Riprendo l'articolo che ho dedicato a MICK TALBOT nell'inserto "Alias" de "Il manifesto" di sabato scorso.
Grazie a Cpt Stax per il prezioso contatto con Mick.
E' immenso il panorama di artisti che hanno calcato le scene e frequentato assiduamente gli studi di registrazione a fianco di grandi star, partecipato a dischi e concerti eccellenti ma restati sempre e comunque rigorosamente dietro le quinte.
Mick Talbot è un nome familiare solo ai cultori di un certo ambito sonoro, coloro che ne ricordano le gesta con Paul Weller negli Style Council, una delle band più significative degli anni Ottanta, perfetta nel creare un nuovo e unico sound che attingeva da soul, pop, jazz, elettronica, hip hop e tanto altro, in cui le tastiere del nostro erano protagoniste o perfetto compendio.
La sua discografia è sterminata e pure lui fatica a ricordare tutte le partecipazioni e collaborazioni.
Non è un funambolo virtuoso ma un musicista con un gusto sopraffino, in grado di intervenire con discrezione e puntualità là dove serve, con il suono adatto alla composizione, senza mai esagerare.
Curiosamente c'è solo un brano inciso esclusivamente a suo nome, lo strumentale That Guy Called Pumpkin in una compilation del 1990, poco dopo la fine degli Style Council.
In una lunga chiacchierata ha chiarito e ricordato alcuni di questi aspetti: “Io mi vedo prevalentemente come un collaboratore e un giocatore all'interno di una squadra ma potrei fare qualcosa a mio nome in futuro.
Al momento ho appena finito di incidere un nuovo album con Chris Bangs (l'inventore del termine “acid jazz” con cui ha già realizzato un ottimo lavoro nel 2022, Back To Business).
E' entrato a far parte degli Stone Foundation, storica band inglese che ha appena pubblicato il pregevole decimo album della carriera a base di un solido soul jazz venato di ritmi disco dance.
“E' il quinto album in cui suono con loro. Sono più coinvolto in questo che negli altri ed è un vero piacere far parte della formazione dal vivo”.
Sarà in concerto con loro il 19 settembre a Milano e il 20 a Bologna.
La sua storia parte da lontano quando da piccolo sua nonna lo intratteneva suonando il piano e incominciò a insegnarglielo. Poi arriva la passione per i Beatles, Who, Kinks e tanto soul della Motwon Records e improvvisamente esplode il punk. “Ho visto i Damned e i Clash agli inizi della loro carriera, così come molti altri. Quel movimento ha davvero iniettato molta energia ed entusiasmo nella scena musicale.”
Forma gli Sneekers, cover band di rhythm and blues, che, quando esplode il cosiddetto Mod Revival, si trasforma in Merton Parkas, uno dei primi riferimenti musicali per i nuovi giovani in parka e scooter.
Incideranno una manciata di singoli e un apprezzabile album, Face In The Crowd, ancora oggi fresco e pulsante.
Un'avventura che però dura poco e ha un modesto successo: “Non credo che i Merton Parkas fossero destinati a durare a lungo, ma mi sono messo in contatto con molte persone che avrebbero avuto un ruolo importante nel mio futuro. "Face In The Crowd" purtroppo non è riuscito a catturare il nostro sound sul palco, che era molto più potente.”
Contemporaneamente viene accolto alla corte dei Jam.
Paul Weller gli telefona (per la prima volta) per suonare il piano in una versione di Heatwave di Martha and the Vandellas nell'album Setting Sons.
Sciolti i Merton Parkas, Mick Talbot approda per poco tempo nella splendida avventura di Kevin Rowland, i Dexy's Midnight Runners.
“La band era già ai ferri corti e stava per sciogliersi e così ci restai per soli quattro mesi ma con Rowland ho lavorato spesso successivamente.”
Dura poco anche l'avventura con i pur ottimi Bureau, a base di un potente soul rock e un album di ottima qualità.
E' allora (fine 1982) che arriva la seconda telefonata di Paul Weller.
Sta sciogliendo i Jam, ha in mente quello che diventeranno di lì a poco gli Style Council e Mick è un perfetto compagno per spostarsi verso soul, jazz e suoni affini.
“La telefonata di Paul fu una vera sorpresa e ha portato a una lunga serie di progetti davvero interessanti. Abbiamo sempre cercato di essere aperti a influenze di ogni tipo che ci potessero influenzare.”
La band diventa un collettivo aperto a collaborazioni e sperimentazioni di ogni tipo. Tra grandi successi e rovinose cadute resta una delle esperienze più influenti degli anni Ottanta.
Basti pensare al sottovalutatissimo Confessions Of a Pop Group, del 1988, intriso di jazz, musica da camera, fusion, funk, dance, elettronica.
“Penso che l'album precedente, “Cost of loving” ci abbia fatto perdere molto supporto e di conseguenza questo nuovo episodio credo sia stato trascurato da alcuni dei nostri fan originali”.
Sicuramente fu stroncato e sbeffeggiato dalla critica.
Addirittura il previsto ultimo album “Modernism: A New Decade”, che utilizzava i nuovi suoni della house music di Detroit (che Weller considerava, non a torto, la nuova espressione della soul music) venne rifiutato dalla casa discografica e sancì la fine del gruppo.
“Forse siamo stati sottovalutati ai tempi ma ultimamente rivalutati, grazie anche a molte raccolte, ristampe e al documentario sulla band. La fine è arrivata al momento giusto perché credo che avessimo già raggiunto l'apice creativo e perso il nostro pubblico.”
Inizia dagli anni Novanta in poi una rutilante carriera in decine (forse centinaia) di album, singoli, in tour con una lunga serie di gruppi, sempre caratterizzati da uno stretto legame con il suo background culturale e artistico, basti pensare al lavoro con alcuni dei migliori esponenti della scena Acid Jazz, come Galliano o Young Disciples, con la cantante soul Candi Staton o la Britpop band dei Gene.
“Qualche volta riascolto qualcosa del mio passato discografico ma alla fine sono sempre impegnato a pensare prevalentemente al progetto successivo.”
Torna spesso in studio a collaborare nella sempre più travolgente carriera solista dell'ex sodale Paul Weller.
Sempre con estrema discrezione e in punta di piedi.
Mantiene uno stretto legame con Steve White, ex batterista degli Style Council, con cui incide un paio di ottimi album e condivide l'esperienza con i Players (in cui militavano anche Steve Cradock e Damon Minchella, degli Ocean Colour Scene, poi entrati nella band di Weller, che non disdegna occasionali collaborazioni a questi progetti).
Nel 2014 tocca il cielo con un dito quando Roger Daltrey degli Who lo vuole al piano per il mitico album condiviso con Wilko Johnson dei Dr.Feelgood, Going Back Home, a base di ruvido e basico rhythm and blues.
“Ovviamente suonare con uno degli Who è stato incredibile ma ancora di più è stato davvero emozionante lavorare con Wilko Johnson, poiché avevo seguito la sua band originale Dr Feelgood dal 1975.”
Qualche mese dopo entra in studio proprio con gli Who per il singolo Be Lucky.
Niente di memorabile ma una medaglia di questo tipo, da appuntare al petto per uno nato nel giro mod, è qualcosa di particolarmente prezioso.
Il suo approccio alla musica si riassume in poche sue stesse parole: “Non so se sono un tipo ambizioso. Dipende da quello che mi viene in mente. Mi piace suonare, e a volte può essere con due amici in una stanza sopra un pub con una tastiera presa in prestito. Una settimana, vent'anni fa, ho suonato tre brani in un pub con miei amici, uno all'ukulele, uno alla chitarra acustica e io al piano elettrico. Quella stessa settimana, ero sul palco della Royal Albert Hall a un gala di beneficenza di Hal David e Burt Bacharach con Dionne Warwick, Petula Clark, Sacha Distel e un sacco di altri nomi. Poi, circa cinque giorni dopo al Glastonbury Festival con gli Ocean Colour Scene. Non è proprio una settimana tipica ma potrebbe esserlo.”
Un grandissimo e allo stesso tempo totalmente scevro da qualunque tipo di arroganza, infatti ha sempre sminuito il suo fondamentale ruolo nel riportare in auge l'organo Hammond. Nonostante lui lo abbia sempre negato l'acid jazz stesso gli deve moltissimo. Un tastierista minimale e raffinatissimo il cui contributo in qualunque progetto abbia partecipato è stato fondamentale e determinante.
RispondiEliminaConcordo, un grandissimo!
RispondiElimina