mercoledì, ottobre 02, 2019
Betty Davis
Riprendo l'articolo che ho pubblicato per "LIBERTA'" la scorsa domenica.
Betty Mabry nasce in North Carolina nel 1945 in un luogo in cui essere neri non era consigliabile.
Basti pensare che nel 1957 la studentessa Doroty Counts fu costretta ad entrare in una scuola, finalmente non riservata ai soli bianchi, scortata da polizia e soldati, tra il dileggio, insulti e astio degli studenti.
I genitori e la nonna le trasmisero la passione e l'amore per il blues.
Negli anni 60 Betty decide di andarsene da un luogo chiuso, ottuso, discriminante e a 17 anni approda nella cosmopolita New York dove si iscrive, senza dover subire alcuna limitazione, alla Fashion Institute of Technology, sfruttando la sua avvenenza per mantenersi, facendo la modella per riviste come “Ebony” e “Glamour” e lavorando per alcuni locali, in particolare il “Cellar” (che sarà anche il titolo del suo primi 45 giri).
Frequenta il Greenwich Village dove sta fiorendo una scena artistica, culturale e musicale multirazziale, libera, stimolante.
Dove circolano Bob Dylan, Andy Warhol e tanti giovani di belle speranze.
In mezzo a questo vortice di stimoli e influenze mette a frutto il suo talento di compositrice, scrivendo per i Chambers Brothers una piccola hit come “Uptown to Harlem”, nel 1967, registrando nel frattempo una serie di sfortunati 45 giri soul che scompaiono ben presto nell'oblìo. Scrive di amore ma in un'accezione libera, dove è la sessualità l'elemento prevalente e non sono concepiti ostacoli o limiti.
In questo senso l'incontro con personaggi come Eric Clapton, Jimi Hendrix e Sly Stone, futuri rivoluzionari della musica, è un ulteriore tassello che si aggiunge alla sua voglia di guardare lontano.
Caparbia, coraggiosa, con un'attitudine sfacciata nei confronti della vita, abbandona anche il lavoro da modella perchè “non serve il cervello per farlo e dura solo fino a quando avrai un bell'aspetto”, rifiuta di incidere un brano che il suo fidanzato Hugh Masekela, trombettista sudafricano di incredibile bravura e talento, solo perchè lo giudica poco convincente.
Nel 1967 incontra Miles Davis, il maestro supremo del jazz.
Si sposano poco dopo (e da questo momento diventerà per sempre la signora Davis) ma sarà un matrimonio violento, estremo e destinato a concludersi solo un anno dopo con le accuse (reiterate poi da Miles nella sua autobiografia) di tradimento della moglie con Jimi Hendrix (sempre sdegnosamente negato da Betty).
“Ogni giorno vissuto con Miles è stato un giorno in cui mi sono guadagnata il cognome Davis”.
Curiosamente Betty e Miles continueranno a vedersi e frequentarsi, allo stesso modo del grande trombettista con Jimi (con il quale era in cantiere un album che non vide mai la luce a causa della prematura morte del più grande chitarrista rock di tutti i tempi, nel 1970).
Il ruolo di Betty nella carriera di Miles Davis è fondamentale.
Innanzitutto lo introduce alle nuove sonorità rock psichedeliche, stilisticamente lontanissime dal rigore del jazz ma soprattutto gli cambia, sostanzialmente l'estetica. Non più abiti gessati, cravatte e camicie stirate ma, spesso disegnati da lei, giubbotti di pelle, foulard, colori, un aspetto più trasandato, di marchio sempre più “afro”, in linea con i tempi. Miles ricambia volendo la sua faccia sulla copertina dell'immortale “Filles of Kilimanjaro” (nel quale c'è un brano esplicitamente dedicatole, “Mademoiselle Mabry”) ma soprattutto spingendola a mettersi in gioco, a cantare, comporre, salire su un palco. La porta in studio facendola accompagnare dal meglio in circolazione, musicisti come Herbie Hancock, Wayne Shorter, John McLaughlin e la sezione ritmica che accompagnava Jimi Hendrix nella sua ultima fase (Billy Cox e Mitch Mitchell).
I risultati, pur molto interessanti, vedranno la luce solo decenni dopo. Nel 1973 finalmente arriva all'omonimo album d'esordio. Aiutata da Miles e da una serie di eccellenze della scena funk (da membri della band di Santana a Greg Errico degli Sly and the Family Stone, alle Pointer Sisters tra gli altri), sforna otto brani autografi di una potenza inaudita.
Componeva tutto, registrava le idee su una cassetta, cantava la linea melodica e poi la consegnava ai suoi musicisti, incitandoli ad essere il più rozzi possibile. E infatti il suono è crudo, duro, la voce urlata, immediatamente riconoscibile, i testi spesso osano oltre il cosiddetto “comune senso del pudore” o si pongono provocatoriamente con un titolo come “Anti Love Song”. I ritmi sono funk ma le chitarre ruggiscono con asperità hard rock, gli arrangiamenti sono essenziali, minimali, ogni nota trasuda sesso, sfida, aggressività. Non sarà ricordato come un capolavoro ma sicuramente come una prova assolutamente unica.
Seguiranno “They say I'm different” e “Nasty gal” ma nessuno degli album avrà particolare successo, Troppo estrema la proposta, tanto quanto la presenza sul palco, altrettanto aggressiva ed eccessivamente sensuale.
La pettinatura afro, bikini striminziti, posizioni che lasciano poco all'immaginazione. Betty è una salutista, rigorosa, lontana da ogni tipo di eccesso e abuso, in tempi in cui le droghe giravano a valanga.
Il suo obiettivo è chiaro e lucido: proporre una musica nuova, oltre gli schemi, accompagnandola da un live act originale e senza filtri.
Troverà opposizioni e boicottaggi, sia da parte delle istituzioni che della comunità nera che non le perdoneranno un approccio così personale e individuale.
“Volevo che la mia musica fosse presa sul serio, non volevo diventare una Yoko Ono o una Linda McCartney”.
Sempre provocatoria ma estremamente lucida nella sua disamina sul ruolo assunto in epoca di rivendicazioni dei diritti per le donne:
“Come potrei essere definita femminista con le canzoni che scrivo?
Non ho mai pensato che ai tempi le donne potessero avere il potere.
L'unico lo avevamo in camera da letto ma non avevamo alcun potere politico”.
Pur nella complessità della rivendicazione dei propri sacrosanti diritti, la comunità nera rimaneva ancorata ad una visione della donna non diversa da quella della società bianca dei tempi. Una donna remissiva, pura, sottomessa, dedita alla casa e alla famiglia. L'esatto contrario dell'immagine della Davis.
“Nasty gal” del 1975 esce per una grande etichetta, la Island, contiene un brano, “You and I”, scritto in coppia con Miles Davis (che vi suona la tromba), arrangiato dal genio Gil Evans in cui constata malinconicamente l'impossibilità di riconciliazione con l'ex marito.
E' il congedo definitivo.
Il disco è ancora una volta troppo estremo per sperare in un posto al sole.
L'etichetta rifiuta di pubblicarne il seguito, che verrà ripescato solo anni dopo nell'album “Is it love or desire?”, confermando l'alta qualità artistica e l'attitudine mai cambiata.
E Betty Davis letteralmente scompare dalla circolazione.
“Quando mi è stato detto che era finita, l'ho accettato. E d'altra parte nessuno è più venuto a bussare alla mia porta”.
Torna a Pittsburgh, distrutta da anni troppo intensi, trascorsi sotto ai riflettori, a fianco di alcuni dei più grandi geni della musica e dell'arte, spesso colpita e ferita da un “fuoco amico” di critiche e ostilità.
Nel 1980 la morte del padre le assesta il colpo definitivo.
“Arrivai ad un altro livello. Ero devastata, avevo definitivamente perso una parte di me stessa, che non aveva a che fare con la musica o altro.” Se ne va per un anno in Giappone, dove suona ancora in qualche club con un gruppo locale ma dove scopre anche la spiritualità e abbandona per sempre ogni idea di tornare alla musica.
“Con l'età il tuo aspetto cambia, preferisco lasciare i miei fan con quello che hanno avuto”.
Recentemente il regista Phil Cox le ha dedicato il documentario “They say I'm different”.
Ci ha messo quattro anni per raggiungere Betty Davis, isolata nella sua volontaria reclusione in una casa a Pittsburgh, restìa qualsiasi contatto con l'esterno.
Dopo molta fatica, catturandone lentamente la fiducia, è riuscito a parlarle, telefonicamente, a carpirne alcune dichiarazioni.
Ne ha ricavato un'oretta di documentario in cui le rare (e confuse) parole di Betty (che non compare mai) si intersecano con (poche) immagini d'epoca, testimonianze dei compagni della band che si ritrovano per un'estemporanea reunion, la chiamano al telefono ma oltre a qualche secondo di cordialità, vengono decisamente respinti.
In mezzo amici/che, conoscenti, ammiratori allungano (talvolta un po' forzatamente) il brodo, senza aggiungere granchè.
Un lavoro comunque suggestivo, interessante, che tributa il giusto omaggio ad un'artista eccezionale.
Con Miles al funerale di Jimi Hendrix
Per me la musica della Davis è un calcio nel culo ancora oggi. Super hard funk sexy e groovy.
RispondiEliminaOT1 : Avete sentito il nuovo singolo degli Who "Ball and Chain" ?
RispondiEliminaPete Townshend pare abbia affermato che l'album in uscita a fine novembre sia il migliore della band dai tempi di Quadrophenia
OT2 : Tony ed Alberto : sull'ultimo settimanale della Gazza c'era un articolo sui legami fra musica e calcio, ma di Rock'n'Goal nessun accenno....'stardi!
Il brano degli Who è ottimo, bello davvero. Non ho visto l'articolo sulla Gazza
RispondiEliminascusa nn mi ero firmato
RispondiEliminaGMV
Il pezzo degli Who l'ho ascoltato una volta sola ma mi pare abbia un bel tiro. Speriamo bene per il disco
Miles Davis di un altro pianeta,parlo di carriera e eclettismo..
RispondiElimina-Brano WHO bello tosto, molto alla Endless Wire però.
Staremo a vedere!
-Niente Rock'n'Goal???? BOICOTTAGGIO ASSOLUTO!!!
C
... WHO cares after all?
RispondiEliminahttps://www.rockol.it/news-707602/who-roger-daltrey-perde-voce-concerto-interrotto
C