mercoledì, maggio 22, 2019
George Marshall - Spirit of 69
Lo skinhead scozzese George Marshall nel 1991 pubblicò il libro "Spirit of ’69: A Skinhead Bible", da sempre considerato un testo basilare e attendibile sulla cultura skinhead.
Grazie alla traduzione di Flavio Frezza e alla stampa di HellNation arriva finalmente la versione in italiano.
Essenziale per capire fino in fondo i particolari talvolta nascosti di una cultura molto spesso valutata solo in base alle consuete superficialità e contraddizioni.
«Esistono tre generi di bugie: le bugie, le dannate bugie e le bugie sugli skinhead» (George Marshall).
Marshall non si tira indietro di fronte alla deriva fascista e affronta tematiche (come ad esempio la violenza spesso presente a concerti e raduni) senza remore e peli sulla lingua.
Si approfondisce a dovere la scena musicale e nonostante alcune imprecisioni (che rendono il racconto ancora più attendibile, essendo frutto della vita reale vissuta da Marshall e non notizie da Wikipedia), "Spirit 69" risulta essere un testo fondamentale per chi vuole conoscere al meglio gli aspetti salienti di una cultura inziata a metà degli anni 60 e tutt'ora viva e vegeta.
Il curatore dell'edizione italiana, Flavio Frezza ci spiega alcuni ulteriori particolari.
L'intervista è INTERESSANTISSIMA
Flavio gestisce il portale: http://blog.crombiemedia.com/ dedicato ai fenomeni (sotto)culturali skin, mod, punk nelle forme meno risapute e più approfondite.
1) Possiamo dunque definirla la Bibbia Skinhead?
Sì, indubbiamente, visto che è così che ha deciso il suo autore: il titolo completo è infatti Spirit of ’69 - A Skinhead Bible!
A parte gli scherzi, molti skinhead, quando fanno riferimento al libro, lo chiamano semplicemente “la Bibbia”, visto che si tratta dell’unica pubblicazione che prende in esame l’intera storia della sottocultura, che è inoltre vista dall’interno, ovvero da un suo appartenente, e non da un osservatore esterno, che potrebbe fraintendere o ignorare certe sfumature.
Comunque sia, la “Bibbia skinhead” – così come la vera Bibbia – va contestualizzata nel periodo in cui fu scritta, sia per quanto riguarda i suoi contenuti, sia per quanto attiene ai suoi limiti.
Tanto per dirne una, il volume contiene alcune sviste, talvolta inevitabili, visto che agli inizi degli anni ’90 la raccolta e la verifica delle notizie era sicuramente più complessa rispetto ad oggi.
Ritengo tuttavia di aver rimediato a certe lacune e imprecisioni tramite l’inserimento di un impianto di note, che confrontano le notizie fornite da Marshall con quelle che sono oggi a nostra disposizione.
Inoltre, nella mia introduzione, vi sono alcuni approfondimenti sul periodo storico in cui fu redatto il libro, che possono aiutare a comprendere perché vengano trattati con particolare enfasi determinati aspetti della sottocultura, come ad esempio le connessioni con la cultura nera.
Devo specificare, a questo punto, che ho lavorato sulla seconda edizione di Spirit of ‘69, quella del ’94, e che la prima edizione è del ’91.
In questo arco di tempo (e oltre!) i termini “skinhead” e “nazi skin” venivano considerati sinonimi un po’ da tutti, a causa dell’ondata di estrema destra che, partendo dalla Germania riunificata, investiva buona parte dell’Europa. I mass media diedero grande risalto alle azioni compiute dai bonehead razzisti, finendo per favorirne la crescita.
Spirit of ’69 non è – come forse sperano alcuni – un libro “antifascista” o “antirazzista”: si tratta piuttosto di un’opera che tenta di ricostruire la storia degli skinhead, e che – pur riconoscendo l’esistenza di skin politicizzati, sia di destra che di sinistra – tenta di mettere le cose al loro posto, evidenziando le radici mod degli skinhead e il legame tra questi ultimi e la musica nera. L’autore, dopo aver parlato delle origini degli skin, prende in esame la loro evoluzione in altri culti (boot boy, suedehead, smoothie, ecc.), e quindi il loro “ritorno” e la loro politicizzazione in epoca punk, per poi passare alla 2 Tone, al real punk e all’Oi!, nonché ai raduni scooter degli anni ‘80, fino ad arrivare all’inizio dei ’90.
2) Molto spazio è dedicato alla questione politica, cercando di circoscrivere il più possibile il problema delle derive verso la destra estrema.
Sì, Marshall parla molto dell’impatto della politica sul mondo skinhead.
Lui si definisce “apolitico”, ma sappiamo che questa definizione può avere molti significati.
Nel suo caso, si tratta di un atteggiamento molto critico verso la politicizzazione degli skin a destra prima, e a sinistra poi.
Tuttavia, a ben vedere, la sua antipatia è rivolta soprattutto alle formazioni di sinistra che fanno riferimento alle classi agiate, nonché ai rivoluzionari alla moda.
Con questo non voglio dire che Marshall è di sinistra senza saperlo, però mi è sembrato interessante il fatto che non prenda posizione contro la sinistra a prescindere, ma la critichi soprattutto nel momento in cui questa si pone al di fuori – o meglio, “al di sopra” – della classe lavoratrice, di cui invece dovrebbe far parte.
In effetti, Marshall esprime una sorta di ammirazione per raggruppamenti come Red Action, Anti-Fascist Action e Cable Street Beat: “Infatti, queste organizzazioni – invece di commettere gli errori di Rock Against Racism, che scherniva la classe operaia bianca, osservandola dal piedistallo delle student unions – non hanno problemi ad andare nelle zone popolari per sostenere la propria causa”.
Si tratta di una critica che dovrebbe tenere a mente buona parte della sinistra odierna.
Tornando alla tua domanda, c’è un intero capitolo dedicato alla politicizzazione, intitolato “Né Washington né Mosca” (vi ricorda qualcosa?), ma il tema ricorre in gran parte del volume, e si parla inoltre delle forme di razzismo presenti anche in epoca original.
L’avversione di molti skin nei confronti degli immigrati – soprattutto di origine pachistana e indiana – viene contestualizzata nel clima di allora, allo scopo di comprenderne le cause, e non certo di sminuire l’esistenza del fenomeno, né tantomeno di giustificarlo.
La politicizzazione vera e propria degli skinhead, così come l’affermazione degli ideali di supremazia bianca, sono in effetti arrivate soltanto nel corso del revival skinhead della seconda metà degli anni ’70, grazie all’ascesa di formazioni di estrema destra come il National Front e il British Movement.
I partiti nazionalisti traghettarono i bonehead white power negli anni ’80, e questi diedero poi vita ai loro raggruppamenti, come Blood & Honour, che fu fondato da alcuni fuoriusciti del National Front, capeggiati da Ian Stuart e dai suoi Skrewdriver.
L’emergere di raggruppamenti politicizzati all’interno di una scena che fino ad allora era rimasta estranea a certe dinamiche, non poteva che far uscire allo scoperto quei suoi appartenenti che avevano idee politiche di segno opposto.
Alcuni di questi, nel tempo, diedero vita alla tendenza redskin. Un altro tipo di reazione fu quello della fanzine Hard As Nails, che cercava di arginare le derive di estrema destra tramite il richiamo alla sottocultura original, e inoltre sosteneva – sia pure in maniera critica – gruppi come i Redskins.
Questo tipo di orientamento fu seguito da molti altri skinhead, tra cui i Glasgow Spy Kids, la crew di Marshall. Pare che il motto “spirit of ‘69” sia stato coniato proprio da un membro degli Spy Kids, ovvero Ewan Kelly.
Negli anni ’90 l’espansione dei bonehead fu contenuta soprattutto grazie ad organizzazioni come la SHARP (“SkinHeads Against Racial Prejudice”), tuttavia – nel periodo in cui scriveva Marshall – quest’ultima era ancora una novità, almeno in Europa, e non era certo facile prevedere quale sarebbe stato il suo impatto, che in effetti possiamo esaminare con un certo distacco soltanto oggi.
3) Come vedi la situazione ai nostri giorni sia a livello politico che nella scena (musica, numero di skin giovani e “vecchi”), Sia in Italia che all'estero
Dell’estero non posso parlare, ma posso parlare dell’Italia, anche se in maniera limitata, visto che pur frequentando ancora la scena la vivo in maniera differente rispetto a quando ero ragazzo.
Per quanto riguarda la politicizzazione, oggi è molto più radicata rispetto agli anni ’80 e ai primissimi ’90, e sotto certi punti di vista questo cambiamento può essere visto con favore, soprattutto tenendo conto dei tempi in cui viviamo.
D’altro canto, esistono dei lati negativi, ad esempio il fatto che alcuni vedono l’appartenenza alla sinistra radicale come una sorta di “requisito minimo” per essere skinhead, il che è chiaramente in contraddizione con la nostra storia, che è molto più complessa.
Inoltre, l’esperienza dovrebbe insegnarci che l’interesse per la politica non può essere imposto a tutti, visto che, quando si agisce in questa maniera, il risultato è quello di allontanare le persone con cui invece bisognerebbe confrontarsi.
Per quanto riguarda la questione anagrafica, mi sembra che l’età media si sia alzata, ma si tratta di un fenomeno che riguarda pure le altre sottoculture.
Vedo comunque che ci sono ancora molti giovani, e inoltre la presenza femminile è molto più alta rispetto al passato.
La musica skinhead è molto variegata, e va dai ritmi soul e giamaicani fino all’Oi!, allo street punk e all’hardcore, passando per il glam e il punk rock degli anni ’70.
Mi pare che in questo momento la maggior parte delle attenzioni vadano a Oi!, street punk e hardcore, ma c’è ancora un certo interesse per il reggae e per lo ska, come dimostra il proliferare di serate dedicate a questi generi.
4) Un aspetto interessante del libro è che dimostra come la cultura skinhead, allo stesso modo di buona parte delle altre non abbia un inizio rigido (si è sempre parlato del 1969) ma sia un'evoluzione lenta e progressiva. Si parla di hard mods già nel 1964, delle immagini del film “Poor cow” di Ken Loach in cui compaiono ragazzi molto vicini allo stile skinhead già nel 1967 (vedi foto e video in fondo all'intervista).
Quella di Poor Cow è una mia piccola scoperta, anche se casuale!
Avevo estrapolato dal film alcuni fotogrammi per diffonderli sui canali social di Crombie Media, ed esaminandoli mi sono accorto di questo gruppetto di comparse con capelli molto corti, giacche cardigan, scarponi e pantaloni portati sopra le caviglie.
Credo anch’io che non vi siano stati passaggi improvvisi da mod a skinhead: penso, piuttosto, che il modernismo si sia evoluto gradualmente fino a diventare altro, adattandosi a un contesto economico e sociale in mutamento.
Spesso si parla di un passaggio da mod ad hard mod, e quindi a skinhead, suedehead e crombie boy, con queste ultime due fasi che rappresentano – almeno esteticamente – un parziale ritorno alle radici mod.
Grossomodo le cose sono andate in questa maniera, tuttavia lo stile suedehead esisteva già prima che gli venisse dato un nome e fosse riconosciuto come un culto a se stante: basta dare uno sguardo a Bronco Bullfrog (1969) di Barney Platts-Mills per rendersene conto, così come al documentario girato dallo stesso regista l’anno precedente, ovvero Everybody’s an Actor, Shakespeare Said.
Recentemente ho letto la testimonianza di un giovanissimo mod (e poi skinhead) di fine anni ’60, dell’area di Manchester, che inizialmente non comprendeva le ragioni degli scontri tra mod e “peanut” (ovvero “skinhead”), visto che ai suoi occhi tutti quei ragazzi appartenevano al culto modernista.
Nella zona in cui viveva, i primi skin indossavano ancora il parka, e sia loro che i mod ascoltavano soprattutto musica soul.
Agli inizi del ’69, prima che il nome “skinhead” s’imponesse, anche in città come Londra c’erano ancora skin che si ritenevano semplicemente mod.
Nel complesso, la situazione era molto fluida e variava in base alla zona presa in esame, per cui certe semplificazioni possono aiutare i neofiti a comprendere come siano andate le cose, ma non andrebbero prese troppo alla lettera.
5) Ci sono altri testi che sarebbe interessante tradurre in italiano?
Spirit of ’69 è senz’altro il libro più importante, ma ce ne sono altri, a partire dal suo seguito meno noto, ovvero Skinhead Nation (1997).
In quel volume, Marshall approfondì alcuni argomenti già trattati nel libro precedente, e ne prese in esame di nuovi, parlando pure delle scene di altri paesi, a partire dagli Stati Uniti.
Skinhead Nation è un lavoro più maturo rispetto a Spirit of ’69, anche perché quest’ultimo fu scritto – va ricordato – quando Marshall aveva solo 25 anni.
6) Quali dischi e quali testi consiglieresti a un neofita che si vuole avvicinare allo stile skin?
È difficile rispondere in poche righe a una domanda del genere!
Ascolto un po’ tutta la musica skinhead, ma i miei generi preferiti sono indubbiamente il reggae e il primo Oi!
Per quanto riguarda l’Oi!, direi di iniziare dalle compilation curate da Garry Bushell, ovvero Oi! The Album (1980), Strength Thru Oi! (1981), Carry On Oi! (1981) e Oi! Oi! That’s Yer Lot! (1982).
A parte gli album classici di Cockney Rejects, The 4-Skins, The Last Resort e via dicendo, consiglio a tutti i giovani di ascoltare False Gestures for a Devious Public dei Blood, che sotto certi aspetti rappresenta ciò che l’Oi! avrebbe potuto essere, se la maggior parte delle band non si fossero ripiegate sulle solite tematiche e non avessero rifiutato le influenze musicali esterne.
Se vogliamo parlare dell’Italia, i miei preferiti restano Nabat e Klasse Kriminale.
La maggior parte delle loro produzioni rappresentano il meglio dell’Oi! italiano.
Entrambe le band hanno tenuto a mente la lezione britannica, ma l’hanno adeguata al contesto in cui viviamo.
Passando al reggae, evito di elencare i grandi classici, e faccio un solo nome, quello di Judge Dread: anche lui ha adattato la sua musica preferita all’ambiente e alla cultura in cui era cresciuto.
Il “giudice” mescolò infatti l’early reggae con la musica tradizionale inglese, e aggiunse al mix una bella dose d’ironia e un forte accento regionale; queste ultime caratteristiche le ritroveremo qualche anno più tardi nell’Oi! Il suo disco migliore è probabilmente Last of the Skinheads (1976): sia l’album che il suo pezzo più noto – “Bring Back the Skins” – furono concepiti ancora prima che il revival skinhead avesse inizio.
Judge Dread era uno di quegli skinhead original che, negli anni ’70, si fecero crescere i capelli, pur mantenendo un forte legame con il culto di origine: “But that won’t change the way I feel, I’m still a skin”.
Dopo 25 secondi appaiono i ragazzi della foto sopra:
https://www.youtube.com/watch?v=zmw8DPW0L4Y
Portiamo anfibi e bretelle perché ci piace portarli
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