venerdì, gennaio 10, 2020
Francesco Guccini
Riporto, per gentile concessione, l'articolo scritto ieri per LIBERTA', quotidiano di Piacenza, nell'inserto "Portfolio" condotto da Maurizio Pilotti.
Francesco Guccini si è ritirato dalle scene musicali dal lontano 2012, quando all'indomani dell'album “L'ultima Thule”, dichiarò di essere troppo vecchio per andare in tour, stanco di incidere nuova musica e di volersi dedicare alla sua ben avviata carriera letteraria, spiegando senza troppa enfasi la decisione:
“Non mi manca scrivere canzoni, perché scrivo libri, è un altro modo di scrivere, ma è sempre scrittura
Mi manca quella botta d’emozione di salire un palco davanti a migliaia di persone. Ma metteva anche ansia. E ho imparato che si può fare a meno di quasi tutto. Non ho mai avuto nemmeno un cellulare.".
In realtà abbiamo riascoltato la sua voce nello splendido album di Roberto Vecchioni, “L'ignoto”, nel brano “Ti insegnerò a volare” e giusto un mese fa nel tributo a lui dedicato, “Note di viaggio”, in cui vari artisti, da Manuel Agnelli a Carmen Consoli, riprendono alcuni suoi classici.
Su invito del grande musicista e produttore Mauro Pagani (già con PFM e Fabrizio De Andrè) lo sentiamo cantare, quasi sussurrare, con voce flebile, l'inedito “Natale a Pavana” (il luogo in cui vive in relativo isolamento sull'Appennino tosco emiliano).
Il brano è malinconico e struggente, Guccini lo canta nel suo dialetto, con tono nostalgico e commovente.
Una specie di commiato finale: “Ho smesso di cantare e suonare da anni e non ho intenzione di ricominciare, alla soglia degli ottant’anni. Questa è un'operazione gustosa, interessante. Non c’è alcun ritorno. Io mi sento uno scrittore. Quando iniziai a scrivere a vent’anni per la Gazzetta dell’Emilia, questo volevo fare: lo scrittore. Così è anche ora”.
Il brano è la chiusura di una carriera brillante e importante, piena di successi ma anche di polemiche, scontri politici e non, che ha attraversato alcuni degli anni più difficili della storia italiana moderna.
Guccini c'era, in prima linea, a beccare strali e cazzotti (metaforici ma neanche troppo). E ancora oggi quando apre bocca piovono opinioni e si scatenano i pro e i contro.
E d'altronde già lo cantava nel 1976 in una dei brani più caustici nella storia della musica popolare italiana, “L'avvelenata”: “Voi critici, voi personaggi austeri Militanti severi, chiedo scusa a vossìa / Però non ho mai detto che a canzoni Si fan rivoluzioni, si possa far poesia.”
Uno dei brani che lo hanno reso popolare:
“L'avvelenata” neanche la volevo inserire nell'album, furono i miei musicisti a convincermi. Credo che sia diventata famosa solo per via delle parolacce nel testo. Ma in generale tutti mi parlano sempre delle solite tre o quattro, che per me non sono le più belle: “Dio è morto”, “La locomotiva”, “Incontro”.
Di pochi giorni fa la “scandalosa” ammissione: "Comunista? Macché. Ero pure antisovietico”.
Neppure anarchico. "L’anarchia non esiste più. De André è stato anarchico. Forse libertario. Io sono sempre stato un azionista. I miei riferimenti erano Giustizia e libertà, i fratelli Rosselli".
E ovviamente sono partiti i revisionismi, le accuse, i commenti irrisori sul cantautore politico che rinnega il suo passato, dimenticando che queste “rivelazioni” erano già state ripetutamente dichiarate in passato, essendosi sempre palesemente schierato su posizioni di sinistra moderate, rifiggendo ogni estremismo, financo il pure allineato Partito Comunista Italiano.
Ovviamente Guccini ha sempre avuto una posizione ideologica ben definita, come testimoniano i suoi testi e le sue prese di posizioni pubbliche.
Ma è anche un personaggio che ha sempre fuggito l'omologazione, la catalogazione in gabbie preconfezionate.
E ovviamente non ha paura a ribadirlo. E pensare che aveva iniziato agli albori degli anni 60 con le prime formazioni modenesi di rock 'n' roll e beat, con i futuri componenti di Equipe 84 e Nomadi.
Per poi esordire ufficialmente come autore nel 1963 come compositore di “Va canarino va”, 45 giri dell'Equipe 84, inno ufficiale al Modena calcio (i cui colori ufficiali sono appunto giallo canarino) che ai tempi militava in serie A. Non dimenticando che Guccini è da sempre tifoso della Pistoiese.
Nel 1967 approda alla carriera discografica come cantante e autore con “Folk Beat n°1” e, dibattendosi tra mille difficoltà, inizia il suo cammino all'interno della canzone d'autore (firmando, lo stesso anno, la celeberrima e pluricensurata “Dio è morto” per i Nomadi).
“Il mio primo disco non ha venduto nulla o quasi.
Per me era stato poco più che uno sfizio, tanto che pensavo che sarebbe stato il primo e unico.
Invece mi hanno chiamato per farne un altro che a sua volta è andato male, e io ho pensato “la mia carriera finisce qua”. Il terzo, uguale. Solo al quarto, “Radici” (del 1972), ho cominciato a vendere.
Una casa discografica, allora, se credeva in qualcuno non lo buttava via come un fazzoletto sporco in caso il successo non arrivasse subito: c’era un altro modo di pensare al lavoro.
Tanto che io ho cominciato subito con i 33 giri e non i 45, a quei tempi si facevano investimenti veri sugli artisti.”
La consacrazione viene poi nel 1976 con “Via Paolo Fabbri 43”, all'apice del successo dei cantautori impegnati, mentre incidenti ai concerti di vario tipo (palchi incendiati e violente guerriglie a quelli di Lou Reed, Led Zeppelin e Santana) allontanano per cinque anni i gruppi stranieri dal nostro paese. Paradossalmente un isolamento che darà linfa vitale e impulso alla scena nostrana, in un'autarchia forzata e imposta dalle circostanze, che consentirà agli artisti italiani di rimanere al centro dell'attenzione del pubblico, affamato di musica e concerti. Guccini diventerà un nome guida e di riferimento, i suoi album sempre copiosamente venduti, i concerti affollati. Dalla fine degli anni 80 inizia la carriera letteraria, pubblicando diversi libri, coronati sempre da ottimi successi di critica e pubblico.
Ha avuto anche alcuni ruoli (sia come autore di brani per le colonne sonore che di comparsa) in ambito cinematografico mentre non si contano i premi ricevuti all'interno della lunga carriera.
Un successo enorme e una figura diventata iconica nella cultura italiana. Ruolo che autodistrugge in poche parole:
“Io non ho grande autostima. Ho studiato per fare il maestro ma ho insegnato solo tre giorni, una supplenza.
Mi sono messo a suonare e a cantare quasi per caso, a Bologna. Ho fatto cose, certo. Ma non ho mai avuto la pretesa di incidere sulle coscienze”.
Ebbi personalmente l'occasione di avvicinarlo brevemente al Premio Tenco nel 2015 quando la prestigiosa manifestazione gli dedicò l'intera rassegna a cui partecipò, confessandomelo, in una breve conversazione all'uscita dell'hotel in cui entrambi alloggiavamo, con molta riluttanza: “Preferivo restarmene a Pavana in tranquillità a farmi le mie cose, invece di passare tre giorni qui a parlare e incontrare della gente che non so chi sia”.
E con la classica saggezza intrisa di sarcasmo sottolineò la sua visione della vita con una frase che mi è rimasta molto impressa. “Vecchi si ma anziani mai!”.
Ed è sempre con il suo tipico disincanto e con la capacità di cogliere al meglio, in maniera poetica e letteraria (quella che ha sempre contraddistinto buona parte delle sue canzoni) che ha recentemente stigmatizzato l'età (il prossimo anno sono 80) e le conseguenze prossime della stessa:
"Quando si vive in un piccolo paese come Pavana si fanno due cose fondamentali: guardare il meteo, per vedere continuamente che tempo fa, per i funghi o l'orto e l'altra è vedere chi muore, perché ormai siamo rimasti in pochi, sempre meno.
Ma la morte, in teoria, non la temo, in pratica il discorso è che da giovani non ci si pensa, ci si ritiene immortali e arrivati a una certa età ci si accorge con grande tristezza che almeno la metà dei tuoi amici non ci sono più e questo da un lato è drammatico e poi però ti rallegri e ti dici ‘Beh, insomma, io sono ancora qua tutto sommato'".
Un uomo sconcertante per la sua spontaneità e per una sincerità disarmante, che non si nasconde dietro a particolari paraventi, immagini, voglia di apparire per quello che non si é.
E che ha lasciato un'eredità artistica di raro spessore, tra alti e bassi, contraddizioni, diventando uno dei giganti della cultura pop-olare dell'ormai lontano '900, che, sarà nostalgia o mancanza di un giudizio equilibrato, per chi lo ha vissuto in prima persona, si dimostra un secolo culturalmente gigantesco, se paragonato alla povertà e aridità di questi primi vent'anni del nuovo millennio.
Quintessenza Beat
RispondiEliminaC
Quintessentially himself, un grande!
RispondiEliminasempre un grande
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