sound? E quali sono le ispirazioni.
Tutte le musiche che non capiamo ci interpellano.
Siamo dei curiosi – e ci piace studiare.
Partiti in bassa eta e con la merda al culo con il rock e derivati punk/soul/funk/xxx, poi l’improvizzazione e l’avant-guardia, dopo abbiamo studiato il jazz come la classica contemporanea poi le musiche orientali & quarti di tono per arrivare anche fino alla techno o a certe musiche spirituale di elevazione.
A casa principalmente classica, Bach e l’impressionismo francese in primis.
Non apparteniamo a nessuna chiesa musicale ma rivendichiamo tutto da Gabriel Fauré a Keiji Haino come da Britney Spears a Sanubar Tursun.
Il Putan Club è stato ideato come una cellula di resistenza, caratterizzata da un modo di agire ispirato ai primi complotti di partigiani europei durante l'ultima guerra mondiale (azioni di forza in luoghi diversi e vari) e di partigiani odierni nel mondo intero.
La resistenza è organizzata con i mezzi più arcaici e immediati del nostro secolo: dal pianoforte alla chitarra, dal respiro al rumore elettrico/elettronico come dal verso scritto alla parola urlata, come dire dalle pitture rupestri al concettualismo più arduo o dal'avant-rock alla musica classica contemporanea alla techno/house più becera, dal bacio in bocca al calcio in culo, etc...
Una delle caratteristiche probabilmente uniche della vostra esperienza è il nomadismo che vi caratterizza. Come fate ad organizzare concerti in luoghi così lontani e non facilmente raggiungibili (vedi tra tutti il Tagikistan)?
Prima di tutto è una scelta di vita, con drastica serietà e organizzazione ferrea, pensata con anni di anticipo.
Non siamo in musica per onanismo o per desiderio di imponenti conti bancari ma per fare effetivamente quello che vogliamo, dove vogliamo, quando vogliamo e con chi vogliamo.
Bisogna essere stupidi a pensare di fare soldi con la musica, ci sono modi più facili e veloci.
Essendo la vita cortissima, volevamo viaggiare tanto, conoscere altre musiche, gente, realtà sociali e paesi.
Velocemente esauriti i sogni adolescenziali facili e spiccioli (Londra, NY, Parigi, Berlino), rimaneva il mondo.
Quanto a lavorare per esempio in Tagikistan -o altrove- da una ventina di anni è molto facile : scrivi « music festival » o « venue » nella barra Google e cominci a contattare.
Però sono cosi 12 ore quotidiane di booking (non contare mai su qualsiasi agenzia: nessuna è in grado di lavorare bene nel mondo intero) per 2 mesi ed infine si puo partire per 10 mesi di lavoro dove hai scelto tu.
Ed infine è ovviamente una questione di budget: fai un bilancio generale con le grosse entrate (stile Sziget, Roskilde o Calgary FF) che aiutano a finanziare situazioni piu povere.
Tengo a precisare che non siamo di famiglie ricche, non viviamo di aiuti o rendite, e che per me il piu grande successo musicale è stato di potere pagare l’affitto e le utenze con il nostro lavoro.
Dischi, festival, stampa o relativo « successo » sono di poca importanza, aiutano quasi solamente una certa promozione e communicazione - ma ovviamente non in modo significativo per Dushanbe o Matam.
E’ una scelta di libertà.
Dieci anni fa, quando abbiamo deciso di non pubblicare piu niente e di non lavorare piu con agenzie ma di fare tutto da soli, fu il periodo in cui abbiamo cominciato a suonare una media di 180 concerti all’anno, dove avevamo scelto di andare, in Cina, Asia Centrale, Africa, Oceania e qualche Europa.
Mi interessa sapere la gestione logistica, la quotidianità di chi un giorno suona in Romania e l'altro in Tunisia o vola in luoghi lontani in Asia. Come ci si organizza (permessi, voli, strumentazione)?
Permessi e visti sono piccole rogne bureaucratiche (un filino piu complicato per gli USA – che communque non ci interessano piu di tanto) per i privilegiati detentori di passaporti occidentali come noi.
Per la strumentazione, la regola n°1 è di viaggiare il piu leggero possibile. Consci che se chiedi un backline, spessissimo ti ritroverai a dovere suonare su dei bidoni.
Dodici anni fa siamo dunque passati al digitale con emulatori di amplificatori (in questi giorni con l’Ampero della HoTone), chitarre piegevoli (costruitte da Mattia Maglio, liutaio salentino) per non pagare piu biglietti aerei per le chitarre.
E un computer, per rimpiazzare i musicisti-turnisti (quelli che non fanno altro che suonare, che non sanno niente di booking e che si lamentano della zuppa troppo calda, del cachet basso, del letto duro e dei chilometri a fare il giorno dopo).
Con calzini e mutande, tutto si tiene in una borsa dimensioni low-cost.
Salvo ovviamente quando andiamo a registrare nel deserto: allora paghiamo per 120 chili di materiale.
Infine, il digitale ci permette per esempio di creare con suoni à la Sunn O))) accanto ad un ‘ûd (forse uno dei strumenti piu deboli del pianeta).
Come reagisce il pubblico alla vostra proposta che facile non é?
E che, suppongo, in certi luoghi sia ancora meno percettibile, rispetto alla cultura locale.
Non credo che siamo alieni, non penso che le nostre proposte siano difficili.
Abbiamo suonato allo Sziget, Womad, la Notte della Taranta o Pohoda come in pizzerie, squats o teatri nazionali, davanti alternativi, borghesi o donne islamicamente vellate.
La nostra pietra di paragone è un piccolo café/bar di pescatori sotto Gabès, Tunisia: se passiamo delle emozioni, allora abbiamo vinto, se no significa che è ancora scadente.
Perche è il duende (vedi Garcia Lorca) che conta, sempre.
Tutto il resto è solo marketing e polverone.
Puoi raccontare qualche episodio particolare accaduto durante i vostri trasferimenti?
Il bacio di Gianna a Konibodom.
Suonare quasi quotidianamente in luoghi spesso piccoli, fuori dai circuiti abituali, rende sia da un punto di vista economico che di diffusione della vostra arte?
Tutto è una questione di organizzazione e lavoro.
Suoniamo su palchi enormi in orari principali come in bettole. Ma è vero che in Italia siamo sopratutto conosciuti nel giro underground – perchè un’altro network non esiste realmente, o quasi, e credo/spero che mai faremo tendenza.
Ultimamente, per anni erano solo grandi festivali internazionali e non avevamo piu il tempo per queste tournée stradaiole e forse difficile.
Ci siamo allora organizzati meglio ed eccoci qui a gelarsi di nuovo le ovaie in Italia o Ungheria d’inverno, sinceramente con enorme piacere.
Ci riteniamo dei privilegiati: sopravivviamo (siamo parchi, ci serve pocho per vivere) con quello che adoriamo fare, concerti di vari progetti (Putan Club, Trans-Aeolian Transmission, Ifriqiyya Electrique, Machine Rouge….), tra rock, teatro, avant, flamenco, cinema, ecc…
Prosegue l'esperienza Ifriqyya Electrique?
Ovviamente.
Ora è diventato un collettivo attorno ai rituali térapeutici del Maghreb (stambeli, diwân, gnawa) con una maggioranza feminile. Il terzo album è in arrivo.
E’ soprattutto l'elemento sociale (aggregativo) che ci interessa in questo studio, il fatto che questa musica sia davvero al servizio della comunità, con una vera funzione sociale. Il lato terapeutico è il suo scopo, ma ciò che ci interpellava erano i "perché" e i "come".
Esattamente come per qualsiasi pogo o rave.
Il "ruolo sociale" della musica.
I musicisti rituali non sono intrattenitori.
Tu hai avuto l'opportunità di vedere una quarantina di anni di musica “alternativa” scorrere tra le tue mani, sulla strada, nei luoghi più disparati.
Cosa ne rimane? Cosa è andato perduto? E' un lampo che si è spento o una fiamma che può continuare ad ardere?
In Italia è sparito quasi totalmente il giro meravigliosamente militante dei centri sociali (il mio preferito era il Santa Chiara di Brindisi).
Qui ormai sembra che la resistenza sia più isolata, dunque piu difficile – ma forse anche più creativa.
Nei paesi del divertentismo è arduo promuovere concerti e cultura.
Detto questo, le eterne lamentelle dell'intera industria musicale come dei vecchi colonelli sono pietose: non c'é è bisogno dell'industria per sognare, sopravvivere o essere felici.
A che punto siete con le vostre varie creazioni?
- Sul versante della Trans-Aeolian Transmission abbiamo passato molto tempo con le Alevi del Kurdistan, nel Dersim dove abbiamo finito un terzo film/ricerca. Poi l’anno scorso siamo stati quasi tutto l’anno in Africa dell’Ovest per completare una follia con il rituale dello n’döep dei lebous senegalesi.
Il film + album è quasi pronto, senza nessuna fretta.
Le prossime destinazioni sono l’isola de La Riunione (per il kabarè) e il Pamir al confine con l'Afghanistan (per il falak). Tutto richiedendo tempo, studio, organizzazione e denaro.
- Stiamo pian-piano ultimando un detonatore-fatwa, avant-metal con orchestra d’archi palestinesi su testi di Jamila XXX (Ho il ciclo - Svilimento e disumanizzazione delle donne nel mondo moderno musulmano).Pura meraviglia, puro sangue.
- La nostra Machine Rouge con l’attore Denis Lavant continua la sua azione clandestina. (https://youtu.be/bZHPxf-WUt4)
- Infine, il Putan Club - il nostro banco di prova per tutto ciò che facciamo - non ha smesso di perlustrare il pianeta.
(https://youtu.be/MuiRtBW5bZ0)
Quali sono i vostri progetti futuri?
Vorremmo fare la rivoluzione.
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