martedì, gennaio 18, 2022

Francois Regis Cambuzat


Riprendo l'articolo pubblicato domenica per "Libertà", dedicato a un personaggio unico, con cui ho scambiato due chiacchiere.

Viene da lontano la storia di Francois Regis Cambuzat.

Una vicenda artistica e umana unica, particolare, originale, mai omologata e allineata, anzi, alla costante ricerca di nuovi sentieri.
Il suo percorso musicale è ricchissimo di gruppi, concerti, dischi, vicende sempre anomale, coraggiose, nella famosa direzione ostinatamente contraria. Non ha mai smesso di sfidare e sfidarsi, eterno nomade e sperimentatore in ogni ambito musicale.

I primi passi sono negli anni Ottanta, con i Kim Squad and the Dinah Shore Headbangers (Francois ha sempre avuto una felice predilezione per i nomi creativi e suggestivi), furente band di garage punk che travolge su disco e concerto.
Sciolta la band prese tutt'altra strada con Il Gran Teatro Amaro e L'Enfance Rouge, progetti definiti avant-rock in cui si mischiano distorsioni e anima da chansonnier.

E con cui incomincia il suo ormai proverbiale nomadismo che lo porta abitualmente in ogni parte del mondo.
Nel senso letterale del termine.
Lo troviamo a suonare nel profondo est europeo o nel più oscuro oriente asiatico, nei paesi baltici o in Cina oppure in ogni luogo in cui è possibile lasciare un segno in Europa.
Ne ho parlato con lui di questa scelta, che caratterizza anche il nuovo progetto Putan Club (che condivide con Gianna Greco):
“Prima di tutto è una scelta di vita, con drastica serietà ed organizzazione ferrea, pensata con anni di anticipo.
Non siamo in musica per onanismo o per desiderio di imponenti conti bancari ma per fare effettivamente quello che vogliamo, dove vogliamo, quando vogliamo e con chi vogliamo. Bisogna essere stupido a pensare di fare soldi con la musica, ci sono modi più facili e veloci.
Nella vita, essendo cortissima, volevamo viaggiare tanto, conoscere altre musiche, gente, realtà sociali e paesi.
Velocemente esauriti i facili sogni adolescenziali (Londra, New York, Parigi, Berlino), rimaneva il mondo.
Quanto a lavorare, per esempio, in Tagikistan da una ventina di anni è molto facile: scrivi «music festival» o «venue» nella barra di Google e cominci a contattare.
Sono così dodici ore quotidiane di booking (non contare mai su qualsiasi agenzia, nessuna è in grado di lavorare bene nel mondo intero) per due mesi e infine si può partire per dieci mesi di lavoro dove hai scelto tu.
E infine è ovviamente una questione di budget: fai un bilancio generale con le grosse entrate (festival famosi e prestigiosi) che aiutano a finanziare situazioni meno redditizie.
Tengo a precisare che non arriviamo da famiglie ricche, non viviamo di aiuti o rendite, e che per me il piu grande successo musicale è stato di potere pagare l’affitto e le utenze con il nostro lavoro. Dischi, festival, stampa o relativo “successo” sono di poca importanza, aiutano quasi solamente una certa promozione e comunicazione - ma ovviamente non in modo significativo per Dushanbe in Tagikistan o Matam in Senegal.
E’ una scelta di libertà. Dieci anni fa, quando abbiamo deciso di non pubblicare più niente e di non lavorare più con agenzie ma di fare tutto da soli, fu il periodo in cui abbiamo incominciato a suonare una media di centottanta concerti all’anno, dove avevamo scelto di andare, in Cina, Asia Centrale, Africa, Oceania e in varie parti d'Europa”.


L'aspetto interessante della sua vicenda è che rende fattibile il famoso anelito del “vivere con la musica”, non necessariamente dovendosi adattare alle situazioni ma, con fatica e abnegazione, dedicandosi esclusivamente alla propria musica e arte, gestendo difficoltà logistiche spesso complesse.
“Permessi e visti sono piccole rogne burocratiche (un filino piu complicato per gli USA, che comunque non ci interessano piu di tanto) per i privilegiati detentori di passaporti occidentali come noi.
Per la strumentazione, la regola numero uno è di viaggiare il piu leggero possibile.
Consci che se chiedi un backline, spessissimo ti ritroverai a dovere suonare su dei bidoni. Dodici anni fa siamo dunque passati al digitale con emulatori di amplificatori, chitarre pieghevoli (costruite da Mattia Maglio, liutaio salentino) per non pagare più maggiorazioni dei biglietti aerei.
E un computer, per rimpiazzare i musicisti-turnisti (quelli che non fanno altro che suonare, che non sanno niente di booking e che si lamentano della zuppa troppo calda, del cachet basso, del letto duro e dei chilometri a fare il giorno dopo).
Con calzini e mutande, tutto si può tenere in una borsa dimensioni low-cost. Salvo ovviamente quando andiamo a registrare nel deserto: allora paghiamo per 120 chili di materiale.
Infine, il digitale ci permette per esempio di creare suoni di tutti i tipi”
.

Suonare in queste situazioni e condizioni non garantisce, come ha già sottolineato Francois, lauti compensi e ville con piscina ma ne è ovviamente consapevole.
“Tutto è una questione di organizzazione e lavoro.
Suoniamo su palchi enormi in orari principali come in bettole. Ma è vero che in Italia siamo sopratutto conosciuti nel giro underground – perchè un altro network non esiste realmente, o quasi, e credo/spero che mai faremo tendenza.
Per anni sono stati solo grandi festival internazionali e non avevamo più il tempo per questi tour stradaiole e forse difficile.
Ci siamo allora organizzati meglio ed eccoci qui a gelarci di nuovo le ovaie in Italia o Ungheria d’inverno, sinceramente con enorme piacere.
Ci riteniamo dei privilegiati: sopravivviamo (siamo parchi, ci serve poco per vivere) con quello che adoriamo fare, concerti di vari progetti (Putan Club, Trans-Aeolian Transmission, Ifriqiyya Electrique, Machine Rouge….), tra rock, teatro, avant, flamenco, cinema, ecc…
”.

Molto interessanti anche le considerazioni sulla loro musica, oggettivamente non di facile ascolto e fruizione.
“Tutte le musiche che non capiamo ci interpellano.
Siamo dei curiosi e ci piace studiare. Partiti in giovane età con il rock e derivati punk/soul/funk/xxx, poi l’improvizzazione e l’avanguardia, dopo abbiamo studiato il jazz come la classica contemporanea e ancora le musiche orientali e quarti di tono per arrivare anche fino alla techno o a certe musiche spirituale di elevazione.
A casa principalmente classica, Bach e l’impressionismo francese in primis.
Non apparteniamo a nessuna chiesa musicale ma rivendichiamo tutto da Gabriel Fauré a Keiji Haino come da Britney Spears a Sanubar Tursun.
Il Putan Club è stato ideato come una cellula di resistenza, caratterizzata da un modo di agire ispirato ai primi complotti di partigiani europei durante l'ultima guerra mondiale (azioni di forza in luoghi diversi e vari) e di partigiani odierni nel mondo intero.
La resistenza è organizzata con i mezzi più arcaici e immediati del nostro secolo: dal pianoforte alla chitarra, dal respiro al rumore elettrico/elettronico come dal verso scritto alla parola urlata, come dire dalle pitture rupestri al concettualismo più arduo, o dal'avant-rock alla musica classica contemporanea alla techno/house più becera, dal bacio in bocca al calcio in culo, etc... Non credo che siamo alieni, non penso che le nostre proposte siano difficili. Abbiamo suonato allo Sziget, Womad, la Notte della Taranta o Pohoda come in pizzerie, squat o teatri nazionali, davanti ad alternativi, borghesi o donne islamicamente velate.
La nostra pietra di paragone è un piccolo café/bar di pescatori sotto Gabès, Tunisia: se passiamo delle emozioni, allora abbiamo vinto, se no significa che è ancora scadente. Perche è il duende (vedi Garcia Lorca) che conta, sempre. Tutto il resto è solo marketing e polverone”.


I progetti non mancano:
“Sul versante della Trans-Aeolian Transmission abbiamo passato molto tempo con le Alevi del Kurdistan, nel Dersim dove abbiamo finito un terzo film/ricerca.
Poi l’anno scorso siamo stati quasi tutto l’anno in Africa dell’Ovest per completare una follia con il rituale dello n’döep dei lebous senegalesi. Il film + album è quasi pronto, senza nessuna fretta.
Le prossime destinazioni sono l’isola de La Riunione (per il kabarè) e il Pamir al confine con l'Afghanistan (per il falak).
Tutto richiedendo tempo, studio, organizzazione e denaro. Stiamo pian-piano ultimando un detonatore-fatwa, avant-metal con orchestra d’archi palestinesi su testi di Jamila XXX. Pura meraviglia, puro sangue.
Infine, il Putan Club - il nostro banco di prova per tutto ciò che facciamo - non ha smesso di perlustrare il pianeta. Ifriqyya Electrique è diventato un collettivo attorno ai rituali térapeutici del Maghreb (stambeli, diwân, gnawa) con una maggioranza femminile. Il terzo album è in arrivo
”.

Una serie di esperienze di assoluta unicità che si esprimono al meglio con il loro progetto finale:
“Vorremmo fare la rivoluzione”.

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